Il prisma di Marcel Proust

di Vladimir Nabokov — Lezione su “Dalla parte di Swann”

Mario Mancini
19 min readJan 10, 2024

Parte 1

Vai alla parte 2: Il sistema delle metafore
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Claude Monet, La signora Monet legge in giardino,

Il grande romanzo di Proust Alla ricerca del tempo perduto si compone di sette parti:

Dalla parte di Swann,
All’ombra delle fanciulle in fiore,
I Guermantes,
Sodoma e Gomorra,
a prigioniera,
Albertine scomparsa,
Il tempo ritrovato.

Una caccia al tesoro

Il traduttore inglese, Moncrieff, è morto in corso d’opera — il che non stupisce — e l’ultimo volume è stato tradotto da Blossom, che ha fatto un buon lavoro. Le sette parti, pubblicate in francese in quindici volumi fra il 1913 e il 1927, in inglese ammontano a 4000 pagine, ovvero circa un milione e mezzo di parole. La vicenda copre più di mezzo secolo, dal 1840 al 1915, quando la prima guerra mondiale era già iniziata, e ha più di duecento personaggi. In termini generali, la società inventata da Proust appartiene ai primi anni Novanta del 1800.

Proust iniziò l’opera nell’autunno del 1906 a Parigi e terminò la prima stesura nel 1912; poi ne riscrisse la maggior parte e continuò a riscriverla e a correggerla fino alla morte, avvenuta nel 1922.

Nel complesso, si tratta di una caccia al tesoro, in cui il tesoro è il tempo e il nascondiglio è il passato: questo è il significato intrinseco del titolo Alla ricerca del tempo perduto. La trasmutazione di sensazioni in sentimenti, il flusso e riflusso dei ricordi, le ondate di emozioni quali il desiderio, la gelosia e l’euforia artistica costituiscono la materia di quest’opera enorme, eppure singolarmente leggera e trasparente.

Da giovane Proust aveva studiato la filosofia di Henri Bergson. Alcune sue idee fondamentali — l’evoluzione costante della personalità nel tempo; le ricchezze insospettate della nostra mente subliminale, che possiamo recuperare solo con un atto di intuizione, di ricordo, di associazione involontaria; anche la subordinazione della pura e semplice ragione al genio dell’ispirazione interiore, e la concezione dell’arte come unica realtà al mondo –, queste idee proustiane sono appunto versioni più colorite del pensiero bergsoniano.

Jean Cocteau ha definito l’opera «una miniatura gigantesca, piena di miraggi, di giardini sovrapposti, di giochi condotti tra spazio e tempo».

Una cosa dobbiamo tenere sempre bene a mente: l’opera non è un ‘autobiografia; il narratore non è Proust in persona, e i personaggi non sono mai esistiti se non nell’immaginazione dello scrittore. Pertanto, ci asterremo dall’inoltrarci nella sua vita, dato che nel caso presente non è importante e non servirebbe che a confondere le idee, soprattutto perché il narratore e l’autore si somigliano sotto molti aspetti e frequentano ambienti simili.

Proust è un prisma. Il suo scopo, o lo scopo del romanzo, è quello di rifrangere e, rifrangendo, ricreare un mondo in retrospettiva. Quel mondo e i suoi abitanti non hanno alcuna rilevanza sociale o storica. Fanno parte di quella che i giornali chiamano alta società, sono uomini e donne benestanti, ricchi sfaccendati. Le uniche professioni descritte, praticate nel presente o nel passato, sono artistiche e accademiche.

I personaggi prismatici di Proust non hanno alcun compito, se non quello di dilettare l’autore. Possono concedersi il lusso di dedicarsi alla conversazione e al piacere come quelle leggendarie figure dell’antichità che tanto chiaramente ci immaginiamo sdraiate attorno a tavole cariche di frutta o impegnate in sommi conversari mentre passeggiano su pavimenti decorati, ma che certo non riusciamo a visualizzare all’interno di un ufficio contabile o di un cantiere navale.

