John Locke e il fondamento consensuale del governo
Vai anche a:
Introduzione al diritto naturale
Ugo Grozio
Thomas Hobbes
Baruch Spinoza
Gottfried Leibnitz
John Locke
John Locke (1632–1704), uno dei massimi esponenti del giusnaturalismo laico, nacque a Wrington, presso Bristol, da un avvocato puritano che partecipò alla guerra civile combattendo nell’esercito del Parlamento. Studiò a Oxford e viaggiò poi in Francia e in Olanda. Fu attivo nella vita politica e occupò varie cariche sotto il regno di Guglielmo d’Orange.
Grande teorico dell’empirismo (Saggio sull’intelletto umano, 1690), si occupò di pedagogia (Pensieri sull’educazione, 1693) e di problemi religiosi (La ragionevolezza del cristianesimo come è trattata nelle Scritture, 1695). Nel campo degli studi politici il suo nome è legato a una delle più grandi opere dell’età del giusnaturalismo: i Due trattati sul governo (1690), uno scritto d’occasione pubblicato anonimo e esplicitamente destinato «a stabilire il trono del nostro grande rinnovatore e attuale re Guglielmo, a fondare la validità del suo titolo sul consenso del popolo, ch’è l’unico titolo di tutti i governi legittimi».
Il primo trattato è una polemica serrata contro il diritto divino dei re, teorizzato dieci anni prima dal Patriarca di Robert Filmer. Ma è il secondo trattato, la parte costruttiva dell’opera, che costituisce il capolavoro di Locke, primo grande assertore del fondamento consensuale del governo.
«Quelle aspirazioni individualiste che Grozio aveva cercato di armonizzare colle finalità dello Stato e Hobbes si era illuso di comprimere subordinandole al potere incondizionato del sovrano, trovano con Locke non solo il loro pieno riconoscimento, ma le forme giuridiche adatte a esprimerle. Locke è il fondatore dell’individualismo empirico, il più adatto a fornire un sistema di idee e un programma di azione alla borghesia inglese vittoriosa divenuta la classe dominante e destinata a reggere le sorti del paese» (Solari).
Con Locke il diritto naturale si sistema come teoria laica dell’individuo presociale e della eguaglianza naturale degli uomini, tutti parimenti investiti originariamente di diritti. Da questo stato di natura gli uomini escono soltanto per loro consenso e fondano contrattualmente la società politica per porre termine alla condizione di incertezza e insicurezza della propria libertà «per la mutua conservazione delle loro vite, libertà e averi, cose ch’io denomino, con termine generale, proprietà».
Da questo schema deriva la persistenza dei diritti naturali dell’individuo nella stessa società politica che nasce appunto per garantirli, l’investitura fiduciaria del potere politico da parte del popolo (cui rimane sempre «il potere supremo di rimuovere o alterare il legislativo, quando vede che il legislativo delibera contro la fiducia»), il diritto di resistere alla legge che violi i diritti naturali dell’uomo.
L’indagine della struttura originaria dei diritti naturali (con la connessa prima giustificazione laica o prettamente economica della «proprietà fondata sul lavoro») e l’annuncio di una fondazione democratica del governo sono dunque i due campi in cui opera la grande riforma di Locke.
«La dottrina della proprietà in Locke è oggi direttamente comprensibile se la si considera come la dottrina classica dello “spirito del capitalismo”» nella quale è tramontata definitivamente l’incidenza religiosa e il cui tema fondamentale è che «l’avidità e la cupidigia, lungi dall’essere cattive e stolte per essenza, sono, se opportunamente incanalate, eminentemente giovevoli e razionali, molto più della “esemplare carità”» (Strauss).
Lo Stato è il recinto di una legge armata che presidia il libero dinamismo delle individualità in competizione e commisura la sua validità al perseguimento di una felicità essenzialmente privata: è la sfera pubblica che per un aspetto scaturisce dalla decisione dei privati e per l’altro ne regola la sicurezza di movimento. La divinità sparisce dalla scena della teoria politica: opera soltanto come un presupposto puramente celeste cui l’uomo si riferisce in una mera intimità privata, nella «libertà di coscienza».
Il potere scopre con Locke le sue radici completamente terrene: non è più investito da Dio e non è neppure più il Leviatano che inghiotte per il supremo bene della pace i diritti naturali degli uomini, ma è una macchina con finalità precise, limitate, definite che la maggioranza può e vuole regolare.
I lineamenti economici e politici del mondo moderno sono portati tutti alla luce e non sarà difficile ben presto fissarli in specifici articoli di uno schema del tutto nuovo della costituzione politica. Il tempo di Locke è un tempo di transizione rapida: «Il saggio di Locke sul governo civile non è in fondo che una elaborata apologia della rivoluzione inglese del 1688» (Pollock); in un secolo registreremo la rivoluzione americana e quella francese. Il diritto del popolo a darsi un governo a sua scelta è ormai fondato.
I testi si riferiscono tutti al secondo dei Due trattati sul governo (a cura di Luigi Pareyson, Torino, 1948).
Umberto Cerroni
Dello stato di natura
Per ben intendere il potere politico e derivarlo dalla sua origine, si deve considerare in quale stato si trovino naturalmente tutti gli uomini, e questo è uno stato di perfetta libertà di regolare le proprie azioni e disporre dei propri possessi e delle proprie persone come si crede meglio, entro i limiti della legge di natura, senza chiedere permesso o dipendere dalla volontà di nessun altro.
È anche uno stato di eguaglianza, in cui ogni potere e ogni giurisdizione è reciproca, nessuno avendone più di un altro, poiché non vi è nulla di più evidente di questo, che creature della stessa specie e dello stesso grado, nate, senza distinzione, agli stessi vantaggi della natura, e all’uso delle stesse facoltà, debbano anche essere eguali fra di loro, senza subordinazione o soggezione, a meno che il signore e padrone di esse tutte non ne abbia, con manifesta dichiarazione del suo volere, posta una sopra le altre, e conferitole, con chiara ed evidente designazione, un diritto incontestabile al dominio e alla sovranità.
Questa eguaglianza naturale degli uomini, il giudizioso Hooker la considera così evidente in se stessa e fuori d’ogni dubbio, ch’egli ne fa il fondamento di quell’obbligazione al mutuo amore fra gli uomini su cui erige i doveri che abbiamo gli uni verso gli altri e da cui deriva i grandi principi della giustizia e della carità. Ecco le sue parole:
«Un identico impulso naturale ha portato gli uomini a riconoscere ch’è loro dovere amare gli altri non meno che se stessi. Infatti, vedendo ogni cosa eguale fra loro, debbono necessariamente avere una sola misura: se non posso non desiderare di ricevere ogni bene dagli altri allo stesso preciso modo che gli altri possono desiderarlo per conto proprio, come posso pretendere di veder soddisfatto in qualche modo il mio desiderio, se non avrò cura di soddisfare lo stesso desiderio che certamente si trova negli altri, poiché noi tutti siamo di una sola e identica natura? Offrir loro qualcosa di ripugnante a questo desiderio è cosa che necessariamente deve sotto ogni riguardo affliggere loro quanto me, così che, se io faccio un torto, devo attender di subirne, non essendoci ragione che gli altri dimostrino per me un grado di amore
maggiore di quello ch’io ho dimostrato per loro; e perciò il mio desiderio di esser amato il più possibile dai miei eguali in natura, m’impone un obbligo naturale di nutrire nei loro riguardi un’affezione in tutto simile; la quale relazione di eguaglianza che sussiste fra noi e quelli che sono come noi stessi, e quali norme e canoni la ragione naturale ne abbia tratto per la direzione della vita, non è ignoto a nessuno». (Polit. eccles., 1. I.)
Ma sebbene questo sia uno stato di libertà, tuttavia non è uno stato di licenza: sebbene in questo stato si abbia la libertà incontrollabile di disporre della propria persona e dei propri averi, tuttavia non si ha la libertà di distruggere né se stessi né qualsiasi creatura in proprio possesso, se non quando lo richieda un qualche uso più nobile, che quello della sua pura e semplice conservazione. Lo stato di natura è governato dalla legge di natura, che obbliga tutti: e la ragione, ch’è questa legge, insegna, a tutti gli uomini, purché vogliano consultarla, che, essendo tutti eguali e indipendenti, nessuno deve recar danno ad altri nella vita, nella salute, nella libertà o nei possessi, perché tutti gli uomini, essendo fattura di un solo creatore onnipotente e infinitamente saggio, tutti servitori di un unico padrone sovrano, inviati nel mondo per suo ordine e per i suoi intenti, sono proprietà di colui di cui sono fattura, creati per durare fin tanto che piaccia a lui, e non ad altri; e, poiché siamo forniti delle stesse facoltà e partecipiamo tutti d’una sola comune natura, non è possibile supporre fra di noi una subordinazione tale che ci possa autorizzare a distruggerci a vicenda, quasi fossimo tutti gli uni per uso degli altri, come gli ordini inferiori delle creature sono fatti per noi. Come ciascuno è tenuto a conservare se stesso e non abbandonare volontariamente il suo posto, così, per la medesima ragione, quando non sia in gioco la sua stessa conservazione, deve per quanto può, conservare gli altri, e non può, se non nel caso di far giustizia d’un offensore, sopprimere o menomare a un altro la vita o quanto contribuisce alla conservazione della vita, come la libertà, la salute, le membra del corpo o i beni.
E perché tutti siamo trattenuti dal violare i diritti altrui e dal far torto ad altri, e sia osservata la legge di natura, che vuole la pace e la conservazione di tutti gli uomini, l’esecuzione della legge di natura è, in questo stato, posta nelle mani di ciascuno, per cui ognuno ha il diritto di punire i trasgressori di questa legge, in misura tale che possa impedirne la violazione, perché la legge di natura, come ogni altra legge che riguardi gli uomini in questo mondo, sarebbe inutile, se non ci fosse nessuno che nello stato di natura avesse il potere di farla eseguire, e così proteggere gli innocenti e reprimere gli offensori. E se nello stato di natura uno può punire un altro per un male che questi abbia fatto, ciascuno può fare lo stesso, perché in questo stato di perfetta eguaglianza, ove non c’è naturalmente superiorità o giurisdizione di uno sopra un altro, ciò che uno può fare in osservanza a questa legge, ciascuno deve necessariamente avere il diritto di farlo.
È a questo modo che, nello stato di natura, un uomo consegue un potere sopra altri, ma tuttavia non il potere assoluto o arbitrario, di disporre di un colpevole, quando gli sia giunto nelle mani, secondo le ire passionali o la sfrenata stravaganza del suo volere, ma unicamente di retribuirgli, secondo quanto dettano la ragione tranquilla e la coscienza, ciò ch’è proporzionato alla sua trasgressione, cioè a dire quanto può servire a riparazione e repressione: perché queste due sono le sole ragioni per cui un uomo può legittimamente recar danno a un altro, ch’è ciò che si chiama punizione. Nel trasgredire la legge di natura, l’offensore dichiara lui stesso di vivere secondo una norma diversa da quella della ragione e della comune equità, ch’è la misura che Dio ha imposto alle azioni degli uomini, per loro mutua garanzia; e quindi egli diventa pericoloso agli uomini, dal momento che da lui è trascurato e infranto il vincolo inteso a garantirli dall’offesa e dalla violenza. Poiché questo è un delitto contro l’intera specie umana, e contro la sua pace e sicurezza, a cui la legge di natura ha provveduto, ciascuno perciò, in base al diritto che ha di conservare gli uomini in generale, può reprimere, o, se è necessario, distruggere ciò ch’è loro nocivo, e quindi può recare a chi ha trasgredito quella legge un male tale che possa indurlo a pentirsi d’averlo fatto, e perciò distoglier lui, e, sul suo esempio, altri, dal compiere il medesimo torto. In questo caso e su questo fondamento ognuno ha il diritto di punire gli offensori e rendersi esecutore della legge di natura.
Non dubito che questa sembrerà a qualcuno una dottrina assai strana: ma prima di condannarla, vorrei che mi si definisse in base a qual diritto un principe o uno Stato possono mandare a morte o punire uno straniero, per un delitto che questi commetta nel loro paese. È certo che le loro leggi, per quanto sian rese valide dalla sanzione ch’esse ricevono dalla volontà promulgata del potere legislativo, non riguardano chi è straniero: non si rivolgono a lui, e, se sì, egli non è tenuto ad osservarle. L’autorità legislativa, per cui le leggi han vigore sui sudditi di quella società politica, non ha potere su di lui.
Coloro che hanno il potere supremo di far leggi in Inghilterra, Francia o Olanda, sono, per un indiano, come per tutto il resto del mondo, uomini senza autorità: e perciò, se non è in base alla legge di natura che ciascuno ha il potere di punire le infrazioni di essa, secondo quanto col buon senso si giudica che il caso richiede, non vedo come i magistrati di una comunità possano punire uno straniero d’un altro Paese: poiché, nei suoi riguardi, essi non possono avere potere maggiore di quello che ciascuno può avere naturalmente su di un altro.
Al delitto che consiste nel violare la legge e nel deviare dalla retta orma della ragione, per cui un uomo degenera sino a quel punto e dichiara lui stesso di abbandonare i princìpi della natura umana e d’essere una creatura nociva, è ordinariamente connessa un’offesa arrecata a un’altra persona, cioè a dire è un altro che riceve un danno da questa trasgressione: nel qual caso chi ha ricevuto un danno, ha, oltre il diritto di punire, comune a lui e agli altri, il diritto particolare di chiedere riparazione da colui che gliel’ha recato: e chiunque altri lo riconosca giusto può anche unirsi a chi è stato offeso, e assisterlo nel recuperare dall’offensore quanto basti per avere soddisfazione del danno ch’egli ha sofferto.
Di questi due distinti diritti, l’uno di punire il delitto per reprimerlo e di prevenire analoghe violazioni, il quale diritto di punire appartiene ad ognuno, l’altro di esigere riparazione, che spetta unicamente alla parte offesa, accade che il magistrato, il quale, per essere magistrato, tiene fra le proprie mani il comune diritto di punire, può spesso, quando il pubblico bene non esige l’esecuzione della legge, condonare di propria autorità la punizione di violazioni delittuose, ma tuttavia non può condonare la soddisfazione dovuta a un privato per il danno che questi ha ricevuto.
