Gottfried Wilhelm Leibniz e la consacrazione metafisica dell’individualismo

Mario Mancini
21 min readMar 28, 2021

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La calcolatrice di Leibniz è stata la prima calcolatrice meccanica della storia ad eseguire tutte le quattro operazioni aritmetiche (addizione, sottrazione, moltiplicazione e divisione)

Gottfried Wilhelm Leibniz

Gottfried Wilhelm Leibniz (1646–1716), nato a Lipsia, compie la sua formazione culturale sotto l’influenza della nuova scienza di Keplero e di Galilei e della nuova filosofia. Ingegno multiforme, si occupò di matematica (contendendo a Newton la scoperta del calcolo infinitesimale), di filosofia della natura (Système nouveau de la nature, 1695), di metafisica (Monadologia, 1714), di gnoseologia (Nuovi saggi sull’intelletto umano, postumi), di diritto (Elementi di diritto naturale, Elementi di diritto perpetuo, ecc.), di politica (Progetti per l’educazione di un principe, postumi).

La sua opera costituisce una reazione alla filosofia della natura, una reazione «che non voleva rinunciare alle reali conquiste scientifiche e che cercava di oltrepassare la concezione meccanica della natura e di conciliarla con la concezione medievale e antica» (Hoffding) e più precisamente con il finalismo religioso che Leibniz assorbe dal cristianesimo protestante. In effetti la sua sintesi segna un grande tentativo di sistemare la nuova scienza entro la cornice della metafisica e di dare unità finalistica e armonia trascendente all’individualismo trionfante.

«La dottrina monadologica del Leibniz non è che la consacrazione metafisica dell’individualismo il quale non ha nel Leibniz un semplice significato etico o giuridico ma è il principio stesso della realtà. Dio erige ogni punto del mondo possibile in soggetto puro, in un centro che svolge intorno a sé un mondo suo proprio in cui si riproduce più o meno perfettamente l’archetipo divino. Il mondo non è che la risultante di un numero indefinito di individualità o atomi metafisici (monadi), che associandosi variamente tra di loro originano gli infiniti esseri complessi realmente esistenti» (Solari).

La sua filosofia politico-giuridica ha come punto di partenza il principio già formulato da Grozio che il diritto è verità di ragione, assoluta necessità razionale, talché «la divina volontà ci prescrive le stesse regole d’azione che la saggezza» e «diritto naturale è […] quello che può conoscersi con la sola ragione, senza rivelazione». Si precisa in Leibniz quella distinzione fra intelletto e volontà di Dio, fra potenza e sapienza divina dal cui consolidamento scaturisce l’autonomia razionale del mondo umano e della conoscenza: «Che Dio sia l’autore di tutto il diritto naturale […] è verissimo; ma non per la sua volontà, bensì per la sua essenza, per cui è pure autore della verità».

Da questo teologismo razionale deriva pertanto la laicità della conoscenza della verità in quanto verità di ragione: «come un ateo può essere geometra, così può essere giureconsulto». Di fronte, però, a questa regione razionale della verità sta il piano contingente delle verità di fatto, del diritto positivo.

«Naturalmente nel campo umano tra questi due piani possono sorgere, e sorgono continuamente, i più violenti scompensi, quando lo Stato, anziché tendere alla realizzazione del diritto, abusi del suo potere per scopi ingiusti. Ma la risoluzione di questo contrasto possibile non è più opera del teorico come tale, bensì proprio dell’attività politica: per assicurarla non servono tanto le regole e le leggi, quanto la buona disposizione dei governanti» (Mathieu).

Il monarca illuminato è il momento della mediazione fra il fatto e la ragione, fra la terra e il cielo. Il grande compito del politico è di finalizzare il diritto positivo, di farne il primo gradino verso l’equità e la pietà. Per questo la giustizia è la «carità del saggio» e «la saggezza è la scienza della felicità».

Ciò che, però, è ormai fermamente stabilito è la conoscibilità razionale del diritto e quindi la possibilità di una adeguazione morale del mondo per il tramite della ragione che può scoprire sicuramente le regole della giustizia. In questa ricerca puramente speculativa l’uomo riflette sulla comunità terrena perché «la regola suprema del diritto è: ciò che è utile alla comunità, questo va fatto»; «il bene comune è valutato facendo un’unica somma dei beni dei singoli.

