Marcel Proust e lo scatenamento del ricordo

di Vladimir Nabokov — Lezione su “Dalla parte di Swann”

Mario Mancini
24 min readJan 10, 2024

Parte 3

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Claude Monet, La Chiesa di Vetheuil, 1880, Southampton City Art Gallery

Dalla parte dei Guermantes

La passeggiata dalla parte dei Guermantes costeggia per un certo tratto un bel fiume, la Vivonne, che scorre fra gruppi di ninfee. Il tema dei Guermantes prende corpo quando Marcel vede la duchessa partecipare a una cerimonia nella stessa chiesa in cui la sua immagine prototipica era apparsa sull’arazzo e gli sembra che il nome sia più nobile di colei che lo porta.

«A un tratto, durante la messa nuziale, il cerimoniere si spostò di lato consentendomi di vedere, seduta in una cappella, una signora bionda con un gran naso, occhi azzurri penetranti, al collo un gonfio foulard di seta color malva, morbido, nuovo e lucente, e un foruncoletto all’angolo del naso … Ne fui immensamente deluso, e la delusione nasceva dal fatto di non aver tenuto presente, pensando a Mme de Guermantes, che me la raffiguravo nei colori di un arazzo o di una finestra istoriata vivente in un altro secolo, fatta di una sostanza diversa dai resto dell’umanità … contemplavo quell’immagine la quale, ovviamente, non aveva alcuna somiglianza con quelle che tante volte, con il medesimo nome di “Mme de Guermantes”, mi erano apparse in sogno, perché, a differenza delle altre, questa non ero stato io a formarla arbitrariamente, ma mi era balzata agli occhi per la prima volta solo un momento prima, nella chiesa; un’immagine che non era della stessa natura, non la si poteva colorare a piacere, come le altre che si lasciavano impregnare del colore arancio di una sillaba [Marcel vedeva i suoni a colori], ma era così reale che tutto, fino al fiammeggiante foruncoletto a lato del naso, testimoniava la certezza che era soggetta alle leggi della vita, così come durante un’apoteosi teatrale, una piega nell’abito della fata, un tremito del suo mignolo, denunciano la presenza materiale di un’attrice in carne e ossa, mentre fino a quel momento eravamo in dubbio se non avessimo davanti agli occhi la semplice proiezione luminosa di una lanterna magica … Ma la Mme de Guermantes su cui tante volte avevo fantasticato, ora che la vedevo esistere realmente al di fuori di me, acquistò ancor più potere sulla mia immaginazione la quale, paralizzata per un attimo al contatto con una realtà tanto diversa da ciò che si era aspettata, cominciò a reagir e a dirmi: “Grandi e illustri fin da prima di Carlo Magno, i Guermantes avevano diritto di vita e di morte sui loro sudditi; la duchessa di Guermantes discende da Ginevra di Brabante” … E con il mio sguardo posato sui capelli biondi, sugli occhi azzurri, sulle linee del collo, tralasciando i lineamenti che avrebbero potuto ricordarmi altri volti femminili, esclamai dentro di me, ammirando quello schizzo volontariamente incompleto: “Com’è bella! Che nobiltà autentica! E È davvero una fiera Guermantes, discendente di Ginevra di Brabante, colei che ho davanti a me!”».

Dopo la cerimonia, la duchessa è ferma fuori della chiesa e il suo sguardo si posa su Marcel:

«E m’innamorai di lei all’istante … Gli occhi splendevano azzurri come un fiore di pervinca, per me impossibile a cogliersi e che tuttavia mi aveva dedicato; e il sole, uscendo nuovamente all’improvviso da dietro una nuvola minacciosa e dardeggiando tutta la forza dei suoi raggi sulla piazza e dentro la sacrestia, effondeva un bagliore di geranio sui tappeti rossi che erano stati stesi sul pavimento per la cerimonia, e sui quali Mme de Guermantes procedeva sorridente, conferendo alla lanosità una rosea morbidezza vellutata, un’epidermide di luce, quella specie di tenerezza, di dolcezza solenne nello sfarzo di una celebrazione gioiosa che caratterizzano certe pagine del Lohengrin, certi dipinti di Carpaccio, e che ci fanno comprendere il motivo per cui Baudelaire abbia potuto applicare al suono della tromba il termine “delizioso”».

Lo scrivere

È nel corso delle passeggiate dalla parte dei Guermantes che Marcel riflette sul proprio futuro di scrittore e si scoraggia credendo di non avere attitudine per le lettere:

«Il senso d’impotenza che avevo percepito ogni volta che avevo cercato un argomento filosofico per produrre una grande opera letteraria».

Prova sensazioni intensissime ma non capisce che hanno rilevanza letteraria.

