Marat socialista?
La politica sociale e agraria di Marat
di Jean Jaurès
Speciale Marat
Introduzione. Marat, l’Amico del Popolo
1. Protagonisti della rivoluzione francese di François Furet e Denis Rochet
2. La morte di Marat e Carlotta Corday di Jules Michelet
3. La bella e lo squallido di Thomas Carlyle
4. L’influenza di Marat di Louis R. Gottschalk
5. Marat socialista? di Jean Jaurès
6. Marat dietro le quinte di Victor Hugo
7. Testi di Marat: Dispotismo e libertà | I diritti civili✎ “Think | Tank”. Il saggio del mese [settembre 2022]
1. La politica sociale di Marat
Il ruolo del proletariato nella rivoluzione
Riguardo agli operai, Marat tenta invano durante tutto l’anno 1791 di dar loro una coscienza di classe politica e sociale un po’ precisa. Non ci riesce, e si dispera. Un gran lavoro, tuttavia, si compie nel proletariato, e le questioni più gravi, quelle che saranno fra la borghesia e la classe operaia un campo terribilmente calpestato, cominciano ad apparire. In fondo, Marat concepiva il proletariato soprattutto come una potenza politica, come una forza necessaria alla rivoluzione.
Egli la vedeva minacciata da ogni parte ed era convinto che il re la tradiva. Sapeva che la borghesia, temendo nuove agitazioni, era tutta portata a credere alla lealtà del re: ed egli aveva fiducia solo nei proletari. A dire il vero, non li sollevava in vista d’una nuova rivoluzione, d’una rivoluzione di proprietà. Li incitava soprattutto alla difesa ‘della rivoluzione, convinto del resto che, in una forma o in un’altra, essi avrebbero saputo trarre vantaggio dalla rivoluzione salvata da loro e da loro soltanto.
In questo senso fa appello agli operai, ai poveri. Egli avrebbe voluto che essi formassero una federazione popolare, invece di lasciarsi assorbire il 14 luglio 1790 nella federazione delle guardie nazionali borghesi.
Nel suo giornale del 10 aprile 1791 scrive:
«Invece della federazione che vi avevo proposto, fra i soli amici della libertà, per prestarvi reciprocamente soccorso, piombare sui nemici della rivoluzione, giustiziare i cospiratori, punire i funzionari ribelli che prevaricano e schiacciare i vostri oppressori, voi avete tranquillamente tollerato che i vostri delegati vi sostituissero e snaturassero quella associazione fraterna viziandone il principio, e la facessero volgere contro di voi mutandola in una associazione militare nella quale introducevano le numerose legioni dei vostri nemici».
Cosi, nel momento stesso in cui i cittadini parlano di federazione universale e di fusione, Marat vuole che il popolo formi un movimento separato, come una nazione distinta…
L’8 maggio 1791, egli dà al suo pensiero una formula assai netta:
«Bisognerà dunque ripeterlo continuamente: non aspettatevi niente dalla buona volontà dei funzionari pubblici (eletti dai cittadini attivi): essi saranno sempre agenti del dispotismo, tanto più pericolosi in quanto sono in grande numero. Non aspettatevi niente anche dagli uomini ricchi e opulenti, dagli uomini cresciuti nella mollezza e nei piaceri, dagli uomini avidi che non amano che l’oro: non è con dei vecchi schiavi che si fanno i liberi cittadini. Soltanto gli agricoltori, i piccoli mercanti, gli artigiani e gli operai, i braccianti e i proletari, come li chiama l’insolente ricchezza, potranno formare un popolo libero, intollerante del giogo dell’oppressione e sempre pronto a infrangerlo. Ma questo popolo non è istruito. Nulla è più difficile che istruirlo: la cosa è anzi impossibile oggi, quando mille penne scellerate non lavorano che per sviarlo e rimettergli le catene».
I limiti della visione di Marat
Cosi Marat sogna di opporre ai Parlamenti, agli aristocratici che combattono la rivoluzione, o ai ricchi borghesi che secondo lui la compromettono e la tradiscono, una classe popolare formata dal proletariato e dalla piccola borghesia. O anche sembra concepire un popolo che comprenda soltanto questi elementi. Come sono confuse queste idee, dal punto di vista sociale! Infatti, se Marat elimina i capi delle grandi manifatture, i grandi mercanti e i capi del credito, da chi verranno esercitate le loro funzioni economiche? Se fosse stato comunista, Marat avrebbe risposto che esse sarebbero state esercitate dalla comunità.
Ma Marat non era comunista: egli non aveva nemmeno un’idea del comunismo. Vuole egli retrocedere fino alla produzione parcellare, fino alla piccola industria, allo scambio limitato e locale?
È il suo orientamento: ma egli non osa dirlo chiaramente. Cosi non ha da offrire al popolo cui fa appello un terreno economico solido, una concezione stabile. Egli Io invita soltanto a un’opera politica: ed è curioso il contrasto fra l’acutezza dell’istinto di classe di Marat e l’impotenza in cui si dibatte.
Cosi, commisurato a Marat, come apparirà geniale e grande Babeuf! Eppure c’era qui un primo embrione di coscienza proletaria.
Del resto, Marat riconosce che è in mancanza della borghesia agiata, più naturalmente destinata a questo ruolo, che la classe popolare viene da lui chiamata a salvare la rivoluzione. Egli scrive il 25 agosto 1791:
«La toga, la mitria e la finanza avrebbero dovuto capire che, essendo l’opinione pubblica sollevata contro di loro ed essendo la loro distruzione negli intendimenti del governo, esse non avevano nulla di meglio da fare che schierarsi per il popolo contro la corte; ma invece di prendere questa posizione, che la saggezza e i loro stessi interessi rendevano una legge imperiosa, hanno ascoltato solo la voce del risentimento, dell’ambizione, della cupidigia, e si trovano ora coinvolte nella disgrazia comune; perché, qualsiasi orientamento prendano gli affari pubblici, se la fazione monarchica ha il sopravvento, mai i parlamenti, i prelati e i finanzieri torneranno a galla, mentre essi sarebbero stati alla testa del nuovo governo, se la causa della libertà avesse trionfato e se essi l’avessero abbracciata in buona fede».
La funzione di supporto alla borghesia del proletariato
Cosi, nei suoi ondeggianti pensieri, Marat, ben lontano dal concepire l’avvento della classe popolare come l’effetto naturale della rivoluzione, constata al contrario che spettava solo alla borghesia di toga e di finanza, assistita da un clero sinceramente costituzionale, di prendere la direzione della società rivoluzionaria. Si direbbe ch’egli chiama i proletari alla riscossa solo per la disperazione di vedere il normale schema della rivoluzione turbato dall’imbecillità della borghesia moderata più ancora che dal suo egoismo.
Egli ha tuttavia il preciso sentimento che, chiamando in tal modo il proletariato a svolgere nella lotta contro la corte il ruolo disertato, secondo lui, dalla borghesia, deve offrire alla classe popolare dei vantaggi immediati: e nello spirito di Marat c’è uno sforzo di politica sociale. Ma come sono vane, e talvolta reazionarie, le concezioni di Marat! Non senza interesse, tuttavia, perché esse sono un primo tentativo impotente e confuso di politica operaia.
Marat, durante l’anno 1791, propone a beneficio dei lavoratori quattro riforme principali:
1) Una riorganizzazione dell’apprendistato e un sistema di sovvenzioni agli operai più intelligenti affinché essi possano divenire maestri;
2) La liquidazione dei cantieri pubblici e la loro sostituzione con grandi imprese private che occupino gli operai in condizioni più normali;
3) La formazione di cooperative operaie di produzione a carattere vitalizio;
4) La riunione dei piccoli lotti agricoli in unità economiche omogenee, e, al tempo stesso, la divisione delle grandi proprietà in piccole proprietà.