Come osserva il critico francese Arnaud Dandieu, Alla ricerca del tempo perduto è un’evocazione del passato, non una sua descrizione. L’evocazione, continua Dandieu, è costruita mettendo in luce momenti di vita scelti con cura che costituiscono una serie di illustrazioni, di immagini. I effetti, conclude, quest’opera colossale nella sua interezza non è che una similitudine continua che ruota attorno alle parole come se[1].

La chiave per ritrovare il passato è quella dell’arte. La caccia l tesoro ha il lieto fine in una grotta invasa dalla musica, m un tempio ricco di vetrate istoriate. Gli dèi delle religioni tradizionali sono assenti o forse, più correttamente, sono dissolti nell’arte.

Un lettore superficiale dell’opera — una contraddizione in termini perché un lettore superficiale si annoierebbe a tal punto, e sarebbe a tal punto sommerso dagli sbadigli, che di sicuro non arriverebbe alla fine del libro –, diciamo allora: un lettore inesperto potrebbe pensare che il narratore si interessi soprattutto alle ramificazioni e alleanze che collegano tra loro varie famiglie nobili, e che provi un certo piacere quando scopre che quello che ha sempre considerato un modesto uomo d’affari appartiene invece al bel mondo, o che un matrimonio importante ha legato due famiglie in un modo che non avrebbe mai ritenuto possibile:

È probabile che, agli occhi del lettore prosaico, l’opera sia solo una lunga serie di ricevimenti: per esempio, una cena riempie centocinquanta pagine, una serata di gala mezzo volume. Nella prima parte troviamo il salone filisteo di Mme Verdurin nei giorni in cui Swann lo frequenta e la serata nella dimora di Mme de Saint-Euverte quando Swann comprende per la prima volta che la passione che nutre per Odette è senza speranza.

Poi, nei volumi successivi, ci sono altri salotti, altri ricevimenti, un pranzo con numerosi invitati a casa di Mme de Guermantes, un concerto in quella di Mme Verdurin, e il ricevimento pomeridiano conclusivo nella stessa dimora della stessa signora, che nel frattempo è diventata principessa di Guermantes per matrimonio: proprio durante quell’ultimo ricevimento nell’ultimo volume, Il tempo ritrovato, il narratore si rende conto dei cambiamenti che il tempo ha operato in tutti i suoi amici, e subisce uno shock d’ispirazione, o meglio, una serie di shock così forti da spingerlo a iniziare senza indugio a scrivere il romanzo, la ricostruzione del passato.

A questo punto, allora, si potrebbe essere tentati di dire che Proust è il narratore, che egli è gli occhi e le orecchie del libro. Ma la risposta è ancora una volta no. Il libro che scriverà il narratore del libro di Proust è un libro-nel-libro e non è Alla ricerca del tempo perduto, così come il narratore non è Proust.

Qui c’è uno spostamento del centro focale che produce un bordo iridescente: è lo speciale cristallo proustiano attraverso il quale leggiamo il libro. Il romanzo non è uno specchio dei costumi e delle usanze del tempo, non è un’autobiografia e non è neppure una ricostruzione storica: è un puro parto della fantasia di Proust, come lo sono Anna Karenina e La metamorfosi di Kafka — proprio come lo sarà la Cornell University se un giorno ne scriverò mai in retrospettiva.

Il narratore del libro è anch’esso un personaggio, che si chiama Marcel. In altre parole, c’è Marcel che origlia e c’è Proust che scrive. Nell’ultimo volume del romanzo, il narratore Marcel pensa al romanzo ideale che scriverà. L’opera di Proust è soltanto una copi a di quel romanzo ideale — ma che copia!

