Protagonisti della rivoluzione francese
Lotta politica dopo l’esecuzione di Luigi XVI
di François Furet e Denis Rochet
Speciale Marat
Introduzione. Marat, l’Amico del Popolo
1. Protagonisti della rivoluzione francese di François Furet e Denis Rochet
2. La morte di Marat e Carlotta Corday di Jules Michelet
3. La bella e lo squallido di Thomas Carlyle
4. L’influenza di Marat di Louis R. Gottschalk
5. Marat socialista? di Jean Jaurès
6. Marat dietro le quinte di Victor Hugo
7. Testi di Marat: Dispotismo e libertà | I diritti civili✎ “Think | Tank”. Il saggio del mese [settembre 2022]
I Sanculotti
Ritratto del sanculotto
Che cos’è un sanculotto? Un’apologia dell’estate del 1793 ne fa questo ritratto:
«È un essere che va sempre a piedi, che non ha i milioni che tutti vorreste avere, né castelli, né lacchè per servirlo, e che abita semplicemente con moglie e figli, se ne ha, al quarto o al quinto piano. È utile perché sa arare un campo, sa forgiare, segare, limare, sa coprire un tetto e fare un paio di scarpe, e sa versare fino all’ultima goccia del proprio sangue per la salvezza della Repubblica».
Il sanculotto si riconosce a prima vista per l’abito che veste e per i modi che ostenta. Non porta calzoni dorati né calze di seta, ma un paio di lunghe brache e, sopra la cintola, una giacca corta, la celebre carmagnola. Il berretto rosso, certamente lanciato negli ambienti popolari dai borghesi colti, ha un successo immenso; nonostante l’ostilità di Robespierre e l’ironia dei borghesi, diventerà il simbolo del militantismo rivoluzionario e durante l’estate del ’93 tutti lo porteranno. La picca rappresenta la potenza del popolo in armi e ricorda le grandi giornate vittoriose.
Il sanculotto non dice «signore», ma «cittadino», e vorrebbe rendere obbligatorio il «tu»: il «voi» non è forse «un avanzo di feudalità»? Quando indirizza una petizione a un deputato, firma «il tuo eguale nei diritti»; e non gli garbano le spalline degli ufficiali, ch’egli vorrebbe costringere a mangiare dalla gavetta come i semplici soldati. Oltre che egualitario, il sanculotto è anche virtuoso; una petizione: chiede «che le donne pubbliche vengano chiuse in case nazionali, in ambiente salubre e occupate a lavori adatti al loro sesso», un’altra reclama una legge che abolisca bische e bordelli. È chiaro, da questi segni, in che cosa consista essenzialmente la mentalità rivoluzionaria: nella passione dell’egualitarismo e dell’azione repressiva.
Tutto ciò che offende questa passione è segno di «aristocraticità», ossia di controrivoluzione. Un atteggiamento altero o ironico? Aristocraticità! Il possesso di una certa ricchezza? «Aristocratici sono tutti i ricchi, tutti i grossi commercianti, tutti gli accaparratori, i fattorini, i banchieri, i galoppini di bottega, gli avvocatucoli e chiunque possegga qualcosa».
Essere colto e «illuminato»! significa essere sospetto di mancanza di civismo e minacciato d’arresto. Alla volontà di livellamento si aggiunga la xenofobia: chi sposa una straniera «è un nemico dei francesi, un emigrato nell’animo»; chi veste un abito fatto di stoffa straniera «si fregia della livrea del nemico per lasciare nell’indigenza i nostri amati artigiani».
La delazione, che sotto l’Ancien Régime era giudicata infamante, sotto la Repubblica diventa una virtù e un dovere. Ciò che più esalta l’immaginazione è la ghigliottina: molti piccoli borghesi, che nella vita privata sono di temperamento mite e tranquillo, si eccitano profondamente davanti al patibolo.
Il Terrore gli appare infatti un legittimo e necessario strumento di difesa rivoluzionaria. Sarà forse doveroso guardare più in là delle motivazioni coscienti: «Mannaia nazionale», «scure popolare», «falce dell’eguaglianza», la ghigliottina è il magico rimedio di un popolo che soffre la fame da secoli. «La ghigliottina ha fame, da troppo tempo digiuna», esclama un militante; in un altro quartiere, una donna dichiara che «a quelli che si oppongono ai sanculotti, vorrebbe mangiargli il cuoia».
E, all’epoca della carestia di ventoso, un calzolaio consiglia di recarsi nelle prigioni e sgozzare i detenuti, arrostirli e mangiarli, e «che se ai patrioti preferivano far mangiare i gatti, sarebbero stati mangiati come cani». In queste immagini spontanee non si cela forse un complesso di umiliazioni e di ossessioni di cui ci sfugge l’origine?
I metodi d’azione
I metodi dell’azione sanculotta ricordano, sotto forme nuove, molte pratiche tipiche dei movimenti rivoluzionari urbani del XVI e XVII secolo.
