L’influenza di Marat

Il martire della rivoluzione

Mario Mancini
30 min readSep 11, 2022

di Louis R. Gottschalk

Speciale Marat
Introduzione. Marat, l’Amico del Popolo
1. Protagonisti della rivoluzione francese di François Furet e Denis Rochet
2. La morte di Marat e Carlotta Corday di Jules Michelet
3. La bella e lo squallido di Thomas Carlyle
4. L’influenza di Marat di Louis R. Gottschalk
5. Marat socialista? di Jean Jaurès
6. Marat dietro le quinte di Victor Hugo
7. Testi di Marat: Dispotismo e libertà | I diritti civili

“Think | Tank”. Il saggio del mese [settembre 2022]

Una scena del Film di Peter Brook “Marat-Sade” con l’attore Ian Richardson che interpreta Marat

Marat malato

Disraeli, commentando la morte di Abramo Lincoln, scrive:

«L’assassinio non cambiò mai la storia del mondo. Non parlerò di un passato lontano, sebbene un fatto sia ora venuto a rammentare a tutti il più memorabile esempio dell’antichità. Ma neppure il grande sacrificio di Cesare placò l’inesorabile destino della patria di lui. Se poi consideriamo i tempi moderni, almeno i tempi i cui sentimenti ci sono familiari ed in cui il popolo è mosso e influenzato da interessi identici ai nostri odierni, le morti violente di due uomini eroici, Enrico IV di Francia e il principe d’Orange, sono due esempi lampanti di questa verità».

A tutta prima può sembrare che l’assassinio di Marat costituisca un’altra dimostrazione di tale verità. Il Marat, l’uccisione del quale è l’unico titolo di Carlotta Corday alla rinomanza, non era che un pallido riflesso di quello che era stato: terribilmente ammalato e mentre ormai non sperava più di guarire, aveva cominciato a limitare le sue occupazioni alla redazione del giornale, contenente ora pochissima prosa di suo pugno, e a lettere inviate di tanto in tanto alla Convenzione, la quale non se ne occupava mai.

Comunque, è molto probabile che non sarebbe vissuto ancora a lungo. Anch’egli — e pare sia stato il medico di se stesso — giudicava disperate le sue condizioni di salute. Ma anche se fosse riuscito a prolungare di qualche anno la dolorosa e compassionevole esistenza, la sua influenza sarebbe calata contemporaneamente al graduale diminuire della sua attività e alla graduale attenuazione del mordente e del vigore dei suoi scritti.

Nei casi di gran numero di personaggi storici si può fare con uguale verità la stessa constatazione: sopravvissero alla loro utilità, quindi alla loro influenza. Ma la cosa sarebbe stata particolarmente vera nel caso di Marat, se il pugnale di Carlotta Corday non avesse raggiunto il suo scopo nel momento supremo.

Per comprendere perché le cose andarono cosi dobbiamo rispondere ad alcune domande. Quale fu l’influenza del personaggio? In quale modo si sviluppò? Da che cosa dipese? Per risolvere questi problemi dovremo passare in rassegna tutta la carriera di Marat e ripetere fatti già studiati: hanno importanza le risposte; il significato di qualunque personaggio storico non dipende tanto da ciò che fece, disse o pensò, quanto dall’influenza che le azioni, le parole e le opinioni di lui esercitarono sugli avvenimenti e sul popolo della sua epoca e delle successive.

La carriera di Marat

Possiamo incominciare col generalizzare — sebbene le generalizzazioni siano soggette a errore — e col dire che in nessun momento l’influenza di Marat dipese dalle sue idee politiche.

Prima della rivoluzione la popolarità della quale godette fu attribuibile alla sua reputazione di medico e di scienziato. Certo, aveva scritto parecchie opere di politica, ma erano state occasionali e non avevano contribuito molto alla sua rinomanza. I suoi scritti dell’inizio del periodo rivoluzionario, distinguibili per il carattere moderato, somigliavano a migliaia di altri ed erano privi di aspetti propri. Se, come fu affermato, L’Offerta alla patria, pubblicata all’alba della rivoluzione, venne premiata da una società patriottica, ciò non dimostra tanto il valore intrinseco o l’influenza dell’opera quanto il fatto che tali società erano numerosissime e non lesinavano approvazioni agli scritti d’ispirazione patriottica.

Soltanto dopo la fondazione del suo giornale quotidiano Marat diventò un personaggio importante nella rivoluzione francese. Lo dimostrano il crescere improvviso dell’interessarsi di lui da parte della Comune di Parigi e dell’Assemblea Nazionale, nonché i numerosi tentativi d’arresto e i provvedimenti dei Cordelieri per proteggerlo.

Ma non era la sua filosofia politica a cagionare tale mobilitazione pro e contro, la quale era invece provocata dagli attacchi dell’Amico del Popolo contro Necker, La Fayette, Bailly e altri noti reazionari. Furono le invettive distruttive, non già le ideologie costruttive, a procurargli nemici e amici.

Ma in quel periodo cominciò ad elaborare un programma politico definito: reclamava la formazione di Clubs rivoluzionari, ma prematuramente; alcuni rari pionieri, quale il Club bretone, esistevano già, sebbene non ancora pronti a diventare congegni attivi nel meccanismo politico della rivoluzione.

I Clubs, che andarono formandosi un po’ a caso, si svilupparono gradatamente, secondo le esigenze politiche: non erano il prodotto di una volontà conscia di sé, tendente a una specie di coltivazione artificiale, come Marat avrebbe voluto. Quando i Clubs incominciarono ad essere un fattore importante in politica, egli reclamava già qualcosa di più: il tribunale rivoluzionario.

La filosofia politica

Precorreva il proprio tempo: l’idea di un Corpo giudiziario fondato con il preciso intento di punire i delitti politici doveva colpire rimmaginazione popolare soltanto tre anni dopo. Frattanto Marat si era messo a sostenere anche un altro progetto: la dittatura.

Questo fu il meno popolare di tutti i provvedimenti che propose. Lui stesso riconosceva di non essere riuscito ad ottenere il concorso di nessuno in quella sua predicazione e di essere, fra tutti i pensatori della rivoluzione, il campione assolutamente unico della carica che proponeva.

Eppure questo fu il suo principale contributo alla filosofia rivoluzionaria e la teoria che sostenne più lungamente e con maggiore consistenza. Riconoscere l’impopolarità di quella teoria equivaleva ad ammettere che fosse impopolare tutto il suo programma di filosofia politica.