Pertanto il massimo bene comune consiste nella massima quantità e grandezza di beni che possano toccare ai singoli». Dagli stessi stimoli della ragione l’uomo è condotto così a esaminare le sei società naturali in cui vive (sessuale, paterna, padronale, domestica, civile, religiosa) e soprattutto quella società civile «i cui membri a volte convivono in una città, a volte sono sparsi per la campagna» e il cui scopo «è il benessere temporale».

Il mondo delle utilità e degli interessi viene alla luce pur nella deduzione metafisica e Leibniz è fra i primi a impegnarsi nella sua ricognizione ricavando «razionalmente» il «diritto delle anime ragionevoli ad una naturale ed inalienabile libertà», proclamando che «la proprietà del corpo di un uomo spetta all’anima sua» e che «non potendo l’anima essere oggetto d’acquisto, non si potrebbe del pari acquistare la proprietà del relativo corpo».

Soprattutto egli imposta con piena evidenza il problema che ormai si impone alla nuova cultura politico-giuridica, il problema della proprietà privata: «non potendo lo Stato aver cura di tutte le faccende domestiche dei cittadini, è necessario che conservi a ciascuno la proprietà dei suoi beni» dalla quale «nasce […] un’emulazione utile alla comunità»; «se la roba fosse comune, sarebbe dai privati trascurata, a meno che si stabilisca una regola come tra i religiosi; ma questo, fuor dei conventi, sarebbe difficile da realizzare».

Il tempo dell’utopia di Moro e di Campanella è passato.

I brani riportati provengono dagli Elementi di diritto naturale, scritti nel 1670–1671 a Magonza (G. F. Leibniz, Scritti politici e di diritto naturale a cura di Vittorio Mathieu, Torino, 1951, pp. 107, 114–124, 130–132).

Umberto Cerroni

Giustizia è la carità del saggio

Io penso che si possa definire la giustizia nel modo più conciso e, al tempo stesso, più efficace, come carità del saggio; dove carità vale «benevolenza verso la generalità degli uomini», quale si troverebbe anche in una persona perfettamente saggia, se alcuna ve ne fosse tra gli uomini. Con ciò non intendo dire che l’uomo giusto e buono debba eccellere nella conoscenza delle cose, e penetrare fino alle ragioni prime dell’equità e della bontà; bensì che egli si comporterà, per ciò che riguarda l’amore per il prossimo, nello stesso modo che il savio ordinerebbe e praticherebbe in persona.

Il giusto, pertanto, o sarà egli stesso abituato ad agire con perfetta razionalità, o almeno — e questo è quanto basta qui — sarà pronto ad obbedire ai comandamenti del savio. E poiché le virtù hanno il compito di regolare quale un’inclinazione e quale un’altra, della giustizia si deve ritenere che abbia il compito di regolare l’inclinazione dell’uomo a nuocere ed a giovare al suo simile.

I tre gradi del diritto

Il diritto, di cui ci occupiamo, è la scienza della carità, e la giustizia è la carità del saggio, cioè la virtù che regola razionalmente i sentimenti dell’uomo verso l’uomo. Carità, poi, è l’abito di amare ognuno, e colui che ne è dotato va detto uomo buono. La saggezza è la scienza della felicità, e la felicità si trova vivendo in grazia ed in amore di Dio, la cui perfezione è infinita. Iddio, essendo saggissimo, si proporrà la massima perfezione generale, particolarmente delle creature più alte, che sono dotate di ragione. Pertanto chi ama Iddio, cioè chi è saggio, amerà tutti, ma ciascuno in misura tanto maggiore, quanto più rilucerà in lui l’impronta della divina virtù, e quanto più pronto e valido egli spererà di trovare in lui un collaboratore nell’opera di promuovimento del bene universale, che coincide con la gloria di Dio, datore di ogni bene.

Intesa così la natura della giustizia, nonché della saggezza e della carità (necessario presupposto alla conoscenza di quella), diviene chiaro che ciò che per l’uomo buono, che voglia fare onore al suo nome, è possibile, impossibile, necessario, questo stesso è, rispettivamente, giusto (o lecito), ingiusto e doveroso. Quelle azioni, infatti, che vanno contro i buoni costumi, si deve ritenere che noi non le possiamo fare; e in questo senso si può dire che il diritto che noi abbiamo sia come un nostro potere, o libertà morale, di fare o di non fare; e l’obbligo, per contro, una sorta di morale necessità.