Le due passeggiate

Dalla parte di Swann (o La strada di Swann) deve essere visto dall’angolatura giusta, ovvero in rapporto all’intero ciclo narrativo, come voleva Proust. Per comprendere appieno il primo volume dobbiamo iniziare con l’accompagnare il narratore al ricevimento descritto nell’ultimo. Ne parleremo più approfonditamente in seguito, ma per il momento ascoltiamo cosa dice Marcel a quel punto, quando comincia a capire i traumi, le delusioni che ha subìto:

«Ciò che chiamiamo realtà è un certo rapporto fra le sensazioni e i ricordi che ci circondano simultaneamente, rapporto unico che lo scrittore deve ritrovare per poter unire indissolubilmente nella sua frase i due elementi distinti. In una descrizione si può elencare una serie infinita di oggetti presenti nel luogo che viene descritto, ma la verità comincia solo nel momento in cui lo scrittore prende due oggetti diversi, definisce il rapporto esistente fra loro … e li racchiude nelle maglie indispensabili del suo stile (arte), oppure quando, a somiglianza della vita reale, confrontando qualità simili in due sensazioni, ne fa emergere l’essenza comune, unendole assieme in una metafora per sottrarle alle contingenze del tempo con parole eterne. La natura stessa non mi aveva forse messo, da questo punto di vista, sulla strada dell’arte [si chiede Marcel], non era forse essa stessa un principio d’arte, la natura che sovente mi aveva permesso di vedere la bellezza di una cosa solo molto tempo dopo e solo mediante un’altra: il mezzodì a Combray mediante il suono delle sue campane e la raffinatezza dei suoi fiori».

L’accenno a Combray introduce l’importante tema delle due passeggiate, tema che attraversa tutte e sette le parti che compongono l’opera (sette parti come i sette giorni della settimana di genesi creativa dell’universo, senza il riposo della domenica). In tutti e sette i volumi il narratore conserva nel suo campo visivo quelle passeggiate che faceva da bambino nella cittadina di Combray: la passeggiata verso Méséglise passando per Tansonville, la tenuta di Swann, e quella verso la residenza di campagna dei Guermantes.

L’intera storia contenuta nei quindici volumi che costituiscono l’edizione francese dell’opera è uno studio sulle persone che in un modo o nell’altro sono collegate con le due passeggiate della sua infanzia. In modo particolare, la sofferenza del narratore per il bacio della madre è un presagio della sofferenza e dell’amore di Swann, così come l’amore infantile per Gilberte e poi l’importante relazione sentimentale con una ragazza di nome Albertine sono amplificazioni della relazione di Swann con Odette.

Le due passeggiate, però, hanno un’importanza ulteriore. Come scrive Derrick Leon in Introduction to Proust (1940):

«Fino a quando non vede le due passeggiate che faceva da bambino unite nella nipote di Swann (la figlia di Gilberte), Marcel non si rende conto che i segmenti nei quali frammentiamo la vita sono puramente arbitrari e non corrispondono ad alcun aspetto della vita stessa, ma solo alla visione inadeguata, imperfetta attraverso la quale la percepiamo.
I mondi distinti di Madame Verdurin, Madame Swann e Madame de Guermantes sono essenzialmente lo stesso mondo, e soltanto lo snobismo o un caso fortuito delle consuetudini sociali li ha separati. Sono lo stesso mondo non perché Madame Verdurin alla fine sposa il principe di Guermantes, non perché la figlia di Swann alla fine sposa il nipote di Madame de Guermantes, e non perché Odette stessa corona la propria carriera diventando l’amante di Monsieur de Guermantes, ma perché ognuno di loro si muove in un’orbita formata da elementi simili: e questa è la qualità automatica, superficiale e meccanica della vita» che già conosciamo dalle opere di Tolstoj»[2].

