Thomas Hobbes e la teoria laica della sovranità
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Thomas Hobbes
Thomas Hobbes (1588–1679) è il primo grande sistematore della teoria laica della sovranità: «fu il primo tra i grandi filosofi moderni che cercò di mettere la dottrina politica in stretta relazione con un sistema di pensiero assolutamente moderno» (Sabine). Nato a Mamsbury terminò i suoi studi all’Università di Oxford nel 1608 e fu poi precettore presso i conti Cavendish, ai quali restò legato durante tutta la sua vita.
Visitò tre volte il continente europeo e fu anche in Italia. Grande influenza sul suo pensiero esercitò Bacone, che egli conobbe personalmente. La impostazione scientifica dei suoi interessi intellettuali fu stimolata inoltre dallo studio della geometria euclidea e dell’opera di Galilei, che conobbe a Firenze nel 1636.
La sua produzione abbracciò l’intero campo della filosofia e si realizzò in tre parti di un’unica trattazione sistematica degli Elementi filosofici: De cive (1642), De corpore (1655), De homine (1658). Rielaborò inoltre la sua filosofia politica nel Leviatano (1651).
Mettendo a frutto i succhi metodologici della grande fioritura scientifica rinascimentale, Hobbes consegna al mondo moderno la prima grande sintesi filosofica laica della nuova cultura, fondandola sulle premesse di una radicale emancipazione dalla teologia e quindi su una netta distinzione tra le «regole della religione, cioè le regole per rendere il dovuto culto a Dio, […] dalle regole della filosofia». Cosi la riflessione su Dio e la teologia in genere viene espulsa dal campo della filosofia e, tanto più, dal campo della scienza politica.
La filosofia si naturalizza e la conoscibilità scientifica del mondo — concepito come mondo corporeo strutturato dal movimento — viene fondata sulla rivalutazione del sensibile, su una concezione meccanicistica e materialistica che assume come modello la geometria e la meccanica.
Quale posto tiene, allora, il problema dei fini? Qui Hobbes, che nelle premesse filosofiche aveva fondamentalmente sistemato l’esperienza del naturalismo rinascimentale, entra in un rapporto affatto nuovo e critico non più soltanto con la tradizione scolastica, ma con quella aristotelica classica e addirittura con la stessa esperienza di Machiavelli.
L’autonomia del mondo umano e quindi della politica, che in Machiavelli aveva trovato come suo epicentro la pura tecnica del potere, assume con Hobbes un orientamento diverso. «La difficoltà implicita nella sostituzione della virtù meramente politica alla virtù morale, ossia implicita nell’ammirazione di Machiavelli per la lupigna politica di Roma repubblicana, indusse Hobbes a ten-are di restaurare i principi morali della politica, cioè la legge naturale, senza allontanarsi dal “realismo” di Machiavelli.
Nell’operare questo sforzo era memore del fatto che l’uomo non può assicurare la instaurazione del giusto ordine sociale, se non ha una conoscenza certa o esatta o scientifica sia dell’ordine stesso da instaurare, sia delle condizioni per instaurarlo: egli si sforzò, dunque, innanzitutto, di dedurre rigorosamente la legge naturale o morale.
Per “evitare i cavilli degli scettici” la legge naturale doveva esser resa indipendente da ogni naturale “anticipazione” e pertanto dal consensus gentium. La tradizione predominante aveva definito la legge naturale, tenendo di mira il fine o la perfezione dell’uomo in quanto animale ragionevole e sociale.
Ciò che Hobbes si sforzava di fare sulla base della fondamentale obiezione machiavellica all’insegnamento utopistico della tradizione, tuttavia contro la soluzione propria di Machiavelli, era di mantenere l’idea della legge naturale, ma di separarla dall’idea della perfezione umana» (Strauss).
Pertanto il problema del fine dell’uomo e della società si converte nel problema delle origini. E nelle origini Hobbes individua «due tendenze certe della natura umana»: «una di naturale bramosia, per la quale ognuno reclama per sé solo l’uso delle cose comuni; l’altra di ragione naturale, per la quale ognuno cerca di evitare la morte violenta come il maggior male della natura».
Mutua diffidenza e istinto di conservazione campeggiano dunque nello stato originario di natura, nel quale ogni uomo è lupo all’altro uomo e nel quale ingigantisce la passione umana più incoercibile: la paura della morte, «questo terribile nemico della natura». Da questa condizione naturale scaturisce storicamente e logicamente il sistema dell’associazione civile.
«Se […] la legge naturale dev’essere dedotta dal desiderio di autoconservazione, se, in altre parole, questo desiderio è la sola radice di ogni giustizia e morale, il fatto etico fondamentale non è il dovere ma il diritto; tutti i doveri sono derivanti dal fondamentale ed inalienabile diritto all’autoconservazione. Non vi è, allora, alcun dovere assoluto ed incondizionato; i doveri son costrittivi solo nella misura in cui il loro adempimento non mette in pericolo la nostra conservazione. Solo il diritto di autoconservazione è incondizionato e assoluto» (Strauss).
Ecco allora profilarsi una serie di conseguenze di valore incalcolabile per gli sviluppi successivi del pensiero politico. Innanzi tutto il diritto di natura guadagna rispetto alla concezione greca classica tutta la carica moderna dell’individualismo, già depositatosi nei secoli nella tradizione cristiana, e nei confronti della concezione cristiana un’assoluta laicità.
Secondariamente da questo stato originario l’individuo esce volontariamente sotto lo stimolo dei suoi propri istinti naturali e porta dunque con sé un bagaglio di rivendicazioni che in Hobbes sarà ridotto all’essenziale istinto di conservazione ma andrà inevitabilmente accrescendosi.