Quando l’Assemblea, nel marzo 1791, abolì le cariche giurate e i padronati e proclamò la libertà assoluta del lavoro con la condizione dell’imposta delle patenti, Marat non vide che la soppressione completa del sistema corporativo, già fortemente intaccato, avrebbe dato uno slancio nuovo alla produzione capitalistica e borghese e alla grande manifattura. Non vide che questo era, nel campo economico, un periodo necessario, e si sforzò, con uno spirito piuttosto retrogrado, di mantenere del regime corporativo tutto ciò che poteva ancora essere salvato.
In difesa del regime corporativo
Il 16 maggio scrive:
«Quando ogni operaio può lavorare per proprio conto, non vuol più lavorare per conto degli altri; perciò, non più ateliers, non più manifatture, non più commercio.
Il primo effetto di questi decreti insensati è di impoverire lo Stato, facendo crollare le manifatture e il commercio; il secondo effetto è di rovinare i consumatori con spese senza fine e di perdere le arti stesse. In ogni Stato che non ha per movente la gloria, se dal desiderio di far fortuna si toglie il desiderio di stabilire la propria reputazione, addio buona fede; presto ogni professione, ogni traffico degenera in intrigo e furfanteria. Poiché non si tratta più allora che di piazzare i propri prodotti e le proprie merci, basta dar loro una certa apparenza attraente e tenerli a basso prezzo, senza occuparsi della solidità e della accuratezza; tutti i prodotti dell’arte degenereranno dunque rapidamente in abborracciature. E poiché non avranno allora né qualità, né solidità, rovineranno il povero consumatore costretto a servirsene e indurranno il consumatore in grado di farlo a provvedersi all’estero. Osservate lo sviluppo senza limiti dell’avidità di guadagno che tormenta tutte le classi del popolo nelle grandi città, e vi convincerete di queste tristi verità.
Una volta che ciascuno potrà metter su un mestiere per proprio conto senza essere sottoposto a prove di capacità, da quel momento non ci sarà più apprendistato. Appena un apprendista saprà abbozzare qualche lavoro, cercherà di far valere il proprio mestiere, non penserà più che a sistemarsi o a piaggiare per trovar pratiche e clienti.
Poiché non sarà più questione di fare buoni lavori per formare la propria reputazione e la propria fortuna, ma di attirare con l’apparenza, i lavori saranno tutti tirati via e malcurati. Screditato in un quartiere, l’operaio andrà in un altro; e spesso finirà la sua carriera prima di aver percorso tutti i quartieri di una grande città senza aver fatto altro che truffare i compratori e ingannare se stesso. È soprattutto nelle capitali che questo deperimento delle arti utili, questo annientamento della buona fede, questa vita vagabonda e intrigante degli operai, l’indigenza unita a tutti i mestieri e la miseria pubblica che porta con sé la rovina del commercio, si faranno sentire. Io non so se m’inganno, ma non sarei stupito se entro vent’anni non si trovasse un solo operaio a Parigi che sapesse fare un solo cappello o un paio di scarpe.
La rovina dei mestieri sarà tanto più rapida quanto più ognuno avrà la libertà di cumulare i mestieri e le professioni. E non si dica che l’emulazione, compagna della libertà, li farà fiorire; l’esperienza ci ha anche troppo provato il contrario. Guardate i quartieri franchi di Parigi: gli operai che non cercavano altro che di attirare i clienti col basso prezzo non facevano un lavoro accurato. Che avverrà quando questo sistema sarà quello di tutti gli operai, quando i padroni non riusciranno più a sostenere la concorrenza e quando l’emulazione del buon lavoro non avrà più alimento?
Solo le belle arti e le arti di lusso debbono avere carta bianca, perché, potendo tutti fare a meno dei loro prodotti, solo il piacere ch’essi danno può impegnare a procurarseli… Riguardo alle arti utili e di prima necessità, l’artigiano deve essere tenuto a dar prova di capacità perché, dato che nessuno può fare a meno dei suoi prodotti buoni o cattivi, l’ordine della società esige che il legislatore prenda delle misure per prevenire la frode, la depravazione dei costumi e i mali che ne sono sempre la conseguenza…
Invece di tutto sconvolgere, come ha fatto l’ignaro Comitato di Costituzione, bisognava consultare gli specialisti sulle cose che non sono alla sua portata, per occuparsi unicamente di correggere gli abusi.
Ora basta abolire ogni giurisdizione delle cariche giurate, ogni onere di padronato, e ogni diritto di sequestro, lasciando ad ogni padrone riconosciuto il diritto di denunciare ai tribunali gli operai che contravvengono. Per far fiorire le arti, bisognava sottomettere gli allievi a un apprendistato rigoroso di sei o sette anni. Per non tenere tutta la vita nell’indigenza gli operai, bisognava stabilire un prezzo onesto per il loro lavoro e costringerli ad una buona condotta, dando al termine di tre anni i mezzi per mettersi in proprio a tutti quelli che si fossero segnalati per la loro abilità e saggezza, con la sola riserva che colui che non prendesse moglie il primo anno di padronato, sarebbe tenuto entro dieci anni a versare alla cassa pubblica gli anticipi che gli fossero stati fatti.
Ricompensare il talento e la buona condotta è il solo mezzo per far fiorire la società. È un fatto naturale che gli ignoranti siano guidati dagli uomini istruiti, e gli uomini disonesti dagli onesti; gli operai senza talento e senza buona condotta non dovrebbero mai diventare padroni. Non si rimedia alla mancanza di attitudine, ma si correggono gli errori; ora, è nella regola che gli errori di condotta siano puniti; basterà per la loro punizione che ogni ricaduta ritardi di sei mesi l’anticipo gratuito dei mezzi d’impianto».Una visione arretrata
Strano miscuglio di idee, dove la tendenza reazionaria domina. Da un lato Marat si preoccupa degli operai perché vuole assicurare a tutti loro un minimo di salario, quel ch’egli chiama il giusto salario, e perché vuole, con l’aiuto dello Stato permettere a tutti quelli che avranno dato prova di abilità e moralità di mettersi in proprio.
D’altra parte, egli li mette sotto tutela, non permette loro di mettersi in proprio quando vogliono e li sottomette a una specie di censura morale che giunge quasi fino all’istituzione del matrimonio obbligatorio. Ma, soprattutto, quale straordinario disconoscimento del movimento economico che si andava accelerando da mezzo secolo Certo, Marat intravede le dannose conseguenze della concorrenza illimitata, e le esagera singolarmente; perché è falso che il nuovo sistema di produzione abbia abolito l’abilità tecnica degli operai: esso l’ha semplicemente trasformata.
Marat non sembra del resto sospettare la rivoluzione di benessere che sarà causata dalla produzione intensa di oggetti a buon mercato. Ma egli commette il più straordinario errore quando ritiene che l’abolizione delle cariche giurate e dei padronati eliminerà le manifatture, e crede che basterà agli operai, per mettersi per proprio conto, di averne il diritto.