Colui che ha sofferto il danno ha il diritto di esigere soddisfazione in proprio nome, e lui solo può condonarla: la persona danneggiata ha il potere d’impossessarsi dei beni o del servizio dell’offensore, in base al diritto dell’autoconservazione, così come ognuno ha il potere di punire il delitto ad impedire che sia ancora commesso, in base al diritto che ha di conservare tutto il genere umano, e di fare tutto ciò che può ragionevolmente fare a questo fine, ed è per questo che ognuno, nello stato di natura, ha il potere di uccidere un assassino, sia per distogliere altri dal commettere la stessa offesa, che nessuna riparazione può compensare, con l’esempio della punizione che da parte di ciascuno l’accompagna, sia anche per garantire gli uomini dagli attentati di un delinquente, il quale, avendo rinunciato alla ragione, ch’è la norma e la misura comune che Dio ha dato all’umanità, con l’ingiusta violenza e strage che ha perpetrato nei riguardi di uno solo, ha dichiarato guerra all’intero genere umano; e perciò può esser distrutto come un leone o una tigre, cioè come una di quelle bestie feroci con cui gli uomini non possono avere società o garanzia; e su di questo si fonda quella grande legge di natura: «chiunque sparge sangue umano, dall’uomo sarà sparso il suo sangue». E Caino era così pienamente convinto che ciascuno aveva il diritto di uccidere un delinquente del genere, che dopo l’assassinio di suo fratello grida: «chiunque mi troverà, mi ucciderà», così chiara fu scritta nel cuore di tutti gli uomini.
Per lo stesso motivo un uomo, nello stato di natura, può punire le menome infrazioni di quella legge. Forse si domanderà: con la morte? Rispondo: ogni trasgressione può esser punita in tale grado e con tanta severità quale basti per costituire un cattivo affare per l’offensore, dargli motivo di pentirsi e distogliere gli altri dal fare lo stesso. Ogni violazione che possa esser perpetrata nello stato di natura, può nello stato di natura esser anche punita allo stesso modo e allo stesso grado che in una società politica: perché sebbene esuli dal mio presente assunto addentrarmi qui nei particolari della legge di natura, o nei gradi di punizione da essa prescritti, tuttavia è certo che vi è questa legge, e che essa è anche altrettanto intelligibile e chiara a una creatura ragionevole e a chi la studi, quanto le leggi positive delle società politiche, anzi, forse tanto più evidente, quanto più facile a intendere è la ragione che non le fantasie e le intricate invenzioni degli uomini, che seguono contrari ed occulti interessi celati sotto le parole; perché così veramente sono gran parte delle leggi civili dei vari paesi, che sono giuste soltanto per quanto sono fondate sulla legge di natura, in base a cui debbono esser regolate e interpretate.
A questa strana dottrina, cioè a dire che nello stato di natura ognuno ha il potere esecutivo della legge di natura, non dubito che si obietterà ch’è irragionevole che si sia giudice nella propria causa, che l’amor proprio renderà gli uomini parziali verso se stessi e i propri amici, e che, d’altra parte, un’indole cattiva, le passioni e la vendetta li porteranno troppo oltre nel punire gli altri, e non ne seguirà se non confusione e disordine, e ch’è certamente per questo che Dio ha stabilito il governo onde reprimere la parzialità e la violenza degli uomini.
Concedo facilmente che il governo civile sia il rimedio adatto agl’inconvenienti dello stato di natura, che debbono certamente esser gravi quando gli uomini siano giudici nella propria causa, giacché è facile immaginare che chi è stato così ingiusto da recare offesa a un suo fratello, non sarà così giusto da condannarsi per questo, ma pregherei coloro che muovono quest’obiezione di ricordare che i monarchi assoluti non sono che uomini, e se il governo ha da essere il rimedio dei mali, che conseguono necessariamente al fatto che gli uomini sian giudici nella propria causa, ed è perciò che lo stato di natura non deve durare, vorrei sapere qual genere di governo sia, e quanto sia migliore dello stato di natura, quello in cui un uomo solo, che comanda una moltitudine, ha la libertà di esser giudice nella propria causa, e può fare a tutti i suoi sudditi tutto ciò che vuole, senza che alcuno abbia la minima libertà di questionare o controllare coloro che ne eseguiscono la volontà e, in tutto ciò che fa, o dettato dalla ragione o dall’errore o dalla passione, bisogna essergli sottomesso.
Molto meglio lo stato di natura, in cui gli uomini non sono costretti a sottomettersi all’ingiusta volontà di un altro, e colui che giudica, se giudica male nella causa propria o altrui, ne è responsabile davanti a tutti gli altri.
Si domanda spesso, come ad avanzare una grande obiezione: dove sono o mai vi furono uomini in questo stato di natura? Al che può bastare per ora rispondere che, poiché tutti i principi e i magistrati di governi indipendenti per tutto il mondo sono in uno stato di natura, è chiaro che il mondo non fu mai né mai sarà privo di un certo numero di uomini in quello stato. Ho alluso a tutti i governanti indipendenti, siano o non siano alleati con altri, perché non è un patto qualsiasi quello che pone termine allo stato di natura fra gli uomini, ma soltanto quello di accordarsi insieme reciprocamente a entrare in un’unica comunità e a formare un unico corpo politico: gli uomini possono concludere gli uni con gli altri altre promesse o patti, e tuttavia continuare a permanere nello stato di natura.
Le promesse e i contratti per un carro, ecc. fra i due uomini in un’isola deserta, menzionati da Garcilaso de la Vega nella sua storia del Perù, o tra uno svizzero e un indiano, nelle foreste dell’America, li vincolano nelle loro mutue relazioni, sebbene essi si trovino assolutamente in stato di natura, perché la sincerità e il mantenimento della parola data si convengono agli uomini in quanto uomini e non in quanto membri di una società.
A coloro che dicono che non vi furono mai uomini in stato di natura, non soltanto opporrò l’autorità del giudizioso Hooker (Polit. Eccles. 1. I, p. 10), là ove egli dice: «Le leggi di cui s’è parlato sin qui», cioè a dire le leggi di natura, «obbligano gli uomini assolutamente, proprio in quanto sono uomini, anche quando non abbiano né società stabilita né accordo solenne tra di loro sul da fare o da non fare. Ma in quanto non siamo sufficienti, di per noi stessi, a rifornirci di un’adeguata scorta di cose, necessaria per una vita quale la nostra natura richiede, e cioè una vita conveniente alla dignità umana, allora, per sopperire a quelle deficienze e imperfezioni che sono in noi quando viviamo singolarmente e isolatamente per noi stessi, siamo naturalmente spinti a cercare la comunità e la società con altri. Questa è stata la causa per cui gli uomini si sono uniti fra di loro in società politiche». Ma in più affermerò anche che tutti gli uomini si trovano naturalmente in questo stato e vi permangono sino a che per loro consenso non si facciano membri di una società politica, ciò che non dubito di render evidente nel seguito di questo discorso. (Cap. II)
Dello stato di guerra
Lo stato di guerra è uno stato di ostilità e distruzione, e perciò chi dichiara con parole o atti un’intenzione, non passionale o precipitata, ma definita con calma, sulla vita di un altro, si pone con ciò stesso in stato di guerra con colui contro il quale ha dichiarato tale intenzione, e quindi ha esposto la propria vita al potere dell’altro, si ch’essa può esser soppressa da lui o da chiunque si unisca con lui nella sua difesa e ne sposi la querela, dal momento ch’è ragionevole e giusto ch’io abbia il diritto di distruggere chi mi minaccia di distruzione, perché, dovendosi l’uomo, in base alla legge fondamentale di natura, conservare il più possibile, quando non possano esser conservati tutti, è da preferirsi la salvezza degl’innocenti, e uno può distruggere un altro che gli muova guerra o abbia manifestato ostilità contro la sua esistenza per lo stesso motivo per cui può uccidere un lupo o un leone, per il fatto che tali uomini non sottostanno ai vincoli della comune legge di ragione, e non hanno altra norma che quella della forza e della violenza, e quindi possono essere trattate come bestie feroci quelle creature pericolose e nocive che non mancheranno di distruggerlo quando egli cada in loro potere.
Dal che consegue che chiunque tenti di porre un altro in proprio assoluto potere, si pone con ciò stesso in stato di guerra con lui, dal momento che ciò deve intendersi come la dichiarazione di un’intenzione sulla vita di lui; perché ho motivo di concludere che chiunque voglia pormi in suo potere senza il mio consenso, disporrà di me come vorrà una volta che mi ci abbia posto, e anche mi distruggerà quando gliene venga il capriccio; perché nessuno può desiderare di avermi in suo assoluto potere se non per costringermi con la forza a ciò ch’è contro il diritto della mia libertà, cioè a dire per rendermi schiavo.
Esser libero da quella forza è l’unica garanzia della mia conservazione, e la ragione mi impone di considerare nemico della mia conservazione chiunque voglia togliermi quella libertà che ne è la difesa, così che chiunque compia il tentativo di rendermi schiavo, con ciò stesso si pone in stato di guerra con me. Colui che, nello stato di natura voglia togliere la libertà che in tale stato appartiene a ciascuno, bisogna necessariamente supporre che abbia l’intenzione di togliere ogni altra cosa, poiché quella libertà è il fondamento di tutto il resto, allo stesso modo che colui che, nello stato di società, voglia togliere la libertà che appartiene ai membri di quella società o corpo politico, bisogna necessariamente supporre che intenda toglier loro ogni altra cosa, e perciò considerarlo come in stato di guerra.
Il che rende lecito a un uomo l’uccidere un ladro, il quale non ha inferto la menoma lesione, né dichiarato alcuna intenzione sulla sua vita se non per l’uso della forza diretto sia a porlo in proprio potere che a togliergli il denaro o quant’altro vuole, dal momento che, facendo egli uso della forza, senz’averne il diritto, per pormi in suo potere, quale che sia la sua pretesa, io non ho motivo di supporre che chi vuol togliermi la libertà non voglia togliermi, una volta che mi abbia in suo potere, ogni altra cosa. E perciò mi è lecito trattarlo come uno che si sia posto in stato di guerra con me, cioè a dire ucciderlo se posso, perché a questo rischio giustamente si espone chiunque introduca uno stato di guerra, nel quale sia aggressore.
E qui abbiamo chiara la differenza fra lo stato di natura e lo stato di guerra, i quali, per quanto taluni li abbiano confusi, sono così distanti come lo sono fra loro uno stato di pace, benevolenza, assistenza e conservazione reciproca e uno stato di ostilità, malvagità, violenza e reciproca distruzione. Uomini che vivono insieme secondo ragione, senza un superiore comune sulla terra, che abbia autorità a giudicare fra di loro: questo è propriamente lo stato di natura. Ma la forza, o un’intenzione dichiarata di forza sulla persona di un altro, quando non vi sia sulla terra un superiore comune a cui appellarsi per soccorso, è lo stato di guerra: ed è proprio la mancanza di un tale appello che conferisce a un uomo il diritto di guerra contro un aggressore, per quanto questi sia in società con lui e suo consuddito.
Così un ladro, a cui, se ne sono stato derubato di tutto ciò che posseggo, non posso render danno se non appellandomi alla legge, posso ucciderlo, se si getta su di me per non togliermi che il cavallo o l’abito, giacché la legge, che fu fatta per la mia conservazione, quando non possa intervenire per garantire, da una forza presente, la mia vita, che, una volta perduta, non può esser riparata, mi permette la mia propria difesa e il diritto di guerra, e cioè la libertà di uccidere l’aggressore, per il fatto che l’aggressore non mi concede né il tempo di appellarmi al nostro giudice comune, né la decisione della legge a porre rimedio in un caso in cui il delitto sarebbe irreparabile. La mancanza di un giudice comune fornito di autorità pone tutti gli uomini in stato di natura: la forza esercitata senza diritto sulla persona di un uomo introduce lo stato di guerra, vi sia o meno un giudice comune.
Ma quando la forza attuale vien meno, lo stato di guerra cessa fra coloro che si trovano in società, e sono tutti parimenti soggetti all’imparziale decisione della legge, in quanto allora è possibile il rimedio dell’appello per l’offesa passata e per la prevenzione del danno futuro; ma dove non vi sia tale appello, come nello stato di natura, per mancanza di leggi positive e di giudici forniti di autorità a cui appellarsi, lo stato di guerra, una volta cominciato, continua, dando diritto alla parte innocente di distruggere l’altra ogni qual volta lo possa, fino a che l’aggressore offra pace, e desideri la riconciliazione a tali condizioni che possano riparare qualunque offesa abbia già recato, e garantire l’innocente per il futuro: anzi, quando è possibile l’appello alla legge e ai giudici costituiti, ma il rimedio è rifiutato da una patente corruzione della giustizia, e da uno sfacciato travisamento delle leggi inteso a proteggere o giustificare la violenza o le offese di individui o partiti, è difficile immaginare che non vi sia stato di guerra, perché ogni qual volta si usi violenza o si rechi offesa, anche se per mano di chi è designato ad amministrare la giustizia, si tratta sempre di violenza e offesa, quantunque dissimulata sotto il nome, le pretese o le forme della legge, il cui fine è proteggere e render giustizia all’innocente mediante un’imparziale applicazione a tutti coloro che le sottostanno, e ovunque ciò non sia compiuto in buona fede, si fa guerra contro i sofferenti, i quali, non avendo sulla terra appello che renda loro giustizia, sono abbandonati all’unico rimedio che rimanga in tali casi, cioè a dire l’appello al cielo.
La necessità di evitare questo stato di guerra — in cui non v’è altro appello che al cielo, e in cui ogni menoma divergenza è subito risolta, non essendovi autorità che decida fra i contendenti — è l’unico fondamentale motivo del fatto che gli uomini si pongono in società e abbandonano lo stato di natura, perché dove c’è un’autorità, un potere sulla terra da cui per appello si può ottenere soccorso, li è esclusa la permanenza dello stato di guerra, e la controversia è decisa da questo potere. Se ci fosse stato tale tribunale, una giurisdizione superiore sulla terra, per definire il diritto fra Gefte e gli Ammoniti, essi non sarebbero mai pervenuti a uno stato di guerra; ma vediamo che egli fu costretto ad appellarsi al cielo: «Il Signore ch’è il giudice, disse, sia giudice oggi fra i figli d’Israele e i figli di Ammon» (Giud. XI, 27); e allora, attaccando e fidando sul suo appello, condusse il suo esercito alla battaglia, e perciò in tali controversie, quando è posta la questione: «chi sarà giudice?», ciò non vuol significare: «chi deciderà la controversia?»: ognuno intende che cosa Gefte vuol significare quando dice che giudicherà «il Signore ch’è il giudice». Quando non v’è giudice sulla terra, non rimane che l’appello a Dio nel cielo. E allora quella questione non può significare: «chi giudicherà se un altro si sia posto in stato di guerra con me, e se io possa appellarmene al cielo come fece Gefte?». Di ciò posso giudicare soltanto io, nella mia coscienza, in base a ciò di cui dovrò rispondere nel gran giorno, davanti al giudice supremo di tutti gli uomini. (Cap. III.)