L’autentica novità è costituita dal vocabolario, che porta il segno del tempo e dei suoi intellettuali. Ma i sogni degli umili, compressi dalla formidabile armatura del progresso, si sono sempre cristallizzati intorno agli stessi temi: a ciascuno, non le medesime possibilità ma gli stessi risultati, a tutti, non i medesimi diritti sebbene gli stessi poteri. La violenza è solo una logica conseguenza dell’inadeguatezza dell’utopia alla realtà.
Approfittando del quadro offerto dalle quarantotto sezioni della capitale, i militanti, che furono sempre un’infima minoranza, s’impongono attraverso l’intimidazione.
Durante l’estate del 1793, per costringerle a cedere, i sezionali dei quartieri «avanzati» irrompono nelle sezioni moderate avversarie, ne destituiscono le autorità e vi fanno eleggere i propri simpatizzanti: tutto questo si chiama «rigenerare una sezione».
Dapprima impongono il voto ad alta voce, poi per acclamazione; ben presto, in autunno, l’assenza dalle assemblee o il rifiuto di esercitare una funzione pubblica, ossia l’«indifferenza» o la «tiepidezza», saranno considerati validi motivi d’arresto. L’adesione individuale a una petizione è giudicata immorale: solo le petizioni collettive esprimono la sovranità popolare.
Il programma sanculotto
Il programma dei sanculotti presenta una strana mescolanza di «rousseauismo» — in cui si sente l’influenza dei quadri intellettuali del movimento — e di rivendicazioni spontanee che danno vita all’egualitarismo.
Ai loro occhi la sovranità popolare consiste nel diritto delle assemblee primarie di ratificare le leggi, di controllare e, ove occorra, di revocare gli eletti, di sorvegliare i funzionari e, in caso di necessità, di scatenare l’insurrezione. Al principio della proprietà assoluta e illimitata essi contrappongono il principio dell’«eguaglianza dei godimenti»; non pretendono di abolire la proprietà, ma vorrebbero limitarla «all’ampiezza dei bisogni}, fisici».
Che cosa vuole la sezione dei sanculotti (Jardin des Plantes)? «Che sia fissato il maximum dei beni di fortuna, che il medesimo individuo non possa possedere che un solo maximum, che nessuno possa avere in affitto più terra di! quanta ne occorra per un numero determinato di aratri, che il medesimo cittadino non possa avere che una sola officina, una sola bottega».
L’unico elemento concreto di questo programma utopico è l’esigenza del calmiere: il pane a buon mercato e la lotta contro gli accaparratori mobilitano il popolo parigino in permanenza.
Tanto meglio lo si comprende in quanto questo popolo, non ha altro in comune che i suoi problemi di consumatore; giacché nell’organizzazione della produzione troviamo le situazioni più varie.
Su un totale che supera i 600.000 abitanti, i salariati attivi sono circa 130.000, ossia, considerate le persone a carico, 3/400.000 anime. Questi salariati, perù, sono raggruppati in vere e proprie imprese solo in rarissimi! casi: ciò che predomina è l’artigianato e soprattutto il lavorò! a domicilio per conto dei commercianti. Quanto ai 40.00'” patroni, non lasciamoci ingannare da questa parola: un decimo* di essi al massimo è a capo di una media o grande industria; mentre la massa è costituita da mastri artigiani. Fra maitre e compagnoni, bottegai e artigiani, indigenti e salariati s| crea una certa omogeneità solo di fronte al problema de| pane.
La mentalità sanculotta
Per chiarire le origini della mentalità sanculotta, bisognerebbe del resto tener conto dei numerosi immigrati venuti dalle campagne ad ammucchiarsi nelle camere ammobiliai della capitale. Louis Chevalier non ha forse evidenziato l’importante aspetto della rivoluzione parigina presentandola come «un regolamento di conti fra due categorie di popolazione: la vecchia borghesia parigina e le altre (…) selvagge, barbare, nomadi»?
Ma se l’anno II Ha un posto a parte nella lunga storia delle classi inferiori, non lo deve tanto alle masse sanculotte quanto al loro inquadramento.
Si tratti di comitati civici o di comitati rivoluzionari, questi quadri costituiscono una specie di sotto-intellighenzia emanata dalle infime classi mercantili: autentica microélite a livello di quartiere, la piccola borghesia delle botteghe e delle bancarelle vede nel parossismo della crisi un’occasione per farsi avanti.
L’antiparlamentarismo è, in certo qual modo, una manifestazione della sua gelosia nei confronti delle «capacità» che in quattro anni di rivoluzione hanno conquistato le assemblee e la gestione dello Stato.
Più che di una lotta di classi, si tratta di una rivalità fra èquipes. C’è un nuovo strato sociale che aspira alla dirigenza, ma che prima di arrivarci dovrà aspettare un secolo.
Danton
Chi è Danton?
Di fronte alle esigenze dei sanculotti, i Montagnardi costituiscono un blocco tutt’altro che omogeneo. Dopo il 2 giugno, il centro direttivo del paese è il Comitato di Salute pubblica creato dalla Convenzione del 7 aprile e completato alla fine di maggio. Ma dei nove membri anziani del Comitato, sette rappresentano la Pianura e due, Danton e Delacroix, la Montagna. In realtà, colui che domina il Comitato è Danton.
