Testi di Marat

Dispotismo e libertà | I diritti civili

Mario Mancini
21 min readSep 11, 2022

di Jean-Paul Marat

Speciale Marat
Introduzione. Marat, l’Amico del Popolo
1. Protagonisti della rivoluzione francese di François Furet e Denis Rochet
2. La morte di Marat e Carlotta Corday di Jules Michelet
3. La bella e lo squallido di Thomas Carlyle
4. L’influenza di Marat di Louis R. Gottschalk
5. Marat socialista? di Jean Jaurès
6. Marat dietro le quinte di Victor Hugo
7. Testi di Marat: Dispotismo e libertà| I diritti civili

“Think | Tank”. Il saggio del mese [settembre 2022]

1. Dispotismo e libertà

Le tre età delle nazioni

Alla nascita delle società civili, un grossolano buon senso, dei costumi duri e agresti, la forza, il coraggio, l’audacia, il disprezzo del dolore, la fierezza, l’amore dell’indipendenza, costituiscono il carattere distintivo delle nazioni. Il tempo in cui esse conservano tale carattere è l’età della loro infanzia.

A queste virtù selvagge succedono le attività domestiche, il talento militare e le conoscenze politiche necessarie a gestire gli affari, cioè proprie a rendere lo Stato formidabile all’esterno e tranquillo all’interno. Ecco l’epoca della giovinezza delle nazioni.

Infine giungono il commercio, le arti di lusso, le belle arti, le lettere, le scienze speculative, le raffinatezze del sapere, della cortesia, della mollezza; frutti della pace, della agiatezza e del piacere; in una parola, tutte le conoscenze utili a rendere fiorenti le nazioni. È l’età della loro maturità, passata la quale, esse vanno degenerando e vanno verso la loro fine.

Man mano che gli Stati si allontanano dalla loro origine, i popoli perdono insensibilmente l’amore per l’indipendenza, il coraggio di respingere i nemici esterni e l’ardore di difendere la loro libertà contro i nemici interni. Allora, anche il piacere della mollezza si allontana dal tumulto degli affari e dal fragore delle armi, mentre una massa di nuovi bisogni li getta a poco a poco in una condizione di dipendenza da un padrone.

Cosi, lo sviluppo della forza dei popoli differisce in ogni punto dallo sviluppo della forza dell’uomo. È nella loro infanzia che essi dispiegano tutto il loro vigore, tutta la loro energia, che essi sono più indipendenti, più padroni di se stessi: vantaggi che perdono più o meno avanzando nell’età e di cui non resta loro neanche il ricordo nella vecchiaia. Tale è la loro discesa nella servitù, per il semplice volgersi degli eventi.

L’ideale della democrazia egualitaria

Quando l’educazione non ha elevato lo spirito e il disprezzo dell’oro non è ispirato dal governo, la povertà abbatte il cuore e lo piega alla dipendenza, che porta sempre alla servitù. Come potrebbero conoscere l’amore della libertà degli uomini avvinti dalla miseria? Come potrebbero essi avere l’audacia di resistere all’oppressione e di rovesciare il dominio degli uomini potenti davanti ai quali stanno in ginocchio!

Altra cosa è quando l’amore della povertà è ispirato dalle istituzioni sociali.

Finché le ricchezze dello Stato sono limitate al suo territorio e le terre sono divise in modo pressoché uguale fra i suoi abitanti, ognuno ha gli stessi bisogni e gli stessi mezzi per soddisfarli; in questa situazione i cittadini, avendo gli stessi rapporti fra loro, sono quasi indipendenti gli uni dagli altri: posizione la più felice per godere di tutta la libertà che un governo può dare.

Ma quando per una serie di rapine e di atti di brigantaggio, per l’avarizia degli uni e la prodigalità degli altri, i fondi agricoli sono passati in poche mani, questi rapporti cambiano necessariamente: le ricchezze, questo sordo modo di acquistare potenza, diventano un infallibile mezzo di asservimento; ben presto la classe dei cittadini indipendenti svanisce e nello Stato non vi sono che padroni e sudditi.

I ricchi si preoccupano di divertirsi e i poveri di sopravvivere, le arti si espandono per i loro reciproci bisogni e gli indigenti non sono più che strumenti del lusso dei favoriti della fortuna.