Delle sue proposte di ricostruzione rimase soltanto l’appoggio ai comitati rivoluzionari, quale il comitato di salute pubblica, unico progetto che caldeggiò con opportunità e con successo. Però l’idea non era sua; anche molti altri la propugnavano; e, come si è già dimostrato, si hanno buone ragioni per supporre che la raccomandasse soltanto perché s’avvicinava molto all’attuazione del programma di dittatura, divenuto troppo impopolare per poter essere più a lungo apertamente esposto.

Tali sono le diverse fasi della politica di ricostruzione di Marat, la quale certo gli dava diritto a largo merito, per la sua preveggenza. Rimane tuttavia il fatto ch’essa non parlava all’animo del popolo da lui tanto amato. L’appoggio del popolo gli fu procurato dagli attacchi che sferrò, non dalle proposte che fece.

L’ossessione cospirazionaria

Ebbe reputazione di strenuo difensore della rivoluzione per il suo incessante timore di una controrivoluzione e perché s’avventava personalmente su questa, dovunque ne sospettasse la presenza.

Non desisteva dal predire cospirazioni disastrose che si tramavano per annientare ciò che si era conquistato negli ultimi anni, perché la predizione era da parte sua una forma d’accusa.

Affermò che trecento delle sue profezie si erano avverate e, quantunque la sua curiosa concezione delle cifre gli facesse esagerare anche questa, non si può negare che alcune si avverarono davvero in modo sorprendente.

Per esempio, Mirabeau fu veramente accolto a Corte; il re tentò effettivamente di fuggire; La Fayette disertò; Dumouriez si rivelò traditore. Per effetto di tali predizioni avveratesi la reputazione, tributata all’Amico del Popolo, di custode della rivoluzione, andò crescendo di continuo.

Camillo Desmoulins lo chiamava Cassandra Marat perché la di lui visione profetica, pur essendo un dono di natura, era un’arma a doppio taglio che serviva per la difesa e per l’offesa.

Quanto più Marat inveiva contro i suoi nemici, tanto più faceva predizioni; quante più ne faceva, più se ne avveravano; quante più se ne avveravano, tanto più aumentavano la fama e la popolarità del profeta

Ma non soltanto con attacchi e profezie Marat; si dimostrò buon sostenitore della rivoluzione. Per questa soffri più che chiunque altro. Erano noti a tutti (perché egli si adoperava a renderli noti) i più tentativi della polizia per arrestarlo, i frequenti soggiorni in nascondigli malsani, la gravità della’ malattia che n’era risultata, la perdita dei beni a vantaggi del popolo e della rivoluzione.

Raccontava (e del vero c’è) d’essersi nutrito di pane e acqua nove mesi di seguito, per sopperire alle spese di stampa dei suoi opuscoli e del suo giornale; aggiungeva (nel 1793) di «non essersi concesso per più di tre anni neppure un quarto d’ora di svago» per poter dedicare maggior tempo al servizio della patria; di aver «vigilato notte e giorno» sulla salvezza del popolo. Ma, vere o non vere, tali affermazioni e centinaia d’altre dello stesso genere, ripetute a lettori forse creduli come sempre, produssero grande effetto.

L’ammirazione e la fiducia di quei lettori andarono crescendo: come Marat aveva sacrificato loro la propria vita, cosi essi gli avrebbero dedicato volentieri la loro.

L’amico del popolo

Marat, dopo avere rinunciato alle sue nozioni borghesi, coltivò volontariamente il favore delle classi inferiori. L’espressione «Amico del Popolo», della quale ormai si serviva non soltanto per il titolo del suo giornale, ma altresì come di un qualificativo aggiunto alla sua firma anche su documenti ufficiali, era stata scelta con criterio.

Ma al suo programma di lavoro e di riforma sociale non si prestava maggiore attenzione che al programma politico, sebbene egli fosse ispirato da una sincera convinzione dell’ingiusta organizzazione economica della società e probabilmente esagerasse per assicurarsi l’appoggio del popolo.

Gli fu più vantaggiosa la voluta imitazione delle fogge d’abiti delle classi inferiori. Ritratti e memorie dell’epoca ce lo mostrano vestito in modo volgare e barocco. Lui che nel passato aveva avuto per amante una marchesa era diventato un sans-culotte. portava una camicia aperta sul collo, una fascia intorno alla testa, pistola alla cintola

Il giudizio dei contemporanei

Fabre d’Eglantine ci ha lasciato di lui una descrizione particolareggiata.

«Marat era di statura bassissima: giungeva appena all’altezza di cinque piedi; nondimeno era molto robusto, senza essere grosso né grasso. Aveva larghe le spalle, largo il petto; il ventre era piatto, le cosce corte e larghe, le gambe arcuate, le braccia forti, e le agitava con vigore e con garbo. La testa, sul collo piuttosto corto, aveva carattere molto spiccato; il viso era largo e ossuto, il naso aquilino, ma largo e perfino schiacciato alla base; la bocca, di grandezza media, aveva in un angolo una contrazione frequente; le labbra erano sottili, la fronte spaziosa, gli occhi di color grigio-giallo, spirituali, vivaci, penetranti, sereni, naturalmente dolci e dotati di sguardo sicuro; rade le sopracciglia, plumbeo e vizzo il colorito, nera la barba, bruni e trascurati i capelli. Camminava tenendo la testa alta, dritta e un po’ all’indietro; il passo era rapido e cadenzato, ondeggiante un poco per l’oscillare dei fianchi; la posizione abituale consisteva nel tenere le braccia conserte sul petto. Mentre parlava in pubblico si agitava con veemenza e soleva terminare ciascun argomento con un movimento d’un piede, che girava in avanti battendo sul suolo e sollevandosi ad un tratto sulla punta, come se volesse elevare la piccola statura all’altezza dell’opinione che stava sostenendo. Il suono della voce era maschio, forte, un po’ grasso e di timbro squillante. Un difetto della lingua gli rendeva difficile la netta pronuncia della c e della s, ma il solo effetto sgradevole che ne derivava consisteva nel rendere piuttosto pesante l’eloquio; e la chiarezza del pensiero, la pienezza della frase, la semplicità e la rapidità del discorso facevano passare inosservata quella pesantezza mascellare. Sulla tribuna, se vi saliva senza contrasti né. indignazione, teneva un atteggiamento che esprimeva sicurezza e fierezza, arretrava il busto, metteva sul fianco la mano destra, tendeva in avanti il braccio sinistro, piegava la testa un poco all’indietro e di tre quarti verso la spalla destra. Se invece doveva vincere, dalla tribuna, gli schiamazzi degli aristocratici, i cavilli della malafede e la prepotenza d’un presidente, aspettava con fermezza un momento di calma che gli consentisse di prendere la parola con audacia; assumeva una positura ardita, incrociava diagonalmente sul petto le braccia e, piegandosi a sinistra, dava alla fisionomia e allo sguardo un’espressione sardonica e cinica che poi caratterizzava tutto il discorso. La trascuratezza, la noncuranza del suo modo di vestire rivelavano una completa ignoranza della moda, del buon gusto, e si può anche aggiungere che gli davano un aspetto di sporcizia».