Egli non sospetta quel che tuttavia Adam Smith aveva già dimostrato, quel che d’altronde ogni giorno il sistema in sviluppo delle manifatture dimostrava, che la divisione del lavoro nei grandi opifici era una condizione per i bassi prezzi, e che da allora la ricerca del basso prezzo sarebbe stata favorevole alla grande industria. Concepire l’abolizione degli ostacoli corporativi, che stava per dare un grande slancio al capitalismo industriale, come il frazionamento indefinito dell’industria e come la liquidazione del salariato, è uno dei più notevoli controsensi storici. E mai “il profeta” sbagliò più crudelmente. Ma come avrebbe potuto avere consistenza la politica operaia e proletaria di Marat, dal momento che egli stesso non presentiva il prossimo sviluppo del proletariato?
Ben lontano dal prevedere che il regime della concorrenza illimitata trasformerà molti piccoli padroni, molti piccoli produttori indipendenti in proletari, egli s’immagina (e con terrore) che tutti i proletari stiano per trasformarsi in maestri, in padroni.
L’ossessione dei complotti
A Marat piacevano poco i cantieri pubblici dove la municipalità impiegava gli operai senza lavoro. Poiché detestava la municipalità, che nominava i capi e i sorveglianti dei lavori, tutto il sistema gli era sospetto. Inoltre pretendeva che gli operai cosi indrappellati, reclutati in tutte le regioni di Francia, senza legame tra loro e senza coscienza pubblica, fossero degli strumenti nelle mani degli intriganti della corte. E
gli crede anche di aver scoperto, il 7 aprile 1791, un grande complotto del club monarchico che avrebbe avuto per agenti d’esecuzione gli operai dei cantieri pubblici.
«La loro ultima trama, che è stata or ora smascherata, consisteva nell’eccitare il popolo contro il popolo e nel far sgozzare gli amici della libertà dalle mani stesse dei poveri ch’essi nutrono. Questo orribile complotto era stato preparato da tempo.
Da molto tempo i ministri e i loro agenti nelle province avevano attirato nella capitale una folla d’indigenti, gli scarti dell’esercito e la feccia di tutte le città del regno. Bailly aveva riempito di essi i cantieri, dai quali aveva respinto i cittadini che la rivoluzione aveva ridotto alla miseria, e che essa lasciava senza pane: egli aveva affidato l’amministrazione di questi cantieri a municipali come lui venduti alla corte, e la direzione dei lavori ad agenti della vecchia polizia, incaricati di cattivarsi tutti gli operai e di rinviare quelli sui quali non si poteva contare.
Una folla di spie, sparse fra loro, non la finiva di elogiare il re, la regina, Bailly, Mottié (Lafàyette) e i principali cospiratori; essi presentavano ogni amico della libertà come un ribelle, e notavano quelli che non si lasciavano fuorviare. Per meglio catechizzarli, una moltitudine di guardie del corpo non si vergognava di mettersi a capo dei cantieri e dei gruppi di operai in qualità di assistenti; mentre una folla di altra gente sempre in cerca di uomini abili e decisi li attirava nel complotto, consegnando loro grosse somme per fare nuove reclute».
Questo malumore di Marat contro i cantieri pubblici di Parigi dimostra che in quel periodo la sua violenta campagna contro l’Assemblea nazionale che egli accusava di patteggiare con la corte, non aveva successo. La classe operaia, turbata a volte dalla paura dei complotti controrivoluzionari che Marat denunciava incessantemente, commossa anche dalle grida di pietà sincera che la sua miseria strappava, era ancora ben lontana dal seguirlo. Essa marciava chiaramente insieme con le autorità costituzionali e Marat esasperato maltrattava gli operai, li accusava di essere o gli zimbelli o gli agenti della controrivoluzione.
Questo articolo del 7 aprile provocò fra gli operai dei cantieri una viva emozione: emozione che si espresse in una lettera (forse redatta in parte da Marat stesso) pubblicata il 10 aprile.
«All’amico del popolo…
Quanto ingiustamente voi avete parlato degli sventurati condannati dalla rovina del commercio e dei mestieri a lavorare nei cantieri di soccorso! No, la maggior parte non sono degli scellerati, sono dei buoni, onesti cittadini. La loro indigenza è colpa della sorte, non loro, è la conseguenza della sventura dei tempi, delle follie del governo, delle dilapidazioni della corte, delle malversazioni degli agenti del fisco, e, più che tutto ciò, della corruzione e della venalità dei padri coscritti (i deputati) che hanno limitato le loro Cure paterne a impadronirsi dei beni dei poveri per pagare falsi creditori dello Stato… Nel vostro numero 422, certo stampato con troppa fretta, come tutta la produzione che non si ha il tempo di rivedere a mente riposata, voi sembrate dimenticare che siete l’amico, l’avvocato, il difensore, il beneamato del popolo. on vi dirò che gli sventurati hanno diritto all’indulgenza, ma vi osserverò che voi avreste dovuto rendere più giustizia a una classe di uomini cui la sventura ha messo a nudo l’animo e che possono onorarsi del loro avvilimento, perché la miseria non li ha trascinati nemmeno per un istante fuori del sentiero cosi stretto della virtù… La massa degli operai è onesta, molto onesta, ad onta dei vergognosi sforzi che i perfidi agenti della municipalità o piuttosto del Gabinetto delle Tuileries hanno compiuto per corromperli.
I lavoratori più istruiti hanno esercitato dapprima in questa piccola repubblica le funzioni di giudici di pace; essi reprimevano coloro che cadevano in fallo, e cacciavano senza remissione i furfanti e i cattivi patrioti. Questa salutare giustizia dispiacque ai capi, e il timore di perdere il povero pezzo di pane ch’essi trovavano in questo asilo costrinse i magistrati popolari a rinunciare alle loro funzioni. Si, certamente, ci sono nei cantieri di soccorso dei traditori e dei cospiratori venduti ai nemici della patria; ma si tratta delle spie e dei briganti messi da Bailly, si tratta degli amministratori e dei municipali che fanno dei bei regolamenti per rinviare i buoni cittadini a favore dei quali sono stati istituiti questi cantieri, e per sostituirli con ex guardie del corpo, ex gentiluomini, ex avvocati, ex ladri, in una parola con spie e sicari stipendiati. Ecco, amico nostro, quali sono gli esseri infami che l’amministrazione, in dispregio dei decreti, in dispregio dei suoi stessi regolamenti, mette per attirare, sedurre e corrompere i buoni cittadini.
Parecchi comitati di sezione diffondono lo spirito di sedizione togliendo ai francesi la sola risorsa che è rimasta loro nella disperazione, per farla dividere dagli stranieri.
Ecco i nomi di alcune spie rimpinzate d’oro e colmate di riguardi, di carezze, di onori dall’amministrazione, certo nella speranza che esse riusciranno finalmente ad attuare i loro eterni complotti; il controllore dei lavori pubblici di Montmartre, cavaliere di Saint-Louis ed ex spia, i nominati de Jaittan, Le Roi, Viel, Desjardin, Thomas, Tintrelin, Valière, Imbrant, spie in capo, sotto il nome di verificatori, con 1800 lire di stipendio, senza parlare delle gratifiche per segnalare e rinviare gli operai patrioti e sostituirli con furfanti. Questo titolo di verificatore non è che una parola, come voi capite bene, per mascherare le odiose funzioni di queste canaglie e succhiare il sangue dei poveri, perché i commissari delle sezioni compiono gratuitamente l’ufficio di verificatori.
Fra qualche giorno vi farò avere l’elenco delle spie, dei sorveglianti e dei capi cantiere, tutti devoti all’amministrazione traditrice».
