Grozio e il diritto naturale
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Huig de Groot, latinamente Ugo Grozio (1583–1645), olandese, scrisse di storia e di teologia, ma fu soprattutto giurista, sistematore del diritto internazionale nella sua massima opera De iure belli ac pacis (1625). Suo specifico intendimento scientifico fu di fissare i principi del «diritto che regola i rapporti fra diversi popoli o fra i loro governi, sia che sia derivato dalla stessa natura, sia che sia stato stabilito da leggi divine o sia nato dalla consuetudine e ammesso per tacito patto».
Ma già nel contesto di questa affermazione con cui si aprono i Prolegomeni alla sua opera sul diritto di guerra e di pace si avverte la ben più vasta portata della sua attività scientifica. Una simile affermazione, infatti, sarebbe impensabile se non si postulasse una integrale equivalenza della fonte divina o umana del diritto e delle sue prescrizioni e quindi senza una piena conoscibilità razionale delle regole giuridiche.
La razionalità del diritto lo rende accessibile alla mente umana e lo svincola pertanto dalla rivelazione; lo mantiene bensì al di sopra dell’arbitrio sensibile, ma lo disancora anche dalla fede e lo costituisce in una sfera autonoma rispetto alla morale. Le sue norme, pertanto, sono valide razionalmente e razionalmente ci obbligherebbero «anche se concedessimo — cosa che non può essere concessa senza grande empietà — che Dio non esiste o che non si occupa degli affari degli uomini».
L’inciso sulla empietà della negazione di Dio è un inciso soltanto, appunto, e non ha alcuna reale afferenza alla struttura e possibilità della nostra conoscenza del diritto; proviene da una diversa sfera di valutazioni e non fa che sanzionare la distinzione fra diritto e morale, fra ragione e fede. Di fatto, la razionalità del diritto scaturisce dalla natura stessa dell’uomo. Polemizzando con l’utilitarismo di Carneade, Grozio afferma che «madre del diritto naturale è la stessa natura umana, la quale, anche se non avessimo bisogno di nulla, ci porterebbe a desiderare i mutui rapporti di società».
La «sociabilità», infatti, l’appetitus societatis, è un carattere della medesima natura umana perché «l’uomo è, sì, un animale, ma un animale di ordine molto elevato e che si lascia addietro di gran lunga gli altri animali tutti, molto più di quanto non siano distanti fra loro le varie altre specie». La natura umana si muove sul piano della razionalità e la legge naturale, dunque, è «un dettame della retta ragione», di una ragione che ha una sua autosufficienza normativa cui la stessa sanzione divina nulla aggiunge di essenziale per la sua cogenza dal momento che «come Dio non può far sì che due per due non facciano quattro, cosi non può fare che non sia male ciò che è in sé male».
È questa capacità ragionevole degli uomini che li sospinge alla fondazione dello Stato e alla divisione della proprietà comune sicché il mondo delle relazioni civili si impianta sul consenso, di cui è espressione il duplice patto di obbedienza allo Stato e di reciproco rispetto della proprietà privata. «Appare pertanto chiaro che Grozio, ben lungi dall’opporre il diritto naturale al diritto positivo volontario, considera quello, come già i giureconsulti romani, l’ideale al quale questo deve ispirarsi. In forma ancora incerta e imperfetta nel Grozio, il diritto naturale comincia ad apparire un complesso di principi razionali che servono a integrare, correggere, interpretare il diritto positivo che ha per fonte la volontà degli individui. Ben può dunque affermarsi che natura e volontà nel Grozio concorrono a spiegare la genesi dei rapporti di diritto privato, a ricondurre al diritto naturale le istituzioni incompatibili collo stato di natura.
Il contratto tanto più facilmente poteva invocarsi a tale scopo, in quanto era ad un tempo l’espressione della libertà umana nella creazione dei rapporti giuridici e del naturale commercio che viene a stabilirsi tra uomini fatti per vivere in società. Ciò che la natura direttamente non crea, indirettamente genera per mezzo della volontà umana» (Solari).