Barras ci dice che, quando vide per la prima volta Napoleone Bonaparte, fu molto colpito dalla somiglianza di lui con Marat. E quale impressione questo straordinario piccolo Amico del Popolo dovette fare sull’immaginazione popolare, mentre camminava nelle vie di Parigi o pronunciava con un sorriso minaccioso, dall’alto della tribuna, i suoi discorsi talvolta eloquenti e sempre audaci!

Come dovette sembrare strano agli ospiti dell’attore Talma, quando, una sera dell’autunno 1792, entrò improvvisamente, non invitato, armato di pistole, fasciata la testa e con una camicia aperta sul collo, in mezzo a un festeggiamento in onore del grande Dumouriez! Camillo Desmoulins, in una sua felice evocazione, riassunse il linguaggio probabile del popolo nei riguardi di Marat, un giorno che questi era stato assalito alla Convenzione in modo più violento del solito:

«Dite pure quel che volete, ma Marat, contro il quale chiedete un decreto d’accusa, è forse l’unico uomo che possa salvare la repubblica… Per fortuna abbiamo lui, che per la sua vita sotterranea e il suo lavoro instancabile deve essere considerato come il massimo del patriottismo. Il popolo sarà sempre d’opinione che al di là di quanto viene proposto da Marat non vi possano essere che delirio e stravaganza… Il servigio immenso che forse egli solo è in grado di rendere alla repubblica consiste nell’impedire sempre che la controrivoluzione sia fatta da gente col berretto rosso».

Anche Panis, in un’occasione precedente, aveva riferito questa opinione popolare:

«Marat è un uomo straordinario, fuor dalla regola comune; non dorme, si occupa incessantemente della cosa pubblica; la sua esperienza, le sue cognizioni estesissime, gli hanno fatto prevedere tutto quanto è accaduto. Dotato di animo ardente, d’immaginazione vivacissima e sempre tesa verso la medesima mira, dice cose straordinarie e non c’è da stupirsene!».

Lo stesso Marat intuiva perfettamente le ragioni della sua popolarità. Nel suo primo colloquio con Robespierre, quando l’Incorruttibile protestò contro le di lui veementi invettive, replicò:

«Sappiate che il mio credito sul popolo non deriva dalle mie idee, ma dalla mia audacia, dagli slanci impetuosi della mia anima, dalle mie grida di rabbia, di disperazione e di furore contro gli scellerati che intralciano l’azione della rivoluzione. Io sono l’ira, la giusta ira del popolo, ed è perciò che esso mi ascolta e ha fede in me. Le grida d allarme e di furore che voi scambiate per parole vane sono la più naturale e la più sincera espressione delle passioni che mi divorano l’anima».

Tali, invero, le ragioni per le quali Marat era tenuto in grandissima stima; questa veniva in parte coltivata da lui e in parte costituiva il risultato delle sue simpatie politiche. Non era dovuta alle sue idee, né al suo programma, bensì alla sua sincerità e alla sua evidente devozione alla causa della rivoluzione.

Non si deve credere, però, che fosse sempre stato l’idolo del popolo. All’inizio della rivoluzione aveva goduto soltanto di una rinomanza locale; la funzione di elettore del suo distretto all’assemblea era stata l’unica della quale fosse stato onorato fino al settembre 1792.

I tentativi di metterlo a tacere

Per più di tre anni, in un periodo nel quale era relativamente facile ottenere una carica pubblica, Marat non occupò alcun posto nel governo. Alle lettere che rivolgeva a membri dell’Assemblea Nazionale, costoro non si curavano di rispondere neppure per semplice cortesia; la presentazione di una delle sue opere a quel consesso non venne commentata in alcun modo; d’altra parte, molti distretti della città protestarono in vari modi contro i caustici attacchi di lui.

Ma in quei tre anni l’influenza dell’Amico del Popolo andò maturando. Per dimostrarlo basta segnalare l’intenso desiderio d’imporgli il silenzio, manifestato dai suoi nemici.

Nel 1789 e nel 1790 vi furono almeno sette tentativi per arrestarlo e per sopprimere il suo giornale. La Comune discusse diffusamente le azioni di lui; gli stessi Corpi rappresentativi nazionali (prima l’Assemblea Nazionale, poi quella Legislativa) vennero convocati almeno in quattro circostanze per studiare i provvedimenti da adottare contro il giornale; e anche l’appoggio che ricevette da diverse parti dimostra come il suo potere andasse crescendo.

Nel dicembre 1789 Danton e i Cordelieri lo avevano preso sotto la loro speciale protezione e per poco non erano venuti alle mani sulla pubblica strada con la polizia che voleva arrestarlo.

Altri giornalisti — Desmoulins, Loustalot, Prudhomme — avevano parlato di lui favorevolmente parecchie volte. Fréron, redattore dell’Oratore del popolo, che stava per diventare il capo degli iconoclasti della reazione termidoriana, mise allora il suo giornale a disposizione di Marat e gliene lasciò redigere parecchi numeri.

I «vincitori della Bastiglia», in una lettera all’Assemblea Nazionale, lo inclusero (1° agosto 1790) in una lista dei giornalisti che avevano meglio servito la causa della libertà; una lettera datata 8 ottobre 1790 attesta che il suo autore vide intere folle ascoltare la lettura di brani dell’Amico del Popolo nei quali si vilipendevano i ministri del re; e già nel 1791 (come poi ancora nel 1793) il giovane Saint-Just elogiò Marat con ammirazione e con entusiasmo.

La crescente popolarità

Inoltre si ha una prova indubitabile della crescente popolarità di Marat nel fatto che incominciarono a diffondersi molte imitazioni del suo giornale, con lo stesso titolo o con altri molto simili. Durante il primo soggiorno di Marat in Inghilterra nel 1790 uscirono parecchie serie apocrife dell’ Amico del Popolo; e alla ripresa del giornale, nel 1792, dopo il secondo viaggio a Londra, Marat giudicò opportuno pubblicare sotto la testata dei primi numeri una lettera della società dei Cordelieri, con la quale lo si pregava caldamente di continuare il giornale, in modo che si potesse distinguere quello vero dalle molte contraffazioni che erano apparse assente lui, le quali non erano le sole edizioni apocrife dell’Amico del Popolo.