Infiacchiti da professioni sedentarie e dal lusso delle città, gli artigiani, gli artisti e i commercianti, avidi di lucro, diventano dei vili intriganti il cui unico sforzo è quello di lusingare le passioni dei ricchi, di mentire, di ingannare; e, poiché essi possono godere dappertutto dei frutti della loro attività, non hanno più patria.

Man mano che la popolazione aumenta, i mezzi di sussistenza diventano meno facili a reperirsi e ben presto lo Stato non è più composto che da una vile plebaglia, che pochi uomini potenti tengono sotto il giogo.

Perciò, soltanto presso nazioni che ebbero la saggezza di prevenire i funesti effetti del lusso, opponendosi all’introduzione delle ricchezze e limitando il patrimonio dei cittadini, lo Stato conservò cosi a lungo il vigore della giovinezza.

L’avvento del dispotismo

Non v’è Costituzione politica in cui i diritti del cittadino siano ben fissati, in modo da non lasciare nulla di arbitrario al governo; nessuna in cui il legislatore abbia spinto la lungimiranza fino a tagliare alla radice la possibilità di innovazioni. Ora, è sempre con la scusa di innovare che i principi gettano le basi del loro dominio.

Le prime innovazioni ne hanno appena l’apparenza: non è colpendo, ma minando il tempio della libertà, che si cerca di abbatterlo. Si comincia col portare dei sordi attacchi ai diritti dei cittadini, raramente in modo da produrre una sensazione molto forte e si ha sempre cura di non rendere noti questi attacchi con dei procedimenti clamorosi.

Se è necessario consegnarli agli atti della pubblica autorità, affinché siano avvertiti meno, si ha cura di nascondere ciò che essi hanno di odioso, alterando i fatti e dando bei nomi alle azioni piò criminali.

Spesso si comincia col proporre qualche leggera riforma che non rivela nulla che non sia conveniente. La si enuncia con delle proposizioni generali, abbastanza accettabili a prima vista e che nascondono conseguenze di cui dapprima non ci si avvede, ma di cui non si tarda ad approfittare, traendone i vantaggi previsti. Oppure si aggiunge alla fine qualche articolo, che distrugge ciò che i primi offrono di vantaggioso e che lascia sussistere soltanto ciò che essi contengono di funesto.

Talvolta, per attentare alla libertà, il principe attende l’occasione di una crisi allarmante che egli ha preparato: allora, con il pretesto di provvedere alla salvezza dello Stato, egli propone degli espedienti disastrosi che copre col velo della necessità, dell’urgenza delle circostanze, dei tempi infausti.

Egli vanta la purezza delle sue intenzioni, fa risuonare le grandi parole dell’amore del pubblico bene e proclama le attenzioni del suo amore paterno. Se si esita ad aderire alla sua proposta, grida: Come! non volete! tiratevi dunque da soli fuori dell’abisso! Nessuno ha la forza di opporre resistenza e tutti si lasciano andare, benché non ci sia alcun dubbio che quegli espedienti nascondono, sotto belle apparenze, dei disegni sinistri. E quando la trappola scatta, non ce più il tempo di evitarla: allora il popolo, simile al leone che cade nella rete nascosta sotto le frasche, si dibatte per romperla e non fa che legarsi sempre più.

Il dispotismo e la censura

Chiudere la bocca agli scontenti significa impedire che il popolo si svegli dal suo letargo ed è ciò che si propongono quelli che vogliono opprimerlo. Ma il problema principale è di approntare i mezzi per far sì che l’incendio non divenga generale, opponendosi alla comunicazione fra le varie parti dello Stato. Perciò i principi hanno gran cura di ostacolare la libertà della stampa.

Troppo pavidi per attaccarla per primi apertamente, attendono che i cittadini gliene forniscano un pretesto plausibile e, quando gli si offre, non mancano mai di coglierlo.

Un libro contiene qualche riflessione illuminante sui diritti dei popoli, qualche pensiero libero sui limiti del potere dei re, qualche passo notevole contro la tirannia, qualche immagine toccante delle dolcezze della libertà che essi cercano di far dimenticare? Immediatamente lo proscrivono come contenente delle massime contro la religione e il buon costume.

Essi si levano contro ogni scritto capace di conservare lo spirito di libertà, battezzano col nome di libello ogni opera in cui si cominciano a svelare i tenebrosi misteri del governo e, con il pretesto di reprimere la licenza, soffocano la libertà infierendo contro gli autori.