E Marat, metà contrariato e metà lusingato, rispondeva:
«Se vi foste data la pena di leggere con attenzione il mio foglio, avreste visto che gli epiteti di cui vi lagnate non cadono che sulle spie, sui sicari e briganti che Mottié ha fatto venire dalla provincia a Parigi, e che Bailly ha messo nei cantieri a danno degli onesti cittadini. Come avete potuto immaginare che io insultassi quegli sventurati, io che mi son fatto maledire prendendo la loro difesa e perorando la loro causa? Io non ho mai pensato che gli operai che sono nei cantieri di soccorso si fossero lasciati tutti conquistare, ma ho deplorato che ci fossero fra loro tanti furfanti assoldati dall’amministrazione traditrice per sgozzare i patrioti quando sarà venuto il momento. È precisamente quel che dite voi stessi. Siamo dunque d’accordo. Permettetemi di pregarvi di togliere dall’errore i vostri compagni che si siano ingannati come voi, leggendo il mio giornale, e di domandarvi l’elenco di tutti gli spioni che si trovano a capo dei cantieri…».
Il tentativo di arruolare gli operai contro la monarchia
Attraverso tutta questa catena di malintesi e di riconciliazioni, è evidente che la grande maggioranza degli operai dei cantieri resisteva, in quel periodo, agli incitamenti di Marat. E’ evidente anche che Marat sperava di trascinarli sollevandoli contro i sorveglianti, contro i capi. Ma non è contro la borghesia come classe, non è contro la proprietà borghese che Marat voleva arruolarli: è soltanto contro la corte e contro l’amministrazione municipale ch’egli odia e che accusa di tradimento. Tentativo timido e necessariamente ancora contraddittorio di politica di classe.
Ma ci sono sempre dei trafficanti per sfruttare tutte le passioni, tutte le idee dei partiti. Ce n’erano molti a Parigi, in quel momento; lo sconvolgimento del vecchio sistema feudale, l’immensa espropriazione della proprietà clericale cittadina davano un grande slancio agli spiriti avventurosi, ai cercatori di fortuna.
Molti dissero che Marat, poiché odiava a tal punto la municipalità parigina, poiché temeva a tal punto i cantieri di soccorso che essa aveva nelle mani, sarebbe stato favorevole a grandi imprese private che avrebbero potuto occupare gli operai e sottrarli all’azione municipale. Eccoli dunque a tentar di prendere Marat come padrino e protettore dei loro progetti; e Marat, che l’odio contro Bailly e contro gli accademici dell’Hotel de Ville rendeva ingenuo, cade candidamente nella trappola.
Egli pubblica compiacentemente nel suo numero del 27 maggio 1791 una lunga lettera di un astuto capitalista:
«All’amico del popolo.
Siate convinto, nostro caro amico, che quasi tutti gli operai occupati nei lavori pubblici sono patrioti quanto i loro capi sono aristocratici. Costoro, io ve li do tutti per bricconi matricolati che rubano impunemente sotto gli occhi del pubblico. Fra gli altri c’è un certo Mulard, ubriacone di professione, un tempo rigattiere alla porta Sant’Antonio, testé fallito, oggi servo in abito blu, spia, scherano del signor Mottié, e capo dei servizi pubblici».
E quando Marat è stato cosi ben adescato da questo attacco in piena regola contro un agente della municipalità, quando l’esca è ben piantata con tutta una serie di accuse dirette contro una decina di “spie”, il furbo affarista passa a Marat un piano filantropico e capitalista per il canale di Parigi, progettato dal signor Brulé. E l’amico del popolo, decisamente conquistato, aggiunge:
«Io terminerò queste osservazioni sulle malversazioni dei nostri municipali con le sagge riflessioni del signor Bacon, elettore del dipartimento di Parigi: ‘Non è una cosa affliggente che, in un secolo di lumi e nella capitale dei francesi, ci siano tante sventure da un lato e tanti mezzi dall’altro senza che si sia trovata una mano abbastanza abile nella sua beneficenza per mettere il lavoro a fianco dei bisogni, e per eliminare i mali avvicinando i mezzi? Che cosa si dirà anche vedendo che i cantieri e i lavori di soccorso sono organizzati in modo da corrompere gli operai e coloro che li sorvegliano, e che non deve restare per il pubblico il minimo risultato, di questi lavori? In queste istituzioni di soccorso si agisce come se bisognasse soltanto diminuire la miseria e il brigantaggio, senza pensare a trarre il minimo frutto da tante braccia. Si crede di aver fatto abbastanza quando molti uomini passano il loro tempo infruttuosamente in lavori di sterro e di sbancamento; si direbbe anche che la botte delle Danaidi sarebbe oggi di splendido aiuto, perché non si desidera che gli operai siano utili, ma soltanto che non siano dannosi».
L’appoggio a una astuta proposta imprenditoriale
La preparazione è abile, come si vede, e non manca anche un ricordo delle favole antiche. Attenzione ora; ecco l’entrata in scena del capitalista:
«Pertanto, accanto a questa politica confusa, che assorbe e consuma somme enormi e che impiega cosi infruttuosamente tanti operai che ricevono il loro salario senza profitto per il presente e per l’avvenire, un cittadino si presenta e dice: delle 25 o 30 mila lire che voi distribuite giornalmente nei vostri cantieri di assistenza, datemene la metà e incaricatemi di tutti i vostri operai indigenti; non soltanto io impedirò all’avidità degli ispettori e alla pigrizia dei mercenari di unirsi per ingannare i vostri intendimenti, ma dirigerò tutte queste braccia verso un oggetto d’utilità pubblica; e vi resterà un momento eterno, che, nel periodo della sua costruzione, occuperà i nostri poveri e che, nei secoli avvenire, accrescerà la nostra potenza. Ecco infatti lo scopo e i vantaggi incontestabili del canale di Parigi, tracciato dal signor Brulé, e sanzionato da un decreto dell’Assemblea nazionale. La compagnia che si è costituita ammette e il governo e tutti gli azionisti nel suo seno, per le azioni che essa propone.
Io penso che la città (è sempre Bacon citato da Marat) non può, senza peccare contro noi e i nostri figli, dispensarsi dall’impiegare almeno da dodici a quindicimila lire al giorno in azioni sul canale, e dall’affrettare cosi questa grande e utile iniziativa. Ne risulterà che queste spese si volgeranno a vantaggio della cosa pubblica e che la città, divenuta proprietaria d’una grande quantità di azioni, parteciperà ai vantaggi connessi con l’esistenza del canale; pur facendo del bene essa non prodigherà più i suoi aiuti, ma li impiegherà a forte interesse. In questo modo Parigi avrà, come tutti gli azionisti, la sorveglianza sulla sua fabbricazione e sull’impiego dei denari, i quali rientreranno in pochi anni nelle casse pubbliche.
Si sa anche che il canale e tutti i vantaggi commerciali che ne risulteranno debbono trovarsi al termine di 50 anni esenti e liberi da tutte le azioni, e formare una delle più belle proprietà del popolo francese. Tutti i dipartimenti si affretteranno certamente a seguire l’esempio dato dalla capitale, per tutte le iniziative di questa natura che la loro località esigerà, così l’impiego dei denari appartenenti alla nazione ispirerà’ al pubblico la massima fiducia.
