La morte di Marat e Carlotta Corday
I fatidici giorni del luglio 1793
di Jules Michelet
Speciale Marat
Introduzione. Marat, l’Amico del Popolo
1. Protagonisti della rivoluzione francese di François Furet e Denis Rochet
2. La morte di Marat e Carlotta Corday di Jules Michelet
3. La bella e lo squallido di Thomas Carlyle
4. L’influenza di Marat di Louis R. Gottschalk
5. Marat socialista? di Jean Jaurès
6. Marat dietro le quinte di Victor Hugo
7. Testi di Marat: Dispotismo e libertà | I diritti civili✎ “Think | Tank”. Il saggio del mese [settembre 2022]
1. La morte di Marat
I girondini di Nantes
La storia dei Girondini di Nantes, le resistenze che opposero al solo uomo che potesse difenderli ed evitar loro Carrier, indicano a sufficienza in quale profonda ignoranza fossero della situazione.
I Girondini di Caen la conoscevano forse ancor meno. Non vedendo nulla se non attraverso l’odio e il rancore dei rappresentanti fuggiaschi, essi accettavano per buoni i romanzi insensati che costoro, turbati dalla sventura, da una cupa immaginazione, costruivano sulla Montagna. E, a una cosa stabilita tra di essi, un assioma del quale nessuno avrebbe osato dubitare, che montagnardo era sinonimo di orleanista, che Robespierre, Marat, Danton, erano agenti stipendiati della fazione d’Orléans.
Tutti i montagnardi erano, per loro, egualmente terroristi. Non si rendevano conto di come molti non lo fossero se non a causa dello stesso terrore, che molti dei violenti, i quali si erano illusi di poter sempre odiare, barcollavano già sotto il peso dell’odio.
Ciò si può dire di tutti i dantonisti, specialmente di Bazire al comitato di sicurezza generale, giovane ardente e puro, ma senza misura e senza forza, il quale, dopo essersi spinto molto in là sulla strada del furore, si spinse molto avanti nell’indulgenza, si compromise, si perse.
Una lettera di Desmoulins (del 10 agosto) fa testimonianza di questo stato d’animo. È debole, desolata e disperata.
Uomini di settembre, come Sergent e Panis, sono ora esseri dolci e umani; presidenti dei Cordeliers o del tribunale rivoluzionario, come Osselin, Roussillon, Montané, Dobsent, sono diventati moderati.
Si è visto come, da marzo a giugno, avesse mutato anche Marat. L’ex predicatore del saccheggio condanna in giugno coloro che ripetono le sue parole; egli è severo, spietato per i nuovi Marat, per Ledere e Roux.
Marat aveva un bel fare: a suo dispetto, a causa della forza invincibile della situazione, egli si avviava verso lo scoglio sul quale si erano infrante l’una dopo l’altra le generazioni rivoluzionarie. Giungeva fatalmente alla sua età d’indulgenza e di moderazione.
Invano si agitava, invano si sforzava di restare Marat, denunciava oggi qualche generale, voleva domani che le teste dei Capeto venissero messe a prezzo. Vari curiosi aneddoti dei suoi ultimi tempi lo denunciano e lo spogliano ai nostri occhi: egli diventa umano.
Si allontanava dalla propria natura o tornava a essa? In tutti i momenti, egli aveva avuto strani accessi di umanità. Era a tratti generoso e sensitivo. Egli salvò il fisico Charles, suo critico e suo nemico.
È un problema da risolvere se egli avrebbe conservato la sua popolarità nella sua nuova parte di moderatore e di arbitro.
Non v’è dubbio che l’unico uomo che potesse arrischiarsi a perderla, era proprio lui. Con quale forza e quale autorità avrebbe proposto ciò che perse Danton e i dantonisti: il comitato di clemenza.
I Girondini a Caen nel luglio 1793
Ma torniamo al Calvados.
L’ignoranza, lo abbiamo detto, vi era completa. La gente era ancora come il 10 marzo. Credeva che Marat dirigesse tutto, facesse tutto. Marat era il nome comune sotto il quale si mettevano tutti i delitti reali o possibili. A Caen fu arrestato un uomo sospetto di accaparrare denaro per conto di Marat.
Cosa puerile, che si esita a dire, ma che dipinge bene la cieca leggerezza degli odi: spesso, nelle imprecazioni pubbliche, venivano mischiati (forse a cagione della rima) i nomi di Marat e di Garat; i Girondini confondevano con l’apostolo del delitto quell’uomo debole e dolce, che, giusto in quel momento, voleva recarsi da loro e trattare con loro.
La domenica 7 luglio era stata battuta l’adunata e si erano riuniti sull’immenso tappeto verde della prateria di Caen i volontari che partivano per Parigi, per la guerra di Marat. Ne vennero trenta. Le belle dame che si trovavano lì con i deputati erano sorprese e tutt’altro che edificate da quel piccolo numero. Una signorina, tra le altre, sembrava profondamente triste: era la signorina Marie Charlotte Corday d’Armont, giovane e bella ragazza, repubblicana, di famiglia nobile e povera, che viveva a Caen con sua zia. Pétion, che l’aveva vista qualche volta, suppose che essa avesse lì qualche amante la cui partenza la rattristava, e scherzò goffamente dicendo:
«Voi sareste molto addolorata, non è vero, se essi non partissero?».