Della proprietà
Sia che consideriamo la ragione naturale, che ci dice che gli uomini, una volta nati, hanno diritto alla loro conservazione, e per conseguenza a mangiare e bere, e alle altre cose che la natura offre per il loro sostentamento, sia che consideriamo la rivelazione, che ci dà notizia di quelle concessioni che del mondo Dio fece a Adamo e a Noè e ai suoi figli, risulta chiarissimo che Dio, come dice il re David (Salm. CXV, 16), «ha dato la terra ai figli degli uomini», cioè l’ha data agli uomini in comune. Ma, ciò supposto, sembra costituire una grandissima difficoltà come si sia mai giunti ad aver la proprietà di qualcosa.
Non mi contenterò di rispondere che, se è difficile istituire la proprietà in base al presupposto che Dio ha dato il mondo a Adamo e alla sua discendenza in comune, è impossibile che alcuno, se non unico monarca universale, abbia una proprietà in base al presupposto che Dio ha dato il mondo a Adamo e ai suoi eredi in successione ad esclusione di tutti gli altri suoi discendenti. Ma tenterò di mostrare come gli uomini possano giungere ad avere la proprietà di qualche parte di ciò che Dio ha concesso agli uomini in comune, e ciò senza un contratto espresso fra i membri della comunità.
Dio, che ha dato il mondo agli uomini in comune ha anche dato loro la ragione, per farne l’uso più vantaggioso alla vita e più comodo. La terra e tutto ciò che vi si trova è data agli uomini per la sussistenza e il conforto della loro esistenza. Ma, sebbene tutti i frutti ch’essa produce naturalmente e gli animali ch’essa nutre, in quanto sono prodotti spontaneamente dalla natura, appartengono agli uomini in comune, e sebbene nessuno abbia originariamente, ad esclusione degli altri uomini, dominio privato su alcuno di essi fin tanto che sono a quel modo nel loro stato naturale, tuttavia, dal momento che sono dati per l’uso degli uomini, vi deve essere necessariamente un mezzo per appropriarsene in una qualche maniera, prima che possano essere in qualche modo di uso o di vantaggio a un singolo. La frutta o la cacciagione che nutre il selvaggio delle Indie, il quale non conosce recinti, e continua ad essere concessionario in comune, dev’esser sua, e in tal modo sua, cioè a dire parte di lui, che un altro non può avervi alcun diritto se non quando gli sia utile per la sussistenza della sua vita.
Sebbene la terra e tutte le creature inferiori siano comuni a tutti gli uomini, pure ognuno ha la proprietà della propria persona, alla quale ha diritto nessun altro che lui. Il lavoro del suo corpo e l’opera delle sue mani possiamo dire che sono propriamente suoi. A tutte quelle cose dunque che egli trae dallo stato in cui la natura le ha prodotte e lasciate, egli ha congiunto il proprio lavoro, e cioè unito qualcosa che gli è proprio, e con ciò le rende proprietà sua.
Poiché son rimosse da lui dallo stato comune in cui la natura le ha poste, esse, mediante il suo lavoro, hanno, connesso con sé, qualcosa che esclude il diritto comune di altri. Infatti, poiché questo lavoro è proprietà incontestabile del lavoratore, nessun altro che lui può avere diritto a ciò ch’è stato aggiunto mediante esso, almeno quando siano lasciate in comune per gli altri cose sufficienti e altrettanto buone.
Chi si nutre delle ghiande ch’egli coglie sotto una quercia o delle mele che raccoglie dagli alberi di una foresta, certamente se le è appropriate. Nessuno può negare che questo cibo sia suo. Domando allora: quando hanno cominciato ad essere sue? quando le ha digerite? o quando le mangia? o quando le ha cotte? o quando le ha portate a casa? o quando le ha colte? È chiaro che se non è il primo atto di raccoglierle quello che le rende sue, nessun altro atto lo potrebbe. È quel lavoro che ha posto una differenza tra quei frutti e quelli comuni, in quanto vi ha aggiunto qualcosa di più di quel che ha fatto la natura, madre comune di tutti, e così essi diventano suo diritto privato.
Si dirà forse ch’egli non aveva diritto alle ghiande o alle mele che si è appropriate in quel modo, per il fatto che non aveva il consenso di tutti gli uomini a farle sue? Era forse un furto prender a quel modo per sé ciò che spettava a tutti in comune? Se fosse stato necessario un consenso del genere, sarebbe morto di fame, non ostante l’abbondanza che Dio gli ha dato.
Vediamo che nelle comunità che permangono tali per contratto è il prendere una parte di ciò ch’è comune e il rimuoverla dallo stato in cui la natura la lascia, ciò che dà origine alla proprietà, senza di che il possesso comune sarebbe inservibile. E il prendere questa o quella parte non dipende dal consenso esplicito di tutti i membri della comunità: così l’erba che il mio cavallo ha mangiato, le zolle che il mio servo ha tagliato, il minerale ch’io ho scavato in un luogo in cui io vi ho diritto in comune con altri, diventano mia proprietà senza l’assegnazione o il consenso di alcuno. È il lavoro ch’è stato mio, cioè a dire il rimuovere quelle cose dello stato comune, in cui si trovavano, quello che ha determinato la mia proprietà su di esse.
Se fosse necessario il consenso esplicito di ogni membro della comunità perché ci si possa appropriare una parte di ciò ch’è dato in comune, i figli o i servi non potrebbero tagliare il cibo che il padre o il padrone ha provveduto loro in comune, senza assegnare a ciascuno la sua parte particolare. Sebbene l’acqua che scorre in una fontana sia di tutti, chi può dubitare tuttavia che quella ch’è in un secchio appartenga esclusivamente a colui che l’ha attinta? Il suo lavoro l’ha presa dalle mani della natura, in cui era comune e apparteneva egualmente a tutti i figli di lei, e con ciò se l’è appropriata.
A questo modo tale legge di ragione assegna il cervo a quell’indiano che l’ha ucciso: è riconosciuto un bene di colui che vi ha dedicato il suo lavoro, sebbene prima fosse diritto comune di altri. E fra coloro che sono considerati la parte incivilita del genere umano, e hanno fatto e moltiplicato leggi positive a definire la proprietà, continua a valere questa originaria legge di natura intorno all’origine della proprietà in ciò che prima era comune; e in virtù di essa il pesce che si prende nell’oceano, questo grande e sempre comune bene dell’umanità, o l’ambra grigia che vi si pesca, diventa, per il lavoro che lo rimuove da quel comune stato in cui la natura l’ha lasciato, proprietà di colui che vi ha dedicato la sua fatica. E anche fra di noi, la lepre che uno sta cacciando è considerata appartenente a colui che la bracca durante la caccia: infatti, trattandosi di un animale ch’è sempre riguardato come possesso comune e non privato, chiunque abbia esercitato su una di esse un lavoro come quello di scovarla e braccarla, l’ha con ciò rimossa dallo stato di natura, in cui essa era comune, e ha dato origine a una proprietà.
Al che forse si obietterà che se il raccogliere ghiande o altri frutti della terra, e così via, crea un diritto su di essi, un uomo può accaparrarsene quanti ne vuole. Al che rispondo di no. La stessa legge di natura che ci conferisce con quel mezzo la proprietà, ce la limita anche. «Dio ci ha dato abbondantemente ogni cosa» (I Tim. VI, 17): questa è la voce della ragione confermata dalla rivelazione.
Ma con quale limitazione Dio ce l’ha data? «A godere.» Di quanto si può prima che vada perduto far uso a vantaggio della propria vita, di tanto si può col proprio lavoro istituire la proprietà: tutto ciò che oltrepassa questo limite, eccede la parte di ciascuno e spetta ad altri. Nulla fu creato da Dio per l’uomo onde vada perduto o distrutto. E così, considerata l’abbondanza di scorte naturali che da tanto tempo sono al mondo, e i pochi consumatori, e quanto piccola parte di tali scorte potrebbe l’industria di un uomo raggiungere e accaparrarsi a pregiudizio di altri, specialmente se attinge, entro i limiti stabiliti dalla ragione, da ciò che può servire al suo uso, ben scarsa occasione rimarrebbe per dispute o contese sulla proprietà così stabilita.
Ma poiché ora il principale oggetto della proprietà consiste non nei frutti della terra o negli animali che vivono in essa, ma nella terra stessa, come quella che comprende in sé e porta con sé tutto il resto, mi pare evidente che anche la proprietà della terra sia acquisita allo stesso modo che l’altra. Quanta terra un uomo lavori, semini, bonifichi e coltivi, usandone il prodotto, tanta è proprietà sua. Egli, col suo lavoro, la recinge, per così dire, sostituendosi alla proprietà comune. E non invaliderà questo suo diritto il dire che qualsiasi altro vi ha pari diritto, e perciò egli non può appropriarsela, non può recingerla senza il consenso di tutti gli altri membri della sua comunità, cioè a dire di tutto il genere umano.
Dio, quando diede il mondo in comune a tutti gli uomini, comandò all’uomo anche di lavorare, e l’insufficienza della sua condizione esige ch’egli lavori. Dio e la sua ragione gli hanno comandato di sottomettere la terra, cioè a dire di coltivarla a beneficio della vita, stendendo su di essa qualcosa ch’era suo proprio, cioè a dire il suo lavoro. Colui che, in ottemperanza a questo comando di Dio, ha sottomesso, coltivato e seminato una porzione di terra, vi ha con ciò aggiunto qualcosa ch’era sua proprietà, che un altro non può fare oggetto d’un suo diritto, né potrebbe togliergli senza ingiustizia.
Né questa appropriazione di una porzione di terra in base alla coltivazione di essa torna a pregiudizio per altri, poiché ne rimane sempre abbastanza e altrettanto buona, e più di quanta possa servire a chi ne è ancora sprovvisto. Così che, in realtà, per un’appropriazione particolare ne rimane tuttavia sempre per gli altri, perché chi ne lascia quanta possa servire ad altri, fa come se non ne avesse punto presa. Colui a cui rimane un intero fiume a sedare la sua sete, non può ritenersi offeso se un altro beve, sia pure a grandi sorsi, della medesima acqua; e il caso della terra e quello dell’acqua, quando dell’una e dell’altra ve ne sia abbastanza, sono perfettamente identici.
Dio ha dato il mondo agli uomini in comune, ma poiché egli l’ha dato loro a loro vantaggio e onde ne traggano i massimi comodi di vita che possano, è impossibile supporre esser sua intenzione ch’esso debba sempre rimanere comune e incolto. Egli l’ha dato per l’uso degli uomini industriosi e ragionevoli, e il lavoro è il titolo che l’uomo deve presentare per possederlo, e non per il capriccio e la cupidigia dei litigiosi e dei rissosi. Colui a cui rimane per la sua coltivazione una parte di terra altrettanto buona quale è quella che è già stata presa, non ha motivo di dolersi, né deve immischiarsi in ciò che un altro ha già coltivato con il suo lavoro: se lo fa, è chiaro che voleva beneficiare delle fatiche altrui, su cui non ha alcun diritto, e non della terra che Dio gli ha dato da lavorare in comune con gli altri, e di cui rimane una parte altrettanto buona quale è quella che già è posseduta, e più di quanto egli sappia che farsene o la sua industria possa sfruttare.
È vero che, nella terra ch’è comune in Inghilterra o in ogni altro paese, ove si trovi, sotto un governo, una moltitudine di uomini, che abbiano moneta e commercio, nessuno può recingere o appropriarsi una parte senza il consenso di tutti gli altri membri della sua comunità, in quanto quella terra rimane comune per contratto, cioè a dire per la legge del paese, che non dev’esser violata. E sebbene sia comune rispetto a quegli uomini determinati, non lo è rispetto a tutta l’umanità, ma è proprietà associata di quel determinato paese o di quella determinata parrocchia. Inoltre ciò che resterebbe dopo tale divisione non sarebbe così utile agli altri membri della comunità com’era l’intero possesso, quand’essi tutti potevano farne uso, mentre al principio, quando si cominciava a popolare quel gran possesso comune ch’è il mondo, la cosa era del tutto diversa.
La legge cui l’uomo sottostava tendeva piuttosto all’appropriazione. Dio lo comandava e i suoi bisogni lo costringevano al lavoro. Questa era la sua proprietà, che non poteva essergli tolta, ovunque egli l’avesse istituita. Vediamo quindi che sottomettere o coltivare la terra e averla in dominio sono due cose insieme connesse. L’una cosa è titolo per l’altra. Così che Dio, col comando di sottometterla, autorizzò ad appropriarsela e la condizione della vita umana, che richiede il lavoro e i materiali da lavorare, introduce necessariamente possessi privati.
La misura della proprietà è stata dalla natura ben stabilita in base all’entità del lavoro dell’uomo e dei comodi della vita; non c’è lavoro umano che possa sottomettere o appropriarsi tutto, né fruizione che possa consumare più che una piccola parte, così ch’è impossibile che un uomo per questa via invada il diritto di un altro, o si acquisti una proprietà a pregiudizio del vicino, il quale, dopo ch’egli ha preso la sua parte, avrebbe sempre posto per un possesso altrettanto buono e ampio quanto quello che avrebbe potuto trovare prima.
È questa misura quella che limitò il possesso di ciascuno a proporzioni ben modeste, e tali che ciascuno potesse appropriarselo senza offendere alcuno, nelle prime età del mondo, quando per gli uomini era maggiore il pericolo di perdersi, allontanandosi dai loro compagni, negli allora vasti deserti della terra, che quello di trovarsi allo stretto per mancanza di spazio da coltivare.
La stessa misura può continuare ad ammettersi senza pregiudizio di alcuno per quanto il mondo appaia popolato: si supponga infatti che un uomo o una famiglia, nello stato in cui ci si trovava al primo popolamento del mondo da parte dei figli di Adamo o di Noè, si stabilisca in qualche parte interna e deserta dell’America: noteremo che i possessi ch’egli potrebbe farsi in base alle misure che abbiamo dato, non sarebbero molto ampi, e neppure oggi recherebbero pregiudizio agli altri, né darebbero a questi motivo di dolersi o di ritenersi offesi dall’usurpazione di quell’uomo, sebbene la specie umana si sia oggi propagata in tutte le parti del mondo, e abbia infinitamente superato l’esiguo numero che esisteva al principio.