La regola suprema del diritto è di volgere ogni cosa al massimo bene generale: donde i tre precetti giuridici conosciuti anche popolarmente, honeste vivere, neminem laedere, suum cuique tribuere.

Il primo precetto si riferisce alla cosiddetta giustizia universale. L’onestà nella vita, infatti, non è altro che la virtù universale, e cioè l’abito dell’animo saldo nel seguire la ragione e nel moderare le passioni. Consistendo infatti la perfezione dell’animo nella virtù, si comprende come la stessa giustizia particolare, che di per sé tende al bene generale, ordini di coltivare ogni virtù, in modo da poter giovare il più possibile alla società.

Le altre due regole si riferiscono alla giustizia particolare, in quanto distinta dalle rimanenti virtù. Esse infatti indirizzano al bene altrui la nostra azione, mentre le rimanenti virtù non fanno che prepararvi il nostro animo. La giustizia particolare, poi, può essere commutativa o distributiva: alla prima si riferisce il «non far torto a nessuno», alla seconda il «dare a ciascuno ciò che gli compete» secondo l’uso della società. La giustizia commutativa rientra dunque nell’ambito del diritto privato, la distributiva del diritto pubblico.

È veto bensì che in uno Stato perfetto ogni bene dovrebbe essere di proprietà pubblica, e venir pubblicamente distribuito ai privati, ad eccezione di quelle cose che son connesse con il corpo di ciascuno e necessarie alla comodità della vita, senza le quali saremmo infelici. Ma per essere gli uomini così male istruiti da desiderare la virtù non per se stessa, come piacevole cosa, ma come necessità, succederebbe che, se tutto fosse con sicurezza fornito ai singoli dalla società, nell’abbondanza di beni gli animi si rammollirebbero. D’altra parte, se tutti dovessero vivere in comune e sotto la disciplina delle autorità loro preposte, come nei conventi, sarebbe difficile trovare amministratori abbastanza solerti, giusti e solleciti del pubblico bene.

Molto spesso, infatti, gli uomini abusano dell’autorità con prepotenza. Pertanto, in questo modo, sarebbe molto più difficile soddisfare ai bisogni dei singoli, poiché a ciascuno sembra sempre di possedere il giudizio più esatto. Sicché, considerato lo stato attuale dell’umanità, si deve piuttosto lasciare a ciascuno la libertà di provvedere a se stesso, a proprio rischio e pericolo. Lo Stato è così sollevato dal compito immane di badare ai singoli individui, pur avendo sempre il dovere di curare, con disposizioni d’ordine generale, che non sia troppo facile a ciascuno mandare in rovina se stesso e dar fondo ai propri beni, cercando inoltre di favorire l’industria privata con un pubblico incoraggiamento.

È vero piuttosto che in quelle cose che lo Stato ha lasciato in potestà dei privati, esso considera tutti i cittadini come eguali; e nessuno può togliere ad un altro, per quanto possa valere più di lui, quanto questi abbia acquisito, o grazie alla fortuna o col proprio lavoro.

Pertanto quando vien discussa in giudizio la proprietà di un campo, non si considera chi ne sia più degno, o si dimostri più esperto agricoltore, ma chi di quel campo abbia il dominio, e come ne sia entrato in possesso. Altrimenti o sorgerebbero contestazioni interminabili sul valore e sui meriti rispettivi, oppure, se i beni andassero ripartiti in ragione della dignità, lo Stato dovrebbe avocare a sé il compito di distribuire ogni cosa, in modo che gli uomini, sicuri di ottenere ciò che è necessario alla vita ed al benessere, potessero rinunciare ad ogni diritto sulle cose loro.

Poiché dunque oggi non è tanto facile ottenere quanto si è detto, ne consegue che in tutte quelle cose in cui lo Stato non si ingerisce, gli uomini sono lasciati in una condizione affatto naturale, che non tien conto d’un ordinamento sociale, e in cui ognuno è presunto uguale all’altro nella capacità di possedere diritti, prescindendo totalmente dalla convenienza. Tanto che se per caso, come si dice in Senofonte, un uomo di bassa statura portasse una veste così lunga da scopare il pavimento, ed un altro smisurato di corpo giungesse appena a coprirsi metà della persona, non si sarebbe per questo autorizzati a costringere i due a scambiarsi gli abiti, come sembrava al piccolo Ciro.