Charlotte Corday
Il girondino, deluso dopo tanti avvenimenti, non poteva intuire il sentimento nuovo e vergine, la fiamma ardente che possedeva quel giovane cuore. Non sapeva che i suoi discorsi e quelli dei suoi amici, i quali, nella bocca di uomini finiti altro non erano che discorsi, nel cuore della signorina Corday erano il destino, la vita, la morte. Su quella prateria di Caen, che potrebbe accogliere centomila uomini e che non ne accoglieva che trenta, essa aveva veduto una cosa che nessuno vedeva: la patria abbandonata.
Poiché gli uomini facevano così poco, essa sentì nascere in sé questa idea: che ci volesse la mano di una donna.
La signorina Corday scopriva così di essere donna di grande nobiltà: la strettissima parente delle eroine di Corneille, di Chimene, di Paolina e della sorella di Orazio. Essa era la pronipote dell’autore di Ginna. Il sublime era in lei la natura.
Nella sua ultima lettera di morte, essa fa intendere abbastanza tutto quello che si agitò nel suo spirito: dice tutto con una parola che ripete continuamente: «La pace, la pace».
Sublime e ragionatrice, come suo zio, alla normanna, essa fece questo ragionamento: la legge è la stessa pace. Chi ha ucciso la legge il 2 giugno? Marat, soprattutto. Una volta ucciso l’assassino della legge, la pace rifiorirà. La morte di uno solo sarà la vita di tutti.
Questo fu il suo pensiero. Quanto alla sua vita, di me faceva dono, non ci pensò neppure.
Pensiero angusto quanto alto. Ella vide tutto in un uomo: nel filo di una vita, si illuse di troncare quello dei nostri disgraziati destini, nettamente, semplicemente, come, ragazza laboriosa, troncava quella del suo fuso. Sarebbe errato vedere nella signorina Corday una feroce virago agli occhi della quale il sangue non contava niente. Proprio al contrario, se si decise a vibrare il colpo fu per arrestarne lo spargimento. Credette di salvare tutti sterminando lo sterminatore. Essa aveva un cuore di donna, tenero e dolce. L’atto che si impose fu un atto di pietà.
Nell’unico ritratto che ci resta di lei, e che fu dipinto al momento della sua morte, si avverte la sua grande dolcezza. Nulla può avere una minore relazione col sanguinoso ricordo che il suo nome richiama alla memoria. È il volto di una giovane ragazza normanna, viso virgineo, se mai ve ne furono, il dolce barbaglio di un melo in fiore. Essa dimostra molto meno dei suoi venticinque anni. Si ha l’impressione di dover sentire la sua voce un po’ infantile, le parole stesse che scrisse a suo padre con un’ortografia che traduce la pronuncia strascicata di Normandia: «Pardonnais-mot, mon papa…».
Il demone della solitudine
In questo tragico ritratto, essa ci appare infinitamente giudiziosa, ragionevole, seria, come sono le donne del suo paese. Prende forse con leggerezza la sua sorte? Nemmeno per sogno, non c’è in lei nessun falso eroismo. Bisogna pensare che mezz’ora sola la separava dalla terribile prova. Non c’è forse in lei qualche cosa del bimbo che fa il broncio? Non lo escluderei; guardando bene, si coglie sul suo labbro un leggero movimento, non più di una smorfietta crucciosa. Come! una così piccola irritazione contro la morte! contro il nemico barbaro che sta per troncare questa vita graziosa, tanto amore e tanti romanzi possibili. Si rimane stupefatti di vederla così dolce; il cuore sfugge, gli occhi’ si oscurano, bisogna guardare altrove.
Il pittore ha creato per gli uomini una disperazione, un rimpianto eterni. Nessuno può vederla senza dire nel proprio cuore: «Oh! perché sono nato così tardi!… oh! come l’avrei amata!».
Ha i capelli biondo cenere, pieni dei più dolci riflessi; una cuffietta bianca e un abito bianco. È questo il segno della sua innocenza, e come la sua visibile giustificazione? Non so. Vi sono nei suoi occhi dubbio e tristezza. Triste per la sua sorte, non lo credo, ma, forse, per il suo gesto. La creatura più salda che vibra un simile colpo, vede spesso, all’ultimo momento, alzarsi strani dubbi.
Guardando bene nei suoi occhi tristi e dolci, si intuisce un’altra cosa, che forse spiega tutto il suo destino: essa era sempre stata sola.
Sì, è questa l’unica cosa che troviamo di poco rassicurante in lei.
Vi fu in questo essere grazioso e buono questa sinistra potenza: Il demone della solitudine.
Per cominciare, non ebbe madre. La sua morì presto; non conobbe le carezze materne, non ebbe nei suoi primi anni quel dolce latte di donna che nulla sostituisce.
E, in realtà, non ebbe padre. Il suo, povero nobile di campagna, testa utopistica e romantica, che scriveva contro gli abusi di cui la nobiltà viveva, si occupava molto dei suoi libri, poco dei suoi figli.
Si può anche dire che non ebbe fratelli. Per lo meno, i due che aveva erano, nel ’92, così completamente lontani dalle opinioni della sorella, che andarono a raggiungere l’esercito di Condé.
L’educazione nel convento dell’Abbaye-aux-Dames di Caen
E non fu sola anche nel convento dell’Abbaye-aux-Dames di Caen, dove venivano accolte le figlie della nobiltà povera e nel quale fu ammessa a tredici anni? È permesso crederlo, quando si sappia come, in questi asili religiosi che parrebbero dover essere i santuari dell’eguaglianza cristiana, i ricchi disprezzino i poveri. Non v’è luogo che, più dell’Abbaye-aux-Dames, sembri adatto a conservare le tradizioni dell’orgoglio. Fondata da Matilde, la moglie di Guglielmo il Conquistatore, essa domina la città, e, nello sforzo delle sue volte romaniche, elevate e sopraelevate, porta ancora iscritta l’insolenza feudale.