Anzi, l’estensione della terra è di così poco valore senza lavoro, che ho sentito affermare che nella stessa Spagna un uomo può avere il permesso di arare, seminare e mietere, senza esser disturbato, su una terra sulla quale non ha nessun altro diritto che l’uso attuale che ne fa. E, anzi, gli abitatori si ritengono obbligati verso chi, con la sua industria su una terra desolata e perciò deserta, ha accresciuto le scorte di frumento di cui essi han bisogno. Ma comunque sia, non insisto su di ciò: quel che ardisco affermare è che la stessa norma della proprietà, cioè a dire che ognuno possegga quel tanto di cui può far uso, può sempre valere nel mondo senza pregiudicare nessuno, poiché vi è terra sufficiente nel mondo da bastare al doppio di abitanti, anche se l’invenzione della moneta e il tacito accordo degli uomini a porvi valore, non avessero introdotto per consenso più ampi possessi, e il diritto ad averli; e come ciò sia avvenuto, mostrerò tosto più diffusamente.
Questo è certo, che al principio, prima che il desiderio di possedere più di quanto si abbia bisogno avesse alterato il valore intrinseco delle cose; che non dipende dalla loro utilità per la vita dell’uomo, o avesse convenuto che un piccolo pezzo di metallo giallo, che si conservasse senza guastarsi o deteriorarsi, valesse un grande pezzo di carne o un intero mucchio di frumento, sebbene gli uomini avessero il diritto di appropriare, col proprio lavoro, ciascuno a se stesso, tante cose naturali quante potessero usare, tuttavia ciò non sarebbe stato molto, né avrebbe recato pregiudizio ad altri, quando la stessa abbondanza rimaneva sempre a coloro che avessero impiegato la stessa industria.
Al che si aggiunga che chi si appropria terra col suo lavoro, non diminuisce, ma aumenta le scorte comuni dell’umanità, perché le provvigioni che servono per la sussistenza della vita umana, prodotte da un solo iugero di terreno cintato e coltivato, sono — per dirla con un rapporto assai moderato — dieci volte maggiori di quelle che son prodotte da un iugero di terra di eguale fertilità lasciata deserta in comune.
E perciò chi recinge una terra, ed ha da dieci iugeri un’abbondanza di comodi della vita maggiore di quella che avrebbe da cento iugeri lasciati allo stato naturale, si può veramente dire che ha dato all’umanità novanta iugeri, perché il suo lavoro lo fornisce attualmente di provvigioni tratte da dieci iugeri, le quali non sarebbero che il prodotto di cento iugeri lasciati in comune. Ho valutato, qui, assai poco la terra coltivata, quando riduco il suo prodotto nella proporzione di dieci a uno, quando invece è assai più vicino alla proporzione di cento a uno, perché domando se nelle foreste vergini e negli incolti deserti dell’America, lasciati allo stato naturale, senza dissodamento, coltivazione o agricoltura, mille iugeri forniscono ai poveri e miseri indigeni tanti comodi della vita quanto dieci iugeri di terra egualmente fertile nel Devonshire dove sono ben coltivati.
Prima dell’appropriazione della terra, colui che raccoglieva quanti frutti selvatici poteva, e uccideva o catturava o domava quanti animali poteva, colui che impiegava la sua fatica intorno a qualcuno dei prodotti spontanei della natura, si da trasformarli dallo stato in cui la natura li aveva posti, con l’introdurvi una parte del proprio lavoro, ne acquistava con ciò la proprietà: ma se essi andavano perduti in suo possesso senza che se ne facesse il debito uso, se i frutti marcivano o la cacciagione imputridiva prima ch’egli la consumasse, egli violava la comune legge di natura, ed era passibile di punizione: invadeva la parte del vicino, perché non aveva diritto oltre a ciò che il suo proprio uso esigeva per alcuna di quelle cose che potevano servire ad offrirgli i comodi della vita.
Le stesse misure regolavano anche il possesso della terra: tutto ciò che uno coltivava e raccoglieva, conservava e usava prima che andasse perduto, era suo particolare diritto, e in tutto ciò che uno recingeva, traendone nutrimento e facendone uso, anche il bestiame e i prodotti erano suoi. Ma se l’erba del suo recinto marciva per terra, o la frutta della sua piantagione andava in rovina senz’esser raccolta e conservata, questa parte della terra, malgrado che l’avesse recinta, doveva continuare ad esser considerata come un deserto, e poteva esser possesso di un altro.
Così, al principio, Caino poté prendere quanto terreno poteva coltivare, e farne la propria terra, e tuttavia lasciarne abbastanza per il pascolo delle pecore di Abele: pochi iugeri potevano servire da possesso per l’uno e per l’altro. Ma quando le famiglie si accrebbero e l’industria aumentò le loro scorte, i loro possessi si estesero con i loro bisogni, e tuttavia tutto era comune senza che si fosse fissata una proprietà sul terreno di cui essi facevano uso, sino a che non s’incorporarono, e si stabilirono insieme, e costituirono città; e allora, per consenso, giunsero al momento di determinare i confini dei loro territori distinti, e di accordarsi sui limiti tra di essi e i loro vicini, e con leggi interne stabilirono le proprietà dei membri di una stessa società; perché vediamo che in quella parte del mondo che per prima fu abitata, e che perciò era la più atta ad esser popolata, anche più tardi, sino al tempo di Abramo, gli uomini erravano con i loro greggi, e le loro mandrie, eh’erano la loro sostanza, liberamente da ogni parte; il che Abramo fece in un paese in cui era straniero.
Dal che risulta chiaro che almeno una gran parte della terra era in comune, e che gli abitatori valutavano la terra e la rivendicavano in proprietà soltanto in quanto ne facevano uso. Ma quando non ci fu più spazio sufficiente nel medesimo luogo per far pascolare insieme le loro mandrie, essi per consenso, come fecero Abramo e Lot (Gen. XIII, 5), si separarono e estesero i propri pascoli ove meglio parve loro. E per lo stesso motivo Esaù abbandonò suo padre e suo fratello, e si stabili sul monte Seir (Gen. XXXVI, 6).
A questo modo, senza supporre in Adamo il dominio privato o la proprietà di tutto il mondo ad esclusione di tutti gli altri uomini, la quale non può provarsi in alcun modo, e dalla quale non si può dimostrare la proprietà di alcun altro, ma supponendo il mondo dato, come fu dato, ai figli degli uomini in comune, noi vediamo come il lavoro possa costituire per gli uomini titoli distinti su singole parti di esso per il loro uso privato, nel che non vi possono esser questioni di diritto né possibilità di contestazioni.
E non è strano, come forse può parere a prima vista, che la proprietà del lavoro riesca a superare la comunità della terra, perché è proprio il lavoro che pone in ogni cosa la differenza di valore; e si consideri quale differenza sussista fra un iugero di terra coltivata a tabacco o zucchero o seminata a frumento od orzo, e un iugero della stessa terra che giace in comune senz’agricoltura, e si vedrà che l’incremento del lavoro costituisce la parte maggiore del valore. Penso che sarà in fondo un calcolo ben moderato dire che i prodotti della terra utili per la vita umana, per nove decimi sono effetti del lavoro: anzi, se vogliamo valutare esattamente le cose quali giungono al nostro uso, e computare le spese fatte per esse, e che in esse è dovuto semplicemente alla natura e che cosa al lavoro, vedremo che nella maggior parte di esse, il novantanove per cento dev’essere interamente messo in conto al lavoro.
Di nulla vi può esser dimostrazione più chiara che quella che di questo fatto offrono parecchie nazioni dell’America, che sono ricche di territorio, ma povere di ogni conforto della vita: le quali, sebbene la natura le abbia fornite, con altrettanta generosità che qualsiasi altro popolo, delle materie dell’abbondanza, cioè a dire di un suolo fertile e atto a produrre in quantità tutto quanto può servire per il nutrimento, il vestiario e il piacere, tuttavia, per mancanza dell’incremento apportatovi dal lavoro, non hanno neppure la centesima parte delle comodità di cui noi godiamo, e il re di un ampio e fertile territorio in America mangia e alloggia e veste peggio che un operaio giornaliero in Inghilterra.
A render ciò un po’ più chiaro, basterà che seguiamo una delle provvigioni ordinarie per la vita, attraverso alle sue varie trasformazioni prima che giunga al nostro uso, e vediamo quanta parte del suo valore riceva dall’industria umana. Il pane, il vino e la stoffa sono cose di uso quotidiano, e in grande abbondanza: eppure sarebbero le ghiande, l’acqua e le foglie o le pelli a costituire il nostro cibo, la nostra bevanda, il nostro vestiario, se il lavoro non ci fornisse quegli altri beni che sono più utili: perché quanto il pane val più delle ghiande, il vino dell’acqua, e la stoffa o la seta delle foglie, delle pelli o del muschio, tanto è interamente dovuto al lavoro e all’industria; poiché queste ultime cose sono il nutrimento e il vestiario che la natura fornisce senz’aiuto, quelle prime, invece, provvigioni che la nostra industria e fatica ci procurano, e chi computi quanto queste superino quelle in valore, vedrà come il lavoro costituisce la parte di gran lunga maggiore del valore delle cose di cui godiamo in questo mondo, e al terreno che produce le materie difficilmente si può attribuirne una parte, o, tutt’al più, soltanto una parte assai esigua, così piccola che anche fra noi una terra che sia lasciata interamente allo stato naturale, che non abbia l’incremento della pastorizia, o della coltivazione, o della piantagione, è chiamata deserto, come in realtà è, e vedremo che la sua utilità ammonta a poco più che nulla.
Il che mostra quanto il numero di uomini sia da preferirsi alla estensione dei domini, e che l’incremento delle terre e il modo giusto di usarne costituiscono la grande arte del governo, e che il principe, che sia così saggio e benefico, da garantire, con l’istaurazione di leggi di libertà, protezione e incoraggiamento all’onesta industria degli uomini, contro l’oppressione del potere e l’angustia del partito, diventerà tosto inviso ai suoi vicini: ma ciò sia detto tra parentesi. Ritorniamo all’argomento in questione.
Un iugero di terra, che produce qui venti staia di frumento, e un altro iugero in America, che, con la stessa coltivazione, produrrebbe lo stesso, sono, senza dubbio, dello stesso valore naturale intrinseco: ma tuttavia il vantaggio che in un anno gli uomini ricavano dall’uno vale cinque sterline, e quello che ricavano dall’altro non vale forse nemmeno un soldo, se tutto il profitto che un indiano ne ricava dovesse esser valutato e venduto qui, o, tutt’al più, potrei dire nemmeno un millesimo.
È dunque il lavoro che conferisce alla terra la maggior parte del valore, e, senza di esso, quella appena giungerebbe a valer qualcosa; è ad esso che dobbiamo la maggior parte di tutti i prodotti utili della terra, perché tutto quanto la paglia, la crusca, il pane, prodotti da questo iugero di frumento, valgono di più che il prodotto di un iugero di terra altrettanto buona, che giaccia deserto, è tutto effetto del lavoro. Infatti non è soltanto la fatica dell’aratore, la pena del mietitore e del trebbiatore, e il sudore del fornaio che debbono esser calcolati nel pane che mangiamo: il lavoro di chi ha domato i buoi, di chi ha scavato e lavorato il ferro e le pietre, di chi ha abbattuto gli alberi e squadrato i travi adoperati per l’aratro, il mulino, il forno e tutti gli altri strumenti, che sono in gran numero, richiesti per questo grano, da quando è seme per esser seminato sino a quando è fatto pane, tutto ciò dev’esser messo in conto al lavoro e considerato come un effetto di esso: la natura e la terra non forniscono che la materia greggia, che in se stessa è quasi priva di valore.
Sarebbe uno strano elenco quello che potremmo tracciare delle cose che l’industria ha preparato e di cui ha fatto uso per ogni pagnotta, prima ch’essa giunga al nostro uso, ferro, legno, cuoio, corteccia, travi, pietre, mattoni, carbone, calce, stoffa, materie coloranti, pece, catrame, alberi, funi, e tutti quei materiali di cui si fa uso nelle navi, che trasportano ciascuna delle merci di cui fa uso ciascuno degli operai per qualche parte del lavoro: tutte cose che sarebbe quasi impossibile o per lo meno troppo lungo enumerare.
Da tutto ciò è evidente che, sebbene le cose di natura siano date in comune, tuttavia l’uomo, in quanto è padrone di se stesso, e proprietario della propria persona, e degli atti e del lavoro di questa, ha sempre avuto in sé il primo fondamento della proprietà, e ciò che costituiva la massima parte di quanto egli impiegava per la sussistenza e il conforto della propria esistenza, quando l’invenzione e la tecnica migliorarono i comodi della vita, era assolutamente suo, e non apparteneva ad altri in comune.
A questo modo fu il lavoro, al principio, che conferì un diritto di proprietà ovunque si volesse esercitarlo su ciò che era comune, che per lungo tempo rimase la parte di gran lunga maggiore, ed è tuttora più di quella di cui gli uomini fanno uso. In principio, gli uomini in gran parte si contentavano di ciò che la natura senz’altro offriva ai loro bisogni, e, sebbene in seguito, in qualche parte del mondo — dove l’incremento della popolazione e delle scorte, con l’uso della moneta, aveva reso la terra scarsa, e perciò di maggior valore — le diverse comunità stabilissero i confini dei loro distinti territori e con leggi interne regolassero la proprietà dei privati, membri della loro società, e quindi stabilissero, per contratto e accordo, la proprietà a cui il lavoro e l’industria avevano dato origine, e sebbene le alleanze che furon concluse tra vari Stati e regni, sconfessando o espressamente o tacitamente ogni diritto sulla terra in possesso di altri, avessero, per comune consenso, rinunciato ad ogni pretesa al comune diritto naturale, ch’essi in origine avevano su quei paesi, e quindi avessero, con un accordo positivo, stabilito le loro rispettive proprietà in parti e porzioni distinte di terra, tuttavia si possono ancora trovare grandi estensioni di terreno, le quali, poiché i loro abitatori non si sono uniti con gli altri uomini consentendo a servirsi della loro comune moneta, giacciono deserte, e sono più vaste di quanto non ne faccia o possa farne uso la gente che vi abita, e quindi continuano a stare in comune, sebbene ciò non succeda tra quegli uomini che hanno convenuto l’uso della moneta.