Questa è quell’uguaglianza che in volgare si dice «aritmetica», per cui si presume che tutti siano di pari dignità, e ciascuno ha diritto di recuperare quanto possiede, senza riguardo alcuno al valore della persona.

Lo Stato può tuttavia limitare questa libertà con leggi di vario genere, fino al punto di abolirla del tutto. A volte, ad esempio, può costringere i privati a vendere anche contro voglia cose che posseggano, per sopperire ai bisogni dell’annona. Inoltre può imporre tributi per sovvenire alle pubbliche necessità, e se del caso, valersi del dominio eminente sui beni dei privati, purché nessuno venga ridotto in rovina: chi infatti lo fosse, sarebbe sciolto dal vincolo che lo lega allo Stato.

La giustizia distributiva, sotto cui comprendo anche la contributiva, si riferisce al diritto pubblico ed ha per scopo di provvedere al bene comune ed evitare i pubblici mali, nonché di ripartire beni e mali tra i singoli in modo che ciascuno abbia ciò che gli spetta. Ciò che gli spetta, dico, non nel senso prospettato dianzi, di ciò che un privato può pretendere secondo lo stretto diritto, nella vita sociale con una azione giudiziaria e fuori di essa con la guerra: bensì di ciò che esso può attendersi dalla giustizia della società, come conveniente alla sua persona.

La distribuzione, dunque, deve avvenire secondo le esigenze del massimo possibile bene comune. I mali che diversamente diverrebbero comuni, devono esser fatti ricadere su coloro che ne sono responsabili e, inversamente, gli autori di un’azione illustre devono ricevere per sé qualche frutto. Spesso pertanto si ha una distribuzione dei beni e dei mali proporzionale ai meriti ed alle virtù, od ai vizi ed ai crimini, con una eguaglianza che si chiama geometrica, in quanto nella stessa ineguaglianza rispetta una certa egualità di proporzioni, per cui agli ineguali tocchino parti ineguali, osservando sempre tra le cose distribuite la stessa proporzione che vi è tra le persone che le ricevono.

Occorre però tener presente che questo avviene per accidente, poiché il pubblico dispensatore non prende direttamente di mira questa proporzionalità, bensì il massimo bene comune, il quale spesso non è conciliabile con tale uguaglianza di proporzioni. In realtà, ci si deve domandare se a base della distribuzione vadano posti i meriti e demeriti passati, o non piuttosto le virtù ed i vizi, vale a dire la speranza o il timore di meriti e demeriti futuri.

Le due cose, invero, non coincidono; per cui, secondo che la situazione richiede, si avrà di mira ora l’uno ora l’altro obiettivo, e spesso entrambi, ma in misura ineguale, piuttosto che nessuno dei due. Inoltre si dovrà badare più al futuro che al presente, togliendo o dando a ciascuno i mezzi per nuocere e per giovare; nella qual cosa si deve tener conto non soltanto della virtù e del vizio, ma anche di altre circostanze.

Può essere, infatti, che un minor vizio in una persona possa, col passar del tempo, nuocere assai più che un vizio maggiore in un’altra, per cui vengono stabiliti un premio od una pena di valore esemplare, atti a meglio impressionare gli uomini. Spesso, così, un vizio minore sarà punito più severamente, quando minacci di estendersi troppo; e in minor considerazione si terrà una più grande virtù quando la si ritenga abbastanza diffusa o meno necessaria. Può infine accadere che un disgraziato sconti per un peccato di poco conto una gravissima pena, quando sia necessario dare un esempio, mentre un altro molto peggiore, per la diversa situazione del momento, riceva un trattamento assai più mite. Confesso tuttavia che quanto migliore è la forma dello Stato, tanto meglio si possono rispettare le proporzioni.