L’anima della giovane Charlotte cercò un primo asilo nella devozione, nelle dolci amicizie del chiostro. Amò soprattutto due signorine, nobili e povere come lei. Intravide anche il mondo: una società molto mondana di giovani della nobiltà era ammessa nel parlatorio del convento e nelle sale della badessa. La loro superficialità dovette contribuire a rafforzare il cuore virile della giovinetta nel disprezzo per il mondo e nell’amore della solitudine.
I suoi veri amici erano i suoi libri. La filosofia del secolo invadeva i conventi. Letture fortuite e poco discriminate. Raynal insieme con Rousseau.
«La sua testa», dice un giornalista, «era una furia di letture d’ogni genere».
Essa era una di quelle ragazze che possono attraversare impunemente i libri e le opinioni senza che la loro purezza ne sia alterata. Conservò, nella scienza del bene e del male, un dono di verginità morale e come d’infanzia. Ciò si rivelava soprattutto nelle intonazioni di una voce quasi infantile, di un timbro argentino, nella quale si sentiva che la persona era tutt’intera, che nulla aveva ancora ceduto. Era forse possibile dimenticare i lineamenti di Charlotte Corday, ma non la sua voce. Una persona che l’udì una volta a Caen, in un’occasione senza importanza, dieci anni dopo, aveva ancora nell’orecchio quella voce unica.
Questo prolungamento dell’infanzia fu una singolarità di Giovanna d’Arco, che rimase una ragazzina e non fu mai una donna.
Ciò che più di qualunque altra cosa faceva della Corday una creatura sorprendente che era impossibile dimenticare, è il fatto che quella voce infantile si accompagnava a una beltà seria, virile d’espressione, benché delicata di lineamenti. Questo contrasto otteneva il duplice effetto di sedurre e di imporre. Si guardava, ci si avvicinava, ma in quel fiore del tempo, qualche rosa intimidiva che non apparteneva in nessun modo al tempo, ma all’immortalità. Verso l’immortalità essa si avviava e la voleva. Viveva già tra gli eroi negli Elisi di Plutarco, tra coloro che dettero la vita per vivere eternamente.
La non influenza dei girondini sulla decisione della Corday
Nella maggior parte, come abbiamo visto, non erano più gli stessi uomini. Essa s’incontrò due volte con Barbaroux, quale deputato della Provenza, per avere da lui una lettera e sollecitare le pratiche di una faccenda che interessava una sua amica provenzale.
S’era incontrata anche con Fauchet, il vescovo del Calvados; lo amava poco, lo stimava poco come prete, e come prete immorale. È inutile dire che Charlotte Corday non era in relazione con nessun prete e non si confessava mai.
Alla soppressione dei conventi, trovando suo padre riammogliato, si era rifugiata a Caen in casa di una vecchia zia, la signora di Breteville. Ed è qui che prese la propria risoluzione.
La prese senza esitazione? No; fu trattenuta per un momento dal pensiero di sua zia, di quella buona vecchia signora che l’aveva raccolta e che, come ricompensa, ella avrebbe compromesso. Un giorno la zia sorprese delle lacrime nei suoi occhi: «Piango», diss’ella, «sulla Francia, sui miei parenti e su voi… Sin quando Marat vive, chi è sicuro di vivere?»
Distribuì i propri libri, tranne un volume di Plutarco che portò seco. Incontrò nel cortile il figlio di un operaio che alloggiava nella casa; gli diede la propria cartella da disegno, lo baciò e lasciò cadere ancora una lacrima sulla sua guancia… Due lacrime! Abbastanza per la natura!
L’arrivo a Parigi (11 luglio ‘93)
Charlotte Corday non credeva di poter abbandonare la vita senza prima andare a salutare ancora una volta suo padre. Lo incontrò ad Argentan, e ricevette la sua benedizione.
Di là, si recò a Parigi in una vettura pubblica in compagnia di certi montagnardi, grandi ammiratori di Marat, che cominciarono coll’innamorarsi di lei e a chiederne la mano. Essa faceva finta di dormire, sorrideva e giocava con un bambino.
Arrivò a Parigi il giovedì 11, verso mezzogiorno, e prese alloggio in via dei Vieux-Augustins,». 17, all’albergo della Provvidenza. Andò a letto alle cinque di sera, e, stanca, dormì sino al giorno dopo del buon sonno della giovinezza e della coscienza tranquilla. Il suo sacrificio era fatto, il suo gesto già compiuto nel pensiero; non era né turbata né dubitosa.
Era così fissa nel proprio progetto, che non sentiva nemmeno il bisogno di affrettarne l’esecuzione. Si occupò tranquillamente di compiere prima di tutto un dovere di amicizia che gli era servito di pretesto per venire a Parigi. A Caen, aveva ottenuto da Barbaroux una lettera per il deputato Duperret, volendo, col suo aiuto, ritirare dal ministero degli interni alcuni documenti utili alla sua amica signorina Forbin, emigrata.