Essi fanno di più: per mantenere i popoli nell’ignoranza e non lasciare alcuna porta aperta alle verità utili, istituiscono ispettori della stampa, revisori, censori di ogni genere — vili guardiani che vegliano senza posa per il dispotismo contro la libertà.

Appare all’estero qualche scritto contro la tirannia? Essi ne fanno sopprimere la pubblicazione dai loro ministri e non lasciano esporre in vendita nei loro Stati nessun libro che non sia stato esaminato dalle loro creature.

La religione al servizio del dispotismo

Tutte le religioni danno una mano al dispotismo tuttavia non ne conosco nessuna che lo favorisca tanto quanto quella cristiana.

Lungi dall’essere legata al sistema politico di un qualche governo, essa non ha nulla di esclusivo, nulla di locale, nulla di proprio al tale paese piuttosto che all’altro; abbraccia egualmente tutti gli uomini nella sua carità; toglie la barriera che separa le nazioni e unisce tutti i cristiani in un popolo di fratelli. Tale è il vero spirito del Vangelo.

La libertà è connessa all’amor di patria; ma il regno dei cristiani non è di questo mondo, la loro patria è in cielo e per essi questa terra non è che un luogo di pellegrinaggio. Ora, come prenderanno a cuore le cose di quaggiù uomini che desiderano soltanto le cose di lassù?

I consorzi umani sono tutti fondati sulle umane passioni e si sostengono soltanto grazie ad esse: l’amore della libertà è connesso a quello del benessere, a quello dei beni temporali; ma il cristianesimo ci ispira soltanto distacco da questi beni e non si preoccupa che di combattere le passioni. Tutto preso da un’altra patria, non lo è affatto da questa.

Per conservarsi liberi bisogna avere gli occhi continuamente aperti sul governo; bisogna spiare i suoi passi, opporsi ai suoi attentati, reprimere le sue violenze. Come potrebbero essere diffidenti uomini cui la religione vieta di essere sospettosi? Come potrebbero stroncare i sordi intrighi dei traditori che si insinuano in mezzo a loro? Come potrebbero scoprirli? Come potrebbero perfino dubitarne? Senza diffidenza, senza timore, senza astuzia, senza collera, senza desiderio di vendetta, un vero cristiano è alla mercé del primo venuto.

Lo spirito del cristianesimo è uno spirito di pace, di dolcezza, di carità, i suoi discepoli ne sono tutti animati, perfino per i loro nemici. Quando li si colpisce su una guancia, devono mostrare l’altra. Quando si toglie loro la veste, devono dare anche il mantello. Quando li si costringe a camminare per fare una lega, devono camminare per due. Quando li si perseguita, devono benedire i loro persecutori. Che cosa avrebbero da opporre ai tiranni? Non è loro permesso dr difendere la propria Vita.

Sempre rassegnati essi soffrono in silenzio, tendono le mani al cielo, si umiliano sotto la mano che li colpisce e pregano per i loro boia. La pazienza, le preghiere, le benedizioni sono le loro armi; e qualunque cosa si faccia loro, mai si abbassano alla vendetta: come potrebbero armarsi, dunque, contro coloro che turbano la pace dello Stato? Come potrebbero respingere con la forza i loro oppressori? Come potrebbero combattere i nemici della libertà? Come pagheranno essi col loro sangue ciò che devono alla patria!

L’esercito al servizio del dispotismo

  1. Assicurarsi la fedeltà dell’esercito

Per lasciare poca influenza a coloro che sono alla testa delle truppe, il principe non si contenta di sopprimere le grandi cariche militari, divide l’esercito in piccoli corpi fra i quali fa sorgere rivalità per mezzo di alcune prerogative particolari.

Dà il comando di questi piccoli corpi solo a uomini fidati; poi, per assicurarsi ancor meglio la loro fedeltà, istituisce in ogni corpo diversi gradi cui non si accede che lentamente per diritto di anzianità e rapidamente grazie alle protezioni. Cosi, non soltanto ogni ufficiale subalterno considera colui che gli è sopra come un ostacolo al suo avanzamento e lo guarda con occhio geloso; ma i più ambiziosi cercano di pervenire al grado più alto con l’arrendevolezza e una corte assidua; mentre quelli che vi sono, cercano di mantenervisi con la loro dedizione agli ordini dei capi, alla volontà del principe.