Per non avere alcun dubbio sulla condotta degli operai che verranno occupati, ogni sezione che conosce i suoi operai li manderà con biglietti ai lavori del canale, e là ci sarà un’amministrazione composta d’ispettori, interessati a non lasciarsi frodare dalla pigrizia, i quali sapranno ben mettere a profitto gli effetti della beneficenza pubblica. Se si temesse che tanti poveri, trovandosi costretti a un regime severo e non potendo più contare sulla debolezza o la connivenza dei capi, potessero provocare dei disordini, si prenderanno le opportune precauzioni per sorvegliare e frenare questi numerosi gruppi di operai. Cosi si otterrebbero contemporaneamente i vantaggi dell’ordine e i frutti della beneficenza, e la diminuzione della miseria, e l’impiego del tempo, e la speranza d’una sicura ricchezza; nulla di tutto ciò si ritrova nell’attuale amministrazione dei cantieri di soccorso; mi appello perciò a tutti i buoni cittadini».
Il piano è affascinante, e il candido Marat aggiunge subito alcune frasi d’approvazione. In verità, l’operazione era ingegnosa, e il grande imprenditore che l’aveva concepita rivela già lo speciale genio di quelli che più tardi negozieranno con lo Stato i contratti per la costruzione e lo sfruttamento delle ferrovie. Egli era sicuro di piazzare subito tutte le sue azioni, e a un ottimo prezzo, prima di tutto perché la città di Parigi ne avrebbe assorbite quindicimila lire al giorno e ne avrebbe cosi rialzato il corso, e poi perché questa specie di certificato finanziario rilasciato dal comune alla iniziativa avrebbe, come dice il programma, dato la massima fiducia al pubblico.
In secondo luogo, l’imprenditore aveva di colpo a sua disposizione una notevole mano d’opera: egli l’otteneva al ribasso, con i salari inferiori che erano pagati nei cantieri di soccorso; notate che nell’operazione proposta non c’è una sola parola che indichi di elevare i salari di elemosina al livello dei salari di lavoro. Così, con la mediazione del comune di Parigi e sotto forma di continuare l’opera di assistenza col lavoro, lo straordinario capitalista aveva in abbondanza mano d’opera a basso costo.
E, sotto l’apparenza di mantenere l’ordine, di non sciupare i denari della città e rendere inutile la beneficenza pubblica, egli avrebbe esercitato sugli operai un controllo molto più rigoroso, molto più brutale di quello che era esercitato dal comune; e avrebbe fatto una selezione fra gli operai, rifiutando sotto pretesto di pigrizia e turbolenza i meno validi, i meno abili, quelli che fornissero meno lavoro e meno “plusvalore” allo squisito filantropo. Anche questo preannuncio d’una disciplina più rigorosa, più dura, era uno dei mezzi di attirare il pubblico, rassicurato sul buon impiego dei suoi capitali.
E nel caso in cui alcuni operai, consegnati cosi senza cerimonie dal comune all’imprenditore, avessero pensato di ritornare all’antica disciplina municipale più compiacente o più rilassata, si segnalava loro anticipatamente, con l’autorità di Marat stesso, che se i capi dei cantieri municipali erano stati compiacenti verso la pigrizia degli operai, ciò era stato per attirarli nel grande complotto del club monarchico e della municipalità traditrice. Cosi, non c’era nulla, perfino gli odi e le diffidenze di Marat, che non fosse per cosi dire messo in azione da questo geniale capitalista: e il suo capolavoro è di aver pubblicato nel giornale dell’amico del popolo, sotto il patronato e con il timbro di Marat, uno dei progetti finanziari più audaci che la società borghese avesse visto da un secolo.
L’inesperienza di Marat
Ma quanta inesperienza questo fatto presuppone in Marat e nei proletari che cominciavano a tender l’orecchio ai suoi discorsi, e in quali tenebre o almeno in quale limbo, prossimo alla completa oscurità, si muoveva il pensiero proletario!
La stessa sincerità di Marat, il suo indubbio desiderio di alleviare le sofferenze dei più poveri e di migliorare la loro condizione, rendono più significativi questi pietosi errori. È vero che il suo odio contro i municipali contribuiva molto ad accecarlo. Alcuni giorni dopo egli era duramente disingannato da uno dei suoi corrispondenti e, tutto sbigottito, si affrettava a pubblicarne, nel numero del 3 giugno, la lettera:
«All’amico del popolo.
Non lasciatevi impressionare dai bei discorsi, caro Marat; per la maggior parte del tempo si tratta soltanto di piccoli intriganti che cercano di fare il loro interesse pur apparendo gli apostoli della verità. Il fine di colui che vi ha inviato l’articolo sul canale di Brülé, pubblicato nel vostro numero 471, potrebbe ben essere quello di far concedere all’imprenditore 15.000 lire al giorno per poterlo aprire. Io non voglio accusarlo: ma se voi conosceste la infernale cricca che è a capo di questa iniziativa vedreste che ciò significherebbe mettere la sorte dei poveri nelle mani di nuovi furfanti, e che sarebbe difficile trovarne di più sfrontati. Non vi dirò niente di Brülé: è riconosciuto degno di essere alla loro testa: cento processi ch’egli ha attualmente con gli ingegneri che hanno fatto il livellamento, i disegni, i preventivi, dimostrano anche troppo bene che egli non cerca altro che di ingannare la- gente. Dopo Brülé, viene il famigerato Mangourit, di Rennes nella Bretagna, dove è conosciuto per le sue finezze di imbroglione… Gli ho inteso dire tre settimane fa tutto quel che Bacon si è incaricato di scrivere in favore di Brulé, nell’estratto che avete pubblicato…»
Marat, assai mortificato tutte le volte che la sua infallibilità era messa in scacco, rispose brevemente:
«Io conosco il signor Bacon solo attraverso i suoi scritti, nei quali si mostra uomo di gusto e filantropo: del resto, io non ho mai pensato di raccomandare l’iniziativa di Brulé, del quale non conoscevo gli intrighi.
Se ho parlato del suo progetto, è stato unicamente per far risaltare i difetti dell’impresa municipale dei lavori pubblici».
L’intuizione della cooperativa operaia di produzione
Marat aveva patrocinato alcuni mesi prima un progetto abbastanza curioso perché può essere considerato, anticipatamente, come un germe, come la primissima idea della cooperativa operaia di produzione. Ma anche qui, quale sproporzione tra il progetto raccomandato e la solennità del tono di Marat! Ecco il sommario del suo numero di lunedì 28 marzo 1791:
«Modo semplice e facile di assicurare la sussistenza per parecchi anni a diecimila sventurati che mancano del pane nella capitale, e ciò senza prendere un soldo dal tesoro pubblico. Vantaggi che l’esecuzione di questo progetto procurerebbe allo Stato. Vani pretesti e manovre delle amministrazioni municipali per farlo fallire».
E udite l’inizio del suo articolo: si direbbe un vento di tempesta rivoluzionaria che stia per spazzare via tutti i ricchi, tutti gli sfruttatori del proletariato: e tutto ciò mette capo a una sorta di combinazione di lavoro e di assistenza per poche migliaia di uomini: molto spesso, negli ultimi anni, certi scrittori hanno scambiato per un principio di socialismo questa vana violenza di frasi. Ma ascoltiamo Marat:
«È per me assolvere un dovere sacro e caro al mio cuore, perorare oggi la causa dei poveri, di quegli operai che formano la parte più sana, più utile del popolo, senza la quale la società non potrebbe sussistere un solo giorno, di questi cittadini preziosi sui quali pesano tutti gli oneri dello Stato e che non godono di nessuno dei suoi vantaggi; di questi sventurati che vedono il briccone che s’ingrassa dei loro sudori e che sono respinti con crudeltà dal concessionario che beve il loro sangue nelle coppe d’oro; di questi sventurati che, in mezzo alla mollezza del lusso e alle delizie di cui gode sotto i loro occhi il potente che li opprime, non hanno per parte loro che lavoro, miseria e fame. Dio degli eserciti, se mai desiderassi per un istante di potere impadronirmi della tua spada, sarebbe solo per ristabilire nei loro confronti le sante leggi della natura, che tutti i principi della terra calpestano e che anche i nostri deputati hanno violato senza pietà, senza pudore».