Chi è Danton? Il più realista degli uomini politici della Convenzione, o il più venale degli avventurieri? Il «problema Danton» è stato mal posto proprio perché è stato troppo a lungo limitato a questo dilemma.
Oggi, grazie ai documenti d’archivio, la sua venalità è stata dimostrata, ma che cosa prova? Non si vede quali servizi Danton abbia potuto rendere alla controrivoluzione, mentre quelli da lui resi alla causa rivoluzionaria sono lampanti. La storia, dopo tutto, non è una scuola di moralità.
Per molti aspetti egli ricorda Mirabeau, di cui aveva lo stesso forte temperamento — che gli faceva dire, non senza compiacimento: «Ho avuto in sorte dalla natura le forme di un atleta e l’aspra fisionomia della Libertà» — , la stessa gioia di vivere e di godere, lo stesso estro nell’improvvisare le formule, lo stesso dono innato di sedurre le folle.
Sono le crisi gravi che rivelano il Danton della storia. La sua voce possente orienta la corrente rivoluzionaria non verso le lotte intestine e le scissioni ritenute salutari da Robespierre, bensì verso l’unione contro il nemico. Qui sta la sua strategia e la chiave delle sue apparenti contraddizioni: opporre al nemico il più ampio fronte possibile, evitare il frazionamento del corpo rivoluzionario. Quando però non può opporsi alla corrente, la segue.
Il politico del negoziato
Araldo della difesa rivoluzionaria, cerca tuttavia il negoziato, offrendo ove occorra la libertà della regina. Lo si è molto elogiato e molto criticato; ma, dopo tutto, come Robespierre dopo di lui, egli è vittima di un ingranaggio che sfugge al suo controllo: cercare la pace significa essere lucido, parlarne vuol dire alienarsi l’opinione pubblica rivoluzionaria.
All’inizio dell’estate del 1793, allorché gli insuccessi militari si susseguono, Danton si sente ormai logoro.
Il 4 luglio, Marat parte all’attacco del «Comitato di perdita pubblica». La scoperta di uno pseudo-complotto in cui sarebbe coinvolto Dillon, amico di Desmoulins, lo travolge per interposta persona.
Il ritiro dalla lotta politica
Personalmente è stanco, desideroso soltanto di dedicare le sue forze e il suo tempo alla giovane donna che ha appena sposato. E soprattutto, forse, egli fa un calcolo politico che si rivelerà pericolosissimo: poiché il potere lo ha compromesso, si compromettano anche gli altri e gli consentano di rifarsi una verginità!
Il 10 luglio, dietro sua domanda, la Convenzione lo estromette dal nuovo Comitato. Eletto suo malgrado il 5 settembre, torna a rifiutare la sua partecipazione al potere.
Jaurès ha visto molto chiaramente quale pericolo quest’atteggiamento rappresentasse per la maggioranza e per lo stesso Danton: un «ministeriabile» potente che rifiuta il potere può diventare domani il polo intorno al quale si cristallizzerà l’opposizione.
Marat
Le origini di Marat
Tre giorni dopo le dimissioni di Danton, Marat viene pugnalato da Charlotte Corday. Questa ragazza venticinquenne di Caen che ha troppo letto Plutarco crede di colpire un tiranno, e crea invece un mito.
Nel 1789 Jean-Paul Marat può sembrare un uomo finito: ha quarantacinque anni, e dalle sue passate esperienze non ha tratto che delusioni.
Nato nel principato di Neuchàtel da un prete spretato italiano convertitosi al calvinismo, ha peregrinato da Bordeaux a Parigi e da Parigi a Londra, dove si ferma dieci anni, raggiungendo come medico e come scrittore un certo livello sociale. Ma al suo ritorno a Parigi, nel 1776, ottiene soltanto un successo effimero.
Destituito nel 1784 dal suo posto di medico delle guardie del corpo del conte d’Artois, è inoltre in discordia col mondo degli scienziati per le sue opinioni — estremamente retrograde — in materia di calore e di elettricità.
Malato e pieno di debiti, non è riuscito a trar partito dai suoi viaggi, né dalle sue letture o dai suoi scritti per costruirsi una carriera. Ma il capitale intellettuale accumulato trova nella Rivoluzione un campo d’investimento illimitato.
L’amico del popolo
Nel giro di quattro anni diventa «l’Amico del Popolo». Come stupirsene? Ha previsto con grande anticipo la fuga del re e il tradimento di La- Fayette; la sua vigilanza e il suo destino di eterno perseguitato gli hanno valso una reputazione di censore forse eccessivo ma indispensabile.