La distribuzione degli utili e degli oneri pubblici non consiste soltanto nei premi e nelle pene, ma anche nelle largizioni e nella imposizione di tributi; quelle hanno luogo nei momenti di pubblica abbondanza (come quando il popolo romano ripartiva tra i cittadini i campi tolti ai nemici), queste in caso di pubblica necessità. In entrambe si deve aver di mira meno la proporzionalità che l’utilità pubblica, ad esempio gravando maggiormente di imposte quel modo di vivere — ossia quella determinata categoria di persone — di cui più facilmente lo Stato può fare a meno.

Da quanto si è detto può essere facilmente inteso che, in base ai tre precetti enunciati, tre son le parti della giurisprudenza ed i gradi del diritto: il diritto di proprietà, che impone di non nuocere ad alcuno; il diritto di società, relativo ai doveri reciproci tra gli uomini, per cui ad ognuno deve essere assegnato ciò che gli spetta; ed infine il diritto interiore, o diritto di pietà, che comanda di informare all’onestà ogni nostra azione, anche quando non sembri avere una portata sociale; poiché non c’è dubbio che tra Dio e noi vi sia un’intima società, e che contro di Lui noi pecchiamo ogni volta che ci comportiamo male.

Il diritto di proprietà è il più basso gradino del diritto, e vige nello stato di semplice natura, in cui tutti gli uomini si considerano eguali, e nessuno pertanto vuol essere privato di ciò che detiene. Ognuno, non conoscendo altri più atti a possedere la cosa per il bene comune, come succede quando ci si incontra tra sconosciuti, ne difenderà il possesso, non potendo essere sicuro delle intenzioni altrui.

Ma quando l’uno abbia riconosciuto la virtù e la buona fede dell’altro, può darsi che si giudichi conveniente stabilire una certa società, nella quale ciascuno rinunci in qualche misura ai propri diritti, affinché ad ognuno sia aggiudicato ciò che è più conveniente che possegga, in vista del bene comune.

Se non che, per essere in molti casi difficile giudicare della convenienza, anche dopo la costituzione della società si preferì regolare la proprietà privata semplicemente con lo stretto diritto, a meno che non si faccia espressamente un’eccezione per causa di pubblica utilità, limitando la libertà di amministrazione privata. In questo diritto son presi in considerazione il possesso, i modi d’acquisto o titoli del possesso (universali o particolari), il dominio, vero o presunto, e gli altri diritti reali; e infine le obbligazioni, che sorgono o quando qualcuno, approfittando di una cosa altrui, abbia lucrato a danno del proprietario, o quando per sua colpa la cosa sia perita, nel qual caso egli è obbligato come se ne avesse tratto vantaggio, od anche quando dia fondato sospetto vuoi di intenzioni dolose, vuoi di imprudenza, nel qual caso si può esigere una cautio damni infecti.

Ma per pensare che gli uomini possano vivere felici limitandosi ad osservare questa sola forma di diritto, bisognerebbe supporre che ognuno potesse bastare a se stesso, e che si dimostrasse sempre ragionevole. In realtà è inevitabile che nascano liti continue, soprattutto per il reciproco sospetto, ed anche quando i fatti dimostrino che uno è più avveduto ed attivo dell’altro. È perciò conforme a ragione che ogni cosa sia ordinata secondo le esigenze del massimo bene comune, e che ciascuno si mostri remissivo nell’abdicare al suo stretto diritto, che dalla società gli sarà restituito insieme con gli interessi.

In questo appunto consistono i doveri reciproci tra gli uomini, per cui ciascuno si mostra pronto a fondare su eque basi una società, ed a stringere alleanza. Di qui nasce infine un certo ordinamento statale, conforme alla ragione ed ai fatti, nonché il diritto civile, da cui è limitata la libertà d’amministrazione privata, sono sanciti premi e castighi, e vengono stabilite magistrature col compito di far rispettare la legge. Pertanto questa parte del diritto naturale che si riferisce alla convenienza, non è altro che il diritto civile dell’ottimo Stato, relativamente alla maniera di ordinar le cose in guisa che permettano di realizzare il massimo bene comune.

Ma poiché non può esserci un ottimo Stato senza un’ottima educazione, che ora, essendo gli uomini già adulti, non si è più in tempo ad impartire, è necessario anche indicare come ci si possa dipartire dall’idea dell’ottimo Stato, per adattarla alle circostanze esistenti, sempre però modificandola il meno possibile: allo stesso modo che i competenti nell’arte delle fortificazioni devono adattare le opere alle asperità del terreno.