«Poi, assolutamente estranee a quelle inquietudini letterarie, e senza alcun collegamento specifico con esse, tutt’a un tratto un tetto, uno sprazzo di sole riflesso da una pietra, l’odore di una strada, mi facevano fermare per gustare il piacere speciale che mi davano e anche perché parevano nascondere, al di là di quello che gli occhi vedevano, qualcosa che essi m’invitavano ad andare a cogliere, ma che, nonostante i miei sforzi, non riuscivo a fare mio. Percependo che l’oggetto misterioso era dentro di loro, restavo là, immobile, a fissare, a respirare, a tentare di penetrare con la mente oltre ciò che vedevo o udivo o odoravo. E se poi dovevo affrettarmi a rincorrere il nonno, a continuare il cammino, cercavo di ritrovare le sensazioni provate chiudendo gli occhi; mi concentravo per richiamare alla mente con precisione la linea del tetto, il colore della pietra che, pur non comprendendone io la ragione, mi erano parsi gravidi, pronti a schiudersi, a consegnarmi il tesoro segreto di cui essi stessi non erano che l’involucro esteriore. Certamente non erano impressioni di quel genere che potessero restituirmi la speranza perduta di riuscire, un giorno, a diventare scrittore e poeta, poiché esse erano sempre associate a un oggetto specifico privo di valore intellettuale, e senza attinenza con alcuna verità astratta».

Qui sono contrapposte la letteratura dei sensi, vera arte, e la letteratura delle idee, che non produce vera arte a meno che non origini dai sensi. Marcel non riesce a vedere questa relazione profonda. Pensa, erroneamente, di dover scrivere su argomenti di valenza intellettuale, mentre in realtà è quel complesso di sensazioni che, a sua insaputa, lo sta gradualmente trasformando in un vero scrittore.

Lo intuisce vagamente quando il tema dei campanili gli si ripresenta, triplicato, durante una passeggiata in carrozza:

«A una curva della strada provai all’improvviso quel piacere speciale che non somigliava a nessun altro, nello scorgere i due campanili di Martinville illuminati dal sole del tramonto, e che con il movimento della vettura e le tortuosità della strada parevano cambiare continuamente posizione; e poi un terzo campanile, quello di Vieuxvicq che, benché separato dai primi due da una collina e una vallata, e situato in lontananza e in posizione più elevata, sembrava tuttavia sorgere accanto agli altri.
Osservando e notando la forma delle guglie, com’esse cambiavano aspetto, la calda luce solare delle superfici, il mutare dei contorni, sentivo che non penetravo fino al fondo della mia sensazione, che c’era qualcosa d’altro dietro quella mobilità, quella luminosità, qualcosa che esse parevano contemporaneamente contenere e celar».

A questo punto Proust fa una cosa interessantissima: confronta il suo stile presente con quello del passato. Marcel chiede un foglio di carta e compone una descrizione dei tre campanili, che il narratore procede poi a riscrivere. È il primo tentativo di scrittura di Marcel, ed è incantevole, benché alcune similitudini, come quella dei fiori e delle fanciulle siano formulate in modo volutamente giovanile. Il confronto, comunque, è tra la descrizione dei campanili appena composta dal narratore — -molti anni dopo e quindi da una posizione di vantaggio — e il tentativo letterario di Marcel, che è una descrizione superficiale, priva del significato profondo che andava cercando la pima volta che aveva avuto coscienza degli stessi. Ha grande rilevanza il fatto che l’aver scritto questo brano «mi aveva finalmente liberato dall’ossessione dei campanili».

La parte del volume su Combray, che tratta delle sue impressioni di fanciullo, si conclude con un tema che era stato avviato all’inizio: la ricostruzione della sua camera da letto a Combray, nella quale di notte giaceva sveglio. Diversi anni dopo, nelle notti in cui non riesce a prendere sonno, si sentirà di nuovo in quella camera:

«Tutti quei ricordi che si susseguivano l’un l’altro si condensavano in un’unica sostanza che però non si era agglomerata completamente, e fra i tre strati (i ricordi più antichi, istintivi, gli altri ispirati più di recente da un sapore o un “profumo”, e quelli che in realtà erano ricordi di un’altra persona, dalla quale li avevo acquisiti di seconda mano) si potevano distinguere non delle fessure, non delle faglie vere e proprie, ma soltanto quelle venature, quelle screziature di colore che in certe rocce, in certi marmi, rivelano differenze di origine, età e formazione».

Qui Proust descrive tre strati di impressioni:

(1) il semplice ricordo come atto intenzionale;

(2) un vecchio ricordo stimolato da una sensazione nel presente che replica una sensazione del passato; e

(3) la conoscenza memorizzata della vita di un altro, anche se acquisita di seconda mano.

Si ripete qui il concetto importante che non si può fare assegnamento sul solo ricordo per ricostruire il passato.

La parte su Combray è dedicata alle prime due categorie proustiane; la terza costituisce l’argomento della seconda parte del volume, intitolata «Un amore di Swann», in cui la passione di Swann per Odette ci aiuta a comprendere quella di Marcel per Albertine.

In quest’ultima parte del volume sono trattati numerosi temi importanti, uno dei quali è «la piccola frase musicale». L’anno prima, a una serata, Swann aveva sentito suonare un brano di musica per violino e pianoforte.