Al mattino, non trovò Duperret che era alla Convenzione. Rientrò all’albergo e passò la giornata a leggere tranquillamente le Vite di Plutarco, la bibbia dei forti. La sera tornò dal deputato, lo trovò a tavola, con la famiglia, con le figlie inquiete. Egli le promise gentilmente cli farle da guida il giorno dopo. Ella si commosse vedendo quella famiglia che stava per compromettere, e disse a Duperret con voce quasi supplichevole: «Credete a me, partite per Caen; fuggite prima di domani sera». Ora, quella notte stessa, fors’anche mentre Charlotte gli parlava, Duperret veniva proscritto o per lo meno stava per esserlo. Egli mantenne egualmente la parola: il mattino seguente la condusse dal ministro, che non riceveva, e finalmente le spiegò che, sospetti entrambi, essi non potevano essere gran che utili alla signorina emigrata.
Essa non rientrò all’albergo che per liberarsi di Duperret che la accompagnava, uscì immediatamente e si fece indicare il Palais-Royal.
In questo giardino pieno di sole, rallegrato da una folla festevole, e tra i giuochi dei fanciulli, cercò, trovò un coltellinaio, e comperò per quaranta soldi un coltello appena arrotato, col manico d’ebano, che nascose sotto il fisciù.
Eccola in possesso della sua arma; come se ne servirà? Avrebbe voluto dare una grande solennità all’esecuzione della sentenza che aveva pronunziato contro Marat.
La sua prima idea, quella che concepì a Caen, covò, portò a Parigi, prevedeva una messa in scena impressionante e drammatica. Avrebbe voluto colpirlo al Campo di Marte, davanti al popolo, davanti al cielo, durante la solennità del 14 luglio; punire nel giorno anniversario della disfatta della regalità, quel re dell’anarchia. Così, avrebbe compiuto letteralmente, da vera pronipote di Corneille, i versi famosi del Cinna:
Domani al Campidoglio egli fa un sacrificio…
Ne sia egli la vittima, e facciamo in quel luogo
Giustizia al mondo intero, al cospetto di Giove.
Poiché la festa era stata rimandata, essa adottava un’altra idea, quella di punire Marat nel luogo stesso del suo delitto, nel luogo in cui, spezzando la rappresentanza nazionale, egli aveva dettato il voto della Convenzione, designato questo per la vita, quello per la morte. Essa lo avrebbe colpito al sommo della Montagna. Sennonché Marat era ammalato e non andava più all’Assemblea.
La casa di Marat e la sua morte
Bisognava dunque recarsi a casa sua, cercarlo al suo focolare, entravi attraverso la sorveglianza inquieta di coloro che lo circondavano; bisognava, cosa penosa, entrare in relazione con lui, ingannarlo. È la sola cosa che le sia costata, che le abbia lasciato uno scrupolo e un rimorso.
Il primo biglietto che scrisse a Marat rimase senza risposta. Allora ne scrisse un secondo, nel quale si nota una specie d’impazienza, il progresso della passione. Essa giunge a dire «che gli rivelerà dei segreti; che essa è perseguitata, infelice…», non temendo di abusare della pietà per ingannare colui che condannava a morte come spietato, come nemico dell’umanità.
D’altronde, non ebbe bisogno di commettere quest’errore: non consegnò il secondo biglietto.
La sera del 13 luglio, uscì dall’albergo verso le sette, prese una vettura pubblica sulla piazza delle Victoires, e, attraversando il Pont-Neuf; scese dinanzi alla porta di Marat, via dei Cordeliers». 20 (oggi via dell’Écolede-Médicine». 18). È una grande e triste casa, prima di quella della colonnetta all’angolo della strada.
Marat abitava al piano più oscuro di quella oscura casa, al primo, piano comodo per i movimenti del giornalista e del tribuno popolare, la cui abitazione è pubblica quanto la strada, per l’affluenza dei fattorini, degli attacchini, l’andirivieni delle bozze, tutto un mondo che arriva e che parte.
L’interno, l’ammobiliamento, offrivano uno strano contrasto, fedele immagine delle contraddizioni che caratterizzavano Marat e il suo destino. Le stanze molto buie che davano sul cortile, adorne di vecchi mobili, di tavoli sudici su cui venivano piegati i giornali, suggerivano l’idea della triste abitazione di un operaio. Se poi vi spingevate più avanti, trovavate con sorpresa un piccolo salotto affacciato sulla strada, ammobiliato in damasco azzurro e bianco, colori delicati e galanti, con due belle tende di seta e vasi di porcellana colmi abitualmente di fiori.
Era evidentemente l’appartamento di una donna, di una donna buona, attenta e tenera, che, premurosa, adornava per l’uomo consacrato a quel mortale lavoro il luogo del riposo. In ciò era il mistero della vita di Marat, che fu più tardi svelato da sua sorella; egli non era in casa sua, non aveva una casa ma a questo mondo.
«Marat non faceva le proprie spese (è sua sorella Albenine a scrivere ciò); una donna divina, commossa dalla sua situazione, quando fuggiva di cantina in cantina, aveva accolto e nascosto in casa sua l’Amico del popolo, aveva messo a sua disposizione quanto possedeva, immolato il proprio riposo».
Fu trovata nelle carte di Marat una promessa di matrimonio a Catherine Évrard. Egli l’aveva già sposata davanti al sole, davanti alla natura.
Questa creatura disgraziata e invecchiata anzitempo, si consumava nell’inquietudine. Ella sentiva la morte attorno a Marat; vegliava alle porte, arrestava sulla soglia ogni volto sospetto.
Quello di Charlotte Corday era tutt’altro che tale; il suo abbigliamento decente da signorina di provincia preveniva in suo favore.