In terzo luogo la società cessa di essere il modo naturale dell’uomo, come dai greci in poi si supponeva, e si prospetta come una costruzione artificiale e convenzionale, come un prodotto storico. In quarto luogo, la primarietà dell’individuo e l’accessorietà dello Stato potenzia eticamente il primo e depotenzia eticamente il secondo: «Lo Stato non ha affatto la funzione di produrre o promuovere una vita virtuosa, ma di salvaguardare il diritto naturale di ognuno. E il potere dello Stato rinviene il suo limite assoluto in quel diritto naturale, non in altro fatto etico» (Strauss).
La conclusione che da tutto ciò Hobbes trae in sede di teoria del governo, la fondazione dell’assolutismo, non deve quindi ingannare, giacché essa va misurata sulle premesse che abbiamo succintamente riassunto. Si può fondatamente convenire con Strauss, forse il maggiore hobbesista moderno, che «il fondatore del liberalismo fu Hobbes», così come «Hobbes è il classico e il fondatore della dottrina della legge naturale specificamente moderna».
Si precisa con Hobbes, insomma, quella fondamentale distinzione fra vita prepolitica e politica che conferisce per un verso all’individuo come ente presociale una struttura interamente mondana e preminente e per un altro alla associazione civile, nelle forme dello Stato, una destinazione interamente subordinata all’esplicazione di finalità terrene e, precisamente, di una «vita di comodi».
Il rovesciamento nei confronti della tradizione è pressoché completo e con coerenza porta in primo piano il mondo delle utilità individuali: «prima desideriamo il vantaggio e poi i compagni». La teoria politica e particolarmente il suo capitolo della sovranità ha in pari tempo il suo nuovo centro nel problema del contratto da cui nasce quell’«uomo artificiale» che è lo Stato, il grande Leviatano.
In esso «chi ha la sovranità è come l’anima artificiale, che dà vita e moto a tutto il corpo». Per Hobbes è il monarca a costituire quest’anima perché il patto di unione degli individui si risolve immediatamente in un patto di soggezione, ma tutte le premesse teoriche sono poste perché la contesa fra monarca e popolo si svolga appunto come una contesa politica. Per questo Hobbes scrive un capitolo essenziale nella fondazione della scienza politica moderna.
Dagli Elementi filosofici sul cittadino di Hobbes (a cura di Norberto Bobbio, Torino, 1948) riportiamo una serie di brani tratti dalle sezioni sulla libertà e il potere. Le note sono di Hobbes.
Umberto Cerroni
L’uomo non è animale politico
La maggior parte degli scrittori politici suppongono o pretendono o postulano che l’uomo sia un animale già atto sin dalla nascita a consociarsi (i Greci dicono ζῷον πολιτικόν, animale politico), e su questa base costruiscono le loro teorie politiche come se non vi fosse bisogno per conservare la pace e l’ordine di tutto il genere umano, di null’altro che di una concorde osservanza, da parte degli uomini, di determinati patti e condizioni che essi stessi chiamano senz’altro leggi. Ma questo assioma è falso, benché accettato dai più; e l’errore proviene da un esame troppo superficiale della natura umana. Infatti, ad osservar più a fondo le cause per cui gli uomini si consociano, e fruiscono di reciproci rapporti sociali, si noterà facilmente che questo consociarsi non avviene in modo che, per natura, non possa accadere altrimenti, ma è determinato da circostanze contingenti. Se l’uomo, infatti, amasse il suo simile per natura, cioè proprio in quanto è un uomo, non vi sarebbe nessuna ragione perché ciascuno non amasse indifferentemente tutti gli altri nella stessa misura, proprio perché si tratta allo stesso modo di uomini; e dovesse invece frequentare piuttosto quelli la cui amicizia conferisce a lui, a preferenza di altri, un qualche onore o una qualche utilità. Noi non cerchiamo quindi, per natura, amici, ma ci avviciniamo a persone da cui ci venga onore e vantaggio: questo cerchiamo in primo luogo, e quelli solo secondariamente.
Quel che gli uomini fanno dopo essersi consociati, ci rivela gli intendimenti secondo i quali gli uomini si riuniscono in società. Se si accordano, infatti, per commerciare, ciascuno si interessa non del socio, ma del proprio avere. Se si trovano a contatto per dovere d’ufficio, nasce una amicizia puramente formale, che ha più del timore reciproco che dell’affetto: onde può sorgere eventualmente una fazione, ma giammai una vera simpatia. Se si accostano l’uno all’altro per diletto o a scopo di divertimento, di solito ciascuno finisce per compiacersi nei confronti degli altri di quel che può eccitare il riso, perché gli resti la sensazione (cosi è la natura del ridicolo), confrontando colle proprie le deformazioni morali e fisiche altrui, di essere, in sé, molto migliore. Anche se un atteggiamento siffatto sia per lo più innocuo e inoffensivo, comunque è chiaro che una forma simile di divertimento deriva non tanto dalla compagnia quanto dalle soddisfazioni di vanità che si prende chi vi partecipa.
Del resto, in riunioni di questo tipo si sparla degli assenti, si criticano, si giudicano e si condannano il loro tenore di vita, le loro parole, le loro azioni, e se ne fa la caricatura; e non si risparmia neppure ai partecipanti alla conversazione lo stesso spietato esame appena se ne sono andati, cosi che non era poi mal trovata l’idea di quel tale, che aveva l’abitudine di uscir per ultimo dal luogo di riunione. Queste dunque sono le vere delizie delle riunioni a cui siamo portati per natura, cioè dai sentimenti innati in ogni essere animato; finché non accade, per un danno che ci tocchi o per un avvertimento che ci metta in guardia (e per qualcuno un simile fatto può non succeder mai) che ne venga soffocato il desiderio attuale dal ricordo di quel ch’è già accaduto; senza il piacere che da queste riunioni proviene, sarebbe freddo e vano il ragionare di tanti uomini, che pur sono molto eloquenti in argomenti di questo genere.