Quanto ai più alti gradi militari, egli ha gran cura di non nominarvi uomini che godono del favore popolare e di non riunire mai nelle loro mani contemporaneamente una carica civile. Talvolta spinge la diffidenza fino a porre alla testa dell’esercito soltanto soldati di ventura, o fino a cambiare spesso gli ufficiali generali, a fomentare rivalità tra loro e a lasciare soltanto per poco tempo le truppe di guarnigione nelle stesse piazze.

Quando il principe decide di non comandare di persona l’esercito, per rimettere senza pericolo il comando in altre mani, affida a diversi capi; ma, lungi dal dare loro carta bianca, subordina sempre a un consiglio di guerra quando il gabinetto non regola le loro operazioni, se anche non li sottomette al controllo di un ministro devoto.

Dopo aver preso queste misure, per assicurarsi la fedeltà dell’esercito il principe favorisce i militari, li lega ai suoi interessi con elargizioni, li colma di favori, carezza le mani con le quali vuole incatenare lo Stato.

I soldati cominciano a non riconoscere che la voce dei loro capi, a fondare su di essi soltanto tutte le loro speranze e a considerare come estranea la patria. Già non sono più i soldati dello Stato, ma quelli del principe e ben presto quelli che sono alla testa delle armate non sono più i difensori del popolo, ma i suoi nemici.

È cosi che egli si prepara un partito devoto, sempre pronto contro la nazione, e non attende che il momento opportuno per farlo agire.

2. Sottrarre il potere militare a quello civile

Presso un popolo libero, il soldato, sottomesso alle leggi e punito dai magistrati, conosce dei doveri, conserva nel suo stato le idee di giustizia, impara a rispettare i cittadini e gli si impedisce di avere coscienza delle sue forze. Cosi, per piegare il militare alla loro volontà, i principi lo sottraggono al potere civile: ma, affinché egli non riconosca altra autorità che la loro e non sia responsabile che verso loro, sia che egli congiuri, si ammutini, si ribelli, sia che rubi, violi, assassini, competente per il delitto è sempre una corte marziale.

3. Ispirare al militare disprezzo per il cittadino

Destinati ad agire contro la patria quando sarà il tempo, si allontanano i soldati dal consorzio dei cittadini, li si obbliga a vivere fra loro, li si accaserma; poi, si ispira loro il disprezzo per ogni condizione diversa da quella militare e, al fine di farne loro sentire la preminenza, si accordano loro molti segni di distinzione.

Abituati a vivere lontani dal popolo, essi ne perdono lo spirito; abituati a disprezzare il cittadino, ben presto non chiedono che di opprimerlo; lo si lascia esposto a tutte le loro violenze, ed essi sono sempre pronti a piombare sulla parte dello Stato che volesse sollevarsi.

La classe mercantile al servizio del dispotismo

Speculazioni di ogni genere determinano necessariamente la formazione delle compagnie privilegiate per talune branche di commercio esclusivo: compagnie sempre formate a danno del commercio dei singoli privati, delle manifatture, delle attività artigianali e della manodopera, per ciò solo: che esse distruggono ogni concorrenza. Così le ricchezze che potrebbero scorrere per mille diversi canali a fecondare lo Stato, si concentrano nelle mani di poche società che divorano le sostanze del popolo e s’ingrassano col suo sudore.

Con le compagnie privilegiate nascono i monopoli di ogni specie, l’accaparramento dei prodotti artigianali, dei prodotti della natura e soprattutto delle derrate di prima necessità: accaparramenti che rendono precaria la ricchezza del popolo e lo mettono alla mercé dei ministri, capi naturali di tutti gli accaparratori.

Sul sistema dei monopoli si modella gradualmente l’amministrazione delle finanze. Le entrate dello Stato sono date in appalto a traitants, che si mettono quindi alla testa delle compagnie privilegiate e che stornano a loro profitto le fonti dell’abbondanza pubblica. Ben presto la nazione diventa preda degli esattori, dei pubblicani, dei concussionari: vampiri insaziabili che vivono solo di rapine, di estorsioni, di brigantaggio e che mandano in rovina la nazione per ornarsi delle sue spoglie.

Le compagnie di commercianti, di finanzieri, di traitants, di pubblicani e di accaparratori fanno nascere sempre una folla di mediatori, di agenti di cambio e di speculatori di borsa: cavalieri d’industria unicamente occupati a propagare false notizie per far alzare o abbassare i titoli, avvolgere le loro vittime in reti dorate e spogliare i capitalisti rovinando il credito pubblico.