Chevremont, recente bibliografo delle opere di Marat, ha giudicato necessario dedicare circa la metà d’un grosso volume sugli scritti di lui ad un’analisi dei numeri autentici e di quelli falsificati dei diversi giornali maratiani. Vi furono inoltre parecchie gazzette che dedicavano intere colonne a confutare e contraddire le teorie ch’egli andava esponendo. La principale fu quella intitolata L’anti-Marat.

Poiché non si avversa, non si difende, non si imita un individuo oscuro, se ne può dedurre che Marat si era conquistata una reputazione d’una certa importanza già negli anni 1790, 1791 e al principio del 1792.

Non era però ancora un capo con molti fautori personali. Come vedemmo, quando fu proposto quale candidato all’Assemblea legislativa non ottenne che due voti. Il 3 maggio 1792, allorché l’Assemblea legislativa votò un decreto di proscrizione contro di lui, nessuno sorse a difenderlo.

Chevremont e Bougeart, i due biografi più favorevoli a Marat, concordano nell’opinare che in quel momento egli non avrebbe trovato in tutta la Francia più di duecento individui disposti a sostenerlo.

Ma l’ora della vittoria dell’Amico del Popolo non era lontana. Il 10 agosto 1792 le forze rivoluzionarie sconfissero i realisti. A Parigi si ebbe una nettissima vittoria delle classi inferiori, del proletariato sulla borghesia, della plebe guidata da Robespierre e da Marat sulle classi medie devote a La Fayette e a Pétion.

A datare da quel giorno nell’astrologia rivoluzionaria non vi fu alcun astro di migliore augurio che quello di Marat. Gli onori piovvero su lui da ogni parte; gli si concessero per suo uso personale i torchi tipografici reali; la Comune lo nominò suo relatore ufficiale (però nulla dimostra che abbia esercitato tale funzione); venne eletto membro dell’assemblea elettorale della sua sezione e più tardi di quella di Parigi; fece parte del comitato di polizia e di vigilanza della Comune. Infine fu eletto con una maggioranza schiacciante membro della Convenzione Nazionale, settimo dei ventiquattro della delegazione di Parigi, preceduto soltanto da personaggi d’una popolarità ben salda; e nessuno dei candidati da lui avversati nei suoi giornali venne scelto quale rappresentante di Parigi.

L’identificazione con la Montagna

Ormai Marat s’identificava con la Montagna e la sua popolarità aumentò e decadde con quella del suo partito. Si era sempre vantato di non appartenere a nessun clan, di non riconoscere altri legami che quelli dettati dalla sua fedeltà verso il popolo. Ma sedeva alla Convenzione sui banchi della Montagna, ne condivideva gli amori e gli odi, assaliva ed era assalito unitamente ad essa.

Molti girondini consideravano lui, piuttosto che Danton o Robespierre, quale capo della sinistra. Buzot era convinto che nel Club dei Giacobini «Marat fosse il vero capo e che Danton e Robespierre vi comandassero soltanto in sottordine». Meillan ci assicura che «aveva ai propri ordini quella classe d’individui che non sanno distinguere né giudicare e che appartengono sempre a chi li blandisce» e aggiunge che «tale appoggio lo rendeva temibile nonostante il disprezzo del quale era coperto».

E Louvet de Couvrai opinava che fra i cordelieri «i capi palesi erano Danton e Robespierre, ma il capo segreto era Marat». Comunque, sta il fatto che le denunzie dei Girondini caddero su lui molto pesantemente.

Ma i membri della Montagna non erano completamente seguaci entusiasti delle idee di Marat. Danton, pur essendo uno dei primi a sostenerlo, aveva altercato con lui in mezzo all’angoscia dei «massacri di settembre» a cagione dell’arresto di Adriano Duport; e ancora due volte (25 settembre e 29 ottobre 1792) aveva parlato di lui in termini ingiuriosi davanti alla Convenzione. In una di tali circostanze aveva detto:

«Dichiaro alla Convenzione e a tutta la nazione che l’individuo Marat non mi piace (Applausi). Dico con franchezza di aver esperimentato il suo carattere: non solo è vulcanico e bisbetico, ma anche insocievole».

E Robespierre, che aveva perorato per l’elezione di Marat alla Convenzione, e Panis, del quale Marat aveva favorito la candidatura a sindaco nel 1792 e da cui era stato nominato membro del comitato di polizia e di vigilanza, lo rinnegarono il 25 settembre 1792, quando il primo e uno dei più aspri assalti dei Girondini fu sferrato contro lui e dovette fronteggiare da solo un’assemblea ostile.

Desmoulins, generalmente prodigo nella sua ammirazione per Marat, era nondimeno stato trattato con franco disprezzo nell’Amico del Popolo e aveva risposto con lo stesso tono.

Robert, che non aveva mai dubitato del patriottismo di Marat (furono rarissimi coloro che ne misero in dubbio la sincerità di patriota) e tuttavia sentiva che era stravagante nelle sue passioni, col denunciare tale stravaganza scatenò un giorno, involontariamente, un tumulto per farlo uscire dalla società dei Giacobini.

Sebbene i Giacobini avessero seriamente sostenuto la campagna di Marat prima della di lui elezione alla Convenzione, e sebbene egli li considerasse come suoi principali protettori contro gli avversari e fosse spesso portato alle stelle e applaudito nelle loro riunioni (tanto da diventarne, più tardi, il presidente), quel tumulto fu singolarmente favorito, pur terminando con uno scacco. La società si limitò a diramare ai gruppi affiliati al partito una circolare nella quale spiegava diffusamente la distinzione che faceva fra Robespierre e Marat, perché «imparino finalmente a separare due nomi che credono a torto debbano essere perpetuamente uniti».

Alcuni mesi dopo (31 maggio 1793) Robert rinnovò il tentativo, a cagione della campagna di Marat per la dittatura, e questa volta Billaud-Varenne aggiunse i propri sforzi a quelli di Robert; ma, come abbiamo già constatato, anche quest’altro attacco fallì. La Montagna, senza considerazioni di amicizie o di odi, dovette presentare un fronte compatto ai molteplici attacchi dei Girondini, e l’ascendente di Marat sulle classi inferiori, ormai riconosciuto e saldamente stabilito, era troppo rilevante perché si potesse non tenerne conto. Memorabile la risposta di Camillo Desmoulins ai Girondini: «Per fortuna abbiamo Marat…».

Il giornale

Il giornale contribuiva molto a consolidare la posizione di Marat. Da quando la Convenzione si era aperta egli ne aveva distribuito gratuitamente sei o settecento copie al giorno e in certi giorni anche molte di più. Siccome non aveva fonti di reddito indipendenti, ricavava probabilmente il denaro necessario per quelle distribuzioni gratuite dalla vendita del rimanente delle edizioni quotidiane; quindi la tiratura dell ‘Amico del Popolo e dei diversi giornali che gli succedettero fu probabilmente di due o tre volte il numero delle copie distribuite gratuitamente.