Se accade infatti di narrare, conversando, qualche aneddoto, e qualcuno dei presenti tira fuori un proprio ricordo personale, tutti gli altri con grande entusiasmo si mettono a parlare di se stessi; se qualcuno racconta un fatto strabiliante, tutti gli altri, se ne hanno di ancor più mirabolanti, li spiattellano immediatamente, e se non ne hanno, li inventano. Infine, per parlare di quelli che sono persuasi di saperne più degli altri, se ci si raduna allo scopo di tenere discussioni filosofiche, tanti sono i partecipanti, altrettanti sono quelli che voglion dettar legge, e sempre altrettanti quelli che esigono assolutamente il titolo di maestri; e del resto costoro non solo, come i già ricordati, non si amano scambievolmente, ma si dànno addosso con astio l’un l’altro. Insomma, è chiaro per esperienza a chiunque consideri un po’ più addentro le cose umane, che ogni associazione spontanea di gente nasce o dal bisogno reciproco oppure dal desiderio di soddisfare la propria ambizione; onde coloro che vi partecipano sperano di ricavarne o un qualche utile o ευδοκιμεῖν cioè stima e onore da parte dei compagni.
La medesima conclusione si ricava ragionando sulle stesse definizioni di volontà, bene, onore, utile. Poiché, infatti, i legami sociali si stringono di libera volontà, in ogni consociazione è da ricercarsi l’oggetto di questa volontà, che è quel che sembra, a ciascuno dei membri, il Bene. Qualunque cosa poi sembri buona, ci procura un certo diletto, e come tale si riferisce o al corpo o all’animo. Ogni piacere dell’animo o consiste nella vanità, o se vogliamo, nella presunzione, oppure si può ricondurre in ultima analisi alla vanità; tutti gli altri piaceri o non escono dalla sfera dei sensi, o in qualche modo vi conducono, e come tali possono venir compresi sotto la nozione dell’utile. Dunque, ogni patto sociale si contrae o per utilità o per ambizione, cioè per amor proprio e non già per amor dei consoci.
Si consideri, peraltro, che sul desiderio di gloria non si può stabilire nessuna società, né di molti uomini, né di molta durata; perché la rinomanza, come pure l’onore, se è per tutti non è per nessuno, dato che sorge da un confronto con gli altri e da una ragione di superiorità sugli altri; che se poi qualcuno ha qualche buona ragione di gloriarsi, non gliene viene alcun giovamento dalla società con altri uomini, perché ciascuno vale per quello che può operare senza l’aiuto degli altri.
Se è vero poi che le comodità di questa vita possono essere aumentate dal reciproco aiuto, è pur vero che questo si può ottenere molto meglio dominando sugli altri che unendosi a loro su un piano di uguaglianza: onde nessuno potrà dubitare che gli uomini, per loro natura, sarebbero portati, se non vi fosse il timore, piuttosto a dominare che ad associarsi. Bisogna dunque concludere che l’origine delle grandi e durevoli società deve essere stata non già la mutua simpatia degli uomini, ma il reciproco timore. (I, 2.)
Uguaglianza naturale e disuguaglianza civile
La causa del timore reciproco consiste parte nella uguaglianza di natura fra gli uomini, parte nello scambievole desiderio di nuocersi. Da questo viene che non siamo capaci né di attendere da altri la sicurezza, né di procurarcela da noi stessi. Infatti, se guardiamo gli uomini anziani e avvertiamo quanto sia fragile la struttura del corpo umano (declinando il quale, declina la forza, la resistenza, l’intelligenza) e come facilmente accade che qualcuno, pur molto debole, uccida un altro più robusto di lui, non c’è ragione che uno, fidando nelle sue forze, si creda fatto dalla natura superiore agli altri. Sono uguali quelli che possono compiere, l’un contro l’altro, gli stessi atti; e chi può compiere verso il suo simile l’azione estrema, cioè uccidere, può tutto quel che gli altri possono. Dunque tutti gli uomini sono per natura uguali tra loro. La disuguaglianza, che ora si scorge, è stata introdotta dalle leggi civili. (I, 3.)
Il primo fondamento del diritto naturale
Dunque, dato l’immenso numero di pericoli di cui gli istinti naturali degli uomini seminano quotidianamente la vita umana, non possiamo scandalizzarci se questi si premuniscano, almeno finché non possiamo voler agire altrimenti. Ciascuno, infatti, è portato alla ricerca di quel che, per lui, è bene, e a fuggire quel che, per lui, è male, specialmente poi il massimo dei mali naturali, cioè la morte; il che accade secondo una ferrea legge di natura, non meno rigida di quella per cui una pietra cade verso il basso. Perciò non è assurdo né scandaloso, né è contro la retta ragione, che qualcuno si adoperi a difendere e preservare il proprio corpo e le proprie membra dalla morte e dalle sofferenze. Ma quel che non è contro la retta ragione, tutti lo riconoscono come compiuto secondo giustizia e secondo diritto. Il nome, infatti, di diritto non significa null’altro che la libertà, che ciascuno ha, di usare secondo la retta ragione delle proprie facoltà naturali. Di conseguenza, il primo fondamento del diritto naturale è che ciascuno tuteli la propria vita e le proprie membra per quanto è in suo potere.
Poiché il diritto a perseguire un determinato fine sarebbe concesso invano a chi non si vedesse concesso pure il diritto ai mezzi necessari per raggiungerlo, ne viene di conseguenza, che ciascuno, avendo il diritto alla propria conservazione, deve avere anche il diritto di usare di tutti i mezzi e di compiere tutte le azioni, senza le quali non potrebbe conseguire il fine della propria conservazione.