Ben presto la vista delle immense fortune di tanti avventurieri ispira il piacere delle speculazioni, il furore dell’aggiotaggio si impossessa di tutti i ceti e la nazione non è più formata che da avidi intriganti, da banchieri, da imprenditori di tontina o di casse di sconto, da affaristi, da truffatori e da furfanti, sempre occupati a trovare il modo di spogliare gli sciocchi e di costruire la loro privata fortuna sulle rovine del pubblico patrimonio.

Di tanti intriganti che si affidano alla ruota della fortuna, la maggior parte sono precipitati: la sete dell’oro ha fatto loro arrischiare ciò che hanno per acquistare ciò che non hanno; e la miseria ne fa ben presto dei vili furfanti, sempre pronti a vendersi e a servire la causa di un padrone.

Quando le ricchezze sono accumulate nelle mani degli speculatori, la folla immensa dei mercanti non ha altro che la sua attività per sopravvivere o saziare la sua cupidigia; e poiché il lusso ha dato loro una quantità di nuovi bisogni e la molteplicità di quelli che inseguono la fortuna toglie loro i mezzi di soddisfarli, quasi tutti si vedono ridotti a ricorrere agli espedienti o alla frode: perciò niente più buona fede nel commercio, per arricchirsi o sottrarsi all’indigenza ciascuno si ingegna ad ingannare gli altri: i mercanti di prodotti di lusso spogliano i cittadini che fanno cattivi affari, i figlioli prodighi, i dissipatori: tutte le merci sono sofisticate, fin’anche i commestibili; trionfa l’usura, la cupidigia non ha più freno e le canagliate non hanno più limiti.

Alle virtù dolci e caritatevoli che caratterizzano le nazioni semplici, povere e ospitali, succedono tutti i vizi dell’odioso egoismo: freddezza, durezza, crudeltà, barbarie; la sete dell’oro inaridisce tutti i cuori che si chiudono alla pietà, la voce dell’amicizia è misconosciuta, i legami del sangue sono recisi, non si desiderano che le ricchezze c si vende perfino l’umanità.

Quanto ai rapporti politici dell’orda degli speculatori, è un fatto che in tutti i paesi le compagnie di commercianti di finanzieri, di traitants, di pubblicani, di accaparratori, di agenti di cambio, di speculatori di borsa, di affaristi, di esattori, di vampiri e di pubbliche sanguisughe, legate a filo doppio col governo, ne diventano i più zelanti sostenitori.

Nelle nazioni mercantili, poiché quasi tutti i capitalisti e i redditieri fanno causa comune con i traitants, i finanzieri, gli aggiotatori, nelle grandi città non vi sono che due classi di cittadini, delle quali l’una vegeta nella miseria e l’altra affoga nelle cose superflue: questa possiede tutti i mezzi di oppressione, quella manca di tutti i mezzi di difesa. Cosi, nelle repubbliche, l’estrema ineguaglianza delle fortune mette l’intero popolo sotto il giogo di un pugno di individui.

È ciò che si vide a Venezia, a Genova, a Firenze, quando il commercio vi fece scorrere le ricchezze dell’Asia. Ed è ciò che si vede nelle Province Unite dove i cittadini opulenti, soli padroni della repubblica, hanno ricchezze da principi, mentre la moltitudine manca del pane.

Nelle monarchie, i ricchi e i poveri sono, gli uni e gli altri, soltanto manutengoli del principe.

È dalla classe degli indigenti che egli trae quelle legioni di satelliti stipendiati che formano le armate di terra e di mare; quei nugoli di alguazil, di sbirri, di bargelli, di spie e di delatori assoldati per opprimere il popolo e metterlo in catene.

È dalla classe degli opulenti che sono tratti gli ordini privilegiati, i titolari, i dignitari, i magistrati e anche i grandi funzionari della corona; quando la nobiltà, le terre titolate, i grandi impieghi, le dignità e le magistrature sono venali, la ricchezza molto più della nascita avvicina al trono, apre le porte del senato, innalza a tutti i posti di comando, che mettono le classi inferiori alle dipendenze degli ordini privilegiati, mentre questi stessi sono alle dipendenze della corte.

È cosi che il commercio trasforma i cittadini opulenti e indigenti in strumenti di oppressione o di servitù.