Vana violenza, ho detto, per mettere in rilievo che al fondo di queste parole non c’è alcuna concezione sociale precisa, alcuna idea nuova e sostanziale della proprietà; ma questi ardenti e reiterati appelli cominciano senza dubbio a commuovere più di un’anima: è un dolore oscuro che grida prima di parlare e pensare, come si addice all’infanzia del proletariato: e Marat si adopera invano con gesti teatrali, per placare questa miseria; ma almeno egli l’ha udita nel fragore della rivoluzione borghese, attraverso gli inni delle feste fraterne e le grandi frasi ottimistiche. Che almeno una parte dei suoi odi cattivi sia perdonata a quest’uomo per le sue grida di pietà e di collera che si levano stridenti nell’alba misteriosa e incerta della rivoluzione!
Azionariato civico
Ecco ora quel che l’arcangelo propone: e non è la spada del Dio degli eserciti che risplende nelle sue mani: si tratta ancora di una iniziativa di lavori pubblici; ma con combinazioni originali e suggestive:
«Il progetto che presento al pubblico è d’un illuminato filantropo. La sua esecuzione assicurerebbe immediatamente per parecchi anni la sussistenza a migliaia di operai senza costar niente al tesoro pubblico; e senza che si debba temere di veder turbati l’ordine e la tranquillità parigini, per numerosi ch’essi siano; esso stabilirà in pochi anni il pane a 7 o 8 soldi ogni quattro libbre, il che porterà al popolo un risparmio annuale di oltre dieci milioni; esso aumenterà la somma delle ricchezze della capitale ogni anno, procurando lavoro a un’immensa quantità di operai; esso sistemerà 80.000 abitanti, contribuirà a distruggere la mendicità e aumenterà considerevolmente il reddito pubblico. Questo progetto è assai semplice: consiste nell’apertura d’un canale a Saint-Maur, il quale passerebbe sotto il bosco di Vincennes, nella roccia che costituisce la base di questa altura, il che risparmierebbe molte spese ai marinai, abbrevierebbe di 8.000 tese la navigazione e diminuirebbe infinitamente i suoi pericoli evitando le rocce che si trovano in fondo all’acqua.
2. Poiché il letto naturale del fiume, in questo tratto, diviene inutile alla navigazione, si tratta di impiantare 50 officine diverse, come mulini da farina da luppolo, magli per i lavori pesanti, cartiere, di diversi tipi e mulini a filiera per laminare i metalli; branca d’un commercio di parecchi milioni all’anno per oggetti che prendiamo all’estero.
3. Il castello di Vincennes, questo luogo di dolore e di disperazione, che ricorda sempre l’idea della tirannide che l’ha costruito per farne la sede delle sue vendette e dei suoi furori, comperato dal denaro degli imprenditori e convertito in granaio d’abbondanza dove il povero troverà sempre la sussistenza al prezzo più basso possibile e sotto la sorveglianza dei cittadini della capitale e del dipartimento, diventerà un glorioso monumento del regno della libertà conquistata. Questo vasto granaio contenente approvvigionamenti per parecchi anni, che si rinnoverebbe continuamente, alimenterà i nostri mulini, e Parigi non dipenderà più dalla cupidigia delle compagnie accaparratrici; la carestia fittizia che ci è stata fatta provare in mezzo all’abbondanza deve renderci saggi per l’avvenire.
4. I fondi necessari a questa iniziativa saranno forniti dalla classe indigente che troverà impiego con ben poca spesa. Ecco in che modo. Si farà un’assicurazione reversibile su tutte le teste fino all’ultimo vivo: essa sarà composta da 80.000 azioni eguali, ciascuna di 75 lire, versate una volta, e pagabili, volendo, in ragione di 6 lire e 5 soldi al mese per un anno. Questo pagamento dopo tre anni, termine in cui i lavori saranno compiuti, darà un interesse del 5 per cento che aumenterà di anno in anno per la morte di una parte degli azionisti e per l’estensione che prenderà naturalmente l’iniziativa stessa. Cosi un solo proprietario d’azione godrà un giorno per il suo impiego di 5 lire di una riserva di parecchie centinaia di migliaia di lire che verranno poi ereditate dalla nazione.
Gli operai impiegati in questi lavori avranno ciascuno per accordo una parte di azione che li legherà al lavoro e li interesserà alla fabbricazione: essi vi guadagneranno del resto largamente la loro vita. I fondi di questa assicurazione che non sono destinati ad arricchire alcuna compagnia, ma al bene generale, non supereranno i 6.000.000 di lire, somma sufficiente per tutti questi lavori e acquisti.
Con questa iniziativa veramente civica si darà una vita migliore alla gente poco agiata e che non ha alcun mezzo per procurarsi una condizione civile con i suoi esigui risparmi, e che, come prezzo d’una vita laboriosa, passata in mezzo a privazioni di ogni genere, spesso anche delle cose necessarie, non ha altra prospettiva che di finire i suoi giorni in un ospedale se non muore nel fiore degli anni per qualche malattia, conseguenza d’un lavoro forzato del bisogno. Ecco dunque 80.000 indigenti salvati dalla miseria e restituiti ai loro figli… Chi non penserebbe che sarebbe bastato sviluppare questo progetto cosi semplice per vederlo adottato e favorito dagli uomini ai quali il popolo ha affidato i suoi interessi? Come immaginarsi che esso sia stato ostacolato in mille modi dai nostri indegni municipali?»
Un germe di socialismo di stato
Vale la pena di soffermarsi su questo progetto. Beninteso, non si tratta qui di discuterne la possibilità tecnica o gli aspetti finanziari. Ma la sua tendenza sociale è interessante. Dei cantieri, creati per iniziativa dello Stato, di cui i lavoratori stessi sono gli azionisti e che ritornano poi alla nazione; un sistema di assicurazione che garantisce agli operai sopravvissuti una rendita abbastanza buona, ciò contiene in germe il socialismo di Stato cosi come lo concepiva Louis Blanc, la cooperazione operaia di produzione e i vari sistemi di mutualità.
Certo, germe ben debole, impercettibile e confuso! Quel che è da notare, è che l’idea di associazione operaia propriamente detta, di corporazione operaia o, come diciamo noi oggi, di sindacato operaio ne è completamente assente. Non è a gruppi di lavoratori che sarebbero stati affidati i cantieri; ed è sotto la forma individualistica e borghese dell’azione che Marat concepisce la proprietà operaia.
Ma una questione estremamente grave ci s’impone: è evidente che la sola scossa rivoluzionaria borghese cominciava a sollevare le ambizioni operaie; e se la libertà politica fondata dalla rivoluzione fosse durata, se la sovranità popolare, prima mutilata, poi piena, si fosse mantenuta, se il suffragio dapprima ristretto e ben presto universale fosse stato la sorgente di tutti i poteri, è probabile, è certo che gli operai, i proletari, avrebbero domandato e ottenuto un certo numero di garanzie.
Forse, con combinazioni analoghe a quelle proposte da Marat, essi sarebbero stati associati, per una parte abbastanza notevole, alla proprietà capitalistica che la rivoluzione stava per sviluppare cosi largamente.