Ciascuno, per diritto naturale, è egli stesso giudice se i mezzi che intende usare, e le azioni che vuol compiere, siano necessarie, o no, alla conservazione della propria vita o delle proprie membra. Se infatti si ammettesse che sarebbe contrario alla retta ragione che io stesso fossi giudice del mio proprio pericolo, bisognerebbe pure ammettere che toccasse ad un altro di giudicare al mio posto. Però, se un altro giudica in materia che riguarda me, collo stesso diritto, poiché siamo eguali per natura, io potrò giudicare di quel che riguarda lui. Ma allora è conforme alla retta ragione, cioè è secondo il diritto naturale, che io, a mia volta, mi eriga a giudice del suo giudizio, per constatare se conduca o no alla mia conservazione. (I, 7–9.)
Il diritto di tutti a tutto
La natura ha dato a ciascuno il diritto su ogni cosa. Ciò significa che allo stato naturale puro, ossia prima che gli uomini si vincolassero reciprocamente con qualche patto, era lecito a chiunque fare qualunque cosa egli volesse e potesse. Poiché, infatti, le cose che uno vuole gli sembrano buone in quanto appunto le vuole, e possono condurre alla sua conservazione, o almeno sembra vi possano condurre (e noi l’abbiamo appunto considerato nel paragrafo precedente, padrone di giudicare se vi conducano veramente o no, così che sia da ritener necessario quanto egli giudica tale); e poiché, per il paragrafo VII, si ritengono compiute per diritto naturale quelle azioni che conducono necessariamente alla salvaguardia della propria vita e della propria integrità fisica: ne segue che, allo stato naturale, è lecito a tutti avere e fare qualsiasi cosa. E questo è quel che comunemente si dice: la natura ha dato tutto a tutti. Dal che pure si deduce che, allo stato naturale, la misura del diritto è l’utilità.
Senonché, non è stato per nulla utile agli uomini l’aver avuto su tutto un diritto comune di questo tipo: poiché l’effetto di un tale diritto è quasi lo stesso di quel che sarebbe stato se non fosse affatto esistito alcun diritto. Benché, infatti, ciascuno potesse dire, di qualsiasi cosa, «questo è mio», non poteva goderne a causa del suo vicino, che per ugual diritto e con la stessa forza pretendeva che fosse, invece, la sua.
Se alla naturale tendenza degli uomini a nuocersi a vicenda, tendenza che essi traggono dalle loro passioni e specialmente dalla presunzione, si aggiunge ancora il diritto di tutti a tutto, in virtù del quale uno ha il diritto di invadere la sfera altrui e l’altro ha un egual diritto di opporsi, e da cui nascono continui sospetti e animosità degli uni verso gli altri; e se si considera quanto sia difficile premunirsi contro i nemici con pochi compagni e pochi apprestamenti difensivi, quando ci aggrediscono con l’intenzione di sopraffarci e di opprimerci, non si può negare che lo stato naturale degli uomini, prima che si costituisse la società, fosse uno stato di guerra, e non di guerra semplicemente, ma di guerra di ciascuno contro tutti gli altri. Che cosa è, infatti, la guerra, se non quel periodo di tempo in cui la volontà di contrastarsi colla violenza si manifesta sufficientemente con le parole e coi fatti? Il tempo restante si chiama pace. (I, 10–12.)
Il primo dettame della retta ragione
Orbene, è facile intendere quanto uno stato continuo di guerra sia poco idoneo alla conservazione, sia della specie umana, sia di ciascun individuo in particolare. Ma tale stato è, per la sua stessa natura, continuo, perché non può finire colla vittoria definitiva di nessuno dei contendenti, dal momento che sono eguali; infatti, agli stessi vincitori incombono pericoli d’ogni sorta, tanto che deve ritenersi come un vero e proprio miracolo che qualcuno, anche vigorosissimo, finisca la propria vita consunto dagli anni e dalla vecchiaia. Un esempio di questo fatto ce lo offrono, nell’età presente, gli Americani; e nei secoli passati, altre razze, ora civili e fiorenti, ma allora composte di relativamente pochi uomini feroci, di vita breve, poveri, sporchi, mancanti di tutti quegli agi e di quelle raffinatezze che la pace e la società sogliono procurare.
Dunque, chiunque scegliesse di rimanere in quello stato, in cui tutto è lecito a tutti, finirebbe per contraddire a se stesso. Infatti, seguendo la necessità naturale, ciascuno cerca il proprio bene, né può esservi qualcuno che stimi come proprio bene la guerra di tutti contro tutti, che è caratteristica naturale di tale stato. E così accade che, spinti dal timore vicendevole, riteniamo che si debba uscire da una simile situazione e ci si debba procurare dei compagni; cosi che, se si deve avere guerra, non sia contro tutti, né senza aiuti.
I compagni si procurano o con la forza e con la persuasione: colla forza, quando colui che dalla lotta esce vincitore costringe il vinto a servirlo, minacciandogli la morte o tenendolo in schiavitù; colla persuasione, quando si costituisce una società allo scopo di aiutarsi a vicenda, col consenso non coatto di entrambe le parti. Possono però sia il vincitore nei riguardi del vinto, sia il più forte nei riguardi del più debole (per esempio, l’uomo sano e robusto relativamente ad un malato; oppure l’adulto relativamente ad un bambino) costringerli a buon diritto a dare una garanzia della obbedienza futura, posto che non preferiscano invece morire.