La maggior parte delle cose che sono realmente utili alla vita dell’uomo, e tali che i bisogni della sussistenza le fecero cercare dai membri delle prime comunità del mondo, come ora accade agli americani, sono generalmente cose di breve durata, e tali che se non sono consumate si deteriorano e vanno in rovina da sé: l’oro, l’argento e i diamanti sono cose in cui ha posto valore più la convenzione o l’accordo che non l’utilità reale e la necessaria sussistenza della vita. Ora, su quei beni che la natura ha provveduto in comune, ciascuno, come s’è detto, aveva diritto, per quanto poteva farne uso, e proprietà, per tutto quanto poteva realizzare col suo lavoro: tutte le cose su cui poteva estendersi la sua industria a trasformarle dallo stato in cui la natura le aveva poste, erano sue.
Chi raccoglieva cento staia di ghiande o di mele, ne aveva con ciò stesso la proprietà: esse diventavano beni suoi appena egli le aveva raccolte. Doveva soltanto badare a servirsene prima che andassero perdute, altrimenti prendeva più della sua parte e derubava gli altri. Ed era davvero tanto insensato quanto disonesto accumulare più di quanto non potesse usare. Se ne dava una parte a qualcun altro, si che non andasse in rovina inutilizzata in suo possesso, in questo caso si può dire che ne aveva fatto uso. E se barattava prugne, che sarebbero marcite in una settimana, con noci, che perdurassero buone da mangiare per un anno intero, non faceva ingiustizia: non rovinava le scorte comuni, né distruggeva in nulla la porzione di beni che apparteneva ad altri, fin tanto che nulla andava in rovina inutilizzato nelle sue mani.
E ancora, se egli voleva dare le sue noci per un pezzo di metallo, attratto dal suo colore, o cambiare le sue pecore con conchiglie, o la sua lana con pietre luccicanti o con un diamante, e tenerseli per tutta la vita, non violava il diritto altrui, e poteva ammassare quante ne voleva di queste cose durevoli, dal momento che l’eccedere i limiti della giusta proprietà non sta nell’estensione del possesso, ma nel fatto che qualcosa vada in rovina inutilizzato nel possesso di alcuno.
E così siam giunti all’uso della moneta, cioè a dire di qualcosa di durevole che si può tenere senza che vada perduto, e che per mutuo consenso si può prendere in cambio dei mezzi di sussistenza per la vita che sono utili, si, ma corruttibili.
E come gradi diversi d’industria conferivano agli uomini possessi in proporzioni diverse, così questa invenzione della moneta diede loro la possibilità di accrescerli ed estenderli; perché, supponendo un’isola, separata da ogni possibile commercio col resto del mondo, nella quale non abitasse che un centinaio di famiglie, ma in cui si trovassero pecore, cavalli, mucche e altri animali utili, frutti sani e terra sufficiente a far grano per centomila volte tanto, ma nulla vi fosse di così poco comune e così poco corruttibile da esser atto a tenere il posto della moneta, qual motivo si avrebbe qui di estendere i propri possessi oltre l’uso della propria famiglia e l’abbondante sovvenzione del proprio consumo, sia in ciò che si produce col proprio lavoro, sia in ciò che si può barattare con beni egualmente corruttibili e utili?
Là dove non si trovi nulla che sia insieme durevole e raro, e quindi prezioso si da esser accumulato, gli uomini non tenderanno a estendere i loro possessi di terra, per quanto sia abbondante e libera a prendersi: infatti, domando che valore possono avere per un uomo diecimila o centomila iugeri di terra eccellente, già coltivata e anche ben fornita di bestiame, nel mezzo delle regioni interne dell’America, dove egli non ha speranza di commerciare con altre parti del mondo onde trarne denaro con la vendita dei prodotti. Non varrebbe la pena di recingerli, e lo vedremmo restituire al selvaggio stato comune di natura tutto quello che oltrepassasse la fornitura dei comodi di vita utili per lui e per la sua famiglia.
Così al principio tutto il mondo era come l’America, e forse più di quanto questa non lo sia ora, perché in nessun luogo si conosceva qualcosa di simile al denaro. Appena scopri qualcosa che presso i suoi vicini avesse la funzione e il valore della moneta, l’uomo cominciò subito a estendere i suoi possessi.
Ma poiché l’oro e l’argento, essendo poco utili alla vita dell’uomo in rapporto al nutrimento, al vestiario e al mantenimento, non ricevono il loro valore che dal consenso degli uomini, il cui lavoro, tuttavia, ne costituisce in gran parte la misura, è chiaro che gli uomini hanno consentito a un possesso della terra sproporzionato e ineguale, dal momento ch’essi, per consenso tacito e volontario, hanno scoperto un modo con cui si può equamente possedere più terra di quanto si possano usarne i prodotti, col ricevere in cambio del soprappiù oro o argento, che possono essere accumulati senza far torto a nessuno, poiché questi metalli non vanno perduti né si deteriorano fra le mani del possessore.
Questa partizione di beni nell’ineguaglianza di possessi privati, gli uomini l’hanno resa possibile fuori dai limiti della società e senza contratto, e soltanto mediante l’attribuzione di un valore all’oro e all’argento, e un tacito accordo sull’uso della moneta, perché nei governi sono le leggi che regolano il diritto di proprietà, e il possesso della terra è determinato da costituzioni positive.
E così mi sembra che sia facilissimo intendere come il lavoro abbia dato origine a un titolo di proprietà sui comuni beni di natura, e come la proprietà sia limitata a ciò che possiamo consumare per i nostri usi. Così che non vi poté esser allora alcun motivo di controversia intorno a quel diritto, né alcun dubbio intorno all’estensione del possesso ch’esso conferiva. Diritto e comodità andavano insieme, perché come un uomo aveva diritto a tutto ciò in cui avesse impiegato il suo lavoro, così non era tentato di lavorare per più di quanto potesse usare. Il che non lasciava luogo a controversie intorno al titolo né a violazioni del diritto altrui: si vedeva facilmente quale porzione un uomo tagliava per sé, ed era tanto inutile quanto disonesto tagliarne troppa o prenderne di più di quanto non se ne avesse bisogno. (Cap. V.)
Della società politica
L’uomo, in quanto nasce, come s’è dimostrato, con titolo alla perfetta libertà e al godimento illimitato di tutti i diritti e privilegi della legge di natura, egualmente che qualsiasi altro uomo o gruppo di uomini al mondo, ha per natura il potere non soltanto di conservare la sua proprietà, e cioè la propria vita, libertà e fortuna, contro le offese e gli attentati di altri, ma anche di giudicare e punire le altrui infrazioni di quella legge, secondo quanto egli crede che l’offesa meriti, anche con la morte, in delitti in cui l’atrocità del fatto, secondo la sua opinione, lo richieda.
Ma poiché una società politica non può esistere né sussistere senz’avere in sé il potere di conservare la proprietà, e, a questo fine, punire le offese di tutti i membri di essa, vi è società politica soltanto là ove ciascuno dei membri ha rinunciato al proprio potere naturale, e lo ha rimesso nelle mani della comunità, in tutti i casi che non gl’impediscano di appellarsi per protezione alla legge da essa stabilita. E così, essendo escluso ogni giudizio privato di ciascun membro particolare, la comunità diviene arbitra, in base a norme fisse e determinate, imparziali e identiche per tutte le sue parti, e, per mezzo di uomini che sono autorizzati dalla comunità a far eseguire quelle norme, decide tutte le divergenze che possono aver luogo fra membri di quella società in materia di diritto, e punisce quelle offese che un membro abbia commesso contro la società, con le penalità che la legge ha stabilito, dal che è facile distinguere quelli che vivono da quelli che non vivono in società politica.
Coloro che sono riuniti in un sol corpo e hanno una legge comune stabilita e una magistratura a cui appellarsi, insignita dell’autorità di decidere le controversie che nascano fra di loro, si trovano gli uni con gli altri in società civile, ma coloro che non hanno un simile appello comune, intendo sulla terra, sono sempre nello stato di natura, poiché là ove non c’è altro giudice, ciascuno è giudice ed esecutore per proprio conto, il che è, come ho mostrato sopra, il perfetto stato di natura.
E così la società politica consegue il potere di dichiarare quale punizione convenga alle varie trasgressioni commesse fra i membri di essa, che si giudicano degne di castigo (e questo è il potere di far leggi), così come ha il potere di punire ogni offesa recata a qualcuno dei suoi membri da uno che non vi appartenga (e questo è il potere di guerra e di pace), e tutto ciò in vista della conservazione della proprietà di tutti i membri di quella società, per quanto è possibile. Ma sebbene chiunque sia entrato in società civile e sia divenuto membro di un corpo politico, abbia con ciò stesso rinunciato al suo potere di punire le offese contro la legge di natura in base al proprio giudizio privato, tuttavia, con il giudizio delle offese, ch’egli ha ceduto al legislativo in tutti i casi in cui può appellarsi al magistrato, egli ha conferito alla società politica il diritto di servirsi della sua forza, ogniqualvolta glielo chieda, per l’esecuzione dei giudizi di essa, in quanto sono pronunciati da lui stesso o dai suoi rappresentanti.
E qui abbiamo l’origine del potere legislativo ed esecutivo della società civile, che consiste nel giudicare, secondo leggi fisse, come debbano esser punite le offese quando siano commesse all’interno della società politica, e anche determinare, secondo giudizi occasionali fondati sulle circostanze attuali del fatto, come ci si debba difendere dalle offese provenienti dall’esterno, e in entrambi i casi impiegare tutta la forza di tutti i membri, quando se ne presenti la necessità.
Ogniqualvolta, dunque, un certo numero di uomini è riunito in una sola società, in tal modo che ciascuno rinuncia al suo potere esecutivo della legge di natura e lo rimette al pubblico, allora e allora soltanto v’è società politica e civile. E ciò accade ovunque un certo numero di uomini, che si trovano nello stato di natura, entra in società a costituire un solo popolo, un solo corpo politico, sotto un solo governo supremo, oppure quando qualcuno si congiunge e s’incorpora a un governo già costituito, perché con ciò egli autorizza la società o, il che è tutt’uno, il legislativo di essa, a far leggi per lui, secondo che il pubblico bene della società richieda, all’esecuzione delle quali, come a decreti di lui stesso, è dovuto il suo aiuto.
E ciò trasferisce gli uomini dallo stato di natura a quello di una società politica, mediante l’istituzione di un giudice sulla terra, insignito della autorità di decidere tutte le controversie e riparare le offese che siano recate a un membro della società politica stessa, il qual giudice è il legislativo o il magistrato designato da esso. E ovunque si trovi un certo numero di uomini, comunque associati, che non abbiamo tale potere decisivo a cui appellarsi, si è ancora allo stato di natura. (Cap. VII.)
Dell’origine delle società politiche
Poiché gli uomini sono, come s’è detto, tutti per natura liberi, eguali ed indipendenti, nessuno può esser tolto da questa condizione e assoggettato al potere politico di un altro senza il suo consenso. L’unico modo con cui uno si spoglia della sua libertà naturale e s’investe dei vincoli della società civile, consiste nell’accordarsi con altri uomini per congiungersi e riunirsi in una comunità, per vivere gli uni con gli altri con comodità, sicurezza e pace, nel sicuro possesso delle proprie proprietà, e con una garanzia maggiore contro chi non vi appartenga.
Ciò può esser fatto da un gruppo di uomini, in quanto non viola la libertà degli altri, i quali rimangono, com’erano, nella libertà dello stato di natura. Quando un gruppo di uomini hanno così consentito a costituire un’unica comunità o governo, sono con ciò senz’altro incorporati, e costituiscono un unico corpo politico, in cui la maggioranza ha diritto di deliberare e decidere per il resto.
Infatti, quando un gruppo di uomini hanno, col consenso di ciascun individuo, costituito una comunità, hanno con ciò fatto di questa comunità un solo corpo col potere di deliberare come un sol corpo, il che è soltanto per volontà e decisione della maggioranza. Infatti, poiché ciò che una comunità delibera non è che il consenso degli individui che la compongono, e poiché a ciò ch’è un sol corpo è necessario muovere in un solo modo, è necessario che il corpo muova nel senso in cui lo porta la forza maggiore, ch’è il consenso della maggioranza; altrimenti è impossibile ch’esso deliberi o continui ad essere un solo corpo, una sola comunità, che il consenso di tutti gl’individui riuniti in essa aveva convenuto che deliberasse e fosse tale, e quindi ognuno è tenuto, in base a quel consenso, ad attenersi alle decisioni della maggioranza.
E perciò vediamo che in assemblee, investite, da leggi positive, del potere di deliberare, quando da quella legge positiva che l’ha investita di quel potere non è stato stabilito il numero, la deliberazione della maggioranza è considerata come deliberazione della totalità, e naturalmente decide, avendo, per legge di natura e di ragione, il potere della totalità.
A questo modo ognuno, col consentire con altri a costituire un solo corpo politico, sotto un solo governo, si sottopone, nei riguardi di ciascun membro di quella società, all’obbligazione di sottomettersi alla decisione della maggioranza, e ad attenersi alle sue decisioni, altrimenti questo contratto originario, con cui si è incorporato con altri in una sola società, non avrebbe senso, e non sarebbe contratto, se egli rimanesse libero e sotto nessun altro vincolo che quelli che aveva prima nello stato di natura.
Infatti qual parvenza di contratto e quale nuovo impegno vi sarebbe se egli non fosse legato dai decreti della società se non per quanto ritenga opportuno e consenta attualmente ad essi? Questa sarebbe ancora una libertà estesa come quella ch’egli aveva prima del suo contratto, o come nello stato di natura ha qualsiasi altro, che può sottomettersi e consentire alle deliberazioni di una società, se lo ritiene opportuno.
Infatti, se ragionevolmente il consenso della maggioranza non può accogliersi come la deliberazione della totalità, né decidere per ogni individuo, si dovrà necessariamente dire ch’è il consenso di ogni individuo che fa di qualcosa una deliberazione della totalità; ma tale consenso è pressoché impossibile ad avere, se si considerano le infermità di salute e gl’impegni d’affari, che, in un gruppo e tanto più in una società politica, necessariamente impediranno a molti d’intervenire alla pubblica assemblea.
Se a ciò si aggiungono la varietà di opinioni e il contrasto d’interessi, che inevitabilmente han luogo in ogni collettività, l’entrare in società a tali condizioni equivarrebbe all’entrata di Catone a teatro, che vi entrava soltanto per uscirne. Una costituzione come questa renderebbe il potente Leviatano di durata più breve che le più deboli creature, e non lo lascerebbe sopravvivere al giorno in cui è nato, il che non si può supporre sino a che non si possa pensare che le creature ragionevoli desiderino e costituiscano società soltanto perché si dissolvano; perché dove la maggioranza non può decidere per il resto, la società non può deliberare come un sol corpo, e per conseguenza si dissolverà immediatamente.