In un tempo in cui tutto era eccessivo, in cui l’abbigliamento delle donne era o trascurato o cinico, la ragazza rivelava il buon ceppo normanno, giacché non abusava della propria bellezza, tratteneva la chioma abbondante con un nastro verde sotto la cuffia ben conosciuta delle donne del Calvados, acconciatura modesta, meno trionfale di quella delle donne di Caux. Contro l’uso del tempo, nonostante la calura di luglio, il suo seno era severamente coperto da un fisciù di seta solidamente annodato dietro il busto. Aveva un abito bianco, nessun altro lusso oltre quello che raccomanda la donna, i pizzi della cuffia svolazzanti sulle guance. D’altra parte, nessun pallore, due guance rosa, una voce sicura, nessun segno di emozione.
Essa varcò con passo fermo la prima barriera, non arrestandosi alla voce della portinaia che la richiamava invano. Subì l’ispezione poco benevola di Catherine che, al rumore, aveva socchiuso la porta e voleva impedirle di entrare. La discussione fu udita da Marat, e il suono di quella voce vibrante, argentina, arrivò a lui. Egli non detestava le donne, e benché fosse in bagno, ordinò imperiosamente di lasciarla entrare.
La stanza era piccola, scura. Marat, nel bagno, coperto da un panno sudicio e da un’asse sulla quale scriveva, non lasciava emergere che la testa, le spalle e il braccio destro. I suoi capelli unti, avvolti da un fazzoletto o da un asciugamano, la sua pelle gialla e le sue membra gracili, la sua grande bocca da batrace, non ricordavano molto che quell’essere era un uomo.
D’altronde come è facile immaginare, la ragazza non ci badò. Aveva promesso notizie di Normandia: egli le chiese, soprattutto, i nomi dei deputati rifugiati a Caen; essa li nominò, ed egli li scriveva a misura che venivano pronunziati. Poi, avendo finito: «Benissimo! tra otto giorni saliranno sulla ghigliottina».
Charlotte, alla quale questa frase conferì un accrescimento di forza, trasse dal seno il coltello e lo piantò tutt’intero, sino al manico, nel cuore di Marat. Il colpo, giungendo così dall’alto, vibrato con straordinaria sicurezza, sfiorò la clavicola, attraversò tutto il polmone, aprì il tronco delle carotidi; sgorgò un flutto di sangue.
«A me, mia cara amica!». È tutto ciò che poté dire, e spirò.
2. La morte di Charlotte Corday
Interrogatorio di Charlotte Corday
La donna entra, il fattorino… Trovano Charlotte, ritta, come impietrita, accanto alla finestra… L’uomo le dà una seggiolata in testa, sbarra la porta perché non esca. Ma essa non si muoveva. Alle grida, accorrono i vicini, il quartiere, tutti i passanti. Vien chiamato il chirurgo, che trova un morto e null’altro.
Frattanto la guardia nazionale aveva impedito che Charlotte fosse fatta a pezzi; qualcuno le teneva strette le mani. Essa non pensava minimamente a servirsene. Immobile, guardava con occhio opaco e freddo. Un parrucchiere del quartiere, che aveva raccattato il coltello, lo brandiva urlando. Essa non gli badava. La sola cosa che sembrava stupirla e che (lo disse lei stessa) la faceva soffrire, erano gli urli di Catherine Marat. Essi le comunicavano la prima e penosa idea «che, tutto sommato, Marat era un uomo». Essa aveva l’aria di dire a se stessa: «Come! era dunque amato!».
Quasi subito arrivò il commissario di polizia, alle sette e tre quarti, poi gli amministratori della polizia, Louvet e Marino, infine i deputati Maure, Chabot, Drouet e Legendre, accorsi dalla Convenzione per vedere il mostro. Furono molto stupiti di trovare tra i soldati, che le tenevano le mani, una bella e giovane ragazza, molto calma, che rispondeva a tutto con fermezza e semplicità, senza timidezza, senza enfasi; ella confessava anzi che sarebbe fuggita se avesse potuto. Tali sono le contraddizioni della natura. In un discorso ai francesi che aveva scritto in anticipo e che aveva con sé, essa diceva di voler morire, perché la sua testa, recata attraverso Parigi, servisse come segno di adunata agli amici delle leggi.
Altra contraddizione: essa dice e scrive che sperava di morire sconosciuta. E tuttavia le furono trovati indosso il suo atto di battesimo e il suo passaporto che dovevano inevitabilmente farla riconoscere.
Gli altri oggetti che le furono trovati indosso rivelavano molto bene tutta la sua tranquillità di spirito; erano le cose che una donna diligente e abituata all’ordine porta sempre con sé. Oltre la sua chiave, il suo orologio e un po’ di denaro, aveva un ditale e filo, per riparare in prigione il disordine che molto probabilmente un arresto violento doveva arrecare ai suoi abiti.
Il tragitto sino all’Abbazia non era lungo, appena due minuti. Ma era pericoloso. La strada era piena di amici di Marat, di Cardelim furiosi che piangevano, urlavano che venisse consegnata loro l’assassina. Charlotte aveva previsto, accettato in anticipo qualsiasi genere di morte, eccettuato d’essere squartata. Si dice che per un momento si smarrì, credette di svenire. L’Abbazia fu raggiunta.
Interrogata di nuovo durante la notte dai membri del comitato di sicurezza generale e da altri deputati, essa mostrò non soltanto una grande fermezza, ma una certa gaiezza. Legendre, gonfio della propria importanza, e credendosi ingenuamente degno del martirio, le disse: «Non siete voi che siete venuta ieri a casa mia in abito da monaca?». «Il cittadino s’inganna», diss’ella con un sorriso. «Non pensavo che la sua vita o la sua morte avesse qualche importanza per la salute della repubblica».