Lo stile di Proust

Lo stile, vi rammento, è il modo di scrivere di un autore, il modo particolare che lo distingue da tutti gli altri autori. Se scelgo tre paragrafi di tre autori diversi di cui conoscete le opere, se li scelgo facendo attenzione che l’argomento non offra alcun indizio, e voi esclamate con sicurezza: «Ma è Gogol, è Stevenson e, perbacco, è Proust», state basando la vostra scelta su spiccate differenze di stile. Lo stile di Proust contiene tre elementi che lo distinguono in modo particolare:

1. Abbondanza di immagini metaforiche, uno strato dopo l’altro. È attraverso questo prisma che vediamo la bellezza della sua opera. Spesso Proust usa il termine metafora in modo impreciso, come sinonimo di forma ibrida[3] o in generale di similitudine, perché per lui la similitudine sfuma sempre in metafora, e viceversa, con prevalenza del momento metaforico.

2. La tendenza a riempire, a dilatare una frase fino al limite massimo di ampiezza e lunghezza, a stipare nella calza della frase una quantità miracolosa di proposizioni, incisi, subordinate e sub-subordinate. Sì, quanto a generosità verbale è un vero e proprio Babbo Natale.

3. Nei romanzieri del passato di solito esisteva una chiara distinzione fra il brano descrittivo e la parte dialogata: un brano descrittivo, uno di conversazione, e così via. Questo metodo è usato ancora oggi nella letteratura convenzionale, quella di serie Be C, venduta a chili, e in quella di categoria ancora inferiore, che è buttata sul mercato a quintali. Le conversazioni e le descrizioni di Proust, invece, sfumano l’una nell’altra, creando un nuovo elemento unico, in cui il fiore, la foglia e l’insetto appartengono a uno stesso e solo albero in fiore.

«Per lungo tempo, mi sono coricato presto la sera». L’incipit dell’opera è la chiave del tema, incentrato sulla camera da letto di un bambino sensibile. Il bambino cerca di addormentarsi. «Udivo il fischio dei treni che, ora più vicino, ora più lontano, evidenziando la distanza come il canto di un uccello nel bosco, mi descriveva la campagna deserta nella quale un viaggiatore camminava a passo svelto diretto alla stazione più vicina: il viottolo che percorreva gli sarebbe rimasto per sempre impresso nel ricordo per la vaga eccitazione derivante dal trovarsi in luoghi nuovi, dai gesti inconsueti, dalle ultime chiacchiere, dai saluti scambiati sotto un lampione estraneo che ancora gli echeggiavano nelle orecchie nel silenzio della notte; e dalla deliziosa prospettiva del ritorno a casa».

Il fischio del treno sottolinea la distanza come il canto di un uccello portato dal vento, un’ulteriore similitudine, un paragone interiore, che è un tipico accorgimento proustiano per arricchire un’immagine di tutto il colore e di tutta la forza possibili; segue lo sviluppo logico dell’idea di treno, con la descrizione di un viaggiatore e delle sensazioni che prova.

Lo svolgimento graduale di un’immagine è un metodo tipico di Proust, che differisce dalle similitudini tortuose di Gogol sia per logica che per poetica. La similitudine di Gogol è sempre grottesca, una parodia di Omero, e le sue metafore sono incubi, mentre quelle di Proust sono sogni.

Un po’più avanti troviamo la creazione metaforica di una donna mentre il ragazzo dorme:

«A volte, succedeva anche che, come Eva era nata da una costola di Adamo, mentre dormivo una donna nascesse da una posizione innaturale della mia coscia … Il mio corpo, che sentiva il proprio calore diffondersi nel suo, voleva diventare tutt’uno con lei, e mi destavo. Il resto dell’umanità sembrava lontanissimo al paragone di quella donna che avevo lasciato appena da qualche attimo; la guancia era ancora calda del suo bacio, il corpo era curvo sotto il peso del suo. Se, come a volte succedeva, lei aveva l’aspetto di una donna che avevo conosciuto nella vita reale, mi dedicavo con tutto me stesso a un unico scopo: ritrovarla, come chi si metta in viaggio per vedere con i propri occhi una città che ha sempre desiderato visitare, e immagini di riuscire a gustare nella realtà l’incanto del sogno. A poco a poco il ricordo di lei si affievoliva e svaniva, finché dimenticavo la creatura del mio sogno».

