Marcel Proust e il sistema delle metafore
di Vladimir Nabokov — Lezione su “Dalla parte di Swann”
Parte 2
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Si strati della descrizione
Gli effetti pittorici del chiaro di luna cambiano a seconda dell’epoca e dell’autore. C’è una somiglianza fra Gogol, che scrive Le anime morte nel 1840, e Proust, che compone questa descrizione all’incirca nel 1910. Ma nella descrizione di Proust il sistema di metafore è ancora più complesso, ed è poetico, non grottesco.
Nel descrivere un giardino al chiaro di luna anche Gogol avrebbe usato una gran ricchezza di immagini, ma le sue tortuose similitudini avrebbero deviato verso l’esagerazione grottesca e verso qualche stupendo frammento di assurdità irrazionale. Per esempio, egli avrebbe potuto paragonare l’effetto del chiaro di luna a biancheria caduta dalla corda dove era stesa ad asciugare, come fa a un certo punto nelle Anime morte, per poi cominciare a divagare dicendo che il chiaro di luna sul terreno era come lenzuola e camicie che il vento aveva sparso qua e là mentre la lavandaia dormiva pacifica, sognando saponate e amido e il nuovo abito grazioso che la cognata aveva appena acquistato.
Nel caso di Proust il punto peculiare è che egli si sposta gradualmente dall’idea della luce chiara a quella della musica lontana — il senso della vista sfuma in quello dell’udito.
Esiste però un precursore di Proust. Nel II capitolo della sesta parte di Guerra e pace di Tolstoj (1864–1869), il principe Andrej è ospite nella residenza di campagna di un conoscente, il conte Rostov. Non riesce a dormire. Ho riveduto leggermente la traduzione della Garnett:
«Il principe Andrej si alzò dal letto e si diresse alla finestra per aprirla. Non appena ebbe dischiuso le imposte, il chiaro di luna, come se da lungo tempo fosse stato all’erta all’esterno, in attesa dell’occasione, irruppe nella stanza. Spalancò i vetri. La notte era fresca, immobile, luminosa. Gli alberi potati, che formavano un filare proprio davanti alla finestra, erano neri da un lato e argentei dall’altro … Alle loro spalle c’era [una specie di] tetto luccicante di rugiada. Sulla destra si ergeva un grande albero dal denso fogliame, col tronco e i rami di un bianco lucente, e in alto una luna quasi piena galleggiava nel cielo primaverile senza stelle».
Ed ecco che dalla finestra del piano soprastante sente provenire il suono di due giovani voci femminili — una è quella di Nataša Rostova — che cantano, ripetendo una frase musicale … Poco dopo Nataša si affaccia alla finestra ed egli ode il fruscio dell’abito e il ritmo del suo respiro» e «i suoni divennero immobili come la luna e le ombre».
Tre sono le cose che dobbiamo notare in Tolstoj quali precorritrici di Proust:
1. L’attesa della luna, che sta all’erta (una «fallacia patetica», ossia l’attribuzione di sentimenti propri dell’uomo a cose inanimate). La bellezza pronta a irrompere nella stanza, creatura festosa e cara nel momento in cui è percepita dalla mente umana.
2. La nitidezza della descrizione, un paesaggio inciso con mano sicura in argento e nero, senza frasi convenzionali e senza lune mutuate da altri. Ogni cosa è vera, autentica, vista fisicamente con tutti i sensi.
3. La stretta associazione di ciò che si vede con ciò che si ode, dell’ombra della luce con l’ombra del suono dell’udito con la vista.
Confrontate questi punti con lo sviluppo dell’immagine in Proust: notate l’elaborazione del chiaro di luna, le ombre che escono dalla luce come i cassetti di un comò e la lontananza e la musica.
Un esempio interessante dei vari strati e livelli sensoriali presenti nelle metafore proustiane lo troviamo nella descrizione del modo in cui la nonna sceglie i regali.
Primo strato. «Avrebbe voluto che io tenessi nella mia camera fotografie di edifici antichi o dei paesaggi più belli. Ma al momento di acquistarle, e nonostante il soggetto della fotografia avesse un intrinseco pregio estetico, trovava sempre che la volgarità e l’utilità avessero un ruolo troppo rilevante, per via della natura meccanica della riproduzione fotografica».
[Secondo strato:] «Con un espediente tentava, se non di eliminare completamente la loro banalità commerciale, perlomeno di ridurla, di sostituirla per quanto possibile con un altra forma d arte, di Introdurre come diversi “strati” di arte: invece delle fotografie della cattedrale di Chartres, delle fontane di Saint-Cloud, o del Vesuvio, chiedeva Swann se qualche grande pittore non li avesse ritratti, preferendo donarmi fotografie della cattedrale di Chartres dipinta da Corot, delle fontane di Saint-Cloud secondo Hubert Robert, o del Vesuvio di Turner, posizionando cosi il regalo a un livello più alto nella scala dell’arte».