In un tempo nel quale la stampa funzionava lentamente e stentatamente e nel quale i giornali erano cari, quella distribuzione era generosissima. Hatin, molto autorevole in materia di storia del giornalismo in Francia, dice che Marat ebbe maggiore influenza di tutti gli altri giornalisti della rivoluzione e l’opinione contemporanea ratifica tale giudizio.

Meillan afferma che «una sola frase inserita nel giornale di Marat bastava per agitare le classi inferiori e poteva essere causa di un moto popolare». E Beaulieu, a proposito dell’Oratore del popolo di Fréron e dell’Amico del Popolo di Marat, esprime questa opinione:

«È impossibile calcolare gli effetti prodotti sul popolo da questi giornali grondanti di sangue: specialmente il secondo di quei due individui, maniaco senza ingegno, specie di pazzo furioso che bisognava aver visto e udito per farsene un’idea, era diventato la divinità della plebaglia e, sebbene non fosse altro che uno strumento nelle mani di personaggi più abili, riuscì a farli tremare tutti, senza accorgersi lui stesso della propria prodigiosa potenza».

L’influenza di Marat si fece sentire quando la Convenzione discusse per decidere se dovesse mandarlo davanti al tribunale rivoluzionario. In quella circostanza il voto fu determinato esclusivamente dalle esigenze di partito; la Montagna, con poche eccezioni, votò per Marat tributandogli frasi elogiative, com’era naturale, e i Girondini votarono contro di lui, tempestandolo di rampogne, com’era ugualmente naturale.

Il processo non ebbe altro risultato che quello di far sembrare maggiori i meriti di Marat ai fautori di lui. Non era stato perseguitato ingiustamente? La lotta che gli aveva procurato tanti nemici non era stata da lui combattuta per il bene del popolo? I nemici suoi non erano anche i nemici giurati delle classi inferiori? Le società popolari gli dovevano necessariamente appoggio, dato che il decreto d’accusa era stato votato mentre egli era presidente dei Giacobini.

Fuori di Parigi i sentimenti pro e contro erano altrettanto appassionati. A Chartres i giornalai che boicottavano Marat furono malmenati dal popolo; e la Comune di Auxerre raccomandò per iscritto l’Amico del Popolo alla protezione delle quarantotto sezioni di Parigi.

Poi vennero l’assoluzione e le vittorie. alla Convenzione il 24 aprile, al Club dei Giacobini il 26 aprile. La sconfitta dei Girondini e il trionfo di Marat ebbero per conseguenza la caduta dei primi.

Le giornate del maggio-giugno 1792

Non occorre ripetere qui la narrazione degli avvenimenti dal 27 maggio al 2 giugno. Basta indicare che Marat fu certamente l’ispiratore, il dittatore senza titolo di quelle giornate.

La prima abolizione del comitato dei dodici fu ottenuta da lui. Fu lui che si rivolse al comitato del vescovado e al consiglio generale, affermando che l’insurrezione era un dovere; fu lui che impedì il successo del compromesso proposto da Barère; fu lui che decise i deputati disorientati, ch’erano usciti dalle Tuileries, a ritornare alla discussione sulla sorte degli accusatori. Infine, furono le sue mozioni a decidere quali nomi dovessero rimanere nella lista di proscrizione.

Durante le precedenti crisi rivoluzionarie egli aveva sostenuto una parte di scarso rilievo. Le date del 14 luglio, del 5 ottobre, del 10 agosto erano state vittorie di altri capi popolari; anche il 2 settembre, come vedemmo, fu dovuto a lui soltanto indirettamente; ma il 2 giugno fu opera di Marat più che di Robespierre, più che di Danton, più che di Hanriot.

Quest’ultima data segnò l’apogeo della popolarità di Marat. Nel breve periodo di vita che ancora gli restava fu evidente che la sua influenza cominciava a declinare; il suo giornale andava perdendo il vigore appassionato che lo aveva caratterizzato; la Convenzione non si curava delle lettere dell’Amico del Popolo, ora che la Montagna non aveva più bisogno del suo appoggio contro i Girondini; neppure le dimissioni da lui annunziate provocarono incidenti; nonostante la grande vittoria riportata per suo merito non gli fu concessa alcuna onoranza oltre all’insignificante favore dell’elezione a membro d’un comitato secondario.

Le società popolari mandavano ancora delegazioni per informarsi della sua salute e si mostravano molto afflitte perché non migliorava; ma anche il potere di lui su quelle società doveva inevitabilmente declinare per il fatto che non poteva più assistere alle loro riunioni.

Il declino

Marat, non guarito completamente o parzialmente, sarebbe stato ormai niente più che una semplice comparsa nel dramma rivoluzionario. Forse fu in quel periodo che intraprese una revisione dell’Amico del Popolo con l’intenzione di ripubblicarne la collezione completa. Se cosi fu, quell’intenzione equivalse ad una confessione tacita, ma eloquente, del sentimento di una gloria ormai appartenente al passato. Era già un moribondo, fisicamente e politicamente, quando lo colpi il pugnale di Carlotta Corday.

Sembrerebbe dunque, giudicando i fatti superficialmente, che la morte violenta di Marat sia stata un altro esempio a sostegno dell’affermazione di Disraeli, secondo la quale l’assassinio non cambiò mai il corso della storia. Ma l’esame degli avvenimenti che seguirono la morte di Marat dimostra che, in un certo senso, la generalizzazione disraeliana non è applicabile in questo caso. La fine dell’Amico del Popolo ebbe realmente un effetto ben definito sul corso degli sviluppi futuri, anche se tale effetto non fu quello voluto da Carlotta Corday. invece di sopprimere l’influenza funesta, quella morte la rese maggiore.

Martire della rivoluzione

La notizia dell’uccisione di Marat si diffuse rapidamente in Parigi e in tutta la Francia. Il risultato immediato consistette nel fare del morto un martire per la causa della libertà e della rivoluzione, un paladino che aveva sacrificato la vita per il bene dei compatrioti.

Carlotta Corday impersonificò il realismo, il partito girondino, la controrivoluzione sotto tutte le sue forme. Corse voce — non completamente priva di fondamento — che la morte di Marat non rappresentasse che la prima d’una lunga serie di cospirazioni contro i capi della rivoluzione. Il fedele Amico del Popolo era la vittima dei nemici accaniti delle classi inferiori. Cosi Marat, travolto quando la malattia e l’età lo avrebbero fatto dimenticare, diventò un eroe nazionale circonfuso dall’aureola del martirio.