Chabot aveva sempre tra le mani il suo orologio e non se ne staccava…
«Credevo», disse ella, «che i cappuccini facessero voto di povertà».
Il grande dispiacere di Chabot e di coloro che la interrogavano era di non· trovare niente né su di lei né nelle sue risposte che potesse far credere che essa era stata inviata dai Girondini di Caen. Nell’interrogatorio della notte, l’impudente Chabot sostenne che essa aveva ancora una carta riposta in seno, e, approfittando vilmente del fatto che essa aveva sempre le mani legate, mise la mano su di lei; avrebbe trovato senza dubbio ciò che non v’era, il manifesto della Gironda. Benché legata, essa lo respinse violentemente; si gettò indietro con tale forza che i cordoni del suo corpetto si spezzarono e si poté vedere per un momento quel seno casto ed eroico. Tutti furono commossi. Essa venne slegata perché potesse riassestarsi. Le fu permesso anche di rimboccare le maniche e di infilare i guanti sotto i legami.
Charlotte Corday inprigionata
Trasferita il 16 mattina dall’Abbazia alla Conciergerie, essa vi scrisse alla sera una lettera a Barbaroux, lettera evidentemente calcolata per ostentare la sua gaiezza (che rattrista e fa male!), una perfetta tranquillità d’animo. In questa lettera che non poteva non essere letta, diffusa il giorno dopo per Parigi, e che, ad onta della sua forma familiare, ha l’importanza di un manifesto, essa cercava di far credere che i volontari di Caen fossero ardenti e numerosi. Ignorava ancora la sconfitta di Vernon.
Ciò che sembra indicare che essa era meno calma di quanto ostentava d’essere, è che per quattro volte torna su ciò che giustifica e scusa il suo gesto: la pace, il desiderio della pace. La lettera è datata: «Secondo giorno della preparazione della pace»; e verso la metà si legge: «Possa la pace ristabilirsi tanto presto quanto io lo desidero!… Da due giorni io appartengo alla pace. La felicità del mio paese fa la mia felicità».
Essa scrisse a suo padre per chiedergli perdono di avere disposto della propria vita, e gli citò il verso che dice:
L’onta vien dal delitto e non già dal patibolo.
Aveva scritto anche a un giovane deputato, nipote della badessa di Caen, Doulcet di Pontécoulant, un girondino prudente che, dice Charlotte Corday, sedeva sulla Montagna. Lo prendeva per difensore. Ma Doulcet non dormiva in casa sua, e la lettera non lo trovò.
Se debbo credere a una nota preziosa, trasmessa dalla famiglia del pittore che le fece il ritratto in prigione, essa s’era fatta appositamente una cuffia per il processo. Ciò spiega come spendesse trentasei franchi nella sua tanto breve prigionia.
Dinanzi al tribunale
Quale sarebbe stato il sistema dell’accusa? Le autorità di Parigi, in un proclama, attribuivano il delitto ai federalisti, e nello stesso tempo dicevano «che questa furia era uscita dalla casa dell’ex conte Dorset». Fouquier-Tinville scriveva al comitato di sicurezza: «di essere stato informato che essa era amica di Belzunce, e aveva voluto vendicare Belzunce e Biron, suo parente, recentemente denunciato da Marat, che Barbaroux l’aveva spinta, ecc.». Assurdo romanzo, di cui non osò neppure parlare nella sua requisitoria.
Il pubblico non si lasciò ingannare. Tutti compresero che era sola, che non aveva ascoltato altri consigli che quelli del suo coraggio, della sua abnegazione, del suo fanatismo. I prigionieri dell’Abbazia, della Conciergerie, lo stesso popolo delle strade (fatta eccezione per i gridi del primo momento), tutti la guardavano immersi nel silenzio di una rispettosa ammirazione.
«Quando apparve nell’uditorio», dice il suo difensore d’ufficio, Chauveau-Lagarde, «tutti, giudici, giurati e spettatori, avevano l’aria di considerarla come un giudice che li avesse chiamati al tribunale supremo… È stato possibile cogliere i suoi lineamenti, riprodurre le sue parole; ma nessuna arte sarebbe stata in grado di dipingere la sua grande anima che spirava tutt’intera nella sua fisionomia… L’effetto morale del dibattimento appartiene a quel genere di cose che si sentono, ma che è impossibile esprimere».
Poi, rettifica le sue risposte, abilmente sfigurate dal Moniteur. Non ve n’è una che non abbia il tono di quelle che si leggono nei dialoghi serrati di Corneille.
«Chi vi ispirò tanto odio?».
«Non avevo nessun bisogno dell’odio degli altri, il mio bastava».
«Questo gesto deve esservi stato suggerito».
«Si porta a termine male ciò che non si è concepito da sé».
«Che cosa odiavate in lui?».
«I suoi delitti».
«Che cosa intendete con questa parola?».
«Lo sterminio della Francia».
«Che cosa speravate uccidendolo?».
«Di rendere la pace al mio paese».
«Credete dunque di aver ucciso tutti i Marat?».
«Morto questo, forse gli altri avranno paura».
«Da quando avevate questo progetto?».
«Dal 31 maggio, quando furono arrestati rappresentanti del popolo».
Il presidente, dopo una deposizione a suo carico:
«Che cosa rispondete a questo?».
«Nulla, se non che sono riuscita».