«E aveva provato un piacere intenso quando, sotto la linea sottile della parte del violino, delicata, resistente, solida e conduttrice, aveva improvvisamente avvertito salire in superficie, in un liquido sciabordio, la massa sonora della parte del pianoforte, multiforme, compatta, fluida, e ribollente come il movimento color malva dei flutti, che il chiarore lunare rende incantevole e bemollizza».

E:

«Si era appena dissolta la sensazione deliziosa che Swann aveva provato, che la memoria gliene aveva fornito seduta stante una trascrizione sommaria, è vero, e provvisoria, ma sulla quale comunque aveva tenuto fisso tanto bene lo sguardo mentre il pezzo continuava che quando la stessa sensazione all’improvviso si ripresentò, non era già più inafferrabile … Questa volta aveva distinto molto chiaramente una frase emergere per qualche momento dalle ondate del suono. Gli aveva immediatamente porto l’invito a condividere piaceri interiori che mai aveva immaginato prima di udirla, e quali sentiva che nient’altro che quella frase poteva fargli sperimentare; e si era sentito pervadere da una specie d’amore per essa, da un desiderio nuovo e sconosciuto.
Con un ritmo lento lo trasportava prima qui, poi là, poi altrove, verso una felicità nobile, inintelligibile, eppure ben precisa. E di colpo, al punto in cui era arrivata e dal quale egli si apprestava a seguirla, dopo una pausa di un attimo, cambiò bruscamente direzione, e con un nuovo movimento, più veloce, esile, malinconico, incessante e dolce, lo trascinò con sé verso orizzonti di ignote felicità».

Questa passione per una frase musicale porta nella vita di Swann — che era stato preso da una certa apatia — la possibilità di una specie di ringiovanimento, di rinnovo, ma non riuscendo a scoprire il nome del compositore per procurarsi la musica, finisce col non pensarci più.

Ma adesso, al ricevimento di Mme Verdurin al quale partecipa soltanto per stare con Odette, un pianista suona un pezzo che riconosce, e apprende che si tratta dell’andante di una ser nata per pianoforte e violino di Vinteuil. Ora che l’ha identificata, Swann ha la sensazione di averla fatta propria, di avere la frase saldamente in suo potere, di possederla, così come il narratore sognava di aver fatto propri i paesaggi che vedeva.

Quella frase musicale gli farà sentire la sua voce anche in seguito, e inoltre delizierà il narratore a un certo punto della sua vita. E bene ricordare che Swann è una specie di specchio raffinato del narratore. Swann determina lo schema e il narratore lo segue.

Un altro episodio importante, esempio del modo in cui Proust sviluppa un fatto spiacevole, è quello in cui Swann si trova sotto la finestra di Odette.

Una sera, poco dopo le ventitré, va a trovarla, ma lei è stanca e insofferente, e gli dice che non può trattenersi più di mezz’ora.

«Lo pregò di spegnere la luce prima di andarsene; lui chiuse le cortine attorno al letto e uscì».

Ma circa un’ora dopo, in un accesso di gelosia, gli sorge il pensiero che forse Odette si è liberata di lui perché aspetta un altro. Sale su una vettura e si fa portare vicinissimo alla casa di lei. Qui Proust ricorre alla metafora di un frutto dorato:

«Nell’oscurità della fila di finestre buie già da tempo, ne vide una, una sola, dalla quale traboccava, tra le stecche delle imposte che comprimevano, come un torchio da vino, i misteriosi grappoli dorati in esso contenuti, la luce che riempiva l’interno della stanza, una luce che tante sere, nello scorgerla fin da lontano quando imboccava la strada, lo aveva rallegrato annunciandogli: “Lei è lì … che ti aspetta”, e che adesso lo torturava dicendogli: “E là con l’uomo che aspettava”. Doveva sapere chi era; strisciò lungo il muro fino alla finestra, ma non riusciva a vedere nulla fra le stecche oblique delle imposte; sentiva soltanto, nel silenzio notturno, il mormorio di una conversazione».

Nonostante la sofferenza, prova un piacere intellettuale, il piacere che dà la verità, quella verità interiore che è superiore al sentimento, cercata da Tolstoj. Prova

«la stessa sete di sapere che un tempo aveva provato per la storia. E tutti quei comportamenti da cui fino a quel momento sarebbe rifuggito con vergogna, come lo spiare, questa notte, a una finestra, e domani, chissà, forse far parlare astutamente persone estranee, corrompere domestici, origliare alle porte, gli apparivano ora al pari della decifrazione di manoscritti, della valutazione delle testimonianze e dell’interpretazione di antichi testi come altrettanti metodi d’investigazione scientifica di autentico valore intellettuale e legittimamente appropriati alla ricerca della verità ».

La metafora successiva associa l’idea della luce dorata alla ricerca pura, accademica della verità: il segreto di una finestra illuminata e l’interpretazione di un testo antico.