Quattro fondamentali regole provengono dal diritto naturale, razionalmente necessarie e positivamente sufficienti a conservare la società: astenersi dalle cose altrui, mantenere le promesse, riparare il danno, accettare il sistema delle pene. Con Grozio la conoscenza della legge naturale assume la necessità interna delle matematiche e il problema dell’origine storica del contratto sociale vira verso l’identificazione della sua struttura logica. È possibile anche nel campo delle cose umane darsi e seguire un metodo di ragione: dodici anni dopo la pubblicazione della massima opera di Grozio, nel 1637, usciva il Discorso sul metodo di Cartesio. La recta ratio annunciava la raison.
Trascriviamo i paragrafi 8–21 dei Prolegomeni nella traduzione di Salvatore Catalano (U. Grozio, I prolegomeni al «De jure belli ac pacis», Palermo, 1957).
Il diritto naturale
Per vero, la conservazione della società, conforme all’intelligenza umana, che noi abbiamo esposto alla buona, è la fonte del diritto propriamente inteso, nella cui sfera rientrano: l’astenersi dalle cose altrui, la restituzione di ciò che appartiene ad altri e che noi deteniamo, e del profitto che ne abbiamo tratto; l’obbligo di mantenere i patti; la riparazione del danno arrecato per propria colpa; l’incorrere in una pena meritata per la trasgressione.
Da questo significato della parola diritto, si diparte un altro più ampio, perché infatti l’uomo ha, al disopra degli altri animali, non solo il bisogno sociale, del quale abbiamo parlato, ma anche la facoltà di giudicare ciò che giova e ciò che nuoce, e non soltanto delle cose presenti, ma anche delle future, e di capire ciò che può portare all’uno o all’altro risultato. Si ricava inoltre che è cosa propria della natura umana seguire anche in queste cose un giudizio rettamente conformato nei limiti della intelligenza umana, e di non farsi influenzare dal timore o dall’attrattiva di un piacere presente o lasciarsi trascinare da un impeto temerario. Tutto quello che ripugna in modo evidente a tale giudizio rivela che è lontano dal diritto di natura, di quella umana, s’intende.
In questa sfera rientra anche la saggia distribuzione nell’attribuire quelle cose che spettano a ciascun uomo o classe, come quella che ora dà la preferenza al più sapiente rispetto al meno sapiente, ora al cittadino rispetto allo straniero, ora al povero rispetto al ricco, secondo che comportano le azioni di ognuno e la natura della cosa. La qual sfera già da tempo molti considerano come parte del diritto propriamente e strettamente inteso, sebbene tuttavia quello che è chiamato diritto in senso stretto abbia una natura di gran lunga diversa, che consiste in ciò, che le cose che già sono di un altro si lascino a quest’altro, o nell’adempimento della obbligazione verso di lui.
Queste cose poi, che abbiamo già detto, avrebbero luogo anche se concedessimo — cosa che non può essere concessa senza la più grave empietà — che Dio non esiste o che non si occupa degli affari degli uomini; mentre il contrario di questo ci è insegnato parte dalla ragione e parte da una ininterrotta tradizione, confermandocelo ancora molti argomenti e miracoli di cui fan testimonianza tutti i secoli. Donde consegue che noi senza eccezione dobbiamo obbedire allo stesso Dio come al nostro fattore, e come a colui al quale dobbiamo noi stessi e tutte le nostre cose, specialmente in quanto Egli in molti modi si è rivelato ottimo e potentissimo, tanto da poter dare a quelli che gli obbediscono premi grandissimi ed anche eterni, perché eterno Egli stesso, e dovendo aver voluto che siano creduti, tanto più se lo ha promesso con parole ben chiare, ciò che noi crediamo, convinti da testimonianze e prove incontestabili.