Poiché infatti abbiamo il diritto di proteggere noi stessi a nostro arbitrio da quel che può essere il nostro danno, danno che nasce dalla uguaglianza di natura tra gli uomini, è più consentaneo alla ragione e più sicuro per la nostra conservazione, servirci dell’opportunità che ci si presenta per procurarci l’ambita sicurezza, accettando la garanzia che ci viene offerta, piuttosto che tentar di riconquistare questa sicurezza più tardi, con una nuova lotta d’esito incerto, quando quelli che avevamo sottoposto fossero diventati adulti, o si fossero fatti più forti, o comunque fossero riusciti a sottrarsi alla nostra autorità. Al contrario, non si può pensare nulla di più assurdo, che tenere in nostro potere un uomo debole, e poi, lasciandolo andare, farlo diventare insieme forte e nemico.
Da tutto questo si può dedurre anche, come corollario, che nello stato naturale dell’umanità, un potere certo e irresistibile dà il diritto di signoreggiare e comandare quelli che non possono opporre resistenza; cosi che nell’onnipotenza, per questa ragione, viene ad essere implicito essenzialmente e immediatamente il diritto di fare qualunque cosa.
Tuttavia, per la già detta uguaglianza delle forze, e di tutte le altre facoltà umane, gli uomini viventi nello stato naturale, cioè nello stato di guerra, non possono attendersi il perdurare della propria conservazione. Perciò, che si debba tendere alla pace, sinché luccica qualche speranza di poterla ottenere; e quando non la si possa più ottenere, si debba cercare soccorsi per la guerra, è il primo dettame della retta ragione, cioè è la prima legge di natura, come si vedrà più oltre. (I, 13–14.)
Il patto di unione e sottomissione e la definizione dello Stato
Poiché la convergenza di molte volontà verso un solo scopo non basta per conservare la pace e istituire una stabile difesa si richiede che la volontà di tutti sia, nella scelta di quel ch’è necessario per il mantenimento della pace e per la difesa, una sola. Il che non può accadere se ciascuno non sottometta la propria volontà a quella di un altro, sia esso un solo uomo, o una sola assemblea, cosi che quello ch’egli avrà voluto come necessario alla pace comune, sia da ritenersi come voluto da tutti e da ciascuno.
Chiamo assemblea la riunione di più uomini che deliberano quel che si deve o non si deve fare per il bene comune.
Questa forma di sottomissione di tutti alla volontà di un solo individuo, o di una sola assemblea, ha luogo allorquando ciascuno si obbliga mediante un patto verso tutti gli altri a non fare resistenza alla volontà di quell’individuo o di quella assemblea a cui si sarà sottomesso, cioè a non rifiutargli l’uso delle proprie forze o dei propri averi contro chiunque altro; ma s’intende bene che egli tratterrà pur sempre il diritto di difendersi dalla violenza.
Questa forma d’accordo si chiama unione. Quanto alla volontà di un’assemblea, essa si deve intendere come la volontà della maggioranza degl’individui di cui l’assemblea si compone.
Benché poi la volontà non sia di per sé stessa volontaria, ma sia soltanto origine di azioni volontarie (infatti non vogliamo «volere», ma vogliamo «fare»), e quindi non costituisca materia di deliberazioni o di patti; tuttavia, chi sottomette la propria volontà a quella di un altro trasferisce in quest’altro il diritto ad usare delle proprie forze e dei propri averi: cosi che, se anche tutti i rimanenti faranno altrettanto, chi ne riceve la sottomissione avrà tanta forza a sua disposizione da costringere, minacciando di ricorrere ad essa, la volontà dei singoli all’unità e alla concordia.
Un’unione cosi fatta si chiama Stato, ossia società civile, e anche persona civile, poiché, essendo la volontà di tutti ridotta ad una sola, essa si può considerare come una persona unica; distinguibile e riconoscibile con un unico nome da tutti i singoli uomini; avente i suoi diritti e i suoi beni. Ne segue che alcuni cittadini, o tutti insieme, all’infuori di quello la cui volontà è da ritenersi la volontà di tutti, non possono rappresentare lo Stato.
Volendo dunque dare una definizione dello Stato, dobbiamo dire che esso è un’unica persona, la cui volontà, in virtù dei patti contratti reciprocamente da molti individui, si deve ritenere la volontà di tutti questi individui; onde può servirsi delle forze e degli averi dei singoli per la pace e per la comune difesa. (V, 6–8.)
La sovranità
In ogni Stato, quell’individuo o quell’assemblea, alla cui volontà i singoli hanno sottoposto la propria (cosi come si è detto), si dice che ha la sovranità, o il supremo comando o dominio. Questo potere e diritto di comandare consiste nel fatto che ciascuno dei cittadini ha trasferito ogni sua forza e potere in quell’individuo o in quell’assemblea. Questa trasmissione (perché nessuno può trasferire in un altro la propria forza in senso puramente fisico) non significa altro che la rinuncia al proprio diritto di opporre resistenza. Ciascun cittadino, come anche ogni persona civile subordinata, si chiama suddito di chi detiene la sovranità. (V, 11.)
Popolo e moltitudine
Si deve considerare, in primo luogo, che cos’è una moltitudine 1 di uomini che si riuniscono in uno Stato di loro spontanea volontà: essa non è un tutto unico, ma un insieme di uomini, di cui ciascuno ha la propria volontà e la propria opinione su qualsiasi proposta. E, anche se in virtù di contratti particolari i singoli individui hanno un loro diritto e una loro proprietà, cosi che ciascuno possa dire dell’una e dell’altra cosa « questo è mio », non vi sarà nulla di cui tutta la moltitudine possa dire a ragione, come una persona ben distinta dai singoli individui, « questo è mio » o « questo è altrui ». Cosi pure non v’è alcuna azione che si debba attribuire a una moltitudine come sua; ma, se tutti, o molti, vi hanno acconsentito, non sarà un’azione sola, ma saranno tante azioni quanti sono gli individui.