Anche qui troviamo la tecnica dello svolgimento graduale: la ricerca della donna paragonata a chi fa un viaggio per vedere un luogo, e così via. Ricerche, visite e delusioni fortuite costituiranno uno dei temi principali dell’intera opera.

Lo svolgersi graduale dell’immagine può coprire un periodo di parecchi anni in un solo brano. Dal ragazzo che sogna, si sveglia e si riaddormenta passiamo impercettibilmente alla sua abitudine di dormire e svegliarsi nel presente della narrazione, da adulto:

«Mentre dorme, un uomo è circondato dal filo delle ore, dall’ordine degli anni e dei mondi. Nello svegliarsi, istintivamente li consulta, e in un attimo vi legge la propria posizione sulla superficie terrestre e il tempo che è trascorso durante il sonno … Ma a me, da adulto, bastava che, nel mio stesso letto, il sonno fosse profondo e mi rilassasse completamente la coscienza per perdere la cognizione del luogo in cui mi ero addormentato e, svegliandomi nel cuore della notte, non sapevo dove mi trovassi e, in un primo momento, non sapevo chi fossi; provavo solo una consapevolezza primitiva, rudimentale dell’esistenza quale può annidarsi e fremere nelle profondità della coscienza di un animale; ero spoglio di tutto, più di un cavernicolo; poi, però, il ricordo, non ancora del luogo in cui mi trovavo, ma di altri luoghi in cui avevo abitato, e dove sarei potuto benissimo essere, veniva, come una corda gettatami dal cielo, a tirarmi fuori dall’abisso del non essere dal quale non sarei mai riuscito a uscire da solo…».

A quel punto subentra la memoria del corpo, che

«si sforzava di individuare, più o meno faticosamente, la posizione delle membra, e da queste dedurre la direzione della parete e la disposizione della mobilia, e collegarle per dare un nome alla casa nella quale si trovava. La memoria del corpo, la memoria composita delle costole, delle ginocchia, delle scapole, gli presentava in successione una serie di camere in cui aveva qualche volta dormito, mentre attorno a esso le pareti invisibili, continuando a spostarsi per adattarsi alla forma della stanza ricordata, turbinavano nell’oscurità. E ancora prima che la mente, esitante sulla soglia del tempo e delle forme, avesse raccolto dettagli sufficienti a consentirgli d’identificare il luogo, esso, il mio corpo, ricordava di ciascuna stanza, l’una dopo l’altra, come era fatto il letto, dove si trovavano le porte, la luce diurna che entrava dalle finestre, se c’era un corridoio, cosa avevo pensato nell’addormentarmi, e cosa avevo trovato al risveglio».

Passiamo per una serie di stanze e relative metafore. Per un momento il narratore ritorna bambino in un grande letto a baldacchino «e subito mi dicevo: “Ecco, ho finito con l’addormentarmi, e la mamma non è venuta ad augurarmi la buona notte!”». In quel momento è tornato in campagna, insieme col nonno, morto anni prima; poi si ritrova nella casa di Gilberte (che ora è Mme de SaintLoup), la vecchia casa di Swann a Tansonville, e in una serie di stanze in inverno e in estate; infine si sveglia nel tempo presente (da adulto) nella sua casa di Parigi, ma avendo messo in moto la memoria:

«Di solito non cercavo di riaddormentarmi subito, ma passavo invece quasi tutta la notte a ricordare la nostra vita di un tempo a Combray nella casa della prozia, a Balbec, a Parigi, a Doncières, a Venezia, e altrove, a ricordare tutti i luoghi e le persone che lì avevo conosciuto, quello che di loro avevo visto, e quello che altri me ne avevano raccontato».