Perciò coloro che, uscendo dallo stato di natura, si riuniscono in comunità, si deve intendere che rimettano tutto il potere, necessario agli scopi per cui si riuniscono in società, alla maggioranza della comunità, a meno che abbiano espressamente convenuto un numero maggiore che la maggioranza.
E ciò è contenuto nello stesso accordo a riunirsi in una sola società politica, il quale non è altro che il contratto che vi è o vi dev’esser fra gl’individui ch’entrano in un corpo politico o lo costituiscono. E così, ciò che dà origine e attualmente costituisce una società politica, non è nient’altro che il consenso di un gruppo di uomini liberi, capaci di una maggioranza, a riunirsi e incorporarsi in tale società. Ed è questo, e questo soltanto, che ha dato o può aver dato origine a ogni governo legittimo di questo mondo. (Cap. VIII.)
Dei fini della società politica e del governo
Se l’uomo nello stato di natura è così libero come s’è detto, s’egli è signore assoluto della propria persona e dei propri possessi, eguale al maggiore e soggetto a nessuno, perché vuol disfarsi della propria libertà? Perché vuol rinunciare a questo impero e assoggettarsi al dominio e al controllo di un altro potere? Al che è ovvio rispondere che sebbene allo stato di natura egli abbia tale diritto, tuttavia il godimento di esso è molto incerto e continuamente esposto alla violazione da parte di altri, perché, essendo tutti re al pari di lui, ed ognuno eguale a lui, e non essendo, i più, stretti osservanti dell’equità e della giustizia, il godimento della proprietà ch’egli ha è in questa condizione molto incerto e malsicuro.
Il che lo rende desideroso di abbandonare una condizione che, per quanto libera, è piena di timori e di continui pericoli, e non è senza ragione ch’egli cerca e desidera unirsi in società con altri che già sono riuniti, o hanno intenzione di riunirsi, per la mutua conservazione delle loro vite, libertà e averi, cose ch’io denomino, con termine generale, proprietà.
Perciò il fine maggiore e principale del fatto che gli uomini si uniscono in società politiche e si sottopongono a un governo è la conservazione della loro proprietà, al qual fine nello stato di natura mancano molte cose.
In primo luogo manca una legge stabilita, fissa, conosciuta, la quale per comune consenso sia stata ammessa e riconosciuta come regola del diritto e del torto, e misura comune per decidere tutte le controversie; perché, sebbene la legge di natura sia evidente e intelligibile ad ogni creatura ragionevole, tuttavia gli uomini, in quanto sono influenzati dai loro interessi e la ignorano per mancanza di studio, tendono a non riconoscerla come una legge che li obblighi ad applicarla ai loro casi particolari.
In secondo luogo, nello stato di natura manca un giudice conosciuto ed imparziale, con autorità di decidere tutte le divergenze in base alla legge stabilita; perché, ciascuno essendo, in quello stato, tanto giudice quanto esecutore della legge di natura, ed essendo gli uomini parziali nei propri riguardi, la passione e la vendetta tendono a portarli troppo lontano e a renderli troppo ardenti nei propri casi, mentre la negligenza e la noncuranza tendono a farli troppo trascurati in quelli degli altri.
In terzo luogo, nello stato di natura spesso manca un potere che appoggi e sostenga la sentenza allorché sia giusta, e le dia la dovuta esecuzione. Quelli che hanno commesso un’ingiustizia raramente mancano, quando ne sono capaci, di sostenere con la forza la loro ingiustizia: tale resistenza spesso rende pericolosa e sovente mortale la punizione per coloro che la tentano.
È così che gli uomini, dal momento che, nonostante tutti i privilegi dello stato di natura, si trovano in fondo in una cattiva condizione fin che vi permangono, sono tosto spinti a entrare in società. Perciò accade ch’è raro vedere un gruppo di uomini vivere per qualche tempo insieme in questo stato. Gl’inconvenienti a cui vi sono esposti per l’esercizio irregolare e incerto del potere che ognuno ha di punire le trasgressioni degli altri, fanno sì ch’essi si rifugiano sotto la protezione delle leggi stabilite di un governo, e in esse cerchino la conservazione della loro proprietà. È questo che fa sì ch’essi così volentieri rinunciano ciascuno al proprio diritto di punire, perché sia esercitato da quello soltanto che fra loro vi sarà designato, e secondo quelle norme che la comunità, o chi ne sarà autorizzato da essa, converta. Nel che troviamo il diritto originario e l’origine del potere sia legislativo che esecutivo, come pure degli stessi governi e delle società medesime.
Infatti nello stato di natura, per non parlare della libertà ch’egli ha d’innocenti diletti, l’uomo ha due poteri.
Il primo consiste nel fare tutto ciò ch’egli ritiene opportuno per la conservazione di sé e degli altri nei limiti di ciò ch’è permesso dalla legge di natura, per la quale legge, ch’è comune a tutti, lui e tutto il resto del genere umano sono una comunità, costituiscono una società, distinta dalle altre creature. E se non fosse per la corruzione e la perversità di uomini degenerati, non vi sarebbe bisogno di altra società, non vi sarebbe necessità che gli uomini si allontanino da questa grande comunità naturale, e si uniscano per accordi positivi in associazioni più piccole e separate.
L’altro potere, che l’uomo ha nello stato di natura, è il potere di punire i delitti commessi contro quella legge- A questi due poteri egli rinuncia quando si unisce a una società politica privata, se così posso chiamarla, o particolare, e s’incorpora in un corpo politico separato dagli altri uomini.
Al primo potere, cioè a dire di fare tutto ciò ch’egli ritiene opportuno per la conservazione di sé e degli altri, egli rinuncia, onde sia regolato dalle leggi fatte dalla società, nel modo che la conservazione sua e degli altri membri di quella società lo richieda; le quali leggi della società in molte cose limitano la libertà ch’egli possiede in base alla legge di natura.
In secondo luogo, al potere di punire egli rinuncia interamente, e impegna la propria forza naturale (ch’egli prima poteva adoperare nell’esecuzione della legge di natura, di sua autorità, come credeva più opportuno), ad assistere il potere esecutivo della società, secondo che la legge di questa lo richieda; perché egli dal momento che si trova attualmente in una condizione in cui può godere di molti vantaggi offerti dal lavoro, dall’aiuto e dalla società di altri membri della stessa comunità, come pure della protezione offerta dalla forza della totalità, deve privarsi anche della libertà naturale di cui disponeva nel provvedere a se stesso, nella misura che sarà richiesta dal bene, dalla prosperità e dalla sicurezza della società; il che è non soltanto necessario, ma anche giusto, dal momento che gli altri membri della società fanno lo stesso.
Ma, sebbene gli uomini, quando entrano in società, rimettono l’eguaglianza, la libertà e il potere esecutivo, che essi hanno nello stato di natura, nelle mani della società, onde il legislativo ne disponga secondo che il bene della società lo richieda, tuttavia, poiché ciò non accade che per l’intenzione che ciascuno ha d’una migliore conservazione di sé, della propria libertà e proprietà — perché non si può supporre che una creatura ragionevole cambi la sua condizione con l’intenzione di star peggio — il potere della società, o il legislativo da essi costituito, non si può mai supporre che trascuri il bene comune, ma è obbligato a garantire la proprietà di ciascuno, cioè prendere misure contro i tre difetti sopra menzionati, che rendono così incerto e scomodo lo stato di natura. E così chiunque detenga il potere legislativo o supremo d’una società politica, è tenuto a governare secondo leggi fisse stabilite, promulgate e note al popolo, e non secondo decreti estemporanei, con giudici imparziali e integri, che decidano le controversie secondo quelle leggi, e a impiegare la forza della comunità, all’interno, esclusivamente per l’esecuzione di tali leggi, e, all’esterno, per prevenire o reprimere le offese straniere, e garantire la comunità da incursioni e invasioni, e a dirigere tutto ciò a nessun altro fine che la pace, la sicurezza e il pubblico bene del popolo. (Cap. IX.)
Dell’estensione del potere legislativo
Poiché il fine principale dell’entrata degli uomini in società è il godimento delle loro proprietà in pace e tranquillità, e i principali strumenti e mezzi diretti a questo fine sono le leggi stabilite in quella società, la prima e fondamentale legge positiva di tutte le società politiche consiste nello stabilire il potere legislativo, in quanto la prima e fondamentale legge naturale, che deve governare lo stesso legislativo, consiste nella conservazione della società, e, per quanto si concilia col pubblico bene, di ogni persona che vi si trova. Questo legislativo non soltanto è il potere supremo della società politica, ma rimane sacro e immutabile nelle mani in cui la comunità l’ha collocato, e l’editto di un altro, in qualunque forma sia concepito, o da qualunque potere sia appoggiato, non può avere il valore e l’obbligazione di una legge, se non ha la sua sanzione da quel legislativo che il pubblico ha eletto e designato; perché senza di questa la legge non avrebbe ciò ch’è assolutamente necessario ed essenziale alla legge cioè a dire il consenso della società, alla quale nessuno può avere il potere di dar leggi se non per consenso di lei e per autorità da essa ricevuta.
E perciò tutta l’obbedienza che, con i vincoli più solenni si può essere obbligati a prestare, fa capo, in definitiva, a questo potere supremo, ed è regolata dalle leggi ch’esso promulga, né può un giuramento prestato a un potere straniero qualsiasi, o a un potere interno subordinato, dispensare un membro della società dall’obbedienza al legislativo, che delibera in seguito alla sua fiducia, né obbligarlo a un’obbedienza che sia contraria alle leggi così stabilite, o vada oltre ciò ch’esse ammettono, poiché è ridicolo immaginare che si possa esser vincolati in definitiva ad obbedire a un potere che nella società non sia il supremo.
Sebbene il legislativo, sia collocato in uno o in più, e funzioni sempre o a intervalli, costituisca in ogni società politica il potere supremo. Tuttavia:
In primo luogo non è né può essere assolutamente arbitrario sulle vite e sugli averi del popolo. Infatti, dal momento che non è che il potere congiunto di ogni membro della società, rimesso alla persona o assemblea ch’è il legislatore, non può esser maggiore di quello che tali persone avevano allo stato di natura, prima di entrare in società, e hanno rimesso alla comunità; perché nessuno può trasferire a un altro un potere maggiore di quello che ha in sé, e nessuno ha su di sé o su altri il potere assoluto e arbitrario di distruggere la propria vita o togliere la vita o la proprietà a un altro. Un uomo come s’è dimostrato, non può assoggettarsi al potere arbitrario di un altro, e, dal momento che allo stato di natura non ha un potere arbitrario sulla vita, la libertà o i possessi di un altro, ma soltanto quel tanto che la natura gli ha conferito per la conservazione di sé e degli altri, questo è quanto egli rimette o può rimettere alla società politica e, per mezzo di questa, al potere legislativo, così che il legislativo non può avere un potere maggiore di quello. Il quale, per esteso che sia, è limitato al pubblico bene della società. È un potere che non ha altro fine che la conservazione, e perciò non può mai avere il diritto di distruggere, rendere schiavi o impoverire intenzionalmente i sudditi. Le obbligazioni della legge di natura non cessano nella società, ma in molti casi diventano più coattive, e per mezzo delle leggi umane hanno connesse con sé penalità note a costringere ad osservarle. Così la legge di natura sussiste come una norma eterna per tutti gli uomini, sia per i legislatori che per gli altri. Le norme che i legislatori fanno per le azioni degli altri debbono, non meno che le loro proprie azioni e quelle degli altri, esser conformi alla legge di natura, cioè a dire alla volontà di Dio, di cui quella è manifestazione, e, poiché la fondamentale legge di natura è la conservazione del genere umano, non c’è sanzione umana che possa esser buona o valida contro di essa.
In secondo luogo, l’autorità legislativa o suprema non può assumersi il potere di governare con decreti estemporanei ed arbitrari, ma è tenuta a dispensare la giustizia e a decidere intorno ai diritti dei suddetti, con leggi promulgate e fisse e giudici autorizzati e conosciuti. Infatti, dal momento che la legge di natura non è scritta, e quindi non può trovarsi che nelle menti degli uomini, coloro, che per passione o interesse la citino o la applichino male, non possono facilmente esser convinti del loro errore, se non vi è un giudice stabilito, e quindi essa non serve, come deve, a determinare i diritti e difendere le proprietà di coloro che vivono sotto di essa, specialmente quando ognuno è anche giudice, interprete ed esecutore di essa, e questo in causa propria, e chi ha il diritto dalla sua parte, non avendo ordinariamente se non la propria forza, non ha forza sufficiente per difendersi dalle offese o per punire i delinquenti.
Ad evitare questi inconvenienti, che nello stato di natura turbano le proprietà degli uomini, gli uomini si riuniscono in società, sì da avere la forza unita dell’intera società a garantire e difendere le loro proprietà, e norme fisse per definirle, in modo che ognuno sappia qual’è la sua. È per questo fine che gli uomini rimettono tutto il loro potere naturale alla società in cui entrano e la comunità pone il potere legislativo nelle mani che giudica opportune, con la fiducia che sarà governata da leggi dichiarate, altrimenti la pace, la tranquillità e la proprietà rimarranno sempre nella stessa incertezza in cui si trovavano allo stato di natura.
Né un potere assoluto e arbitrario, né un governo privo di leggi fisse e stabilite, possono conciliarsi con i fini della società e del governo, e gli uomini non avrebbero rinunciato alla libertà dello stato di natura, né si sarebbero sottoposti al governo, se non era per conservare la propria vita, libertà e fortuna, e garantire la propria pace e tranquillità con norme dichiarate sul diritto e la proprietà. Non si può supporre eh’essi avendo il potere di condursi a quel modo, intendessero conferire ad una o più persone il potere assoluto e arbitrario sulle loro persone ed averi, e porre nelle mani del magistrato la forza per eseguire arbitrariamente su di essi la sua volontà illimitata.
Questo significherebbe porsi in una condizione peggiore che lo stato di natura, in cui avevano la libertà di difendere il proprio diritto contro le offese altrui, e si trovavano in condizioni eguali di forza per sostenerlo, sia che fosse violato da un sol uomo o da molti congiunti.
Mentre invece, supposto ch’essi si fossero rimessi alla volontà e al potere assoluto e arbitrario di un legislatore, avrebbero disarmato se stessi e armato lui, per rendersi sua preda a piacimento suo, poiché si trova in una condizione molto peggiore colui ch’è esposto al potere arbitrario di un solo uomo, che ha il comando di centomila uomini, che non colui ch’è esposto al potere arbitrario di centomila individui, dal momento che non si può esser sicuri che la volontà di colui che ha questo comando sia migliore di quella di altri, sebbene la sua forza sia centomila volte maggiore.