Benché, infatti, in qualche sedizione di grande portata si voglia dire volgarmente che il popolo di quello Stato ha preso le armi; ciò, per la verità, si dovrebbe dire soltanto di quelli che sono in armi, o che sono d’accordo con gl’insorti. Lo Stato, che è una persona sola, non può prendere le armi contro se stesso. Quel che è fatto da una moltitudine, bisogna intendere che sia fatto da ciascuno degli elementi di cui è composta. E dii, pur trovandosi in quella moltitudine, non è stato consenziente ai fatti che sono avvenuti, né vi ha posto mano, è da ritenersi che non vi abbia preso parte. Inoltre, in una moltitudine non ancora ridotta all’unità di una persona, nel modo che s’è detto, permane quello stato naturale in cui tutto è di tutti; né ha luogo quel « mio » e quel « tuo » che si chiama dominio e proprietà, perché non v’è ancora quella sicurezza che abbiamo dimostrata essere necessaria all’osservanza delle leggi naturali. (VI, 1.)
Il diritto di spada
Bisogna considerare poi che ogni elemento di una moltitudine (da cui s’inizia la costituzione di uno Stato) deve essersi accordato con gli altri, affinché nelle questioni proposte da chiunque di essi all’esame della moltitudine stessa, sia considerata come volontà di tutti quella della maggioranza. Altrimenti sarebbe completamente inesistente la volontà di una moltitudine di uomini, cosi differenti tra loro per le tendenze e i desideri. Che se poi qualcuno non vuole acconsentire, gli altri potranno ugualmente senza di lui costituire tra loro uno Stato. Da questo risulta pure che uno Stato conserva contro i dissenzienti il suo diritto primitivo, cioè il diritto di guerra, come contro un nemico.
Poiché nel capitolo precedente, al paragrafo VI, abbiamo detto che, per la sicurezza degli uomini, non è necessario soltanto il consenso, ma anche la sottomissione delle volontà nei riguardi di quel ch’è necessario per la pace e per la difesa; e che la natura dello Stato consiste in questa unione o sottomissione, ora dovremo discernere, tra quello che si può produrre, discutere o stabilire in un’assemblea di uomini (le cui volontà sono tutte contenute nella volontà della maggioranza) che cosa sia necessario alla pace e alla difesa comune.
In primo luogo, è necessario per la pace che ciascuno sia protetto contro la violenza altrui cosi da poter vivere con sicurezza, cioè senza avere una giusta causa di temere degli altri, fintantoché non abbia recato agli altri alcun torto. Veramente, è impossibile render sicuri gli uomini dai danni che reciprocamente tentano di procurarsi in modo tale da impedir loro di essere offesi od uccisi a torto: e ciò quindi non cade neppure in discussione. Ma si può fare in modo che non vi sia alcuna giusta causa di timore. La sicurezza, infatti, è il fine per cui gli uomini si sottomettono gli uni agli altri; se non la conseguissero, non si capisce perché si sarebbero sottomessi, o avrebbero rinunciato al loro diritto di difendersi secondo giudicano meglio. E d’altra parte non si potrebbe capire perché avrebbero contratto degli obblighi, o rinunciato al diritto su tutto, prima che si fosse provveduto alla loro sicurezza.
Per raggiungere questa sicurezza non basta che ciascuno di quelli che stanno per riunirsi in uno Stato si impegni con gli altri mediante un patto a non uccidere, a non rubare, e ad osservare simili leggi. Tutti conoscono la malvagità dell’indole umana, ed è fin troppo provato dall’esperienza quanto poco trattenga gli uomini la coscienza delle loro promesse, quando si faccia astrazione dalla pena. Bisogna quindi provvedere alla sicurezza non coi patti, ma colle pene. Vi si sarà provveduto sufficientemente solo quando si saranno stabilite, per ogni torto commesso, pene tanto grandi che derivi manifestamente un maggior male dall’averlo compiuto che dall’averlo omesso. Tutti gli uomini, difatti, per necessità di natura, scelgono quello che appare a loro come un bene.
Il diritto di comminare pene s’intende dato a qualcuno, quando ciascuno si è impegnato con un patto a non aiutare chi deve subirle. Chiamerò dunque tale diritto «spada della giustizia». Gli uomini osservano con una certa facilità patti di questo genere, se i puniti non sono loro o i loro parenti.
Poiché dunque, per la sicurezza dei singoli, e perciò per la pace di tutti, è necessario che il diritto d’usare questa spada per punire sia trasferito ad un uomo o ad un’assemblea di uomini, si deve intendere di necessità che quest’uomo, o questa assemblea, detenga legittimamente nello Stato il sommo potere. Infatti, chi ha il diritto di infliggere le pene a sua piena discrezione, ha anche quello di costringere tutti a fare qualsiasi cosa egli voglia; ed è questo il potere maggiore che si possa mai concepire. (VI, 2–6.)
Le leggi civili sono ordini
Poiché, ancora, il diritto di spada non è nient’altro che il potere di usare della spada legittimamente e a proprio criterio, ne consegue che il giudizio stesso sul retto uso della medesima deve appartenere alla stessa persona. Infatti, non servirebbe a nulla che il potere di giudicare appartenesse a una persona e il potere esecutivo ad un’altra: sarebbero infatti vane le decisioni di chi poi non potesse far eseguire i suoi ordini. Del resto, se l’esecuzione avvenisse per tramite di una persona diversa da chi ha il potere di giudicare, non si potrebbe dire che tale persona ha il diritto di spada, ma l’altra, di cui quella sarebbe un semplice funzionario. Dunque, ogni giudizio in uno Stato appartiene a chi ha le spade, cioè a chi detiene la sovranità.