Gli si fecero funerali magnifici a spese dello Stato. I membri della Convenzione, i rappresentanti delle sezioni di Parigi e dei dipartimenti e uno stuolo di popolo formarono un immenso corteo.

La salma venne esposta su un catafalco per due giorni, prima che una putrefazione prematura ne affrettasse il seppellimento. Cerimonie commemorative ebbero luogo in tutta la Francia in onore del defunto, del quale s’inaugurarono dappertutto busti, con iperboli oratorie e con grande sfoggio di sentimenti effervescenti. La sezione detta dei Marsigliesi cambiò nome e diventò sezione Marat; neonati e reggimenti furono battezzati con il nome di lui; Montmartre (collina, sobborgo, via) fu mutato in Montmarat; la piazza dell’Osservatorio divenne piazza dell’Amico del Popolo.

Si afferma perfino che il futuro maresciallo Murat, cognato di Napoleone e re di Napoli, cambiò temporaneamente in Marat il proprio nome; e si dice che non meno di trentasette città assunsero il nome di Marat. I

l Club Saint-Eustache, organizzazione femminile assecondata dai Giacobini, eresse un obelisco di legno alla sua memoria; poemi e drammi furono scritti su lui o gli furono dedicati; si cantarono inni e si pronunciarono discorsi nei quali venne perfino paragonato (almeno una volta) a Gesù.

Nei teatri, nei Clubs, nei ristoranti, tutti parlavano di Marat. Il suo cuore fu imbalsamato e conservato in un reliquiario nell’antica chiesa dei Cordelieri (sede del Club dei Cordelieri), come i resti dei santi del Medio Evo. La sua spoglia riposò temporaneamente nel giardino del Club.

Il culto di Marat

Venne instaurato un culto di Marat ben definito e molti portavano sulla persona oggetti-ricordo evocatori dello scomparso. Il nome di lui venne invocato e lo stesso Danton, denunciato ai Giacobini da Robespierre, chiamò a testimone (d’ombra dell’Amico del Popolo, per giustificarsi. Una statua di Marat scolpita da David decorò la sala dove si riuniva la Convenzione.

Nel febbraio 1794 un gruppo di persone (fra le quali la famosa attrice Fleury, con cui taluno asserisce talvolta, ma senza prove sufficienti, che Marat avesse avuto rapporti molto intimi) venne liberato dalla prigionia soltanto perché i suoi componenti asserirono di avere ospitato Marat mentre era in pericolo d’esser catturato dalla polizia.

Alla Comune di Parigi qualcuno, sostenuto da Hébert, propose (14 agosto 1793) che copie delle Catene della schiavitù venissero distribuite nelle assemblee primarie quale antidoto infallibile contro il despotismo. Un’edizione completa degli scritti di Marat venne progettata e se ne pubblicò il prospetto, ma l’iniziativa fu interrotta da Robespierre, che temette ne derivasse un indebolimento del proprio partito.

Apparvero molte serie apocrife del giornale, una delle quali per qualche tempo sotto gli auspici dei Cordelieri, un’altra sotto la direzione di Giacomo Roux, capo degli «arrabbiati», del quale Marat aveva vigorosamente avversato l’estremo radicalismo, cosicché si sospettò perfino che quel Roux fosse un complice di Carlotta Corday. Ma egli, dopo essersi fregiato del titolo di Piccolo Marat, oltre che di quello di Marat del consiglio generale, già arrogatosi, iniziò la pubblicazione del Pubblicista della repubblica francese, diretto dall’ombra di Marat, Amico del Popolo.

Ledere d’Oze, altro «arrabbiato», pubblicò un giornale simile con il titolo di Amico del Popolo e vi fu anche un Amico del Popolo di un certo C***, il cui sedicesimo numero usci il 21 nevoso anno III (10 gennaio 1795) in un periodo durante il quale l’opinione pubblica era piuttosto sfavorevole alla memoria di Marat.

Giacomo Roux e Ledere d’Oze erano stati denunciati da Marat ai Cordelieri nel suo giornale poco prima degassassimo e per effetto dell’opposizione di lui e di quella di Robespierre erano stati banditi quell’organismo.

Simona Evrard, meno di un mese dopo l’uccisione di Marat, si lagnò davanti alla Convenzione (8 agosto 1793) che continuando il giornale e sostituendovi opinioni estremiste venisse profanata la reputazione del defunto Amico del Popolo. Ella ammetteva che Marat avesse qualche volta usato un frasario energico «perché dal suo animo sensibile traboccarono in alcuni casi giusti anatemi contro le sanguisughe pubbliche e contro gli oppressori del popolo»; ma Roux e Ledere, abusando del nome di Marat, «predicavano massime stravaganti attribuitegli dai suoi nemici e smentite da tutta la sua condotta», perpetuando cosi «la calunnia parricida» ch’egli fosse «un grandissimo apostolo del disordine e dell’anarchia».

I giornali dei due «arrabbiati» non sopravvissero a lungo alla denuncia della vedova Marat; e noi dobbiamo riconoscere l’abilità di Simona Evrard, che ci fa concepire come Marat fosse perfettamente compreso dalla sua amica più vicina e più fida.

La vedova Marat aveva ragione di negare ch’egli fosse stato «un apostolo del disordine e dell’anarchia»; ma erano molti coloro che incominciavano ora a comprendere come la controrivoluzione fosse giunta a un punto nel quale soltanto le più severe misure di terrore potevano vincerla; e costoro sentivano che la memoria di Marat li sosteneva.

L’inizio del Terrore sulla scia di Marat

La politica vagamente iniziata prima dell’uccisione di Marat fu accelerata dal nuovo movimento dei controrivoluzionari. Nel mese immediatamente successivo all’avvenimento, un numero straordinario di provvedimenti di repressione venne votato e applicato. Innanzi tutto fu stabilita la sorte dei Girondini. Il decreto d’accusa pronunciato contro di essi il 2 giugno 1793 non significava necessariamente la loro morte; ma ora che una grande maggioranza li supponeva implicati nel complotto contro il martire del popolo, la loro esecuzione capitale era inevitabile.

Carlotta Corday venne giudicata e ghigliottinata il 17 luglio. Fra il 14 e il 28 luglio otto deputati sospettati di avere aiutato lei e i Girondini furono messi in stato d’accusa. Secondo una mozione di Barère, il 28 luglio diciotto girondini vennero dichiarati fuori legge e undici deferiti al tribunale rivoluzionario.

Fra il 30 luglio e il 6 agosto il numero dei proscritti sali a cinquantacinque, per una serie di arresti ordinati dai comitati rivoluzionari; ma non prima del 29 ottobre ventidue girondini vennero processati e condannati alla ghigliottina; uno si uccise, gli altri andarono al patibolo il 30 ottobre.