Pertanto, oltre quella naturale, esiste un’altra fonte del diritto, quella cioè che proviene dalla libera volontà di Dio, a cui lo stesso nostro intelletto irrefragabilmente ci detta che dobbiamo sottostare.
Ma anche quello stesso diritto naturale, del quale abbiamo parlato, sia quello sociale, sia quello chiamato cosi in senso più largo, sebbene scaturisca da principi interiori all’uomo, si può tuttavia ascrivere meritatamente a Dio, perché è stato Lui che ha voluto che in non esistessero principi siffatti. Nel qual caso Crisippo e gli Stoici dicevano che l’origine del diritto non deve ricercarsi in altro che in Giove stesso, dal quale nome «Jupiter» derivò probabilmente il nome latino «Jus».
Si aggiunga che anche quegli stessi principi, Dio, con le leggi da Lui stabilite, li rese più espliciti anche per quelli che hanno più debole la facoltà raziocinativa dello spirito. Ed Egli impedì che si esplicassero liberamente quegli impulsi che trascinano a diverse azioni — i quali impulsi spingono al male noi stessi e gli altri — frenando con maggiore energia proprio quelli più violenti e costringendoli entro certe forme e certi limiti.
Ma anche la Storia Sacra, oltre a stabilire delle norme, contribuisce non poco a rinforzare il sentimento sociale, in quanto ci insegna che tutti gli uomini sono nati dai medesimi progenitori; tanto che a questo riguardo si può rettamente dire ciò, che in altro senso disse Fiorentino, che la natura ha stabilito fra noi una parentela, donde consegue che non è lecito che un uomo tenda insidie ad un altro uomo. Fra gli uomini i genitori sono come dèi ai quali si deve un rispetto non illimitato, ma di genere particolare.
In verità, poiché è di diritto naturale rispettare i patti — era necessario infatti fra gli uomini un qualche modo di obbligarsi, né veramente se ne può immaginare un altro naturale — da questa stessa fonte scaturirono i diritti civili. Infatti, coloro i quali si erano raccolti in qualche comunità o si erano sottomessi a uno o più uomini, costoro, o avevano promesso espressamente, o dalla natura stessa dell’accordo si deve capire che abbiano promesso tacitamente di seguire ciò che avrebbe stabilito la maggioranza della comunità o coloro ai quali era stato conferito il potere.
Ciò che adunque dice non soltanto Cameade, ma anche altri, che «l’utilità è quasi la madre del giusto o dell’equo» non è vero, se vogliamo esprimerci con esattezza. Infatti, madre del diritto naturale è la stessa natura umana, la quale, anche se non avessimo bisogno di nulla, ci porterebbe a desiderare i mutui rapporti di società. Madre poi del diritto civile è la stessa «obbligazione per consenso», e, poiché questa riceve la sua forza dal diritto naturale, la natura può dirsi quasi la nonna anche del diritto civile. Ma al diritto naturale si aggiunge l’utilità. Infatti l’Autore della natura volle che noi, singolarmente, fossimo deboli e bisognosi di molte cose necessarie a una vita regolare, e questo affinché fossimo spinti maggiormente ad apprezzare la società. L’utile, poi, fu la causa occasionale del diritto civile. Infatti quella unione in comunità o quella sottomissione, di cui abbiamo parlato, cominciò ad essere istituita in vista di una utilità. Da allora anche coloro che prescrivono leggi per gli altri, nel far questo, sogliono o debbono mirare a una qualche utilità.
Ma come le leggi di ogni Stato mirano all’utilità dello Stato stesso, cosi dall’accordo fra tutti gli Stati o fra la maggior parte di essi poterono nascere, e si vede che sono nati, alcuni diritti che mirano all’utilità, non a quella di Stati particolari, ma a quella di tutta la grande associazione degli Stati. Questo è quello che vien detto diritto «delle genti», tutte le volte che lo si vuol distinguere dal diritto naturale. Cameade trascurò questa parte del diritto quando divise tutto il diritto in diritto naturale e diritto civile dei singoli popoli, sebbene tuttavia avrebbe dovuto assolutamente farne menzione, quando imprese a trattare di quel diritto che si pratica fra i vari popoli. Egli, infatti, aggiunge una trattazione della guerra e delle sue conseguenze.