Al club dei Cordiglieri e nelle sezioni, le sue parole e la sua penna arroventano le passioni popolari. Nonostante le esitazioni di Robespierre, la sua popolarità lo fa eleggere alla Convenzione. Levasseur, nelle sue Memorie, indica esattamente quale ruolo gli assegni la Montagna:
«Marat non esercitò mai sulla Convenzione una qualsiasi influenza (…) Le sue follie erano innocue, ma costituivano nel contempo una specie di maximum democratico che era impossibile superare (…) Marat era una sorta di baluardo contro la popolarità interessata dei demagoghi al soldo dello straniero.»
Quanto dire che è molto meno pericoloso nell’Assemblea che fuori di essa. Garanzia di purezza rivoluzionaria, egli difende il partito Montagnardo a sinistra.
La nascita del mito
Tuttavia, quando la morte lo ghermisce, è anche lui un uomo ormai logorato. È un democratico che disprezza il lato economico delle cose; nel grande slancio che nel febbraio del ’93 spinge le folle al saccheggio dei negozi e a reclamare il calmiere, egli non sa vedere altro che una manovra , controrivoluzionaria.
Il 4 luglio denuncia violentemente Roux, Ledere e gli Arrabbiati. Desiderio di lottare contro un’équipe rivale? Più profondamente, incapacità di capire le motivazioni popolari.
Grazie a Charlotte Corday, Marat ritrova nella morte una purezza mitologica. Intorno al cuore dell’Amico del Popolo, conservato al club dei Cordiglieri, nasce un culto spontaneo; alla fine di luglio ha luogo una festa civica per «innalzare un altare al cuore dell’incorruttibile Marat».
Ma, per la Convenzione, la morte di Marat è una porta aperta a tutte le demagogie e a tutti gli estremismi.
Il gruppo cordigliero
Gli arrabbiati
Nella primavera del ’93 abbiamo già visto all’opera quei sinceri e disinteressati eredi di una lunga tradizione protestataria che sono gli Arrabbiati; e, da giugno a settembre, li vedremo ancora guidare e sostenere le rivendicazioni popolari. In se stessi tuttavia non costituiscono un vero pericolo: se hanno l’appoggio del popolo, non beneficiano però di alcun sostegno parlamentare, né di forze armate, né di una base che gli serva di trampolino per accedere al livello in cui ci si contende il potere.
Arrestato il 5 settembre, Jacques Roux si suiciderà davanti al Tribunale rivoluzionario. Il 16 verrà attaccata la Società delle Donne rivoluzionarie di Claire Lacombe, che verrà poi sciolta in novembre. Il 18 Varlet è in prigione, Ledere si dà alla latitanza: per gli Arrabbiati è finita.
I cordiglieri
Ben altrimenti pericoloso appare il gruppo cordigliero, che, mentre da un lato fa leva sullo scontento popolare, dall’altro tenta le vie del potere. In questo gruppo, l’estremismo è soprattutto una tattica, ed è la morte di Marat che li spinge a mettersi in gara.
Ascoltiamo Hébert:
«Se occorre un successore a Marat, se occorre una seconda vittima per l’aristocrazia, eccola pronta, sono io».
Il consolidamento del governo rivoluzionario li obbliga a inasprire la propria azione, poiché ormai sono candidati alla successione al potere.
Donde traggono la loro forza? In primo luogo dagli uffici del ministero della Guerra, il cui segretario generale, Vincent, è un leader cordigliero. Figlio del guardiano di un carcere, Vincent è molto vicino agli ambienti popolari; per lui la rivoluzione è soprattutto la rivoluzione degli impieghi, e in novembre una vasta epurazione gli consentirà di riempire di sanculotti gli uffici del suo ministero.
Accanto a Vincent, troviamo Ronsin, debitore della propria popolarità a una rapida e straordinaria carriera. Arruolatosi nell’esercito all’età di diciassette anni — nel 1768 — , uscitone quattro anni dopo per darsi al teatro, Ronsin compare nella rivoluzione solo dopo il 10 agosto. Commissario del Consiglio esecutivo, organizzatore dell’armata del Belgio, poi direttore di un ufficio del ministero della Guerra, nel maggio del ’93 si arruola nell’armata della Vandea.
Autonominatosi generale e richiamato a Parigi, in settembre viene messo alla testa dell’armata rivoluzionaria diretta alla riconquista di Lione. È un uomo con una vera e propria clientela, e un altro suo appoggio — che però si rivelerà fragilissimo — è la Comune di Parigi, il cui sindaco Pache passa per un protettore del gruppo cordigliero.
Procuratore generale è Chaumette, anch’egli rivelatosi il 10 agosto, amato dal popolo per il suo linguaggio umanitario e la semplicità del suo vestire, e che in settembre appoggerà la manovra del gruppo. Perfino Hanriot, questo ex
impiegato del dazio al quale i sanculotti hanno ottenuto — non senza difficoltà — l’elezione a comandante in capo della guardia nazionale, sembra ben disposto.
Hébert
Infine c’è la stampa. Dopo la scomparsa di Marat, quale giornalista può rivaleggiare con l’autore del «Pére Du- chesne»? Strano destino, quello del Pére Duchesne. Nel teatro popolare della fine del XVIII secolo, era come il Guignol dei nostri figli, un personaggio ben noto e amato; nulla di straordinario quindi che la Rivoluzione cerchi di annetterselo.