«Ma il desiderio di conoscere la verità era più forte, e gli sembrava più nobile del desiderio di lei. Sapeva che la realtà di certi fatti, per la cui precisa ricostruzione avrebbe dato la vita, si poteva leggere solo dietro quella finestra striata di luce, come sotto la copertina miniata d’oro di uno di quei preziosi manoscritti, alla cui ricchezza di tesori artistici lo studioso che li consulti non può restare indifferente. Desiderava ardentemente la voluttà di conoscere la verità che tanto lo appassionava in quell’esemplare breve, effimero e prezioso, su quella pagina traslucida, così calda, così bella. E inoltre, il vantaggio che sentiva — che gli era tanto necessario sentire — di avere su di loro, consisteva forse non tanto nel sapere, quanto nel poter dimostrare loro che egli sapeva».

Bussa e si trova davanti due anziani signori che lo guardano. È la finestra sbagliata.

«Avendo l’abitudine, quando andava da Odette a ora tarda, di riconoscerne la finestra dal fatto che era l’unica ancora illuminata di una fila di finestre altrimenti tutte uguali, questa volta era stato tratto in inganno dalla luce e aveva bussato alla finestra dopo quella di Odette, che apparteneva alla casa accanto».

Lo sbaglio di Swann può essere paragonato a quello del narratore quando, alla fine della parte su Combray, affidandosi solo al ricordo, ha cercato di ricostruire la propria camera da letto basandosi sulle tracce di luce nel buio, per scoprire, con l’avvento dell’alba, di aver collocato ogni cosa nel punto sbagliato.

A Parigi, Gilberte

A Parigi, nel parco degli Champs-Elysées,

«una ragazzina con i capelli biondo rossicci giocava al volano davanti alla vasca quando, dal sentiero, un’altra ragazzina, che stava infilandosi il cappotto e riponendo la propria racchetta, gridò laconica: “Ciao, Gilberte, vado a casa; non dimenticare che stasera dopo cena veniamo da te”. Quel nome, Gilberte, mi passò accanto richiamando alla memoria ancor più intensamente l’esistenza di colei che esso designava; perché non la nominava semplicemente come quando si parla di una persona assente, ma l’interpellava»;

portando con sé, nella memoria dell’amica che l’aveva chiamata, tutta la vita sconosciuta e da loro condivisa, vita dalla quale Marcel era escluso. La metafora della traiettoria del nome che inizia la descrizione, è seguita da un’altra sul profumo del nome stesso. L’amica di Gilberte

«lo lanciò nell’aria in un grido gioioso; lasciando fluttuare nell’atmosfera il profumo delizioso che il messaggio aveva fatto sprigionare, toccando le due bambine con precisione da certi punti invisibili della vita di Mlle Swann».

La qualità celestiale del nome è paragonata, nel suo passare,

«alla «nuvoletta dal colore prezioso, simile a quella che, rigonfia sopra un bel giardino di Poussin, riflette minuziosamente, come la nuvola di un’opera lirica piena di cocchi e cavalli, un’apparizione della vita degli dèi».

A queste immagini si aggiunge ora, fra parentesi, quella di spazio-tempo, che merita di essere notata per il breve tratto di prato e il breve tratto di tempo nel pomeriggio della ragazzina, con il volano che batte il ritmo: la nuvoletta, nel passare, proietta una luce

«sull’erba spelacchiata, nel punto in cui lei si trovava (un piccolo tratto di prato appassito e, contemporaneamente, un momento del pomeriggio della bionda giocatrice con il volano, che continuava a lanciarlo e a riprenderlo al volo finché una istitutrice con una penna azzurra nel cappello la chiamò».

La luce che il nome, come una nuvola passeggera, diffonde per Marcel era «una piccola meravigliosa striscia di luce, del colore dell’eliotropo», che poi, con una similitudine interna, trasforma il prato in un tappeto magico.

La striscia di luce era color malva, la tinta violacea che attraversa tutto il libro, il colore stesso del tempo. Nella letteratura europea quel malva rosa-porpora, un lilla rosato, una vampata violetta, è collegato a certe raffinatezze del temperamento artistico. E il colore di un’orchidea, la Cattleya labiata (specie che prende il nome da William Cattley, austero botanico inglese), orchidea che oggi, negli Stati Uniti, è abituale ornamento del petto delle matrone alle feste dei club.

Negli anni Novanta dell’Ottocento, a Parigi, questa orchidea era un fiore rarissimo e costosissimo; adorna il rapporto sessuale di Swann in una scena famosa ma non molto convincente. Tra questo malva e il rosa delicato del biancospino nei capitoli su Combray, troviamo una miriade di sfumature nel prisma imporporato di Proust. Ricordiamo l’abito rosa indossato molti anni prima dalla bella signora (Odette de Crécy) nell’appartamento di zio Adolphe, ora associato con la figlia Gilberte. Notate anche, come una specie di punto esclamativo che dà salto al brano, la piuma azzurra nel cappello dell’istitutrice della ragazzina — che la vecchia bambinaia del ragazzo non aveva.

Altre metafore all’interno di metafore le troviamo nel brano successivo a quello in cui Marce} fa conoscenza con Gilberte e gioca con lei nel parco. Se il tempo minaccia pioggia, teme che a Gilberte non sarà permesso di andare agli Champs-Elysées.