Una volta dunque costituito lo Stato, si deve esaminare quali doveri le leggi prescrivano ai magistrati ed ai privati, fin dove ai privati competa la libera amministrazione delle loro proprietà e l’uso della giustizia commutativa, e fino a qual punto invece sia lasciato ai magistrati il compito di distribuire le cose comuni e di interpretare la legge, vale a dire l’impiego della giustizia distributiva.

Se infatti si interdicesse senz’altro ai magistrati ogni libertà di interpretazione, si ritornerebbe ad un’altra forma di diritto stretto, non più semplicemente naturale, come quello di prima, in cui tutti erano considerati come eguali, ma legale. E questo può realizzarsi in misura tanto maggiore quanto più perfette sono le leggi: infatti l’interpretazione supplisce all’imperfezione della legge: se si fosse ordinata ogni cosa in modo che gli uomini non avessero più a rimanere esitanti, ma come possedendo un filo nel labirinto od una via tracciata, non potessero se non a bella posta allontanarsene (e questo si sarebbe potuto ottenere se si fosse posseduta la lingua razionale) nessun dubbio che si sarebbe provveduto alle umane cose nel modo migliore.

Nell’ottimo Stato, pertanto, sarebbe bensì abrogato il diritto stretto di proprietà, ma al suo posto verrebbe introdotto il diritto stretto di comunità, né i privati potrebbero aver dubbi intorno alla proprietà ed allo scambio dei beni, né i giudici intorno all’interpretazione delle leggi ed alla distribuzione dei beni comuni. I privati dunque non avrebbero bisogno di altre norme giuridiche che il codice delle leggi od anche — ciò che può perfino bastare — della pubblica consuetudine di agire rettamente e della tradizione d’onestà ricevuta dagli avi: dalla qual pratica nessuno potrebbe declinare neppure d’una linea, senza venire immediatamente corretto.

Ma ora, nella condizione in cui si trovano le cose umane, le sole leggi di per sé non bastano e, dove tacciono, devono essere integrate con le regole della giustizia commutativa e distributiva tramandate dalla dottrina giuridica. E poiché raramente i giuristi si servono di definizioni e dimostrazioni sicure, e le stesse leggi sono oscure e confuse, né si posseggono, per dir così, in moneta liquida, non è strano che la giurisprudenza sia incerta su molti punti. Pertanto si dovrà provvedere ad ordinare le leggi ed a stabilire princìpi di interpretazione e di integrazione secondo un metodo sicuro — quasi un filo nel labirinto — che permetta di sistemare i princìpi nelle varie figure giuridiche.

Rimane il grado supremo del diritto, che dicemmo pietà. Come infatti il diritto di società è più perfetto del diritto di proprietà (poiché non considera soltanto la conservazione dei beni di ciascuno — che del resto neppure si potrebbe ottenere con la sola osservanza rigida del diritto di proprietà — ma anche un certo perfezionamento, nei limiti in cui può essere apportato dal reciproco assistersi degli uomini), così il diritto di pietà non solo integra le norme del diritto sociale, ed abbraccia tutto ciò che non pare riguardare l’umana società, ma promette anche una felicità che col solo aiuto reciproco degli uomini non si potrebbe ottenere.

Poiché infatti su tutto si estende la potestà di Dio, ne consegue che anche i minimi moti del nostro animo devono essere atteggiati così come egli comanda, affinché noi non violiamo la società stretta con lui nascendo, e coltivata vivendo. E niente potrebbe essere più esiziale che il violarla, poiché a lui nulla sfugge, nulla è da lui trascurato: ad ogni peccato è assegnata una pena, ad ogni buona azione un premio adeguato. Se dunque noi osserveremo le regole di questa società con Dio, cioè ameremo Dio veramente, e rivolgeremo ogni atto al perfezionamento della nostra anima, non vi sarà felicità più grande di quella dell’uomo. Immortale è infatti l’anima; e il mondo, sotto il governo di Dio, è il più perfetto degli Stati. E se ci fosse concesso di conoscere la serie degli avvenimenti futuri, ci renderemmo conto che non si può neppure immaginare qualcosa di più desiderabile di ciò che Iddio ha destinato a coloro che ama, e da cui è amato.