La sua sincerità non si smentì che su un punto. Sostenne che alla rivista di Caen c’erano trentamila uomini. Voleva far paura a Parigi.
Molte risposte rivelarono che questo cuore tanto risoluto non era tuttavia estraneo alla natura. Essa non riuscì ad ascoltare sino alla fine la deposizione che la moglie di Marat faceva tra i singhiozzi; si affrettò a dire:
«Sì, sono stata io a ucciderlo».
Ebbe anche un moto di orrore quando le fu mostrato il coltello. Volse lo sguardo da un’altra parte, e, allontanandolo con la mano, disse con voce interrotta: «Sì, lo riconosco… lo riconosco…».
Fouquier-Tinville fece osservare che aveva vibrato l’arma dall’alto per non fallire il colpo; diversamente avrebbe potuto incontrare una costola e non uccidere; e soggiunse:
«Evidentemente vi eravate bene esercitata in anticipo…».
«Oh! che mostro!», esclamò essa. «Mi prende per un’assassina!».
«Questa frase», dice Chauveau-Lagarde, «fu come lo scroscio di un fulmine». Il dibattimento fu chiuso. Era durato in tutto mezz’ora.
Il presidente Montané avrebbe voluto salvarla. Mutò la domanda che doveva rivolgere ai giurati, accontentandosi di domandare: «Ha essa compiuto il suo gesto con premeditazione?», e sopprimendo la seconda metà della formula: «con scopo criminoso e antirivoluzionario?». Il che gli valse di essere arrestato a sua volta alcuni giorni dopo.
Il presidente per salvarla, i giurati per umiliarla, avrebbero voluto che il difensore la facesse passare per pazza. Egli la guardò e lesse nei suoi occhi. La servì come essa voleva essere servita, stabilendo la lunga premeditazione, e che come unica difesa non voleva essere difesa. Giovane ed elevato al di sopra di sé stesso dallo spettacolo di quel grande coraggio, egli arrischiò questa frase (che sfiorava da vicino il patibolo): «Questa calma e questa abnegazione sublimi, da un certo punto di vista…».
Dopo la condanna, si fece condurre dal giovane avvocato, e gli disse, con molta gentilezza, che lo ringraziava della sua difesa delicata e generosa e che voleva dargli una prova della sua stima: «Quei signori m’hanno detto che i miei beni sono confiscati; io debbo qualcosa alla prigione e vi incarico di saldare il mio debito».
Ridiscesa per la scala a chiocciola dalla cupa sala alle celle che stanno sotto di essa, sorrise ai compagni di prigionia che la guardavano passare, e fece le sue scuse al carceriere Richard e alla moglie di questo con i quali aveva promesso di far colazione. Ricevette la visita di un prete che le offriva il proprio ministero, e lo congedò educatamente: «Ringraziate per me», gli disse, «le persone che vi hanno mandato».
Gli ultimi momenti
Durante l’udienza aveva notato che un pittore cercava di fermare i suoi lineamenti e la guardava con vivo interesse. Lo fece chiamare dopo la sentenza, e gli diede gli ultimi momenti che le rimanevano prima dell’esecuzione. Il pittore, di nome Hauer, era comandante in seconda del battaglione dei Cordeliers. Dovette probabilmente a questa sua qualità il favore che gli fu concesso di essere lasciato accanto a lei, senz’altro testimone che un gendarme. Essa chiacchierò tranquillamente con lui di cose indifferenti, e anche dell’avvenimento del giorno, della pace morale che sentiva in sé. Poi pregò il signor Hauer di copiare il ritratto in piccolo e di mandarlo alla sua famiglia.
In capo a un’ora e mezzo, fu bussato piano a una piccola porta ch’era dietro di lei. La porta fu aperta, entrò il boia. Charlotte, volgendosi, vide le forbici e la camicia rossa che egli indossava. Non poté difendersi da una leggera emozione, e disse, involontariamente: «Come! è già l’ora!». Ma si rimise subito, e rivolgendosi al signor Hauer: «Signore», disse, «non so come ringraziarvi del disturbo che vi siete preso; non posso offrirvi che questo; tenetelo per mio ricordo».· Nello stesso tempo prese le forbici, tagliò una bella ciocca dei suoi lunghi capelli biondo cenere che sfuggivano di sotto la cuffia, e la consegnò al pittore. I gendarmi e il carnefice erano molto commossi.
L’esecuzione (19 luglio 1793 )
Al momento in cui salì sulla carretta, e la folla, animata da due fanatismi opposti, furore o ammirazione, vide uscire di sotto il basso arco della Conciergerie la bella e splendida vittima col suo mantello rosso, la natura parve associarsi alla passione umana; un violento uragano scoppiò su Parigi. Ma durò poco e sembrò fuggire davanti a lei quando essa apparve sul Pont-Neuf e avanzò lentamente lungo la via Saint-Honoré. Il sole riapparve alto e splendente; erano circa le sette di sera (19 luglio). I riflessi della stoffa rossa mettevano in valore in modo strano e assolutamente fantastico l’effetto del suo colorito e dei suoi occhi.
Si afferma che Robespierre, Danton, Desmoulins, si posero sul suo passaggio e la guardarono. Tranquilla immagine, ma appunto perciò tanto più terribile, della Nemesi rivoluzionaria, essa turbava i cuori, li lasciava pieni di stupore.