«Così, se il cielo era incerto, fin dal mattino non smettevo di interrogarlo, valutando ogni indizio».

Se vede la signora di fronte che, vicino alla finestra, indossa il cappello, spera che così possa fare anche Gilberte. Ma il cielo si oscura e tale rimane. Fuori della finestra, il, balcone è grigio. Troviamo poi una serie di similitudini interne:

«[1] A un tratto, sulla pietra tetra [del balcone], non vedevo in verità un colore meno smorto ma avvertivo come uno sforzo verso un colore meno smorto, [2] il pulsare di un raggio esitante che cercava di liberare la sua luce. [3] Dopo un momento il balcone era chiaro e specchiante come acqua ferma all’alba, sulla quale erano andate a posarsi mille ombre della ringhiera di ferro battuto».

Seguono altre similitudini interne: un alito di vento disperde le ombre e la pietra ridiventa scura,

«[1] ma, come creature addomesticate, le ombre ritornarono; impercettibilmente, la pietra cominciò a schiarirsi [2] e per uno di quei crescendo continui, come quelli che in musica, al termine di un’ouverture, portano una sola nota fino al fortissimo supremo, passando rapidamente attraverso tutti i gradi intermedi, la vidi raggiungere l’oro stabile e inalterabile delle belle giornate, [3] su cui l’ombra frastagliata del ferro battuto della ringhiera si stagliava m nero, come una vegetazione bizzarra…».

Le similitudini si concludono con una promessa di felicità:

«…. con una delicatezza nel tratteggio dei più minuti particolari [delle ombre] che pareva indicare un impegno coscienzioso, un appagamento d’artista, e con un tale risalto e un tale vellutato splendore nella quiete delle sue masse scure e gioiose che davvero quelle ombre grandi e fronzute riflesse sul lago dal sole sembravano consce di essere promesse di tranquillità e di felicità».

Infine, le ombre della filigrana del ferro battuto a foglie d’edera, diventano

«come l’ombra stessa della presenza di Gilberte, che forse era già agli Champs-Elysées, e non appena fossi arrivato mi avrebbe detto: “Cominciamo subito a giocare. Tu sei nella mia squadra”».

Marcel trasferisce l’idea romantica che si è fatto di Gilbert anche sui genitori di lei.

«Tutto ciò che li riguardava occupava costantemente il mio pensiero al punto che i giorni in cui, come quello odierno, M. Swann (che molto tempo prima, quando frequentava i miei genitori, avevo visto tante volte senza che mi destasse alcuna curiosità) veniva a prendere Gilberte agli Champs-Elysées, una volta calmato il batticuore che mi provocava l’apparire del suo cappello grigio e del mantello con pellegrina, il suo aspetto mi impressionava ancora come avrebbe fatto quello di un personaggio storico, sul quale avessimo appena letto una quantità di libri, e della cui vita ci avesse appassionato ogni minimo particolare … Per me Swann era diventato soprattutto il padre [di Gilberte], e non più il Swann di Combray; come le idee alle quali collegavo ora il suo nome erano diverse dalle idee nel sistema delle quali egli era un tempo compreso, e di cui oggi non mi servivo assolutamente più quando mi capitava di pensare a lui, era diventato un altro, una persona nuova». Marcel arriva al punto di cercare di imitare Swann: «Nel cercare di assomigliargli, quando ero a tavola passavo tutto il tempo a passarmi il dito sul naso e a stropicciarmi gli occhi. Mio padre esclamava: “Questo bambino è un perfetto idiota, sta diventando insopportabile”».

Il lungo brano sull’amore di Swann che occupa la parte centrale di questo primo volume rivela il desiderio del narratore di trovare una somiglianza fra Swann e se stesso: i morsi della gelosia che prova Swann si ripeteranno in un volume centrale dell’intera opera, quando si parlerà della relazione amorosa del narratore con Albertine.

Il narratore e il passato

Dalla parte di Swann si conclude quando il narratore, ormai trentacinquenne, torna a visitare il Bois de Boulogne la mattina presto di un giorno di novembre, e ci viene dato un mirabile resoconto delle sue impressioni e dei suoi ricordi.

«Su uno sfondo di boschi scuri e lontani con alcuni alberi ancora fronzuti ma altri già spogli, una doppia fila di ippocastani aranciati «sembrava, come in un quadro appena iniziato, l’unica cosa dipinta, fino a quel momento, da un artista che non aveva ancora steso alcun colore sul resto…».

L’aspetto del Bois è artificioso:

«E il Bois aveva l’aspetto provvisorio, incompiuto e artificioso di un vivaio o di un parco in cui, per scopi botanici o in preparazione di una festa, fra alberi di tipo più comune che non sono ancora stati sradicati e trapiantati altrove, siano state inserite due o tre specie preziose dal fogliame fantastico, che paiono creare un vuoto attorno a sé, fare spazio, emanare aria, diffondere luce».