Poi, avendo nominato Combray, ritorna all’infanzia e al tempo della narrazione:

«A Combray, tutti i giorni, alla fine del pomeriggio, molto prima del momento in cui venivo mandato a letto, a rimanervi sveglio, lontano dalla mamma e dalla nonna, la mia camera da letto diventava il punto fisso sul quale si concentravano la mia malinconia e i miei pensieri angosciosi».

Quando si sentiva particolarmente infelice, occupava il tempo prima della cena con una lanterna magica che raccontava la storia medioevale del malvagio Golo e della buona Ginevra di Brabante (antesignana della duchessa di Guermantes). Il «movimento» o la «vicenda» della lanterna magica, si collega, tramite la lampada della sala da pranzo, al salottino in cui la famiglia si riunisce dopo cena nelle serate piovose, e la pioggia serve a sua volta per introdurre la nonna — il personaggio più sublime e patetico dell’opera –, la quale insiste per passeggiare nel giardino bagnato. Viene introdotto Swann:

«Sentivamo, in fondo al giardino, non la campanella sonora e acuta che col suo suono freddo, rugginoso, interminabile permeava e assordava tutti gli abitanti della casa che la facevano scattare entrando “senza suonare”, bensì il doppio suono — timido, ovoidale, dorato — del campanello per gli estranei … e poi, subito dopo, il nonno diceva: “Riconosco la voce di Swann” … Pur essendo ben più giovane, Swann era molto legato al nonno, che, ai suoi tempi, era stato uno dei migliori amici del padre, uomo eccellente ma eccentrico al quale, a quanto pareva, a volte bastava la minima cosa per interrompere le confidenze o mutare il corso dei pensieri».

Swann è un uomo alla moda, esperto d’arte, parigino raffinato assai in voga nell’alta società; ma i suoi amici di Combray, la famiglia del narratore, non hanno idea della sua posizione e lo considerano semplicemente il figlio del loro vecchio amico, l’operatore di borsa. Uno degli elementi del libro è costituito dai vari modi in cui una persona è vista da occhi diversi, come accade a Swann, visto attraverso il prisma delle opinioni della prozia di Marcel:

«Un giorno che a Parigi era venuto a trovarci dopo cena, scusandosi perché indossava l’abito da sera, Françoise [la cuoca], dopo che se ne fu andato, ci disse di aver saputo dal cocchiere di Swann che questi aveva cenato “da una principessa”. “Sì, una principessa del demi-monde, una cortigiana” ribatté la zia strascicando le parole, con placida ironia e un’alzata di spalle, senza sollevare gli occhi dal lavoro a maglia».

C’è una differenza fondamentale tra il modo di introdurre i personaggi di Proust e quello di Joyce: Joyce prende un personaggio compiuto e assoluto, noto a Dio e a Joyce, e poi lo divide in frammenti che dissemina nello spazio-tempo del libro. Il buon lettore raccoglie le tessere e un po’alla volta le unisce ricostruendo il puzzle. Proust, al contrario, sostiene che un personaggio, una personalità, non è mai conosciuto in modo compiuto, ma sempre in modo relativo. Non lo frammenta, ma lo mostra attraverso le opinioni che di lui hanno gli altri personaggi, sperando, dopo aver esposto una serie di prismi e ombreggiature, di unirli in modo che formino una realtà artistica.

L’introduzione si conclude con la descrizione della disperazione di Marcel quando la presenza di ospiti lo costringe ad accomiatarsi in sala da pranzo per andare a coricarsi, e la madre non sale a dargli il bacio della buonanotte; la storia vera e propria comincia con una visita particolare di Swann:

«Eravamo in giardino quando udimmo il doppio suono timido del campanello del cancello. Tutti sapevano che doveva trattarsi di Swann, e tuttavia si guardarono l’un l’altro con espressione interrogativa e mandarono la nonna in ricognizione».