In quello stesso periodo fu pure votata una serie di atti repressivi d’ordine generale. Si decretò che gli accaparratori di derrate alimentari e i profittatori sarebbero stati puniti con la morte, provvedimento che Marat aveva sempre sostenuto, preferendolo alla legge del «prezzo massimo».

Qualsiasi intralcio al funzionamento delle associazioni patriottiche diventò un delitto grave; i beni di tutte le persone fuori legge vennero confiscati; si ordinò che tutti gli stranieri non residenti in Francia prima del 14 luglio 1789 fossero arrestati; si proibì ai Francesi, pena la proscrizione, di collocare all’estero i loro capitali.

Il fatto di rifiutare un assegnato o di accettarlo soltanto previo uno sconto divenne passibile di vent’anni di prigione. Il 1° agosto le porte di Parigi furono chiuse, il giorno successivo si accerchiarono i teatri e centinaia di giovani vennero arrestati quali aristocratici. Tutto ciò accadde fra il 14 luglio e il 14 agosto 1793.

Sarebbe stoltezza asserire che questo inizio del regno del Terrore derivasse esclusivamente dall’assassinio di Marat; ciò equivarrebbe a perdere di vista i diversi altri fattori che produssero l’era di panico del 1793–1794, quali le sconfitte della Francia da parte della coalizione, i dissensi in seno alla Convenzione, il radicalismo delle sezioni e della Comune di Parigi, le guerre civili in provincia.

Ma certo l’uccisione di Marat fu una delle cause che vi contribuirono maggiormente: esasperò i sentimenti della Montagna e del popolo di Parigi, diede impulso ad un movimento che sarebbe avvenuto più lentamente e lo rese più feroce finché rimase fresca la memoria di quella morte.

Per esempio, non è privo di significato il fatto che una delle «colonne infernali» di Carrier, perfetto agente del regno del Terrore, fosse chiamata compagnia Marat, che gli individui dai quali era formata diventassero altrettanti Marat e che il principe giacobino Carlo d’Assia, pieno di zelo per la repressione nella Francia meridionale, si gloriasse dell’«onorevole titolo di generale Marat».

La reazione termidoriana

La prima breccia nel regno del Terrore si verificò il 27 luglio 1794 con la caduta di Robespierre, la quale segnò l’inizio della reazione termidoriana.

Dopo l’insurrezione di termidoro, la popolarità di Marat sussistette ancora forte per qualche tempo, poiché fu con grande sorpresa, e loro malgrado, che i capi dai quali era stato provocato lo sfacelo del partito di Robespierre si trovarono considerati dal popolo quali campioni della reazione contro il Terrore e del ritorno ad un governo normale.

Il 19 agosto Louchet, in un lungo discorso alla Convenzione, perorò per la continuazione di «quell’inflessibile severità alla quale l’assennato e profondo Marat non smetteva di richiamarci».

Il 21 settembre 1794 (ultimo giorno del nuovo calendario rivoluzionario) a Marat furono tributati gli onori del Pantheon, tempio nazionale della gloria. Tale cerimonia era stata decisa da tempo: fin dal novembre 1793, fra manifestazioni di grande entusiasmo, la Convenzione aveva votato l’assunzione al Pantheon dell’Amico del Popolo; alcuni giorni dopo un comitato, del quale fu portavoce il poeta Chénier, presentò una relazione nella quale era detto che Mirabeau, primo rivoluzionario inumato nel Pantheon, era indegno di tale distinzione e che si doveva sostituirgli Marat.

Infine, il 19 settembre 1794 venne deciso un progetto per la celebrazione del trasferimento al Pantheon dell’Amico del Popolo: nessuna canonizzazione cattolica sarebbe mai stata piò solenne, né altrettanto magnifica. I particolari anche minimi riguardanti i costumi che si dovevano indossare, gli inni che si dovevano cantare e il percorso che il corteo doveva seguire furono regolati da una legge nazionale.

Dopo Mirabeau, Marat era il primo uomo di Stato della rivoluzione onorato in tal modo. La salma di Mirabeau venne esumata e poi sepolta in un cimitero vicino, mentre quella di Marat entrava nel tempio, poiché si sarebbe commesso un sacrilegio se i resti del defunto martire fossero stati messi accanto all’uomo venale che quegli aveva tante volte denunciato. Forse qualche testimonio ironico rammentò allora il grido di gioia con il quale Marat aveva pubblicato la notizia della morte di Mirabeau.

La caduta in digrazia

Tuttavia Marat cadde in disgrazia pochissimo tempo dopo il crollo del partito al quale era stato affiliato, e di ciò fu causa principale l’influenza da lui esercitata sui terroristi. Ma il fatto che fosse stato avversato anche quale realista fu un significativo commento dei principi conservatori da lui professati in gioventù.

Frammenti del Progetto di costituzione, di tendenze nettamente monarchiche, vennero ristampati e diffusi. L’ex-amico e discepolo Fréron, divenuto capo della gioventù moderata (la jeunesse dorée), s’affaccendava ora a distruggere i busti di Marat dovunque ne trovasse; il 21 gennaio 1795 l’effigie del «martire» venne bruciata nel cortile del Club dei Giacobini e le ceneri ne vennero gettate nella fognatura di Montmartre, il che diede origine alla credenza popolare che la salma avesse subito la stessa sorte. Forse ciò avvenne soltanto del cuore, tolto dal reliquiario.

Infine l’8 febbraio la Convenzione decretò che per avere gli onori del Pantheon un cittadino dovesse essere morto da almeno dieci anni. Quindi i resti di Marat vennero tolti dal loro secondo luogo di riposo, esattamente come quelli di Mirabeau sei mesi prima, e traslati nel vicino cimitero dei chierici di Santa Genoveffa.

La reputazione storica

La reputazione di mostro sanguinario andò crescendo rapidamente per Marat; pochissimi dei contemporanei favorevolmente disposti verso di lui scrissero le loro memorie, mentre Brissot, Madame Roland, La Fayette, Louvet, Meillan, Barbaroux, Buzot, Pétion, Barère e altri suoi nemici ne lasciarono molte e voluminose. Il ritratto di lui che prevalse fu dunque quello lasciato da questi nemici.

Gli storici popolari della rivoluzione, i paladini della classe media — quali Lamartine, Michelet, Thiers, Taine e Carlyle — hanno contribuito molto a perpetuare quell’immagine.