In ogni caso, è probabile che il diritto di coalizione e di sciopero che la Costituente distruggerà brutalmente tra poco, sarebbe stato conquistato abbastanza presto e il popolo operaio non avrebbe atteso un secolo per averne il beneficio legale. Ora, ci si può chiedere se questa organizzazione della forza operaia, in un periodo in cui il capitalismo non aveva ancora tutta la sua potenza, sarebbe stata conciliabile con lo sviluppo, capitalistico il progresso della produzione e della ricchezza.
Io non esito da parte mia a rispondere nettamente: si. Io credo che il sistema capitalistico sia infinitamente più elastico di quanto non dicano molti socialisti, e credo che si sarebbe adattato, fin dal 1789, alla piena libertà e democrazia. Marx constata che all’infuori di quello che è il profitto normale, essenziale del capitale, cioè il superlavoro non pagato dell’operaio, il capitalista si è procurato innumerevoli profitti accessori.
Esso ha truffato, frodato; non ha nemmeno pagato agli operai quel che era convenuto: ha allungato silenziosamente la giornata di lavoro. Ha portato lo sfruttamento della forza operaia anche al di là di quel che gli comandavano i suoi interessi essenziali e la legge del suo sviluppo. Non ha nemmeno pagato in certi periodi il salario strettamente necessario al mantenimento della forza lavoro: ha fatto calce della sostanza umana. Ha estenuato e abbrutito l’infanzia operaia, ben al di là delle necessità intrinseche del sistema e anche contro l’interesse del capitalismo stesso.
In un regime di democrazia
Un regime di democrazia, di suffragio universale, di sovranità popolare, avrebbe permesso al salariato di garantirsi contro quest’eccesso di sfruttamento: avrebbe forse permesso di realizzare in una certa misura un servizio di produzione semicapitalistico e semioperaio. Avrebbe dato ai lavoratori maggiore forza fisica e intellettuale, senza compromettere l’evoluzione capitalistica; e l’ascesa regolare del proletariato, il progressivo e pacifico stabilirsi del socialismo, sarebbero stati singolarmente facilitati. Oh, guardiamoci dal ritenere che lo sviluppo antagonistico delle classi sia un meccanismo rigido e che nulla possa modificarlo. Guardiamoci dal credere che al proletariato sia indifferente che il capitalismo si sviluppi sotto un regime di democrazia o sotto un regime di oligarchia o di dispotismo! No: non è vero che la rivoluzione non sia stata intaccata e abbassata dal dispotismo militare dell’impero, dalle velleità controrivoluzionarie della Restaurazione, dal regime censitario di Luigi Filippo.
La proprietà borghese e capitalistica, liberata dalla rivoluzione dagli impedimenti feudali e corporativi, si è sviluppata sotto tutti i regimi, e non dipendeva da alcuna reazione d’arrestare o respingere questo movimento. La borghesia ha sempre saputo imporre il rispetto del debito pubblico e un certo controllo delle finanze, necessario alla sua autorità. E se la libertà politica e la sovranità nazionale non si fossero inabissate nel dispotismo imperiale, se la rivoluzione, invece di oscillare per un secolo dalla democrazia militare all’oligarchia borghese e orléanista, fosse rimasta una democrazia repubblicana, i rapporti fondamentali delle classi e la struttura profonda della proprietà capitalistica non sarebbero stati modificati: ma ci sarebbe stato un freno all’egoismo della borghesia, un limite allo sfruttamento degli operai; e la necessaria lotta tra una borghesia forzatamente più generosa e un proletariato più istruito e più libero avrebbe dato vita più sicuramente e nobilmente ad una società nuova, a una forma nuova di proprietà. Il cuore si riempie di tristezza quando si incontra, fin dal 1791, un inizio di pensiero proletario, quando si vede sin da allora lo spirito umano alla ricerca di combinazioni diverse per addolcire le condizioni dei proletari, e quando si pensa a quel che avrebbero potuto dare tutti questi germi nello sviluppo regolare d’una democrazia libera.
Noi non possiamo consolarci dicendoci che le tremende sofferenze della classe operaia durante il secolo che è trascorso erano inevitabili, e che esse sono state la condizione d’un ordine nuovo. No, no: molte di queste sofferenze sono state inutili. Il capitalismo sarebbe stato altrettanto potente e fecondo, e le condizioni per il comunismo sarebbero state altrettanto pienamente realizzate, se i lavoratori avessero potuto, grazie alla democrazia e alla repubblica, difendersi almeno contro gli inutili eccessi della classe possidente.
L’importanza del progetto di Marat
Mai venga ai proletari la tentazione di contare unicamente sul gioco del meccanismo economico o di esagerare il fatalismo dell’organizzazione delle classi, al punto da disconoscere e trascurare tutti i mezzi di azione che la democrazia e la libertà offrono loro. Ma ho bisogno di ripetere ancora una volta che il progetto sociale di Marat non mi interessa per il suo valore intrinseco, ma come sintomo del lavoro sociale, del lavoro proletario, che oscuramente cominciava negli spiriti col favore della nuova libertà?
“Ieri — racconta un corrispondente di Marat nel numero del 25 marzo 1791 — mi trovavo nella bottega del patriota Garin; un operaio compera un pane e presenta una cedola di assegnato di 4 lire e 10 soldi. Si girano 10 botteghe per cambiarla; finalmente si porta della moneta spicciola in mezzo alla quale si trovano parecchi pezzi falsi. Desolato per la fatica di cambiare questi piccoli effetti, quello sfortunato esclama col cuore gonfio: ‘Come possiamo vivere in un paese nel quale siamo abbandonati da quelli che dovrebbero appoggiarci?’. Poi aggiunse asciugandosi una lacrima: ‘Ma adagio, essi scambiano la nostra pazienza per paura; siamo ventimila operai a Parigi, tutti forti e vigorosi, e metteremo fine un giorno a tutte queste cattiverie: non ci lasceremo addormentare dai borghesi come abbiamo fatto finora’.”
Povera e poco intelligente applicazione dell’istinto di classe: perché, malgrado le difficoltà e le molestie di dettaglio che essa comportava, la creazione degli assegnati, strumento dell’espropriazione della Chiesa, era un grande atto rivoluzionario. Marat, che la combatté furiosamente in odio a Mirabeau, svolse in questo caso una parte reazionaria. Ma non è curioso che già le sofferenze del popolo prendano la forma di una opposizione di classe, operai contro borghesi?
Due anni prima, nei Cahiers, i contadini parlavano piuttosto volentieri del “borghese” come di un altro privilegiato, pesante al popolo quanto il nobile. Ma nei cahiers delle città e nel linguaggio stesso della classe operaia, un borghese, nel 1789, era un rivoluzionario, un nemico dei nobili e della corte. Borghese si opponeva a nobile: ora borghese comincia ad opporsi a operaio, a proletario. Che immensa sventura che questo istinto di classe nascente, ancora cosi fragile, non abbia potuto rafforzarsi e chiarirsi, fin d’allora e attraverso tutto il secolo, con la pratica continua della libertà!
2. La politica agraria di Marat
Una legge agraria dello Stato
Finalmente Marat, il 5 settembre 1791, in un momento in cui si riteneva prossimo a rinunciare al giornalismo, sviluppa un piano di riforma agraria. Esso consiste anzitutto, come ho accennato, nell’organizzare legalmente lo scambio obbligatorio delle particelle di terra, nell’economizzare le perdite di tempo, le spese inutili.