A quell’ora del mattino, la luce orizzontale del sole tocca le cime degli alberi e più tardi, al crepuscolo,

«si accende come una lampada, proietta a distanza sopra le fronde un bagliore caldo e artificiale, e incendia i rami più alti di un albero che per Il resto rimane il candelabro incombustibile e opaco della sua cima fiammeggiante. Qui la luce s’ispessiva come una parete di mattoni e, come in un’opera muraria persiana, gialla a disegni blu, cementa rozzamente contri il cielo le foglie degli ippocastani; là, al contrano, le staccava dal cielo, verso il quale tendevano le contratte dita d’oro».

Quasi avessimo una mappa a colori, riusciamo a individuare i diversi punti del Bois. Per anni gli alberi hanno condiviso la vita delle donne bellissime che hanno passeggiato sotto i loro rami:

«Costretti da tanti anni, come per una specie di innesto, a convivere con la donna mi richiamavano alla mente la figura della driade, la bella mondana variopinta, dal passo rapido, che al suo passaggio essi coprivano con i rami, obbligandola ad avvertire, come avvertivano essi stessi, il dominio della stagione; mi ricordavano i giorni felici della mia confidente giovinezza, quando impaziente mi affrettavo verso i luoghi in cui capolavori di eleganza femminile si sarebbero incarnati per qualche attimo sotto le fronde inconsapevoli e compiacenti».

Le persone ineleganti che ora incrocia nel Bois gli ricordano le sensazioni di un tempo:

«Sarei mai riuscito a far loro capire l’emozione che provavo le mattine d’inverno, quando incontravo Mme Swann a piedi, con una pelliccia di lontra e un semplice berretto di lana dal quale si ergevano come lame due penne di pernice, ma avvolta nel tepore studiato, artificiale del suo appartamento, evocato da null’altro che il mazzolino di violette premuto contro il corpetto, i cui fiori, vividi e blu contro il cielo grigio, l’aria gelida, i rami spogli, avevano il medesimo effetto incantevole di far apparire la stagione e il tempo solo come un quadro, e in realtà di vivere in un’atmosfera umana, nell’atmosfera di questa donna, che avevano nei vasi e nelle giardiniere del suo salotto, accanto al fuoco del camino, davanti al divano di seta, i fiori che guardavano attraverso la finestra chiusa la neve che cadeva?».

Il volume si conclude con il narratore che rivede il passato nel tempo e nello spazio.

«Il sole si era nascosto. La natura ricominciava a regnare sul Bois, dal quale era svanita l’idea che fosse il giardino elisio della Donna…».

Il ritorno di una sembianza di realtà su quel bosco artificiale

«mi aiutò a comprendere quanto sia paradossale cercare nella realtà le immagini riposte nel ricordo, alle quali inevitabilmente mancherebbe l’incanto che proviene loro dal ricordo stesso e dal non essere percepite con i sensi. La realtà che avevo conosciuto non esisteva più. Bastava che Mme Swann non apparisse più con lo stesso abbigliamento e nello stesso momento, perché il viale cambiasse. I luoghi che abbiamo conosciuto non appartengono che al piccolo mondo dello spazio dove per comodità li collochiamo. Essi non erano che un’inclusione sottile fra le sensazioni contigue che componevano la nostra vita d’allora; il ricordo di una certa immagine non è che rimpianto di un certo istante; e case, strade, viali sono, ahimè, fugaci, come gli anni».

Ciò che il narratore vuol dire è che il semplice ricordo, l’atto di vedere con l’occhio della mente qualcosa in retrospettiva, non è il metodo giusto: non ricrea il passato. Il finale di Dalla parte di Swann è solo uno dei diversi aspetti di rievocazione del passato che, nel graduale sviluppo della sua comprensione, preparano Marcel all’esperienza finale rivelatrice della realtà, da lui inseguita nel resto dell’opera.

Questo avviene in «Matinée dai Guermantes», il grande 3° capitolo dell’ultimo volume, Il tempo ritrovato, quando Marcel scopre perché il semplice ricordo non basta e capisce che cosa serve invece. L’elaborazione inizia quando Marce}, entrando nel cortile del palazzo del principe di Guermantes per partecipare all’ultimo ricevimento, evita per un soffio una vettura che sta sopraggiungendo,

«e arretrando inciampai mio malgrado nelle selci piuttosto sconnesse del lastricato, oltre il quale c’era una rimessa. Ma nel momento in cui, riprendendo l’equilibrio, appoggiai il piede su una selce più bassa della precedente, il mio avvilimento svanì davanti alla stessa sensazione di felicità suscitatami, in diversi momenti della mia vita, dalla vista di alberi che avevo creduto di riconoscere durante una passeggiata in vettura nei dintorni di Balbec, o dei campanili di Martinville, o dal sapore di una madeleine intinta in un infuso di tiglio, da tante altre sensazioni di cui ho parlato e che mi parevano sintetizzate negli ultimi lavori di Vinteuil. Come era successo nel momento in cui avevo assaporato la madeleine, ogni ansietà riguardo al futuro, ogni dubbio intellettuale si dissipò. I timori che mi avevano tormentato fino a poco prima sulla realtà delle mie doti letterarie, e perfino sulla realtà della letteratura stessa, erano stati spazzati via, come per incantesimo. Ma questa volta ero fermamente deciso a non ignorare (come avevo fatto il giorno in cui avevo gustato la madeleine intinta nell’infuso) la ragione per cui le difficoltà, che fino a quel momento mi erano sembrate irrisolvibili, ora avevano perso ogni importanza, senza che io avessi elaborato nuovi ragionamenti o trovato argomenti decisivi. La felicità che provavo era, infatti, la stessa che avevo provato nell’assaggiare la madeleine, ma, allora, avevo rinunciato a cercarne le cause profonde».