La metafora del bacio è complessa e scorrerà per l’intera opera.

«Non distoglievo lo sguardo da mia madre; sapevo che, quando fossero stati a tavola, non mi avrebbero consentito di rimanere là per tutta la durata della cena, e che, per non contrariare mio padre, la mamma non mi avrebbe permesso, davanti a tutti, di baciarla diverse volte come se fossimo stati m camera mia. Così mi ripromisi in sala da pranzo, quando avessero cominciato a mangiare e io avessi sentito che l’ora si avvicinava, di fare, prima di quel bacio che sarebbe stato tanto breve e furtivo, tutto quanto era in mio potere per trarne il massimo: scegliere con lo sguardo il punto della gota che avrei baciato, preparare i pensieri in modo da riuscire, grazie a quei preliminari mentali, a consacrare l’intero minuto che la mamma mi avrebbe concesso alla sensazione della sua guancia contro le mie labbra, come un pittore che, potendo disporre soltanto di brevi sedute di posa, prepari la tavolozza ed esegua anticipatamente, basandosi su ciò che ricorda e sui suoi appunti, tutto ciò che gli è possibile fare in assenza del modello. Ma ecco che quella sera, prima che suonasse la campanella della cena, il nonno ebbe la ferocia inconsapevole di dire: “Il nostro ometto sembra stanco; è meglio che vada a coricarsi. Tanto più che questa sera ceneremo tardi”…
Nel momento in cui stavo per baciare la mamma, si udì la campanella della cena.
“Ma no, avanti, lascia in pace la mamma, vi siete già salutati a sufficienza. Queste esibizioni sono ridicole. Avanti, va’ su”».

Lo strazio che prova il piccolo Marcel, il biglietto che scrive alla madre, la trepidazione dell’attesa e le lacrime quando lei non compare preannunciano il tema della gelosia disperata che soffrirà, creando così un collegamento fra le sue emozioni e quelle di Swann. Immagina che Swann avrebbe riso di cuore se avesse letto il biglietto che aveva scritto alla madre, e

«invece, come avrei appreso in seguito, un’angoscia simile alla mia lo aveva tormentato per molti anni, e forse nessuno, in quel momento, avrebbe potuto comprendermi meglio di lui; a lui, quell’angoscia che si prova nel sapere che l’essere amato è in un ambiente piacevole dove noi non siamo, dove non possiamo raggiungerlo — a lui, è stato l’amore a fargliela conoscere, l’amore, al quale in un certo senso essa è predestinata, il quale se ne approprierà, perfezionandola … E la gioia con la quale io feci il primo apprendistato quando Françoise ritornò per dirmi che il biglietto sarebbe stato consegnato anche Swann l’aveva conosciuta bene, quella gioia illusoria che ci dà un amico o un parente della donna amata quando, giungendo al palazzo o al teatro in cui lei si trova per un ballo o una festa o una “prima” dove la incontrerà, ci vede girovagare fuori, in disperata attesa dell’occasione di comunicare con lei. Ci riconosce, ci saluta con familiarità e ci chiede cosa facciamo lì. E quando inventiamo la storia di avere una comunicazione urgente da fare (alla sua parente o amica), ci assicura che la cosa è semplicissima, ci fa entrare nel vestibolo e ci promette di mandarla da noi entro cinque minuti …
Ahimè! Swann aveva imparato per esperienza personale che le buone intenzioni di un terzo sono impotenti su una donna che è infastidita dal vedersi inseguita perfino a una festa da un uomo che non ama. Troppo spesso, l’amico gentile discende solo.
Mia madre non venne e, senza cercare di salvaguardare il mio amor proprio (che dipendeva dal fatto che lei non smentisse di avermi chiesto di comunicarle il risultato di una certa ricerca), mi fece dire da Françoise queste parole “Non c’è risposta”, parole che dopo di allora ho sentito tanto spesso ripetere dai portieri di sale da ballo pubbliche e dai domestici in livrea di sale da gioco e simili a qualche povera ragazza, che esclamava smarrita: “Come? Non ha detto niente? Non è possibile! Lei gli ha consegnato la mia lettera, vero? Va bene, aspetterò ancora un poco”. E, proprio come lei, che assicura invariabilmente di non aver bisogno del lume supplementare che il portiere si è offerto di accendere, e resta seduta in attesa … così, rifiutata l’offerta di Françoise di prepararmi una tisana o di rimanere accanto a me, la lasciai ritornare nei locali della servitù, mi coricai e chiusi gli occhi, sforzandomi di non udire le voci dei miei familiari che, finito di cenare, bevevano il caffè in giardino».