Inoltre, importa molto di più al raggiungimento della pace fare in modo che non nascano dissensi piuttosto che sedarli quando sono già scoppiati. E siccome tutte le controversie nascono dal fatto che le opinioni degli uomini sono diverse, riguardo al mio e al tuo, al giusto e all’ingiusto, all’utile e all’inutile, al bene e al male, all’onesto e al disonesto e simili, tutti concetti a cui ciascuno dà un differente significato in base al proprio giudizio; fa parte delle prerogative del sovrano stabilire e promulgare norme, cioè criteri di misura, generali in modo che ciascuno sappia che cosa si debba intendere come proprio e altrui, giusto e ingiusto, onesto e disonesto, buono e cattivo; e, insomma, che cosa sia da fare e che cosa si debba rifuggire nella vita della comunità. Queste norme, o criteri di misura, si sogliono chiamare leggi civili, ossia leggi dello Stato, perché sono gli ordini di chi, nello Stato, detiene la sovranità. Volendone dare una definizione si può dire che le leggi civili non son altro che gli ordini concernenti le azioni future dei cittadini, emanati da chi detiene la sovranità dello Stato. (VI, 8–9.)
Potere assoluto e obbedienza
Da quel che s’è detto è chiarissimo che in ogni Stato perfetto (dove cioè nessuno dei cittadini ha il diritto di valersi secondo il proprio giudizio delle proprie forze per la propria conservazione, ossia dove si esclude il diritto alla spada privata) v’è un capo che ha un potere sovrano, cioè tale che non se ne può conferire uno maggiore, ossia che nessuno dei mortali può averne uno maggiore su se stesso. Il maggior potere che dagli uomini si possa trasferire in un uomo solo si chiama assoluto.
Chiunque infatti ha sottoposto la sua volontà a quella dello Stato, in modo che questa possa agire impunemente, stabilire leggi, giudicare liti, comminare pene, usare a suo arbitrio delle forze e degli averi di ognuno, e tutto ciò legittimamente; le ha concesso il massimo potere che si possa attribuire. Il che si può confermare coll’esempio di tutti gli Stati presenti e passati. Infatti, anche se in qualche momento si possa dubitare quale individuo o quale assemblea detenga la sovranità nello Stato, la sovranità esiste tuttavia e viene esercitata, tranne che in tempi di sommosse e di guerra civile; ma allora vi sono due sovrani, invece d’uno. È un fatto che i cittadini sediziosi, che protestano contro il potere assoluto, non vogliono tanto abolirlo, quanto trasferirlo in altri. Abolito, infatti, questo potere, si distrugge lo Stato, e si ricade in una situazione di confusione generale.
Col diritto assoluto del sovrano va unita l’obbedienza dei cittadini, estesa quanto è necessario per il governo dello Stato, cioè quanto basta a permettere al sovrano l’esercizio del suo diritto. Un’obbedienza simile si può negare legittimamente qualche volta per determinate cause; ma, poiché non se ne può dare una maggiore, la chiameremo «semplice». L’obbligo di prestare tale obbedienza nasce non immediatamente dal patto in virtù del quale abbiamo deferito allo Stato ogni nostro diritto; ma mediatamente, ossia dal fatto che, senza obbedienza, il diritto del sovrano sarebbe vano e per conseguenza lo Stato non sarebbe pienamente costituito.
Infatti, una cosa è il dire: «ti dò il diritto di comandare quello che vuoi»; un’altra, il dire: «farò quello che comanderai». Il comando può essere tale che io possa preferire di essere ucciso piuttosto che di eseguirlo: e quindi, se nessuno è tenuto ad accettare di essere ucciso, tanto meno è tenuto a quello che gli sarebbe più gravoso della morte. Se mi comandassero di uccidermi, non vi sarei tenuto, perché, anche se io mi rifiutassi, non sarebbe reso vano il diritto del sovrano. Si potranno trovare, infatti, altri che dinnanzi ad un ordine siffatto non si rifiuterebbero di eseguirlo, e d’altra parte io non rifiuto di adempiere quello che ho promesso. Allo stesso modo, se il sovrano comanda a qualcuno di ucciderlo, non si è tenuti, ad obbedirlo, perché non si può intendere di essere stati a ciò obbligati dal patto. E neppure se comanda a un figlio di uccidere il padre, sia questi innocente o anche colpevole e condannato legalmente, essendovi altri che sarebbero disposti ad eseguire quest’ordine e preferendo il figlio morire piuttosto di vivere disonoratole infamato. Vi sono ancora molti altri casi, in cui certi comandi possono essere ripugnanti ad eseguirsi per alcuni e non per altri, e allora legittimamente, questi possono prestare obbedienza e quelli no: e ciò senza ledere il diritto assoluto concesso al sovrano. Infatti, in nessun caso gli toglie il diritto di uccidere quelli che non gli obbediranno. D’altra parte chi ucciderà dietro suo comando nelle condizioni sopra accennate, e anche se gliene è stato dato il diritto da chi lo ha, poiché usa di questo diritto contro i dettami della retta ragione, pecca contro le leggii naturali, cioè contro Dio.
Nessuno può dare a se stesso qualcosa, perché si suppone che egli abbia già quel che si potrebbe dare; né obbligarsi verso se stesso, perché l’obbligato e l’obbligante sarebbero una stessa persona, e siccome l’obbligato liberare l’obbligato dall’impegno, chi obbliga se stesso si potrebbe liberare proprio arbitrio; ma chi può sottrarsi a un obbligo quando vuole, è già libero di fatto. Da questo risulta che lo Stato non è tenuto all’osservanza delle leggi civili. Le leggi civili sono appunto leggi promulgate dallo Stato; se questo fosse obbligato a rispettarle resterebbe obbligato verso se stesso.