Il narratore riesce a individuare la sensazione che nasce dal passato: era quella che aveva provato tempo addietro mentre si trovava su due lastre non allineate nel battistero di San Marco a Venezia

«e, insieme con quella sensazione sorsero anche tutte le altre collegate con quella giornata, rimaste schierate, in attesa, ne la fila dei giorni dimenticati, dalla quale un avvenimento inaspettato aveva imperiosamente ordinato loro di farsi vanti. Nello stesso modo in cui il sapore della madeleine mi aveva ricordato Combray».

Questa volta decide di andare al fondo della faccenda e, mentre aspetta di entrare nel salotto con i sensi ora risvegliati, il tintinnio di un cucchiaio contro un piatto, la sensazione sulle labbra di un tovagliolo inamidato, perfino il rumore di una conduttura dell’acqua calda gli richiamano alla memoria una profusione di ricordi di sensazioni simili del passato.

«In quello stesso momento, nel palazzo del principe di Guermantes, il rumore dei passi dei miei genitori che accompagnavano M. Swann e il tintinnio riecheggiante, metallico: interminabile, stridulo e brioso del campanello che mi annunciava che finalmente M. Swann era andato via e la mamma sarebbe venuta di sopra, li udivo ancora, proprio gli stessi identici suoni, sebbene situati tanto lontano nel passato».

Ma il narratore sa che questo non basta.

«Non era in piazza San Marco più di quanto non fosse stato nella mia seconda visita a Balbec o quando ero ritornato a Tansonville per rivedere Gilberte che avrei ritrovato il Tempo perduto, e il viaggio e ancora una volta mi era meramente prospettato dall’illusione che quelle antiche sensazioni esistessero al di fuori di me, all’angolo di una certa piazza, non poteva essere il mezzo che cercavo … Sensazioni come quelle che tentavo di analizzare e definire sarebbero certamente svanite al contatto di un godimento diretto che non era stato in grado di farle nascere. L’unico modo per goderne di più era cercare d conoscerle più pienamente là dove esse si trovavano, cioè, in me stesso, e chiarirle in tutta la loro profondità».

Il problema da risolvere è come evitare che quelle sensazioni svaniscano sotto la pressione del presente. Trova la risposta quando riconosce che vi è continuità fra passato e presente.

«Dovevo discendere nuovamente nella mia coscienza. Quindi, quel tintinnio [del campanello che annunciava la partenza di Swann] doveva essere sempre stato lì, e anche, fra quello e il momento presente, tutto il passato indefinitamente trascorso che non sapevo di portare dentro di me. Quando il campanello suonò, io esistevo già e, perché udissi ancora quel tintinnio, bisognava che da quella sera non ci fosse stata discontinuità, che io, neppure per un attimo, avessi cessato, avessi preso una tregua dal vivere, dal pensare, dall’avere coscienza di me, giacché quel momento lontano lo portavo ancora dentro, potevo ritrovarlo, ritornarvi, semplicemente scendendo nel profondo di me … Era questo concetto del tempo incorporato, di anni trascorsi ancora trattenuti dentro di noi, che mi proponevo ora di mettere così fortemente in rilievo nel mio libro».

Ma ciò comporta qualcosa di più del ricordo, per quanto vivido e continuo esso sia. Si deve cercare il significato interiore.

«Perché le verità che l’intelletto coglie direttamente e chiaramente nel mondo della piena luce sono per certi versi meno profonde, meno necessarie di quelle che la vita ci comunica nostro malgrado in un’impressione, materiale in quanto ci giunge attraverso i sensi, ma di cui possiamo enucleare l’intimo spirito. In breve, in un caso come nell’altro, che si tratti di impressioni oggettive come quelle che mi aveva dato la vista dei campanili di Martinville, o di ricordi soggettivi come il dislivello delle selci o il sapore della madeleine, dovevo cercare di interpretare le sensazioni come segni di altrettante leggi e idee corrispondenti, sforzandomi di pensare, vale a dire di trarre dalla penombra, ciò che avevo provato, e convertirlo in un equivalente spirituale».

Capisce che l’analisi intellettuale di ricordi o sensazioni del passato da sola non gli rivela la loro importanza. Per molti anni ci ha provato:

«Anche quando ero a Combray, fissavo bene in mente qualche immagine che aveva attirato con forza la mia attenzione: una nuvola, un triangolo, un campanile, un fiore, un ciottolo; perché sentivo che sotto questi simboli forse c’era qualcosa di assai diverso che dovevo cercare di scoprire, un pensiero che essi trascrivevano, a guisa di quei geroglifici che sembrano rappresentare soltanto oggetti materiali».