A torto poi Cameade traduce la parola giustizia con quella di «stoltezza». Infatti, come egli stesso riconosce, non è stolto il cittadino che nel suo Stato obbedisce al diritto civile, anche se per ossequio verso questo diritto deve rinunziare a qualche cosa che gli sarebbe utile. Di conseguenza non è stolto neppure il popolo, il quale non dà tanta importanza alla sua particolare utilità al punto da trascurare per questo i diritti comuni dei popoli. La ragione, infatti, è uguale nell’uno e nell’altro dei casi. Infatti, come il cittadino, che viola il diritto civile per una utilità immediata, non fa altro che abbattere ciò su cui è fondato l’utile eterno suo proprio e della sua discendenza, cosi anche il popolo, che viola i diritti di natura e delle genti, non fa altro che abbattere ciò che serve a garantire la sua stessa tranquillità avvenire. E allora, in verità, anche se nell’osservanza del diritto non si vedesse alcuna utilità, sarebbe sempre da sapiente e non da stolto andare verso ciò a cui sentiamo di essere portati dalla nostra natura.
Quindi neanche è vero in generale il detto «bisogna riconoscere che i diritti furono inventati per timore dell’ingiustizia», il quale concetto un tale espone cosi in Platone: che le leggi furono escogitate per timore di ricevere ingiuria e che gli uomini sono portati a rispettare la giustizia per mezzo di una certa coazione. Infatti ciò si può dire solo di quegli istituti e di quelle leggi che sono state create per una più facile osservanza del diritto. Cosi molti, deboli individualmente, per non essere oppressi dai più forti, si misero d’accordo per instaurare i giudizi e per difenderli con le loro forze unite, in modo da poter prevalere tutti assieme su coloro, ai quali non erano individualmente pari per forza. E finalmente in questo senso si può facilmente ammettere ciò che si suol dire» che il diritto è ciò che piace al più forte, purché con ciò si intenda che il diritto, se non ha la forza come appoggio, resta privo del suo effetto esteriore. Questo concetto è espresso anche da Solone, che scrisse di aver ottenuto risultati grandissimi «accoppiando forza e diritto al giogo di un eguale vincolo».
Ma tuttavia, anche se privo della forza, il diritto non manca di ogni efficacia. Difatti la giustizia apporta la serenità di coscienza, l’ingiustizia invece tormenti e strazi, come quelli che Platone descrive agitarsi nel cuore dei tiranni; e il consenso dei buoni approva la giustizia e condanna l’iniquità. E, ciò che poi ha la più grande rilevanza, è che l’ingiustizia ha nemico Dio, la giustizia lo ha protettore. Iddio riserva i suoi giudizi dopo questa vita e spesso mostra la forza di essi anche in questa terrena, come dimostra con molti esempi la storia.
Molti poi, che esigono il rispetto della giustizia nei rapporti tra i cittadini, mentre ritengono che possano non osservarla i popoli o i loro capi, cadono in errore, anzitutto perché nel diritto mostrano di non guardare ad altro che all’utile che dal diritto nasce, il quale utile è evidente nel caso dei cittadini, i quali da soli non sono buoni a tutelarsi. Ma le grandi nazioni, quando credono di avere in se stesse tutto quanto è necessario ad una adeguata protezione della vita, non sembrano di avere bisogno di quella virtù che riguarda i rapporti esterni e che si chiama giustizia.
Da Umberto Cerroni, Il pensiero politico. Dalle origini ai nostri giorni, Editori Riuniti, Roma, 1966, pp. 397-402