Vincere il dispotismo con l’insurrezione

Il popolo non prevede mai i mali che gli si preparano. Si possono benissimo rendere illusori i suoi diritti, minare le basi della sua libertà; egli si accorge della sua sventura soltanto quando la sente, quando ode risuonare alle sue orecchie i nomi dei proscritti, quando vede scorrere il sangue dei cittadini, quando, piegato sotto il giogo, attende pieno di spavento la sentenza sulla sorte che gli si riserva.

Per rimanere liberi bisogna stare continuamente in guardia contro coloro che governano: nulla di più facile che rovinare chi non è diffidente; infatti, la troppo grande sicurezza dei popoli è sempre foriera del loro servaggio.

Ma poiché una continua attenzione agli affari pubblici è al di sopra delle possibilità della moltitudine, troppo occupata del resto dai suoi propri affari, è importante che vi siano nello Stato uomini che tengano senza posa gli occhi sul gabinetto, che seguano gli intrighi del governo, che svelino i suoi progetti ambiziosi, che gettino l’allarme all’approssimarsi della tempesta, che scuotano la nazione dal suo letargo, che le rivelino l’abisso che si scava sotto i suoi piedi e che si curino d’indicare colui sul quale deve cadere l’indignazione pubblica. Perciò, la più grande sventura che può capitare ad uno Stato libero, in cui il principe è potente e pieno di iniziative, è che non vi siano né pubbliche discussioni, né effervescenza, ne partiti. Tutto è perduto quando il popolo acquista il sangue freddo e, invece d’essere inquieto per la conservazione dei suoi diritti, non partecipa più agli affari pubblici: mentre al contrario la libertà si vede uscire senza posa dai fuochi della sedizione.

Il pericolo delle fazioni nella rivoluzione

Invece, nonostante le loro sconfitte, spesso i principi non perdono nulla. Vinti e alla mercé dei loro concittadini essi conservano quella fierezza, quella alterigia, quella arroganza, quel tono imperioso, che hanno nella buona ventura; non parlano che delle loro prerogative, pretendono ancora di dettar legge e quasi sempre il popolo si lascia sfuggire il frutto della vittoria.

Ma una volta vinti, quale destino per i sudditi! Dopo inutili tentativi di scuotere il giogo di un dominio tirannico, sono trattati come ribelli: il principe spietato con aria minacciosa detta loro le sue volontà e sempre gli sventurati si lasciano gravare di ferri: quanti poi vanno addirittura incontro al giogo, e si danno da fare per ottenere grazia mediante una ignominiosa sottomissione?

Quand’anche il tiranno fosse abbattuto, la libertà non sarebbe però riconquistata. Tutti erano d’accordo contro la tirannia, ma si tratta ora di instaurare una nuova forma di governo: non ce più unione; è l’immagine della discordia degli abitanti di Capua, quando Pacuvio Alano teneva prigioniero il loro senato.

Essi sanno bene ciò che fuggono, ma non quello che vogliono: gli uni vogliono instaurare l’eguaglianza fra gli ordini; gli altri vogliono conservare le loro prerogative: questi vogliono una legge, quelli ne vogliono un’altra e, dopo molti dibattiti, un partito s’impossessa del potere supremo oppure sono tutti obbligati a ridarsi il governo che hanno proscritto, se non sono già incatenati da qualche nuovo padrone.

Quando i nostri padri, in rivolta contro l’oppressione di Carlo I, ebbero infine infranto le loro catene, li si vide cercare a lungo la libertà senza trovarla; o piuttosto, divisi in fazioni, ciascuna di queste cercò di opprimere le altre e di impossessarsi del potere supremo.

Passi tratti da: Jean-Paul Marat, L’amico del popolo, a cura di Celestino E. Spada, Roma, Editori Riuniti, 1968, pp. 18–35

2. I diritti civili

Il diritto di proprietà

Fate astrazione da ogni specie di violenza e troverete che il solo fondamento legittimo della società è la felicità di coloro che la compongono. Gli uomini si sono riuniti in società solo per il loro comune interesse; hanno fatto le leggi solo per fissare i loro rispettivi diritti e hanno istituito un governo solo per garantirsi il godimento di questi diritti. Se rinunciarono alla vendetta personale, fu per rimetterla all’autorità pubblica; se rinunciarono alla libertà naturale, fu per acquistare la libertà civile; se rinunciarono alla comunità primitiva dei beni, fu per possederne come propria qualche parte.