La verità che ora egli vede è che non è libero — esercitando uno sforzo intellettuale di recupero, per esempio — di scegliere i ricordi del passato per capirli meglio, perché

«essi arrivavano alla mente alla rinfusa, e sentivo che quello doveva certamente essere il marchio della loro autenticità. Non le avevo cercate di proposito, le due selci sconnesse del cortile in cui ero inciampato. Ma era stato proprio il modo fortuito, inevitabile in cui mi ero imbattuto in quella sensazione ad attestare la verità del passato che essa resuscitava e delle immagini che essa provocava, poiché percepiamo lo sforzo della sensazione per risalire alla luce, l’emozione della realtà ritrovata. Quella sensazione garantisce anche la verità di tutto il quadro di impressioni simultanee che essa si trascina al seguito, con quell’infallibile proporzione di luce e ombra, di rilievo e di omissione, di ricordo e di oblio, che la memoria e l’osservazione coscienti non conosceranno mai».

La memoria volontaria si limita a riprodurre

«la catena di tutte le impressioni approssimative in cui non rimane niente di quanto abbiamo realmente provato, che costituisce il nostro pensiero, la nostra vita, la realtà; e una cosiddetta arte “vissuta” finirebbe semplicemente col riprodurre quella menzogna, un’arte scarna e mediocre come la vita stessa, senz’alcuna bellezza, una ripetizione noiosa e inutile di ciò che gli occhi vedono e l’intelletto nota»; mentre «la grandezza della vera arte, al contrario … consiste nel riscoprire, nel riappropriarci, e nel porre davanti a noi quella realtà dalla quale viviamo lontani, dalla quale ci scostiamo sempre più man mano che la conoscenza convenzionale con cui la sostituiamo acquista spessore e impermeabilità; quella realtà rischieremmo fortemente di morire senza averla conosciuta, e non è altro che la nostra vita, la vita vera, la vita finalmente svelata e chiarita…».

Il ponte fra passato e presente

Il ponte fra passato e presente che dunque Marcel scopre è che

«ciò che chiamiamo realtà è un certo rapporto tra le sensazioni e i ricordi che ci circondano simultaneamente».

In conclusione, per ricreare il passato, deve avvenire qualcosa d’altro oltre all’azione del ricordo: deve esserci la combinazione tra una sensazione del presente (in modo particolare un sapore, un odore, una percezione tattile, un suono) e un ricordo, una rimembranza del passato sensoriale. Per citare Leon:

«Ora, se nel momento di questa resurrezione [quella, per esempio, di Venezia dalle selci irregolari nel cortile dei Guermantes], invece di cancellare il presente riusciamo a esserne consci: se sappiamo conservare il senso della nostra identità, e contemporaneamente vivere appieno in quel momento che per molto tempo avevamo creduto non esistesse più, allora, e solo allora, potremo dire di possedere completamente il tempo perduto».

In altre parole, un bouquet dei sensi nel presente e l’evocazione di un avvenimento o sensazione del passato, è qui che senso e ricordo si uniscono e il tempo perduto viene ritrovato.

L’illuminazione si completa quando il narratore comprende che un’opera d’arte è l’unico mezzo per ritrovare il passato, e a questo fine si dedica, perché

«ricreare attraverso il ricordo di impressioni che devono essere approfondite, chiarite e trasformate nel loro equivalente intellettuale, non era questa una delle condizioni indispensabili, quasi l’essenza stessa dell’opera d’arte quale l’avevo concepita …?».

E finalmente comprende che

«tutti quei materiali per l’opera letteraria non erano che la mia vita passata, ed erano venuti a me tra i piaceri frivoli, nell’ozio, tramite gli affetti e il dolore, e che li avevo immagazzinati senza prevederne lo scopo ultimo o finanche la sopravvivenza, come fa il seme quando tiene in serbo tutte le sostanze che nutriranno la pianta».

Scrive in conclusione:

«Non mi sembrava che avrei avuto ancora a lungo la forza di portare attaccato a me quel passato che si estendeva già fino a tanto lontano nel tempo e che con tanta sofferenza serbavo dentro di mel Se almeno mi fosse stato lasciato il tempo necessario per completare la mia opera, non avrei mancato di imprimervi il sigillo di quel Tempo che oggi sentivo impellente l’urgenza di comprendere, e vi avrei descritto gli uomini, anche a costo di farli apparire come esseri mostruosi, che occupano nel Tempo un posto molto più considerevole di quello angusto loro riservato nello spazio, un posto, al contrario, sconfinato poiché, come giganti sprofondati negli anni, essi toccano simultaneamente epoche vissute — fra le quali infiniti giorni sono trascorsi — così lontane fra loro nel Tempo».

Da: Vladimir Nabokov, Lezioni di letteratura, Milano, Adelphi, 2018, pp. 332–352

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Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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