All’episodio fa seguito la descrizione del chiaro di luna e del silenzio, che illustra perfettamente la tecnica proustiana delle metafore all’interno di metafore.

Il bambino apre la finestra e si siede in fondo al letto, senza osare muoversi per non farsi sentire da giù.

(1) «Le cose all’esterno parevano anch’esse immobili, in muta attesa».

(2) Sembravano non voler «disturbare il chiaro di luna».

(3) E cosa stava facendo il chiaro di luna? Raddoppiava ogni cosa e sembrava spingerla indietro, prolungandone in avanti l’ombra. Che tipo di ombra? Un’ombra che sembrava «più densa e più concreta della cosa» stessa.

(4) Con che risultato? Che il chiaro di luna «contemporaneamente riduceva e ingrandiva il paesaggio come [ulteriore similitudine] una carta geografica che, ripiegata fino a quel momento, venga dispiegata ben aperta».

(5) C’era qualche movimento: «Ciò che doveva muoversi — il fogliame di un castagno, per esempio — si muoveva. Ma il suo fremito minuzioso [com’era il fremito?], totale, eseguito fino nell’ombra più sfumata, fino all’ultimo delicato particolare, [quel fremito meticoloso] non invadeva il resto della scena, non sfumava in essa, rimanendo chiaramente delimitato» — perché era illuminato dalla luce mentre il resto era nell’ombra.

(6) Il silenzio e i suoni lontani. I suoni lontani si comportavano rispetto alla superficie del silenzio nello stesso modo in cui la chiazza di chiaro di luna muoveva il fogliame in rapporto al velluto dell’ombra. I suoni più lontani provenienti da «giardini situati all’altro capo della città, si percepivano nei minimi particolari con tale precisa finitezza che l’impressione di lontananza che comunicavano [segue un’ulteriore similitudine] pareva dovuta soltanto al loro “pianissimo”, [segue altra similitudine] come certi motivi eseguiti in sordina» al conservatorio, motivi che poi descrive: «benché non se ne perda una sola nota», si crede di sentirli provenire «dal di fuori, da molto lontano dalla sala, cosicché [e adesso ci troviamo in quella sala da concerti] tutti i vecchi abbonati, e anche le sorelle della nonna quando Swann cedeva loro i suoi posti, allungavano le orecchie come se [ultima similitudine] avessero colto il lontano avvicinarsi di un esercito in marcia, che non avesse ancora girato l’angolo» della strada.

Note

[1] Scrive Middleton Murry che quando si cerca di essere precisi si finisce inevitabilmente con l’essere metaforici[N.d.A.].
[2] Qui e altrove VN a volte riformula le frasi o interpola osservazioni personali fra virgolette [N. d.C.].
[3] VN cita come semplice similitudine «la foschia era come velo» come semplice metafora «c’era un velo di foschia» e come similitudine ibrida «il velo di foschia era come il sonno del silenzio», associando similitudine e metafora [N.d.C.].

Fine Parte 1
Continua

Da: Vladimir Nabokov, Lezioni di letteratura, Milano, Adelphi, 2018, pp. 299–314

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Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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