Ma fra tanti giornali che si intitolano al suo nome, solo quello di Hébert riesce a imporsi, acquistando un’influenza tanto più notevole in quanto, grazie a Vincent, viene distribuito all’esercito. Senza arrivare a dire, con Jaurès, che l’hebertismo «è un millantatore dal baffo provocatorio» e che, «sotto forma demagogica», costituisce «la prima comparsa del militarismo nella Rivoluzione francese», vi si scopre facilmente una delle correnti che più tardi confluiranno nello sciovinismo piazzaiolo e militarista dei fedeli veterani dell’Impero.
Hébert è molto diverso dal Pére Duchesne: è un declassato. Nato da una buona famiglia della borghesia di Alençon lontanamente imparentata con la nobiltà, nel 1780, a causa : di un malaugurato incidente, è costretto a rifugiarsi a Parigi, dove lo aspettano undici anni di tribolazioni, di miseria e di umiliazioni. Non partecipa allo slancio dell’89, ma il 10 agosto farà di lui uno dei membri del Consiglio generale della Comune e successivamente il sostituto-procuratore di Chaumette.
Respinto come candidato alla deputazione, il 20 agosto del ’93 la Convenzione gli rifiuta il ministero degli Interni.
Così si spiega la natura e l’unità del gruppo cordigliero, che tende a far leva sul malcontento popolare per scalzare l’équipe dirigente che domina l’Assemblea e i comitati.
Si tratta quasi di un conflitto fra generazioni: questi uomini incarnano la generazione del 10 agosto, sono gli ultimi arrivati del movimento rivoluzionario, che mal sopportano la leadership della generazione dell’89. Per i Montagnardi lungimiranti, il loro atteggiamento è un segnale d’allarme.
Il grande Comitato
La riconfigurazione del Comitato di Salute pubblica
Allorché Danton si dimette, le redini del potere vengono impugnate da mani sicure. Dei quattordici membri del Comitato di Salute pubblica esistente prima del 10 luglio, la Convenzione ne rielegge sette: tre di tendenza centrista (Barère. Lindet e Gasparin) e quattro Montagnardi estremisti che già ne facevano parte alla fine di maggio (Saint-Just, Couthon, Bon Saint-André ed Hérault de Séchelles), cui affianca altri due deputati della Montagna, Thuriot, amico di Danton, e Prieur de la Marne.
Già il 24 luglio Gasparin si dimette, sostituito tre giorni dopo da Robespierre. Il 14 agosto entrano Carnot e Prieur della Cóte-d’Or; il 6 settembre i sanculotti impongono Collot d’Herbois e Billaud-Varenne; il 20 Thuriot si dimette. Ad eccezione di Hérault de Séchelles,, arrestato in marzo e giustiziato nell’aprile del 1794, questa équipe dirigerà la Francia per un anno.
Ciò che la contraddistingue è la gioventù e l’esperienza. Il suo componente più anziano ha quarantasette anni, il più giovane ventisei, l’età media del gruppo si aggira appena al di sopra della trentina.
Tutti si sono formati nelle precedenti assemblee o nei grandi servizi di Stato, tutti svolgeranno un lavoro immane, chini sui loro dossier da sedici a diciotto ore al giorno. Installati nel Pavillon de Flore, devono rispondere alle petizioni e ai rapporti, firmare i decreti, controllare i ministri, dirigere le armate e sostenere la propria politica davanti alla Convenzione, che può licenziarli in qualsiasi momento.
Hanno funzioni direttive collegiali, il che non esclude il lavoro specializzato, suddiviso in sette sezioni. Billaud e Collot curano la corrispondenza con i rappresentanti in missione, Lindet gli approvvigionamenti e i trasporti, Prieur della Còte-d’Or l’armamento, Saint-Just e Carnot dirigono la commissione preposta alla Guerra, Jean Bon Saint-André e Prieur de la Marne la Marina. Barère è onnipresente, e Robespierre si occupa soprattutto dell’aspetto politico dei diversi
Le divergenze nel comitato
Molto si è scritto sulle loro divergenze e sulla parte di responsabilità da attribuire a ciascuno di essi. Dopo la loro morte, ai vinti di termidoro furono naturalmente imputati tutti i cadaveri del Terrore, mentre Carnot e gli altri superstiti reclamavano per sé il premio delle vittorie.
Ma le firme apposte alle minute del Comitato — o quanto meno la prima firma — contraddicono questa troppo semplice giustificazione. Molto si è speculato inoltre sulla corrispondenza degli agenti di una rete di spionaggio organizzata dal conte d’Antraigues per conto dell’Inghilterra e della Spagna; questi comunicati contengono alcune sorprendenti rivelazioni che hanno indotto certi storici a vedere in Sieyès il segreto ispiratore della politica di Robespierre, in Hébert un agente realista e in Saint-Just un avversario di Robespierre.