E perciò, quale che sia la forma della società politica, il potere dominante deve governare in base a leggi dichiarate e conosciute, e non in base a ordini estemporanei e decisioni indeterminate. Infatti gli uomini si troverebbero in una condizione ben peggiore che nello stato di natura, quando avessero armato uno o pochi uomini con il potere congiunto di una moltitudine, per costringerli ad obbedire a loro arbitrio ai decreti eccessivi e arbitrari dei loro subitanei pensieri o delle volontà sfrenate e sino a quel momento sconosciute, senz’aver dichiarato misure che guidino e giustifichino le loro azioni.
Infatti, dal momento che tutto il potere di cui il governo dispone non è inteso che al bene della società, come non dev’esser arbitrario e capriccioso, così dev’essere esercitato secondo leggi stabilite e promulgate; così che, da un lato, il popolo possa conoscere il suo dovere, e stare tranquillo e sicuro nei limiti della legge, e, dall’altro, anche i governanti si tengano entro questi limiti, e non siano tentati, dal potere che hanno fra le mani, d’impiegarlo per fini tali e secondo misure tali che non sarebbero mai stati approvati e riconosciuti volontariamente dal popolo.
In terzo luogo, il potere supremo non può togliere a un uomo una parte della sua proprietà senza il suo consenso, perché, dal momento che il fine del governo e la mira di tutti quelli ch’entrano in società è la conservazione della proprietà, ciò necessariamente presuppone ed esige che il popolo abbia una proprietà, senza di che si dovrebbe supporre che, coll’atto di entrare in società, si perda ciò che costituiva il fine per cui si è entrati in società: assurdità troppo grossolana perché possa esser ammessa da alcuno.
Perciò, poiché gli uomini in società hanno una proprietà, essi hanno sui beni che, in base alla legge della comunità, sono loro appartenenza, tale diritto che nessuno ha il diritto di toglier loro la sostanza o parte di essa, senza il loro consenso; senza di che non hanno per nulla proprietà, perché non posso veramente dire d’aver proprietà su ciò che un altro può con diritto togliermi quando vuole, contro il mio consenso.
Per il che è un errore credere che il potere supremo o legislativo di una società politica possa fare ciò che vuole e disporre degli averi del suddito arbitrariamente, o togliere una parte a suo piacimento. Questo pericolo non sussiste nei governi in cui il legislativo risiede, interamente o in parte, in assemblee che sono variabili, i cui membri, allo scioglimento dell’assemblea, sono soggetti alla legge comune del loro paese, allo stesso modo che gli altri.
Ma nei governi, in cui il legislativo si trova in una sola assemblea sempre in funzione, oppure in un solo uomo, come nelle monarchie assolute, allora vi è sempre pericolo ch’essi pensino di avere interessi distinti dagli altri membri della comunità, e quindi tendano ad accrescere la propria ricchezza e il proprio potere col togliere al popolo ciò che vogliono: perché la proprietà di un uomo non è per nulla sicura, per quanto vi siano leggi valide ed eque che ne stabiliscano i limiti fra lui e i suoi con-sudditi, se chi comanda quei sudditi ha il potere di togliere a un privato quella parte della sua proprietà ch’egli vuole, e se ne serva e ne disponga come meglio crede.
Ma poiché al governo, in mano di chiunque si trovi, il potere è stato affidato, come ho dimostrato sopra, a questa condizione, e a questo fine, che ciascuno possa possedere e garantire la sua proprietà, il principe, o il senato, per quanto abbiano il potere di far leggi onde regolare la proprietà fra i sudditi gli uni verso gli altri, tuttavia non possono mai avere il potere di prender per sé interamente o parzialmente la proprietà dei sudditi senza il loro consenso, perché ciò in realtà significherebbe non lasciar loro proprietà alcuna.
E per convincerci che persino il potere assoluto, là ove sia necessario, non è arbitrario per il fatto d’esser assoluto, ma è sempre limitato dalla ragione, e subordinato a quei fini che in certi casi possono aver richiesto ch’esso fosse assoluto, non abbiamo che da osservare la comune pratica della disciplina militare. Infatti la conservazione dell’esercito, e, in essa, dell’intera società politica, esige obbedienza assoluta al comando di ogni ufficiale superiore, e giustamente si dà la morte a chi disobbedisce o discute gli ordini del più pericoloso e irragionevole di essi, ma tuttavia vediamo che né il sergente, che potrebbe comandare a un soldato di marciare verso la bocca di un cannone o stare su una breccia ove è quasi sicuro di trovare la morte, può comandare a quel soldato di dargli anche soltanto un soldo del suo denaro, né il generale, che può condannarlo a morte per aver disertato il posto o per aver disobbedito agli ordini più disperati, può, con tutto il suo potere assoluto di vita e di morte, disporre anche di un centesimo degli averi di quel soldato o prender anche una particella dei beni di lui, al quale tuttavia può comandare qualunque cosa e che può impiccare per la menoma disobbedienza, poiché tale cieca obbedienza è necessaria al fine per cui il comandante possiede quel potere, ch’è la conservazione degli altri, col che non ha nulla a che vedere il disporre dei beni di alcuno.
È vero che il governo non può sostenersi senza gravi spese, ed è opportuno che chiunque partecipi della sua protezione paghi, dei propri averi, una parte proporzionale per il suo mantenimento. Ma ciò deve sempre aver luogo col suo consenso, cioè a dire col consenso della maggioranza, dato o direttamente dai membri della società o dai loro rappresentanti da essa eletti; perché se uno pretende il potere di imporre e levare tasse sul popolo di sua propria autorità e senza il consenso del popolo, viola con ciò la fondamentale legge della proprietà, e sovverte il fine del governo; perché qual proprietà avrei io su ciò che un altro può con diritto togliermi quando lo vuole per sé?
In quarto luogo, il legislativo non può trasferire il potere di far leggi in altre mani, perché, dal momento che non è che un potere delegato dal popolo, coloro che l’hanno non possono passarlo ad altri. Soltanto il popolo può fissare la forma della società politica e lo fa col costituire il legislativo e designare in che mani dev’essere. E se il popolo ha detto: noi vogliamo sottometterci a norme ed esser governati secondo leggi stabilite dalle tali persone e nelle tali forme, non si può dire che debbano essere altri a far leggi per loro, né può il popolo esser tenuto a leggi diverse che a quelle che sono state promulgate da coloro ch’esso ha eletto e autorizzato a far leggi per lui. Il potere legislativo, in quanto è derivato dal popolo per una concessione e un’istituzione positiva e volontaria, non può esser diverso da quello che quella concessione positiva ha trasmesso, e poiché questo non è che il potere di far leggi e non il potere di fare legislatori, il legislativo non può avere il potere di trasferire la propria autorità di far leggi e di collocarla in altre mani.
Questi sono i limiti che la fiducia in esso posta dalla società e dalla legge di Dio e della natura, ha fissato al potere legislativo di ogni società politica in ogni forma di governo.
In primo luogo, esso deve governare secondo leggi stabilite e promulgate, che non abbiano a variare nei casi particolari, ma seguano una sola regola per i ricchi e per i poveri, per il favorito alla corte e per il contadino al campo.
In secondo luogo, queste leggi non debbono aver in definitiva altra mira e altro fine che il bene del popolo.
In terzo luogo, esso non deve levar tasse sulla proprietà del popolo, senza il consenso del popolo, dato da esso o dai suoi deputati. Il che riguarda propriamente soltanto quei governi in cui il legislativo è sempre in funzione, o in cui almeno il popolo non ha una parte del legislativo riservata ai deputati da eleggersi da lui di tempo in tempo.
In quarto luogo, il legislativo né deve né può trasferire il potere di far leggi ad altri o collocarlo in mani diverse da quelle in cui l’ha posto il popolo. (Cap. XI.)
Della subordinazione dei poteri della società politica
Sebbene in una società politica costituita, che poggi sui propri fondamenti e deliberi secondo la propria natura, cioè a dire in vista della conservazione della comunità, non vi possa essere che un solo potere supremo, ch’è il legislativo, al quale tutti gli altri sono e devono esser subordinati, tuttavia, poiché il legislativo non è che un potere fiduciario di deliberare in vista di determinati fini, rimane sempre nel popolo il potere supremo di rimuovere o alterare il legislativo, quando vede che il legislativo delibera contro la fiducia in esso riposta. Infatti, poiché ogni potere, conferito con fiducia per il conseguimento di un fine, è limitato da questo fine medesimo, ogniqualvolta il fine viene manifestamente trascurato o contrastato, la fiducia deve necessariamente cessare, e il potere ritornare nelle mani di coloro che l’hanno conferito, i quali possono nuovamente collocarlo dove meglio giudicano, per la loro tranquillità e sicurezza.
È così che la comunità conserva sempre il potere supremo di preservarsi dagli attentati e dalle intenzioni di chicchessia, anche dei suoi legislatori, ogniqualvolta questi siano così insensati o perversi da concepire e perseguire intenzioni contrarie alle libertà e proprietà dei sudditi. Infatti, poiché nessun uomo e nessuna società di uomini ha il potere di rimettere la propria conservazione, e, conseguentemente, i mezzi di essa, alla volontà assoluta e al dominio arbitrario di un altro, ogniqualvolta si tenti di ridurli in stato di schiavitù, essi avranno sempre il diritto di conservare ciò di cui non hanno il potere di disfarsi, e di liberarsi di coloro che hanno violato questa legge fondamentale, sacra e immutabile, dell’auto-conservazione, per la quale sono entrati in società. Così, sotto questo aspetto, si può dire che la comunità è sempre il potere supremo, ma non in quanto considerata sotto una forma di governo, dal momento che questo potere del popolo non può mai aver luogo sin che il governo non sia dissolto.
In ogni caso, sin che il governo sussiste, il potere supremo è legislativo, perché ciò che può dar leggi ad altri deve necessariamente essergli superiore. E poiché il legislativo è legislativo della società non per altra ragione che per il diritto di far leggi per tutte le parti e per ciascuno dei membri della società, prescrivendo norme alle loro azioni e conferendo il potere di eseguirle quando siano trasgredite, il potere legislativo deve necessariamente essere il supremo, e tutti gli altri poteri, in qualunque membro o parte della società si trovino, debbono derivare da esso ed essergli subordinati. (Cap. XIII.)
Della dissoluzione del governo
La ragione per cui gli uomini entrano in società è la conservazione della loro proprietà, e il fine per cui essi eleggono e conferiscono autorità al legislativo è che si facciano leggi e si stabiliscano norme, come salvaguardia e difesa delle proprietà di tutti i membri della società, a limitare il potere e moderare il dominio di ogni parte o membro della società stessa. Infatti, poiché non si può mai supporre che sia volontà della società che il legislativo abbia il potere di distruggere ciò che ciascuno intende garantire con l’entrare in società e per cui il popolo si sottomette ai legislatori da lui stesso designati, quando i legislatori tentino di sopprimere e distruggere la proprietà del popolo o di ridurlo in schiavitù sotto un potere arbitrario, si pongono in stato di guerra con il popolo, il quale è con ciò sciolto da ogni ulteriore obbedienza, e non gli rimane che il comune rifugio che Dio ha offerto a tutti gli uomini contro la forza e la violenza.
Il legislativo, dunque, ogniqualvolta trasgredisce questa norma fondamentale della società, e, per ambizione, timore, sconsideratezza o corruzione, tenta di porre in possesso proprio o in mani altrui il potere assoluto sulle vite, libertà e averi del popolo, con questa infrazione della fiducia perde il potere che il popolo ha posto nelle sue mani per fini del tutto opposti, e questo potere ritorna al popolo, che ha il diritto di riprendere la sua libertà originaria, e provvedere, con l’istituzione di un nuovo legislativo, secondo che ritiene opportuno, alla propria sicurezza e tranquillità, che è il fine per cui si trova in società.
Ciò che a questo punto ho detto riguardo al legislativo in generale, vale anche riguardo al supremo esecutore, il quale avendo una duplice fiducia posta in lui, cioè a dire la partecipazione al legislativo e la suprema esecuzione della legge, agisce contro tutte e due, se tenta d’istruire la propria arbitraria volontà come legge della società. Egli agisce anche contro la fiducia posta in lui, se impiega la forza, il tesoro e gli uffici della società per corrompere i rappresentanti e guadagnarli alle sue mire, oppure pubblicamente impegna in anticipo gli elettori e prescrive alla loro scelta persone ch’egli ha guadagnato alle sue intenzioni con sollecitazione, minacce, promesse o altrimenti, e li adopera per far eleggere coloro che in precedenza hanno promesso che cosa voteranno e che cosa decreteranno.
Regolare a questo modo i candidati e gli elettori e stabilire in modo nuovo le modalità dell’elezione, che cos’è se non tagliare il governo alle radici e avvelenare la stessa sorgente della tranquillità pubblica? Infatti, se il popolo si è riservato, a difesa delle sue proprietà, l’elezione dei propri rappresentanti, non l’ha fatto per altro fine che ond’essi fossero sempre eletti liberamente, e, una volta eletti, deliberassero liberamente e decidessero secondo che, dopo esame e matura discussione, giudicassero richiesto dai bisogni dello Stato e dal bene pubblico.
Il che non sono in grado di fare coloro che danno i loro voti prima di udire la discussione e aver vagliato da ogni parte le ragione. Preparare un’assemblea di questo genere e tentare di far eleggere i favoreggiatori dichiarati della sua volontà come veri rappresentanti del popolo e legislatori della società, è certamente la più grave infrazione di fiducia che si possa immaginare e la più manifesta dichiarazione di nutrire l’intenzione di sovvertire il governo.
Se a ciò si aggiungono le ricompense e le punizioni adoperate manifestamente allo stesso fine, e tutti gli artifici della legge pervertita che s’impiegano onde eliminare e distruggere tutti coloro che si oppongono a tale intenzione e non vogliono accondiscendere e acconsentire a tradire le libertà del loro paese, non ci sarà dubbio sul da farsi. È facile stabilire quale potere debbano avere nella società coloro che lo impiegano in modo così contrario alla fiducia che vi ineriva alla sua prima istituzione, e non si può non vedere che chi ha una volta perpetrato simili tentativi non può più ricevere fiducia.