Perché dunque corriamo dietro alle altre cose, che non possono che diminuire la felicità, non mai aumentarla? Tendiamo soltanto alla virtù, cioè alla perfezione più grande possibile dell’intelletto e della volontà e, subito dopo, sforziamoci di far si che i beni che Iddio ci ha elargito (e a tutti, in verità, ne ha elargito di grandi) si riflettano anche sugli altri! Poiché, se un sorso d’acqua avrà la sua ricompensa, quale non l’avranno coloro che compirono qualcosa di grande tra gli uomini, per la gloria di Dio e per il bene di tutti? Qui ad justitiam erudiere multos, quasi stellae fulbegunt («Coloro che molti indirizzarono alla giustizia, riluceranno come stelle»: Dan. XII, 3).

Pertanto, quanto più uno è grande in questa vita, tanto più felice sarà, se avrà giudizio; ma anche tanto più infelice, se non sarà in grado di render conto della sua amministrazione.

Del resto l’amore stesso di Dio sarà premio sufficiente a chiunque, in misura proporzionale alla sua intensità, bastando che Iddio faccia sì che, quanto più lo amiamo, tanto più fruiamo della sua vista e dell’amor suo. Fra tutti i sentimenti dell’animo, infatti, l’amore e l’odio sono i più efficaci; e nulla può essere più beatifico che amare ciò che è sommamente perfetto, e venirne sempre più in possesso. Di qui deriva per l’animo il massimo piacere possibile e, ciò che è più importante, la massima sicurezza, anche nei pericoli più grandi. Il piacere, infatti, non è altro che il sentimento dell’accrescersi della perfezione; ma amando e comprendendo Iddio, la sua perfezione si trasferisce, in certo modo in noi; e poiché essa è inesauribile, e non può essere afferrata d’un sol tratto, quanto più addentro saremo introdotti nelle cose, tanto maggiore sarà la materia di nuovo diletto che ne nascerà, per l’alternarsi continuo di meraviglia per la novità degli oggetti, e di comprensione che alla meraviglia sussegue.

Questo appunto comprendono coloro che sanno quanto piacere dia, fin quasi all’estasi, trovare in ciò che amiamo sempre nuove e mirabili perfezioni. Ma lascio il parlare di tanta dolcezza, sebbene non siano mai troppe le parole spese in proposito, e sebbene, a quanto sembra, non tutti abbiano esattamente penetrato in che cosa consista la visione, in che cosa l’amore di Dio.

Or dunque su questi principi va fondata la regola per guidare la coscienza, regola che abbraccia la giustizia universale. Infatti, se Dio non fosse, i saggi non sarebbero obbligati alla carità oltre il limite del proprio vantaggio, né all’onestà, se non in vista del proprio perfezionamento; a cui, per la brevità di questa vita, posto che l’anima non fosse immortale, non si potrebbe avere il dovuto riguardo. Ma Dio, intervenendo, fa sì che ogni azione buona sia utile, ogni azione turpe dannosa; e che coloro che per cagione del pubblico bene si espongono anche alla morte ed ai tormenti, non debbano per questo essere giudicati pazzi.

Chi voglia pertanto sistemare gli elementi del diritto, dovrà esporre anzitutto i princìpi generali della giustizia, relativi alla carità del savio; poi il diritto privato, ossia le norme della giustizia commutativa, intorno a ciò che vige tra gli uomini in quanto siano considerati uguali; in terzo luogo il diritto pubblico, relativo alla distribuzione dei beni e dei mali comuni tra gli ineguali, in vista di un bene maggiore in questa vita; e finalmente il diritto interiore relativo alla virtù universale ed alla naturale obbligazione verso Dio, per cui si ha cura della felicità eterna. A questi princìpi devono essere subordinati gli elementi del diritto positivo, umano e divino; umano, che può essere o interno allo Stato o internazionale; divino, ossia proprio della Chiesa universale. Il diritto positivo, poi, si espone enumerando i doveri dei magistrati e dei privati, che sono definiti dalle leggi, sotto cui comprendo anche le consuetudini.

La regola suprema del diritto

La regola suprema del diritto è: ciò che è utile alla comunità, questo va fatto. Se non che ciò che, in sé e per sé, sarebbe utile alla comunità, per accidente può essere dannoso, perché comporta un troppo grande rivolgimento od un’eccessiva fatica.