Solo più recentemente i biografi si sono accontentati di assegnare a Marat attributi semplicemente umani e non diabolici, sebbene alcuni si siano quasi fuorviati nell’altra direzione. Villiaumé ed Esquiros cominciarono uno studio più simpatizzante, continuato poi da Chevremont, Bougeart, Bax, Aulard, Stephens, Kropotkin, Jaurès e Mathiez, alcuni dei quali sono da annoverare fra gli storici meglio informati sulla rivoluzione francese. Essi hanno variato parecchio nelle loro interpretazioni di Marat, ora glorificandolo come il maggior personaggio della rivoluzione, ora perdonandogli il cieco fanatismo; ma in nessun caso hanno adottato il troppo facile procedimento diffamatorio, con l’accusare l’Amico del Popolo di follia o di ambizione megalomane.

Nonostante il classico ritratto di Marat, rappresentato come un orco vomitato dall’inferno, in tutti i moti rivoluzionari secolo XIX se ne vide risorgere l’influenza. Forse non senza conoscere bene il giornale di Marat i fondatori del più ardente dei Clubs repubblicani della rivoluzione del 1830 diedero alla loro società il nome di Amici del popolo.

La fortuna politica

Nel 1833 un repubblicano di nome Havard, deluso dai risultati della rivoluzione del 1830, pubblicò un’edizione delle Catene della schiavitù, libro da lui considerato come la miglior difesa contro il despotismo monarchico. Heine attesta la popolarità dei più sanguinari discorsi di Marat presso gli operai di Parigi prima dei torbidi del 1848.

Nel 1846 Constant Hilbey, editore radicale, fece affiggere nelle vie di Parigi manifesti annunciami che le opere di Marat, ripubblicate, si trovavano in tutte le librerie e per questo venne arrestato e condannato a quindici giorni di prigione e ad un’ammenda di cento franchi.

Durante la rivoluzione del 1848 fu organizzato a Parigi un Club di Amici del popolo della rivoluzione; e in Inghilterra uno dei capi del movimento «Cartista», Georges Julian Harvey, considerava Marat come proprio ideale e spesso aggiungeva alla sua firma la qualifica di Amico del Popolo.

Durante il periodo che precedette la rivoluzione del 1870 Bougeart, uno dei migliori biografi di Marat, fu condannato per il suo libro a quattro mesi di prigione; e Vermorel, che nel 1869 aveva pubblicato una scelta di brani delle opere di Marat per confutare una dichiarazione di Gambetta secondo la quale Marat doveva essere considerato un demagogo, morì su una barricata in una strada di Parigi nei giorni della Comune del 1871.

Nell’epoca moderna, fra coloro che hanno studiato l’opera di Marat imparzialmente o favorevolmente, sono da citare i radicali Kropotkin, Jaurès e Bax; e nella Russia sovietica una quinta edizione d’un volumetto nel quale la vita di Marat è presentata da Stefanov in luce molto favorevole è stata pubblicata dalla tipografia nazionale di Mosca.

Insomma, nessun grande movimento rivoluzionario in Europa, dal tempo di Babeuf (che riconosceva francamente il suo debito verso Marat) fino a quello di Lenin e di Trotski, è trascorso senza l’influenza dell’Amico del Popolo, cosi autonominatosi.

Conclusione

La carriera di Marat, figlio d’un professore di lingue; medico presso le guardie del Corpo del conte d’Artois; Amico del Popolo e nèmesi dei Girondini. Essa presenta molti curiosi contrasti: medico, dedicò parecchi anni alla scienza pura senza ricavarne alcuna rimunerazione, poi vendette droghe brevettate; conservatore postulante un titolo di nobiltà, predicò che un buon re è la miglior creazione d’una Provvidenza amica e domandò una giusta distribuzione della proprietà; radicale protestante contro gli Ordini privilegiati e le aristocrazie dirigenti, preconizzò una dittatura; demagogo reclamante a gran voce centinaia e migliaia di teste, fece tutto il possibile per salvare tre girondini proscritti; e, accanito e spietato persecutore dei nemici della rivoluzione, ebbe la morte dalle mani di una donna riuscita ad introdursi in casa sua facendosi credere sventurata.

Gli mancò l’essenza della vera grandezza, la quale consiste nella facoltà di foggiare gli eventi a modo proprio; fu, invece, volta a volta, foggiato dagli eventi. Alcuni nascono radicali; a Marat il radicalismo fu imposto. Soltanto la forza di circostanze indipendenti dalla sua volontà fece di lui, servitore compiacente e ben pagato della nobiltà, un capo del movimento popolare del suo tempo. Non si trattava di un’agitazione ch’egli avesse creata, ma di un movimento alla testa del quale si era posto allorché era diventato potente.

In mezzo alle sue violente offensive e alle sue in

fiammate denunce conservò sempre, del suo vecchio istinto conservatore, quanto gliene bastò per rimanere fedele alla monarchia finché questa non ebbe perduto ogni sostegno; e per diffidare di tutte le iniziative popolari, a meno che non avessero capi tali da mantenersi al disopra della plebe.

Aveva la nozione della forza del popolo e desiderava che esso la impiegasse a proprio vantaggio, ma il popolo non gli ispirava nessuna fiducia. Non era un democratico; gli piacevano gli uomini comuni, ma non li rispettava. Aveva dato il tono di tutto il suo credo rivoluzionario con l’appello per la concentrazione del potere nei Clubs, per un tribunale, per un comitato, per un dittatore. Voleva procurare il benessere al popolo con l’aiuto altrui; voleva giungere ad uno scopo radicale con mezzi conservatori. Ma il popolo del suo tempo ebbe fiducia in lui e lo segui, incapace di criticare il programma ch’egli predicava.

L’attenzione del popolo era interamente assorbita dalla personalità appassionata, vulcanica, melodrammatica del personaggio. E questa è la ragione per la quale da allora i rivoluzionari hanno considerato Marat come un apostolo e un martire della libertà, senza condividere la sua diffidenza nei riguardi del popolo, senza adottare la sua politica, poco democratica, di concentrazione del potere nelle mani d’un solo uomo oppure, alla peggio, di pochi uomini.

Ma, lo si giudichi con benevolenza o con ostilità, bisogna riconoscere che ebbe importanza soltanto la devozione di lui alla causa della rivoluzione; le teorie che in politica andò mutando spesso non ne ebbero affatto. Marat, facendo astrazione dalla sua abnegazione

e dallo scopo al quale la dedicò, può anche sembrare il pazzo omicida che fu talvolta descritto; ma giova rammentare che l’atmosfera esplosiva delle rivoluzioni tende generalmente a produrre qualche anima machiavellica la cui intrattabile sincerità, qualunque ne sia l’origine nota od ignota, non ammette l’esistenza di nessun ostacolo legittimo sulla strada del successo della causa che difende.

da Louis R. Gottschalk, Marat, Milano, dall’Oglio editore, 1957, pp. 225–258

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Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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