«Ma, per riunire le terre frazionate e sparpagliate che sono necessarie perché i coltivatori si stabiliscano in mezzo al loro campo, cosa tanto essenziale per il bene generale e particolare, bisogna cominciare con l’allontanare un fantasma che l’egoismo decora col nome di libertà. Si è tanto a lungo abusato di questa parola, volta a volta confusa col capriccio e la licenza, che occorre definirla una volta per tutte. Fare ciò che si vuole, significa abusare del dispotismo; fare ciò che nuoce agli altri, significa cadere nella licenza; fare ciò che si deve, significa usare della libertà civile, la sola conveniente nell’ordine sociale. Ora, è la legge che stabilisce il dovere dell’uomo in società. Il grande fine della nostra associazione politica è la felicità comune alla quale ogni cittadino è interessato a concorrere.
Perché ciò? Perché lo stato sociale esige che ogni individuo sacrifichi una parte del suo interesse all’interesse generale, sacrificio per il quale riceve in cambio la protezione della forza pubblica, la garanzia della sua proprietà e l’assicurazione della sua sicurezza personale. Cosi, dall’osservanza delle leggi dipende la conservazione di quel che l’uomo ha di più caro al mondo: la sua proprietà, la sua pace e la sua vita.
Ecco i principi: ecco la loro applicazione nel caso in questione.
In Inghilterra, dove la vera libertà è conosciuta meglio che in qualunque altro luogo, ci si è ben accorti che per attuare la riunione delle terre mediante gli scambi, non era possibile lasciare il campo libero ai capricci dei privati. Si è stati dunque obbligati ad ordinare questi scambi reciproci e a determinarne le modalità con una legge. Questa riunione di terre, chiamata the compact, è avvenuta successivamente negli ultimi cinquant’anni nelle diverse province mediante atti del Parlamento che prescrivono tra i proprietari quella specie di scambio che si vede spesso qui fare tra loro dai grossi affittuari nel corso del loro affitto, per la comodità dei loro lavori: ciò che, senza offrire alcuno dei vantaggi d’un accordo durevole, sia per la recinzione sia per un miglioramento successivo, non serve molto spesso ad altro che a generare molte discussioni, creando turbamento nelle proprietà, allo scadere degli affitti».
Si può dire che tutta la teoria della rivoluzione sulla legge e la proprietà sia qui riassunta. La legge è sovrana: la proprietà è un diritto, ma nei limiti e sotto le garanzie fissate dalla legge. La legge deve conciliare il diritto individuale e la felicità comune.
Cosi, per quel che riguarda la proprietà rurale, è la legge che d’autorità, nell’interesse generale, attuerà la riunione delle parcelle.
La divisione dei possedimenti tra affittuari
Marat non vuole che essa si fermi qui. In che modo assicurare il sostentamento del popolo e in particolare di quei numerosi giornalieri, di quei semplici braccianti per i quali egli ha una evidente sollecitudine? Bisogna abbassare d’autorità il prezzo dei viveri, delle derrate agricole? Significherebbe rischiare di rovinare i coltivatori e di scoraggiare l’agricoltura. Ma la legge della domanda e dell’offerta ha come conseguenza che il prezzo d’una merce è tanto più basso quanto maggiore è il numero dei venditori e minore il numero dei compratori. Bisogna dunque moltiplicare il numero di coloro che vendono i prodotti agricoli: per ciò occorre moltiplicare gli affittuari e si potrà ottenerlo soltanto obbligando i proprietari a dividere un grande podere in parecchi poderi.
Subito, molti braccianti saranno trasformati in piccoli affittuari; il numero dei compratori diminuirà dunque nello stesso momento in cui aumenterà il numero dei venditori: un saggio equilibrio dei prezzi, una saggia ripartizione dei benefici dell’agricoltura, assicureranno una agiatezza generale.
Ecco il piano agrario assai modesto, come si vede, e assai prudente di Marat. Siamo lontani dalla legge agraria dalla divisione della proprietà, giacché si tratta soltanto di dividere i possedimenti lasciandone il prodotto al proprietario. È tuttavia sempre un intervento della legge nel meccanismo della proprietà.
«Sarebbe dunque — scrive egli — del tutto necessario e del tutto giusto che la medesima legge, che procurerebbe tanti vantaggi ai proprietari stabilendo la contiguità delle terre per mezzo di scambi legali, assicurasse nello stesso tempo il sostentamento di tutti, costringendo i proprietari che non valorizzassero essi stessi le loro terre, ad affittare a piccole parti. Quando essi vedessero diminuire le spese di coltura e i prodotti aumentare per effetto della riunione delle loro proprietà, io ho troppo buona opinione dei miei compatrioti per credere che non ce ne sarebbe uno solo che avrebbe l’inumanità di lamentarsi se la stessa legge che assicurerebbe una ripartizione più equa dei frutti della terra, distribuendo la coltura a un maggior numero di famiglie, privasse il proprietario del diritto di disporre, di affittare le sue terre secondo il suo capriccio. La necessaria conseguenza di questa disposizione sarebbe dunque di avvicinare l’ordine civile all’ordine naturale con una maggiore facilità di coltura e una più equa distribuzione dei frutti della terra; poi di ristabilire l’equilibrio tra il prezzo delle derrate e la mano d’opera, e infine di distruggere ogni monopolio dei frutti della terra; perché più coltivatori ci saranno, meno giornalieri ci sarebbero, e il prezzo delle loro giornate aumenterebbe dunque necessariamente.
D’altra parte, se ci fossero più coltivatori ci sarebbe più concorrenza nella vendita dei prodotti. Del resto gli abitanti delle campagne, sicuri del loro proprio sostentamento, sarebbero interessati al maggior valore del loro eccedente; allora la libertà del commercio del grano si stabilirebbe da sola».
E Marat, pur regolando cosi le colture agricole, pensa tanto poco a distruggere il diritto di proprietà e a domandare o l’appropriazione da parte della nazione o la divisione delle terre, che spera con questo sistema di attirare e trattenere in campagna i ricchi proprietari:
«Ben presto la comodità della riunione delle terre, il genere di giardini-paesaggi, il gusto dei veri piaceri della natura e lo spettacolo delle campagne felici non mancherebbero di ricondurvi l’abbondanza con loro ricchi proprietari. Ben presto si vedrebbero uomini istruiti non disdegnare di mettere mano all’aratro, e mediante l’unione dei lumi, della teoria e della pratica, allargare indefinitamente i progressi dell’agricoltura».
Marat a Babeuf
Ecco le idee sociali più ardite dell’anno 1791: grandi proprietari e piccoli affittuari. Ciò non avrebbe nemmeno impedito l’accaparramento dei grani, perché sono evidentemente dei grandi commercianti che. avrebbero raccolto e concentrato l’eccedente di tutti questi piccoli affittuari.
Bisogna tuttavia rilevare che Marat cerca un mezzo per elevare il salario dei giornalieri, dei braccianti. È, per questi aspetti, per questa sollecitudine verso il povero, verso il proletario, che egli non tardò ad apparire come “l’amico del popolo”.
E non si può fare la storia del proletariato, indagare le sue origini, sorprendere i suoi primi sussulti e i suoi abbozzi di pensiero sotto la rivoluzione borghese se si trascurano le concezioni di Marat, per puerili che possano sembrarci oggi sotto molti aspetti.
Ma proprio questo carattere un po’ infantile conferisce ad esse il loro vero significato storico. Una parte dei proletari nel giro di cinque anni progredirà da Marat a Babeuf: si misura cosi la prodigiosa influenza educatrice della rivoluzione borghese sul proletariato stesso.
Da Jean Jaurès, Storia socialista della Rivoluzione francese, vol. I, Editori Riuniti, Roma 1971, pp. 338–352