Gli osservatori seri che la seguirono sino agli ultimi momenti, scrittori, medici, furono colpiti da una cosa rara: i condannati più coraggiosi si sostenevano mediante l’animazione, sia con canti patriottici, sia con qualche temibile appello che lanciavano ai loro nemici. Essa mostrò una calma perfetta, tra i gridi della folla, una serenità semplice e grave; arrivò sulla piazza con una singolare maestà, e come trasfigurata dall’aureola del tramonto.
Un medico che non la perdeva di vista disse che, quando vide la lama della ghigliottina, gli parve per un momento pallida. Ma i colori tornarono, essa salì con passo fermo. La giovinetta riapparve quando il boia le strappò il fisciù; il suo pudore ne fu offeso, ed affrettò l’evento, avanzando spontaneamente verso la morte.
Nel momento in cui la testa cadde, un falegname maratista che serviva di aiutante al carnefice, la afferrò brutalmente, e, mostrandola al popolo, ebbe l’indegna ferocia di schiaffeggiarla. Un brivido d’orrore, un mormorio percorse la piazza. Qualcuno credette di vedere la testa arrossire. Semplice effetto d’ottica forse; la folla, turbata, aveva negli occhi i rossi raggi del sole che sbucavano di tra gli alberi dei Champs-Élysées.
La Comune di Parigi e il tribunale diedero soddisfazione al sentimento pubblico mettendo l’uomo in prigione.
Tra i gridi dei maratisti, pochissimo numerosi, l’impressione generale di ammirazione e di dolore era stata violenta. Se ne può avere un’idea quando si pensi che, nell’allora grande servitù della stampa, la Chronique de Paris osò stampare un elogio, quasi senza restrizioni, di Charlotte Corday. Molti uomini restarono colpiti al cuore, e non si riebbero mai più. Abbiamo visto l’emozione del presidente, i suoi sforzi per salvarla, l’emozione dell’avvocato, giovanotto timido, che questa volta si mostrò più grande di sé stesso. Quella del pittore non fu meno grande. Egli espose quello stesso anno un ritratto di Marat, forse per scusarsi di aver dipinto quello di Charlotte Corday. Ma il suo nome non appare più in nessuna esposizione. Sembra che dopo quell’ora fatale egli non abbia più dipinto.
3. La religione del pugnale
L’effetto di quella morte fu terribile: fece amare la morte.
Il suo esempio, la calma intrepidità di una ragazza graziosa, ebbero un effetto d’attrazione. Vi fu chi, avendola intravista, trovò una cupa voluttà nel seguirla, nel cercarla in mondi ignoti.
Un giovane tedesco, Adam Lux, inviato a Parigi per chiedere la riunione di Magonza alla Francia, stampò un opuscolo nel quale domanda di morire per raggiungere Charlotte Corday. Questo infelice, venuto qui col cuore pieno di entusiasmo, credendo di contemplare a faccia a faccia nella Rivoluzione francese il puro ideale della rigenerazione umana, non poteva sopportare l’oscuramento precoce di questo ideale; egli non comprendeva le prove troppo crudeli che portò con sé un simile parto.
Nei suoi pensieri malinconici, quando la libertà che sembra perduta, egli la vede, è Charlotte Corday. Vede Charlotte al tribunale, commovente nella sua ammirevole intrepidezza, la vede maestosa e regale sul patibolo… essa gli apparve due volte… Ciò basta! Egli ha bevuto la morte.
«Io ero convinto del suo coraggio», dice, «ma che fu di me quando vidi tutta la sua dolcezza tra gli urli barbari, quello sguardo penetrante, le vivide e umide scintille che sprizzavano dai suoi begli occhi, nei quali parlava un’anima tanto tenera quanto intrepida!… O ricordo immortale! emozioni dolci e amare che non avevo mai conosciuto! Esse sostengono in me l’amore di questa patria per la quale essa volle morire, e della quale, per adozione, son figlio anch’io. Mi innalzino, ora, agli onori della loro ghigliottina, essa non è più che un altare!».
Anima pura e santa, cuore mistico, egli adora Charlotte Corday, e tuttavia non adora il delitto.
«Certo, chiunque ha il diritto di uccidere l’usurpatore, il tiranno», scrive, «ma Marat non era né l’uno né l’ altro».
Notevole dolcezza d’animo. Essa contrasta in modo notevole con la violenza di un grande popolo che diventò innamorato dell’assassinio. Parlo del popolo girondino e anche dei realisti. Il loro furore aveva bisogno di un santo e di una leggenda. Charlotte era un ricordo ben diverso, pieno di tutt’altra poesia, da quello di Luigi XVI, martire volgare, che non ebbe d’interessante se non la sua disgrazia.
Una religione si fonda sul sangue di Charlotte Corday: la religione del pugnale.
André Chénier scrive un inno alla nuova divinità:
Virtù! il pugnale, sola speranza della terra
È la tua arma sacra!…
Questo inno, incessantemente riscritto in tutte le età e in tutti paesi, riappare all’altro capo dell’Europa nell’Inno al pugnale di Puskin.
Il vecchio patrono degli assassinii eroici, Bruto, pallido sovrano di una lontana antichità, si trova ormai trasformato in una nuova divinità più potente e più seducente. Il giovane che medita un attentato, si chiami Alibaud o Sand a chi pensa ora? chi vede nei suoi sogni? il fantasma di Bruto? No, la squisita Charlotte, quale apparve nel sinistro splendore del suo mantello rosso, nell’aureola sanguinosa del sole di luglio e nella porpora del tramonto.
Da Jules Michelet, Storia della Rivoluzione francese, tomo III, Milano, Rizzoli, pp. 417–434