I beni ed i mali si devono ripartire tra gli uomini in modo che ne nasca il minimo male e il massimo bene comune; allo stesso modo che le piante vanno di preferenza collocate in quel terreno in cui fruttificano di più, e le immondizie nelle località più sterili.

Il bene comune è valutato facendo un’unica somma dei beni dei singoli. Pertanto il massimo bene comune consiste nella massima quantità e grandezza di beni che possano toccare ai singoli.

I beni sono o necessari od utili. Dico necessari quei beni che si richiedono perché l’animo possa esser tranquillo; mancando i quali, cioè, noi soffriamo. Gli altri, di cui facilmente facciamo a meno, possono chiamarsi utili. I necessari sono incomparabilmente più importanti che gli utili, e per essi si deve cercare piuttosto che molti ne posseggano a sufficienza, piuttosto che pochi in sovrabbondanza. Gli utili, invece, si deve far sì che siano posseduti da pochi soggetti in maniera eminente, piuttosto che da molti in misura mediocre.

In primo luogo si deve far sì che tutti i cittadini siano quanto più possibile soddisfatti e tranquilli nell’animo. (Se trattasi di politica, direi che in primo luogo si deve curare che siano contenti i reggitori, ed i cittadini ben disposti verso lo Stato; e mostrerei che, a questo scopo, occorre far sì che questi ultimi siano soddisfatti. Ma qui tratto della utilità pubblica non in vista dei governanti, bensì per se stessa.) L’esser di animo tranquillo è dunque, dicevamo, un bene necessario, senza il quale saremmo infelici.

In secondo luogo si deve far sì che i cittadini tutti siano moderati, capaci cioè di dominare le loro passioni. Diversamente, infatti, non rimarranno contenti a lungo: poiché chi è preda delle passioni, per un nulla può perdere la calma. La moderazione invece fa sì che la tranquillità sia durevole.

In terzo luogo, si deve far sì che tutti i cittadini siano prudenti. Possono bensì gli uomini essere tranquilli e moderati quand’anche non siano prudenti: ma il risultato, allora, dipende dal caso. Invece la prudenza pone la tranquillità futura maggiormente in nostro potere. Parlo qui d’una prudenza quale può trovarsi anche in un villano che curi bene gli affari della propria famiglia.

In quarto luogo, si curi che i cittadini siano animati verso il bene comune dalle migliori disposizioni: che cioè siano buoni, capaci anche di sopportare volentieri un male per evitare che molti altri siano colpiti da completa rovina.

Quinto, che siano pii. Pii chiamo coloro che credono nella Provvidenza, e nutrono nel profondo la convinzione che l’ordine universale delle cose sia tale da apportar bene ai buoni (cioè ai bene intenzionati verso il bene comune), e male ai cattivi.

Sesto, che i cittadini amino ed onorino i governanti, che cioè ne riconoscano il valore ed il potere.

Settimo, che siano tra loro amici: amici sono coloro che congiunge un amore palese e vicendevole.

Ottavo, che siano esperti di molte cose: pertanto si dovrà cercar di far sì che le arti tenute segrete dagli stranieri giungano a conoscenza dei nostri.

Nono, che siano ben fatti di corpo, agili ed insieme robusti: quelle cose, infatti, che l’animo ha deliberato, tocca al corpo eseguirle. Quanto ad un piacevole aspetto, molto potere esso ha sull’animo della gente.

Decimo, che i cittadini siano esercitati ad ogni virtù dell’animo e del corpo: l’esercizio fa sì che, in caso di bisogno, si possa far pronto assegnamento sulle proprie capacità.

Undicesimo, che dispongano dei mezzi necessari alla vita, poiché la miseria rende gli uomini infelici e malvagi.

Duodecimo, che tutti dispongano degli strumenti per bene operare, ossia per estrinsecare quelle doti del corpo e dell’animo che possono riuscire utili alla comunità.

Tutti questi precetti possono essere così riassunti: fare in modo che gli uomini siano prudenti, virtuosi e ampiamente dotati di mezzi, ovvero che sappiano, vogliano e possano compiere opere ottime.

Da Umberto Cerroni, Il pensiero politico. Dalle origini ai nostri giorni, Editori Riuniti, Roma, 1966, pp. 475–487.

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Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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