Rasentando l’assurdo, recentemente si è addirittura affermato che Carnot fosse un informatore del nemico. Che esistessero degli orientamenti profondamente diversi, è ovvio: spinti dal gruppo cordigliero, Collot d’Herbois e Billaud-Varenne mantennero i collegamenti con l’ambiente dei sanculotti e col personale compromesso nella repressione terroristica; la ragion di Stato, al contrario, indusse Carnot, Lindet e Prieur della Cóte-d’Or a fare al popolo certe concessioni, intese peraltro come temporanee.
Barère rimase fedele al ruolo d’arbitro da lui prediletto e che meglio conveniva alla sua grande intelligenza! politica.
Collocare Robespierre, Saint-Just e Couthon al centro,! a destra o a sinistra è impossibile: le loro idee, condizionati dal corso stesso degli avvenimenti, si applicheranno al futuro solo per cadere nell’utopia.
I componenti del governo rivoluzionario
Per il momento, è il presente che li unisce. In questo periodo di avversità, bisogna allascare le vele e prepararsi ad affrontare la bufera. Ciò significa sospendere il regime costituzionale e l’applicazione delle leggi, significa rinuncia” alle normali garanzie di protezione del cittadino, significa ricorrere alla dittatura d’emergenza; ed ha un nome precisoti governo rivoluzionario.
Questi uomini politici presentano del resto una certi omogeneità sociale. Sono indubbiamente dei borghesi, ma
di un tipo particolare; di quella borghesia, cioè, che poco deve alla ricchezza e molto, invece, alla cultura, al talento e alla formazione tecnica e scientifica.
Fra essi, Bertrand Barère de Vieuzac si potrebbe definire un personaggio marginale. Avvocato al parlamento di Tolosa, quando viene eletto deputato agli Stati generali questo figlio di Tarbes è già un uomo in vista, ben noto nei salotti e nelle accademie. Legato alla famiglia d’Orléans, alla Costituente è già attentamente ascoltato.
Altro personaggio marginale, ma all’estremo opposto, è l’attore Collot d’Herbois, che passa dalla bohème al club dei Giacobini issandosi poi fino al Comitato sulle spalle dei sanculotti.
E gli altri? Cinque sono o sono stati avvocati; Jean Bon Saint-André, dopo lunghi anni di viaggio come capitano di lungo corso, è diventato pastore protestante a Montauban, sua città natale.
Prieur della Cóte-d’Or e Carnot sono capitani del Genio, usciti dalla Scuola di Mézièrès.
Carnot
Esemplare nel suo genere è il destino di Lazare Carnot. Nato a Nolay, nella Cóte-d’Or, in un ambiente borghese in cui le piccole cariche e i molti figli suppliscono alla ricchezza, Carnot vince il concorso alla Scuola di Mézièrès e nel 1773 ne esce col grado di sottotenente del Genio. Nel 1783 è capitano e rischia di concludere la propria carriera con tale grado. Innamorato di una ragazza di Digione, Mademoiselle de Bouillet, non può sposarla perché troppo povero e soprattutto d’origine troppo modesta, e invano cercherà di far riconoscere alla propria famiglia un titolo di nobiltà. La sua amarezza non è un’amarezza individuale, ma esprime anzi perfettamente le frustrazioni dei grandi corpi «scientifici» dello Stato (Genio, Artiglieria, Ponti e Strade), consci del proprio valore e della propria utilità, ma ai quali l’Ancien Régime offre possibilità molto limitate.
Carnot non è certo un inventore né un uomo d’intelligenza eccezionale, e, per essere sinceri, le sue idee in materia di strategia e d’armamento sono spesso antiquate e conservatrici. Tutto questo rende la sua ascesa ancora più significativa. Non si tratta più, come ai tempi della Costituente, dello sboccio dell’ingegno individuale, bensì del trionfo dei tecnici, dell’era degli organizzatori.
L’organizzazione del governo
Fra le carte di Robespierre troviamo uno schema che rivela perfettamente quest’organizzazione:
«Ci vuole un segretario generale di grande merito, un ufficio di segretari particolari intelligenti e patrioti, degli agenti che trasmettano sollecitamente i decreti del Comitato a coloro che devono eseguirli; è necessario che gli incaricati dell’esecuzione ne rendano conto al Comitato entro ventiquattr’ore; bisogna stabilire a chi affidare le ordinanze e da chi saranno trasmesse; occorrono dei corrieri fidatissimi dipendenti dal Comitato; bisogna che ogni membro del Comitato abbia un incarico particolare e sia circondato da segretari e agenti degni della sua fiducia; bisogna che ogni membro abbia un ufficio personale dove possa lavorare e tutte le comodità materiali necessarie per agire…»
Così fu fatto. Oltre alle riunioni generali — che avevano luogo soprattutto al mattino — e alle ore passate alla Convenzione, i membri del Comitato si occupavano dei propri incarichi particolari lavorando fino a diciotto ore al giorno.
Da questa équipe, per la storia e per la leggenda, emerge il triumvirato delle vittime del Terrore.