A questo forse si obietterà che, dal momento che il popolo è ignorante e sempre malcontento, porre il fondamento del governo nell’instabile opinione e nell’umore incerto del popolo significa esporlo a certa rovina, e nessun governo potrà sussistere a lungo se il popolo può istituire un nuovo legislativo, ogniqualvolta abbia ricevuto offesa dall’antico. Al che rispondo ch’è esattamente il contrario. Gli uomini non cambiano le loro antiche forme di governo così facilmente come alcuni vorrebbero insinuare. Difficilmente si convincono a emendare i difetti riconosciuti nella costituzione a cui sono stati abituati. E se vi sono difetti originari o difetti avventizi introdotti dal tempo o dalla corruzione, non è una cosa facile da cambiare, anche se tutti vedono che v’è un’occasione favorevole.
È questa lentezza e avversione del popolo ad abbandonare le sue vecchie costituzioni quella che nelle molte rivoluzioni che si son viste nel nostro regno, in questa età e nelle precedenti, ci ha sempre tenuti fermi al nostro vecchio legislativo composto di re, lordi e comuni, o, dopo qualche intervallo di tentativi infruttuosi, vi ci ha sempre ricondotti, e qualunque provocazione abbia fatto la corona, sì da esser tolta dal capo di alcuni dei nostri principi, tuttavia il popolo non è mai giunto tanto oltre da collocarla in un’altra dinastia.
Ma si dirà che questa teoria getta il fermento di frequenti ribellioni. Al che rispondo come segue.
In primo luogo, non più di qualsiasi altra teoria, perché quando il popolo è caduto in miseria e si trova esposto all’abuso di un potere arbitrario, esaltate quanto volete i suoi governanti, come figli di Giove, fateli sacri o divini, discesi o autorizzati dal cielo, spacciateli per chi o che cosa volete: accadrà lo stesso. Il popolo universalmente e ingiustamente maltrattato, è pronto a cogliere l’occasione per sbarazzarsi della soma che pesa grave su di lui. Attenderà e cercherà l’occasione propizia, la quale, per i mutamenti, la debolezza e gli accidenti degli affari umani, raramente tarda a presentarsi. Deve aver vissuto ben poco al mondo, colui che nella sua età non ne ha visto esempi, e deve aver letto assai poco, colui che non sa addurne esempi in ogni specie di governo al mondo.
In secondo luogo, rispondo che tali rivoluzioni non accadono ad ogni menoma mancanza nell’amministrazione dei pubblici affari. Gravi errori nei governanti, molte leggi ingiuste e inopportune e tutti i falli della fragilità umana, saranno sopportati dal popolo senza rivolta o mormorazione. Ma se una lunga serie di abusi, prevaricazioni e inganni, tutti tendenti al medesimo scopo, rendono manifesta al popolo l’intenzione, ed esso non può non accorgersi di ciò a cui è esposto o non vedere dove sta andando, non è meraviglia se allora si riscuote e tenta di porre il governo nelle mani di chi gli garantisca i fini, per cui il governo era stato in principio istituito, e senza di cui nomi antichi e forme solenni sono così lontani dall’esser migliori dello stato di natura o della pura anarchia, che, anzi, ne sono assai peggiori, dal momento che gl’inconvenienti sono tutti altrettanto gravi e incombenti, ma i rimedi più lontani e difficili.
In terzo luogo, rispondo che questa dottrina di un potere, risiedente nel popolo, di provvedere di nuovo alla propria sicurezza con un nuovo legislativo, quando i suoi legislatori, col violare la sua proprietà, hanno agito contro la sua fiducia, è la miglior difesa contro la ribellione e il mezzo più sicuro per impedirla. Infatti, poiché la ribellione è un’opposizione non alle persone, ma all’autorità, ch’è fondata esclusivamente nelle costituzioni e nelle leggi del governo, veramente e propriamente ribelli sono coloro, quali che siano, che con la forza le trasgrediscono, e con la forza giustificano questa violazione, perché quando gli uomini, con l’entrare in società e nel governo civile, hanno escluso la forza e introdotto leggi per la conservazione della proprietà, della pace e dell’unità fra di loro, coloro che ristabiliscono la forza in opposizione alle leggi, compiono l’azione del rebellare, cioè a dire riportano lo stato di guerra e sono propriamente ribelli, e poiché ciò è assai più probabile che sia compiuto da quelli che sono al potere, perché hanno il pretesto dell’autorità, sono tentati dalla forza che hanno tra le mani e sono adulati da quelli che li circondano, il modo migliore per prevenire questo male è mostrarne la pericolosità e l’ingiustizia a coloro che maggiormente sono tentati d’incorrervi.
In entrambi i casi su menzionati, quando il legislativo è cambiato o i legislatori deliberano contro il fine in vista di cui sono stati istituiti, i colpevoli sono colpevoli di ribellione, perché chi con la forza sopprime il legislativo istituito d’una società e le leggi da esso fatte conformemente alla fiducia posta in lui, con ciò stesso sopprime l’arbitrato a cui ciascuno ha consentito come soluzione pacifica di tutte le controversie e ostacolo allo stato di guerra fra gli uomini. Coloro che sopprimono o cambiano legislativo, eliminano quel potere decisivo che nessuno può avere se non per designazione e consenso del popolo, e quindi, distruggendo l’autorità che il popolo ha istituito e che nessun altro poteva istituire, e introducendo un potere che il popolo non ha autorizzato, introducono di fatto uno stato di guerra, ch’è la forza senz’autorità, e, a questo modo, con la soppressione del legislativo stabilito dalla società, alle decisioni del quale il popolo ha consentito e aderito come decisioni della propria volontà, sciolgono il vincolo ed espongono il popolo di nuovo allo stato di guerra. E se coloro che con la forza sopprimono il legislativo sono ribelli, i legislatori stessi, come s’è mostrato, non possono esser giudicati altrimenti, se essi, che sono stati istituiti per la protezione e la conservazione del popolo e delle sue libertà e proprietà, le violano con la forza e tentano di sopprimerle, e quindi, ponendosi in stato di guerra con quelli che li avevano stabiliti come protettori e custodi della loro pace, sono propriamente, e con la maggiore aggravante, rebellantes, cioè a dire ribelli.
Ma se coloro, che dicono che ciò getta il fondamento della ribellione, vogliono dire che può dare occasione a guerre civili o disordini intestini il dire al popolo ch’esso è sciolto dall’obbedienza quando si perpetrano attentati illegali contro le sue libertà e proprietà e può opporsi alla violenza illegittima dei suoi magistrati istituiti, quando essi violino le sue proprietà contro la fiducia posta in loro, e che perciò questa dottrina, essendo così esiziale per la pace del mondo, non dev’esser ammessa, per la stessa ragione essi potrebbero parimenti dire che uomini onesti non possono opporsi a briganti e pirati, per il fatto che ciò può dar occasione a disordini o versamenti di sangue.
Se in tali casi avviene qualche male, esso non dev’esser imputato a chi difende il proprio diritto, ma a chi viola il diritto dei vicini. Se l’uomo innocente e onesto deve, per amor di pace, cedere passivamente tutto ciò che possiede a colui che vi attenta con la violenza, vorrei che si pensasse che razza di pace vi sarebbe al mondo, se la pace non consistesse che in violenza e rapine, e non dovesse esser conservata che per il vantaggio di briganti e oppressori. Chi non troverebbe ben strana pace tra potenti e deboli quella in cui l’agnello senza resistenza offre a sbranare il suo collo al lupo prepotente?
Il modello perfetto di una pace e di un governo del genere è dato dall’antro di Polifemo, in cui Ulisse e i suoi compagni non avevano nient’altro da fare che lasciarsi tranquillamente divorare. E son ben sicuro che Ulisse, ch’era un uomo saggio, predicava in favore dell’obbedienza passiva e li esortava a una tranquilla sottomissione, rappresentando loro quanta fosse l’importanza della pace per il genere umano, e mostrando gl’inconvenienti che sarebber successi se essi si fossero messi a resistere a Polifemo, che aveva allora il potere su di essi.
Il fine del governo è il bene degli uomini: e che cosa è meglio per l’umanità: che il popolo si trovi sempre esposto all’illimitata volontà della tirannide o che i governanti si trovino talvolta esposti all’opposizione, quando diventino eccessivi nell’uso del loro potere e lo impieghino per la distruzione e non per la conservazione delle proprietà del popolo?
Né si dica che ne può derivare del male ogniqualvolta a una testa calda o a uno spirito turbolento salti il ticchio di desiderare un cambiamento di governo. È vero che gente di questo genere può agitarsi quando vuole, ma ciò non tornerà che a sua giusta rovina e perdizione; perché sino a che il male non diventi generale e le malvage intenzioni dei governanti non divengano manifeste o i loro attentati sensibili alla maggior parte, il popolo, ch’è più disposto a sopportare che a farsi giustizia con la resistenza, non tende ad agitarsi. Gli esempi d’ingiustizia particolare o di oppressione nei riguardi di questo o quel disgraziato non lo scuotono. Ma se ha universalmente la convinzione, basata sull’evidenza manifesta, che si nutrono intenzioni contro la sua libertà, e la direzione e la tendenza generale delle cose non può non dargli forti sospetti della malvagia intenzione dei suoi governanti, di chi ne è la colpa? di chi è la colpa, se coloro, che potevano evitarlo da se stessi, si rendono sospetti a quel modo? che colpa ci ha il popolo se ha il buon senso delle creature ragionevoli e non può concepire le cose se non nel modo con cui le sente e le giudica? e la colpa non è piuttosto di coloro che conducono le cose a tal punto ch’esso non avrebbe mai pensato che fossero così come sono?
Ammetto che la superbia, l’ambizione e la turbolenza di privati abbiano talvolta causato gravi disordini nelle società politiche e che certe fazioni siano state fatali a Stati e reami. Ma se il male abbia avuto origine dalla leggerezza del popolo o dal desiderio di scuotere la legittima autorità dei governanti più spesso che dall’insolenza dei governanti e dai tentativi di ottenere ed esercitare un potere arbitrario sul loro popolo, se sia l’oppressione o la disobbedienza a costituire l’origine prima del disordine, lo lascio decidere all’imparzialità della storia.
Questo è certo, che chiunque, o governante o suddito, imprenda con la forza a violare i diritti del principe o del popolo, e getti le basi d’un rovesciamento della costituzione e della struttura di un giusto governo, è estremamente colpevole del più grave delitto che a mio credere un uomo possa commettere, poiché deve rispondere di tutti quei misfatti di sangue, rapina e devastazione che la frantumazione dei governi arreca a un paese. E chi lo commette, giustamente è giudicato nemico comune e peste del genere umano, e dev’esser trattato in conseguenza.
Che ai sudditi o agli stranieri che attentino con la forza alle proprietà di un popolo si possa opporre resistenza con la forza, è generalmente ammesso. Ma che ai magistrati che si comportino nello stesso modo si possa opporre resistenza, si è recentemente negato, come se coloro, che hanno dalla legge i massimi privilegi e vantaggi, abbiano con ciò il potere di trasgredire quelle leggi, da cui soltanto sono stati collocati in un posto migliore che i loro fratelli; mentre invece la loro offesa è tanto più grave, sia perché sono ingrati della parte maggiore che hanno dalla legge, sia perché violano quella fiducia che i loro fratelli hanno posto in loro. (Cap. XIX.)
Qui è probabile che si farà la solita domanda: «Chi giudicherà se il principe o il legislativo agiscono in modo contrario alla fiducia posta in loro?». Può darsi che tale insinuazione sia diffusa fra il popolo da uomini mal disposti e faziosi, quando il principe non fa che usare della prerogativa a lui dovuta. Al che rispondo: il popolo sarà giudice, perché chi giudicherà se il fiduciario o deputato agisce bene e conformemente alla fiducia in lui riposta, se non colui che lo deputa e, per averlo deputato, deve conservare il potere di licenziarlo, quando egli manca alla sua fiducia? Se ciò è ragionevole nei casi particolari di privati, perché non dovrebbe esserlo nel caso ch’è della massima importanza, in cui si tratta del benessere di milioni di uomini, e in cui il male, se non è prevenuto, si aggrava e il rimedio è ben difficile, costoso e pericoloso?
Ma, oltre a ciò, questa domanda: «chi sarà giudice?» non può significare che non v’è alcun giudice: perché quando non v’è sulla terra alcun tribunale a risolvere le controversie tra gli uomini, è giudice Dio nel cielo. Lui solo, certo, è giudice del diritto, ma è poi ciascuno per conto proprio, che, tanto in tutti gli altri casi come in questo, giudica se un altro si è posto in stato di guerra con lui, e se egli può appellarsi al giudice supremo, come fece Gefte.
Se sorge una controversia fra un principe e qualche membro, in una questione in cui la legge tace, o è dubbia, e la cosa è di grande importanza, penserei che in tal caso il vero arbitro debba essere il corpo del popolo, perché in casi in cui il principe ha una fiducia riposta in lui ed è esente dalle norme della legge ordinarie e comuni, allora, se alcuni si giudicano offesi e pensano che il principe agisca contro o oltre quella fiducia, chi può giudicarne meglio del corpo del popolo, il quale ha in principio riposto in lui quella fiducia? Ma se il principe o chiunque amministra la società politica rifiuta questo modo di risolvere la controversia, allora non rimane che l’appello al cielo, dal momento che la forza che interviene fra due persone che non hanno superiori riconosciuti sulla terra, o che non permette appello a un giudice sulla terra, è propriamente stato di guerra, in cui non rimane che l’appello al cielo, e in questo stato la parte offesa deve giudicare per conto proprio quando gli par bene di far uso di questo appello e di ricorrervi.
Per concludere, il potere che ogni individuo ha conferito alla società, quando vi è entrato, non può mai ritornare agl’individui, fin che la società dura, ma rimarrà sempre nella comunità, in quanto che senza di ciò non vi può essere né comunità né società politica, il che sarebbe contro l’accordo originario; così anche quando la società ha collocato il legislativo in un’assemblea di uomini perché continui in loro e nei loro successori, con direttive e autorità onde designare tali successori, il legislativo non può mai ritornare al popolo sin che il governo dura, in quanto che, avendo conferito al legislativo il potere di durare per sempre, il popolo ha rimesso il suo potere politico al legislativo e non può riprenderlo.
Ma se ha imposto limiti alla durata del suo legislativo, e costituito questo potere supremo in una persona o in un’assemblea soltanto temporaneamente, oppure quando, per la cattiva condotta di chi ha l’autorità, quel potere è perduto, all’atto di tale perdita o al termine del tempo fissato esso ritorna alla società, e il popolo ha il diritto di agire come sovrano e di continuare il legislativo in sé o destituirlo in una nuova forma o porlo sotto la forma antica, in nuove mani, come meglio giudica. (Cap. XIX.)
Da Umberto Cerroni, Il pensiero politico. Dalle origini ai nostri giorni, Editori Riuniti, Roma, 1966, pp. 423–465.