E neppure lo Stato può avere obblighi verso un cittadino; perché questi, se vuole lo può liberare dall’obbligo, e lo vuole tutte le volte che lo Stato lo vuole perché la volontà di ogni cittadino è per ogni cosa compresa quello dello Stato). Quindi lo Stato è libero quando lo vuole, cioè è di fatto sempre libero.
La volontà dell’assemblea dell’individuo che detiene la sovranità è la volontà dello Stato e riassume quindi le volontà dei singoli cittadini. Perciò chi governa non è tenuto all’osservanza delle leggi civili, il che costituirebbe un obbligo verso lo Stato stesso; e neppure ha obblighi vreso i singoli cittadini (VI, 13–14)
Il potere sovrano
Gli scrittori che sono soliti comparare lo Stato e i cittadini con l’uomo e le sue membra dicono quasi tutti che il sovrano è per lo Stato quello che la testa è per tutto il corpo umano. Invece da quanto si è detto risulta chiaro che ci è insignito del potere sovrano (sia un individuo, sia un’assemblea) ha nello Stato considerato come un corpo, , la funzione non della testa, ma dell’anima. Infatti attraverso l’anima l’uomo possiede una volontà, cioè può volere o non volere. Similmente lo Stato estrinseca la sua volontà, cioè può volere e non volete, attraverso il sovrano. Con la testa è piuttosto da porre a confronto, volendo fare una similitudine, il consiglio dei ministri, o il ministro unico, del parere del quale soltanto (se è unico) il sovrano si vale negli affari di maggior momento per la direzione dello Stato. La funzione che compie la testa nel corpo è di pensare, quella dell’anima di comandare.
Sappiamo, è vero, che il potere sovrano è stato stabilito in forza di patti che i cittadini, ossia i sudditi, hanno stretto reciprocamente fra loro; ma tutti i patti, come attingono la loro validità dalla volontà dei contraenti, cosi pure, per consenso di chi li ha stipulati, la perdono e possono venire rescissi. Onde qualcuno potrebbe dedurre che il potere sovrano possa essere revocato per decisione unanime e simultanea di tutti i sudditi. Anche se questo fosse vero, non vedo qual pericolo ne potrebbe sorgere per i governanti, in linea di diritto.
Infatti, poiché si suppone che ogni cittadino si sia obbligato singolarmente verso ogni altro cittadino, basta che uno qualsiasi dei cittadini non acconsenta alla soppressione del potere sovrano, perché tutti gli altri, benché consenzienti, continuino ad essere obbligati, non potendo nessuno di loro fare, senza commettere nei miei confronti un torto, quel che si era impegnato a non fare in virtù del patto concluso. Ma non è credibile che accada mai che tutti i cittadini senza eccezione siano d’accordo simultaneamente ad abbattere il potere sovrano. Quindi non v’è pericolo per i sovrani di venire legalmente destituiti della loro autorità.
Se però si concedesse che il loro diritto al potere dipenda soltanto dal patto che ciascun suddito ha stretto con ognuno dei propri concittadini, potrebbe facilmente accadere che i sovrani fossero privati della loro autorità con pretesto legale. Molti, difatti, stimano che il consenso generale dei sudditi, o convocati per ordine dello Stato o uniti nella rivolta, si risolva nel consenso della maggioranza. Ma anche questo è falso perché non deriva dalla natura che il consenso della maggioranza si debba tenere per consenso di tutti, tanto meno nei tumulti, ma deriva unicamente dalla costituzione statale, e si verifica soltanto quando quell’individuo o quell’assemblea che detiene il potere sovrano, convocando i cittadini, per il loro troppo grande numero vuole che una rappresentanza da loro eletta parli a nome degli elettori e che la maggioranza di coloro che prendono la parola si ritenga espressione dell’opinione collettiva riguardo agli argomenti posti in discussione. Ora, non si può concepire che un sovrano abbia convocato i cittadini perché discutano il proprio diritto alla sovranità, se non ha il chiaro ed espresso proposito di abdicare, perché stanco della vita pubblica. Però moltissimi, per ignoranza, ritengono espressione dell’opinione dello Stato non solo quella della maggioranza dei cittadini, ma perfino quella di pochissimi individui, se son d’accordo con loro; in tal caso può loro sembrare che per abrogare legittimamente il potere sovrano possa bastare convocare una grande riunione di cittadini, e rimettersi al voto della maggioranza.
Ma, pur essendo il potere sovrano costituito in virtù dei patti stipulati dai singoli indivi-dui tra loro, non dipende soltanto da questa obbligazione reciproca dei cittadini. Vi si aggiunge l’obbligo assunto dai cittadini verso chi detiene il potere sovrano. Infatti, ogni cittadino, stipulando il patto con ciascuno degli altri, dice: io trasferisco il mio diritto a questa persona alla condizione che tu pure lo trasferisca alla stessa persona. Con le quali parole si vuol significare che il diritto che ognuno aveva di usare le proprie forze a proprio vantaggio è stato trasferito totalmente in una persona o in un’assemblea a van-taggio della comunità. Cosi, siccome sono intercorsi, da un lato, i patti coi quali i singoli si sono reciprocamente vincolati, dall’altro è intervenuta pure una donazione di diritti in favore del sovrano da parte dei cittadini che sono obbligati a rispettarla, ne viene che il potere sovrano si appoggia sopra una duplice obbligazione da parte dei cittadini, l’una nei confronti dei loro concittadini, l’altra nei confronti del sovrano. Perciò i cittadini, qualunque sia il loro numero, non possono legittimamente destituire dal potere il sovrano senza il suo consenso. (VI, 19.)
Da Umberto Cerroni, Il pensiero politico. Dalle origini ai nostri giorni, Editori Riuniti, Roma, 1966, pp. 403–422.