Couthon
Couthon è il personaggio più sbiadito. Figlio dell’aspra e austera regione dell’Altopiano centrale, è un modesto avvocato di Clermont- Ferrand, che una terribile malattia ha privato giovanissimo (è nato nel 1755) dell’uso delle gambe. Giunto a Parigi all’inizio della Legislativa, si schiera a fianco dei deputati giacobini, ma si rifiuta di operare una scelta fra le due équipes rivali, ossia fra i Girondini, di cui intuisce chiaramente le ambizioni, e i democratici parigini, il cui settarismo lo spaventa.
La crisi provocata dalla guerra e dal tradimento lo spinge ad allinearsi ai Montagnardi. Il suo temperamento naturalmente incline alla conciliazione e alla benevolenza è ; sopraffatto da un’ardente passione per la Rivoluzione e per l’unità nazionale. Meno portato di tanti altri alla polemica ; personale, ma inflessibile quando è in gioco la salvezza della patria, sarà un terribile pubblico accusatore del re, dei Girondini e dei ribelli di Lione.
Saint-Just
Meglio noto è Saint-Just, o almeno così si crede. I suoi ritratti, tuttavia, sia quello di David che quello di Greuze, ce ne danno un’immagine piuttosto sfocata, in cui la sola cosa che colpisce per la sua autenticità è la fronte larga e bassa. In realtà, dice bene André Malraux: «La leggenda non nasce dalla bellezza di Saint-Just, è la sua bellezza che nasce dalla leggenda».
Soprattutto, è circondato da un’aureola di giovinezza. Allorché viene eletto alla Legislativa dal dipartimento dell’Aisne ha appena ventiquattro anni, ed è appunto per la sua età che i suoi avversari ne fanno invalidare l’elezione. Poco importa: l’anno seguente siederà alla Convenzione.
Quest’azzimato giovanotto che si mescola ai deputati della Montagna e che prima di recarsi alle sedute della Convenzione cavalca al galoppo nel Bois de Boulogne, non è un aristocratico. Suo padre, di famiglia contadina, era un soldato in pensione, guadagnatosi con il suo lungo servizio il grado di capitano e la croce di San Luigi.
Quanto a lui, dopo un ottimo corso di studi presso gli Oratoriani di Soissons, frequenta a Blérancourt il nuovo personale amministrativo messo in luce dalla Costituzione.
Divenuto rappresentante del popolo, al club dei Giacobini si mostra piuttosto taciturno e all’Assemblea estremamente assorto. Fino al 2 giugno, appare al di sopra delle lotte di parte e delle contese personali, pur votando con la Montagna i grandi provvedimenti rivoluzionari; ma il processo al re ha rivelato il suo talento d’oratore e il vigore delle sue idee.
Il Terrore gli riserverà un triplice ruolo: animare la guerra rivoluzionaria (la sua missione presso l’armata del Reno durante l’inverno del ’93 gli varrà l’applauso unanime della Convenzione), preparare gli atti d’accusa contro gli avversari del governo e, soprattutto, fornire al regime d’emergenza la necessaria giustificazione teorica. È appunto su questo piano — il piano dei principi, ma anche della sensibilità — che tutto lo lega a Robespierre.
L’incorruttibile Robespierre
Una figura travisata
È raro che un uomo sia stato altrettanto travisato dall’odio come Maximilien Robespierre; un odio che trasformò l’uomo di studio in un demagogo, il moderato in un sanguinario, l’astuto parlamentare in un dittatore, il deista intransigente in un detrattore della religione. Persino i partigiani della Rivoluzione hanno esitato a rendergli giustizia; Michelet, in particolare, che mal comprese il personaggio, subodora in lui il «bacchettone» e il «prete», e gli riconosce un solo merito: la profetica antipatia per il militarismo e la spada. Coloro che, come Mathiez, l’hanno al contrario messo su un piedistallo, hanno probabilmente contribuito a disumanizzarlo in egual misura.
Allorché nel maggio del 1789 giunge a Versailles, quest’ometto dal volto minuto, vestito con perfetta eleganza, è ancora soltanto un avvocato di provincia, senza beni di fortuna e pressoché sconosciuto. Orfano a sei anni, privato del padre, scomparso, riesce a forza di borse di studio a proseguire gli studi al collegio Louis-le-Grand e a diventare avvocato, com’è tradizione della sua famiglia.
Degli anni di studio, brillanti ma ostacolati dalla miseria, gli è rimasto una specie di complesso del borsista: la diffidenza verso l’agiatezza e la facilità. Il suo successo elettorale è dovuto esclusivamente all’appoggio degli strati inferiori del Terzo Stato, che lo preferiscono a un collega sostenuto dai notabili di Arras.
Un politico abile e un tattico
I suoi primi interventi alla Costituente ottengono scarsi risultati parlamentari, ma hanno una larga risonanza nella stampa e nei club, dove, alla fine del 1790, riesce a trionfare su Mirabeau. È il solo a votare contro la legge marziale, il solo che si batta contro l’esclusione dei cittadini passivi e della gente di colore delle Antille, il solo, o quasi, che si rifiuti di porre limiti al diritto del popolo di presentare petizioni all’Assemblea.