Alla generazione che ha fatto il patto sociale, succede la generazione che lo conferma; ma il numero dei membri dello Stato cambia continuamente. Ora, quando non si prende alcuna misura per prevenire l’aumento delle ricchezze private, ma si lascia libero corso all’ambizione, all’abilità, alle capacità, una parte dei sudditi si arricchisce sempre a spese dell’altra e, non potendo essi disporre dei loro beni a favore di estranei se non in mancanza di eredi naturali, le ricchezze ben presto si accumulano in un piccolo numero di famiglie. Nello Stato, dunque, vi sarà alla fine una massa di sudditi indigenti, che lasceranno i loro discendenti nella miseria.

Su una terra dappertutto coperta dai possedimenti altrui e dove essi di nulla possono appropriarsi, eccoli dunque ridotti a morire di fame. Ora, dipendendo dalla società soltanto per i suoi svantaggi, sono essi obbligati a rispettarne le leggi? No, senza dubbio; se la società li abbandona, essi tornano allo stato di natura, sicché quando rivendicano con la forza diritti che hanno potuto alienare solo per assicurarsi vantaggi più grandi, ogni autorità che vi si opponga è tirannica e il giudice che li condanni a morte non è che un vile assassino.

Se è necessario che, per conservarsi, la società li costringa a rispettare l’ordine costituito, prima di tutto essa deve metterli al riparo dalle tentazioni del bisogno. Deve assicurare loro, dunque, il sostentamento, un vestiario appropriato, una protezione totale, aiuti nelle malattie e cure nella vecchiaia: infatti essi non possono rinunciare ai loro diritti naturali se non in quanto la società riservi loro una sorte preferibile allo stato di natura. Perciò, soltanto dopo aver adempiuto in questo modo ai suoi obblighi verso tutti i suoi membri, essa ha il diritto di punire coloro che violano le sue leggi.

Sviluppiamo questi principi, applicandoli ad alcuni casi particolari relativi ad un delitto molto comune, delitto che, più di ogni altro, sembra attaccare la società, ma la cui punizione quasi sempre fa ribellare la natura.

Non vi è nessun delitto che sia stato presentato sotto aspetti tanto diversi quanto il furto; nessuno di cui ci si siano fatte idee più false.

Ogni furto presuppone il diritto di proprietà; ma donde deriva questo diritto?

L’usurpatore lo fonda su quello del più forte: come se la violenza potesse mai costituire un titolo sacro.

Il possessore lo fonda su quello del primo occupante: come se una cosa fosse da noi giustamente acquistata per averci messo per primi le mani sopra.

L’erede lo fonda su quello di testamentare: come se si potesse disporre a favore di un altro di ciò che neanche è proprio.

Il coltivatore lo fonda sul suo lavoro: senza dubbio il frutto del vostro lavoro vi appartiene; ma la coltivazione esige il suolo e a quale titolo vi appropriate di un angolo di questa terra, che fu data in comune a tutti i suoi abitanti? Non sapete che soltanto dopo una eguale ripartizione del tutto si poteva assegnarvi la vostra quota-parte? Non solo, ma dopo questa divisione non avreste diritto sul fondo che coltivate soltanto in quanto è assolutamente necessario alla vostra esistenza?

Voi direte che poiché il numero degli abitanti della terra cambia continuamente, questa divisione è impossibile. Ma è forse meno giusta, per il fatto che è inattuabile? Il diritto di possedere deriva da quello di vivere; perciò, tutto ciò che è indispensabile alla nostra esistenza è nostro e nulla di superfluo potrebbe legittimamente appartenerci, quando altri manchino del necessario. Ecco il fondamento legittimo di ogni proprietà, sia nello stato sociale che nello stato di natura.

I diritti del cittadino

I diritti civili di ogni individuo non sono, invero, che i suoi diritti naturali controbilanciati da quelli degli altri individui e limitati laddove essi comincerebbero a lederli. Limitati in questo modo, essi cessano di essere pericolosi per la società e devono essere cari a tutti i suoi membri cui garantiscono la pace. Da ciò risulta l’obbligo, che ciascuno assume, di rispettare i diritti altrui, per assicurarsi il pacifico godimento dei suoi: è dunque grazie al patto sociale che i diritti naturali acquistano un carattere sacro.