È uno dei pochissimi che sin dall’inizio capiranno che la forza della Rivoluzione sta tutta nell’alleanza fra borghesia e popolo. Il suo isolamento nell’Assemblea, e l’odio e i sarcasmi che vi riscuote, rafforzano il suo prestigio a Parigi. L’eletto di Arras diventa il leader della Parigi rivoluzionaria.
Dopo la fuga del re, si limita a sostenere delle battaglie di retroguardia, ma ottiene l’ineleggibilità dei Costituenti alla nuova Assemblea; in seguito tutte le sue grandi battaglie si svolgeranno al club dei Giacobini di cui riuscirà a conservare la clientela nonostante la scissione dei Foglianti: la battaglia contro la guerra, in cui, come sappiamo, rischierà di perdere la sua popolarità; le battaglie contro il tradimento e la disfatta, contro la corte e infine contro i Girondini. Il 2 giugno, le dimissioni di Danton lo costringeranno ad assumersi le sue responsabilità, e diventerà uomo di governo.
Pur non esercitando sui propri colleghi la minima preminenza di diritto, egli gode di un’autorità morale che procede dal suo passato di oppositore e dal suo rifiuto di piegarsi a qualsiasi compromesso. Il suo genio e le sue piccole meschinità lo favoriscono in egual misura.
Lungi dall’essere un dottrinario, è piuttosto un tattico notevolissimo, un politico accorto nella scelta del momento opportuno, abilissimo nel distinguere fra possibilità e avventurismo e nel seguire l’opinione popolare o parlamentare senza lasciarsene sopraffare.
Lo si è visto allorché, dopo la fuga a Varennes, sconsiglia le manifestazioni repubblicane, attenendosi all’intransigente difesa di una Costituzione di cui egli stesso aveva contestato le limitazioni. Lo si è visto prima del 10 agosto e del 2 giugno, quando all’ultimo momento si allinea a una corrente rivoluzionaria scatenata suo malgrado, al solo scopo di incanalarla il meglio possibile.
E Io si vedrà in futuro, nella lotta contro le fazioni avversarie, quando riuscirà a salvare la sua maggioranza isolando i suoi rivali dai loro simpatizzanti. In periodo di crisi, gli tornerà utile perfino il suo temperamento naturalmente portato a una certa meschinità, alla polemica personale e ad una sospettosa gelosia. Perché non tutto è immacolato, nell’Incorruttibile. Dopo i massacri di settembre, quando Danton cercherà di orientare la collera popolare contro il nemico straniero, egli tenterà invece di dirottarla contro i Girondini suoi rivali; nel marzo del 1793, con note
vole perfidia, rimprovererà ai Girondini la loro «costante opposizione all’annessione dei popoli alla nostra repubblica»: l’avversario della guerra di propaganda si trasformerà in fautore della conquista per una semplice manovra di politica interna. Ma la sua inquieta vigilanza e le sue continue accuse no”1 possono non piacere al popolo rivoluzionario, che vi sente l’eco delle proprie ansie.
La sirena dell’utopia
Questa guida realista ed efficace si lascerà trascinare, come Saint-Just, nel campo dell’utopia. Il difficile esercizio del potere, le reticenze della borghesia e l’inevitabile incomprensione popolare suffragheranno le loro impressioni giovanili.’ Nonostante le istituzioni rivoluzionarie create, nonostante i| sogno di Saint-Just di un mondo di fraternità, in cui verrebbe! imposta la solenne dichiarazione delle amicizie particolari il regime vegetariano per i bambini, nonostante il sogno di; un futuro idilliaco, rustico e pastorale, la realtà capitalistica; e mercantilista è contro di loro.
«Donde viene il male? Dai borghesi», scrive Robespierre alla vigilia del 2 giugno. La portata politica di queste parole è stata spesso sottolineata, ma ancora più importante è il loro significato metafisico: per Robespierre e Saint-Just la rivoluzione borghese che hanno fatto nascere è portatrice del male assoluto, del lusso, dell’agiatezza, dell’ateismo e dell’individualismo dell’interesse ch’essi detestano. Cosi parla Robespierre
«Non solo considero l’opulenza il frutto del delitto, ma addirittura il castigo del delitto, e perciò voglio essere povero per non essere infelice».
«Tutti vogliono la repubblica, ma della povertà e della virtù nessuno vuol saperne»: questa volta è Saint-Jus. che parla.
Entrambi sanno perfettamente che
«Nessun’altra istituzione potrà sostituire la virtù originale».
Il culto della virtù sfocia quindi nel pessimismo. «virtù su questa terra è sempre stata in minoranza». L’idea cristiana della caduta s’innesta, laicizzata, sulla coscienza della rottura della comunità e della fraternità medievali operata dalla nuova morale dell’interesse e dell’utilità.
Da François Furet e Denis Richet, La Rivoluzione francese, Dagli Stati generali al 9 termidoro, vol I, Milano, Il Giornale-Biblioteca storica, 2003, pp. 253–270