Gli uomini, avendo ricevuto gli stessi diritti dalla natura, devono conservare diritti uguali nello stato sociale. I diritti civili comprendono la sicurezza personale, che implica un senso di sicurezza contro ogni oppressione; la libertà individuale, che racchiude il giusto esercizio di tutte le facoltà fisiche e morali; la proprietà dei beni, che comprende il pacifico godimento di ciò che si possiede.

In una società saggiamente ordinata, i membri dello Stato, dal momento che ricevono gli stessi diritti dalla natura, devono godere presso a poco degli stessi vantaggi. Io dico «presso a poco», perché non bisogna affatto aspirare a una eguaglianza rigorosa che non potrebbe esistere nella società e che non c’è neanche in natura, il cielo avendo dispensato ai diversi individui gradi diversi di sensibilità, d’intelligenza, di immaginazione, di abilità, di attività e di forza: mezzi ineguali per pervenire alla felicità e per acquisire i beni che la procurano.

Ma non deve trovarsi altra disuguaglianza fra le ricchezze se non quella che risulta dall’ineguaglianza delle facoltà naturali, dal miglior uso del tempo o dal concorso di qualche favorevole circostanza. La legge deve anche prevenire la loro troppo grande disuguaglianza, fissando dei limiti che esse non possano superare. E, in realtà, senza una certa proporzione fra le ricchezze, i vantaggi che colui che non ha alcuna proprietà trae dal patto sociale, si riducono quasi a nulla.

Egli può anche avere meriti, ma è come impossibile che acquisti ricchezze; e se manca di arrendevolezza, di capacità d’intrigo, di astuzia, non farà che vegetare. Cosi, mentre il ricco, oggetto di considerazione, di riguardi, di favore, gode di tutte le dolcezze della vita; mentre questi non ha che da domandare per ottenere e da comandare per essere obbedito; il povero è cosciente della sua esistenza soltanto per le privazioni, le fatiche, le sofferenze.

A lui sono riservati i lavori pesanti; a lui sono riservati i mestieri vili, disgustosi, malsani, pericolosi; a lui sono riservate la pena, la servitù, gli oltraggi. La libertà stessa, che ci consola di tanti mali, è nulla per lui; troppo limitato per fare ombra, egli non conosce la felicità di essere al riparo dai colpi dell’autorità e, quali che siano i rivolgimenti che accadono nello Stato, non sente diminuire affatto la sua dipendenza, sempre inchiodato com’è a un lavoro opprimente. Infine, se gli tocca qualcosa da una amministrazione migliore, è pagare un po’ meno caro il pane nero di cui si nutre.

In uno Stato in cui le ricchezze siano il frutto del lavoro, dell’abilità, delle capacità e del genio, ma in cui la legge non ha fatto nulla per limitarle, la società deve assicurare a quelli dei suoi membri che non hanno alcuna proprietà e il cui lavoro basta appena ai loro bisogni, il sostentamento, di che nutrirsi, vestirsi e abitare convenientemente; di che curarsi nelle malattie, nella vecchiaia e di che allevare i loro figli.

È il prezzo del sacrificio che essi le hanno fatto dei loro comuni diritti sui prodotti della terra e dell’impegno che hanno preso di rispettare le proprietà dei loro concittadini. Ma se essa deve questi aiuti a ogni uomo che rispetta l’ordine costituito e che cerca di rendersi utile, non ne deve alcuno al fannullone che si rifiuta di lavorare.

In una società in cui le ricchezze sono molto ineguali e in cui le più grandi fortune sono quasi tutte frutto dell’intrigo, della ciarlataneria, del favoritismo, delle malversazioni, delle vessazioni, delle rapine; coloro che affogano nel superfluo devono preoccuparsi dei bisogni di quelli che mancano del necessario.

In una società in cui taluni privilegiati godono nell’ozio, nel fasto e fra i piaceri dei beni del povero, della vedova e dell’orfanello, la giustizia e la saggezza esigono pure che almeno una parte di quei beni vada finalmente a destinazione, mediante una divisione ben fatta fra i cittadini che mancano di tutto. Perché l’onesto cittadino che la società abbandona alla miseria e alla disperazione rientra nello stato di natura e ha il diritto di rivendicare armi alla mano i vantaggi che egli non ha potuto alienare se non per procurarsene di più grandi: qualsiasi autorità vi si opponga è tirannica e il giudice che lo condanna a morte non è che un vile assassino.

Passi tratti da: Jean-Paul Marat, L’amico del popolo, a cura di Celestino E. Spada, Roma, Editori Riuniti, 1968, pp. 36–44

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Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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