[Terzo strato:] Ma, pur essendogli stata preclusa la riproduzione diretta del capolavoro umano o della bellezza della natura, sostituito in questo da un grande artista, il fotografo rientrava nei suoi pieni diritti al momento di riprodurre l’interpretazione dell’artista. A quel punto, dovendo per forza fare nuovamente i conti con la volgarità, la nonna tentava differirla ulteriormente. Chiedeva a Swann se del quadro non esistesse qualche stampa all’acquaforte e
[Quarto strato:] preferendo, quando possibile, incisioni antiche interessanti indipendentemente dal valore dell’opera in sé, per esempio, quelle che mostrano un capolavoro in uno stato nel quale non possiamo più vederlo oggi, come la stampa di Morghen dell’Ultima cena di Leonardo prima che il restauro la rovinasse».
La nonna seguiva lo stesso metodo quando regalava mobili antichi o quando donava a Marcel i romanzi antiquati di George Sand (1804–1876), scritti cinquant’anni prima.
Il primo tema dell’ora di andare a letto si chiude con la madre che gli legge, appunto, quei romanzi. Queste prime sessanta pagine della traduzione inglese sono già in sé complete e contengono quasi tutti gli elementi stilistici che compaiono nel corso dell’intera opera. Come fa notare Derrick Leon:
«Arricchita dalla vasta e notevole cultura di Proust, dal suo profondo amore e comprensione della letteratura classica, della musica e della pittura, tutta l’opera esibisce una profusione di similitudini tratte con eguale appropriatezza e abilità dalla biologia, dalla fisica, dalla botanica, dalla medicina, o dalla matematica, che non finiscono mai di stupire e di deliziare».
La reminiscenza della madeleine
Anche le sei pagine successive costituiscono un episodio, o tema, completo che in realtà serve a introdurre la parte narrativa su Combray. Questo episodio, che potrebbe essere intitolato «Il miracolo dell’infuso di fiori di tiglio», è la famosa reminiscenza della madeleine. Inizia con un riassunto metaforico del primo tema, quello del momento di andare a letto.
«Succedeva così che, per lungo tempo dopo di allora, giacendo sveglio di notte nel letto e richiamando alla mente ricordi di Combray, non riuscissi a vederne altro che quella specie di spicchio luminoso, nettamente definito contro uno sfondo di tenebre indistinte, simile ai triangoli di luce che l’accensione di un bengala o di un’insegna elettrica illumina e seziona su un edificio le cui altre parti rimangono immerse nel buio: alla base più ampia dello spicchio c’erano il salottino, la sala da pranzo, il fremito ansioso del buio sentiero lungo il quale sarebbe giunto M. Swann, ignaro artefice dei miei patimenti, il vestibolo che avrei attraversato diretto al primo gradino della scala, così ardua da salire, che costituiva, separata dal resto, il tronco via via più assottigliato di quella piramide irregolare; e, all’apice, la mia camera da letto, col breve corridoio attraverso la cui porta a vetri sarebbe entrata la mamma…».
È importante capire che in quel momento, nel momento stesso in cui quei ricordi vengono messi assieme, i} narratore non si rende conto della loro importanza.
«È fatica vana cercare di evocare [il passato]: tutti gli sforzi del nostro intelletto si rivelano inesorabilmente inutili. Esso è nascosto al di fuori e al di là della portata dell’intelletto, in qualche oggetto materiale (nella sensazione che quell’oggetto materiale ci comunica) insospettato; oggetto nel quale soltanto il caso ci consentirà o meno di imbatterci prima di morire».
È solo durante l’ultimo ricevimento, nel volume conclusivo dell’opera che il narratore, ormai uomo maturo di cinquant’anni, riceve in rapida successione tre forti emozioni, tre rivelazioni (ciò che i critici odierni chiamanoun’epifania), le sensazioni del presente associate a ricordi del passato: l’acciottolato sconnesso, il tintinnio di un cucchiaio, la rigidità di un tovagliolo. E per la prima volta comprende l’importanza artistica di questa esperienza.
Nel corso della vita il narratore aveva provato in più di un’occasione emozioni simili, ma in quei momenti non ne aveva riconosciuto l’importanza. La prima volta in cui ne prende coscienza è quella della madeleine. Quando era già sulla trentina, molto tempo dopo il periodo trascorso a Combray da bambino:
«un giorno d’inverno rientrai a casa e mia madre, vedendomi infreddolito, mi propose di bere, contrariamente alle mie abitudini, un po’di tè. Sulle prime rifiutai, ma poi, non so perché, ci ripensai. Lei mandò ad acquistare uno di quei dolcetti corti e paffuti, chiamati petites madeleines, che paiono essere stati modellati nella valva scanalata di una capasanta. E subito, meccanicamente, prostrato da una giornata tediosa e dalla prospettiva di un domani malinconico, portai alle labbra una cucchiaiata di tè nel quale avevo inzuppato un pezzetto di madeleine. Non appena il sorso misto a briciole del dolce toccò il palato, trasalii, attento a qualcosa di straordinario che avveniva dentro di me. Un piacere delizioso mi aveva invaso, nitido, isolato, senza che sapessi definirne l’origine. A un tratto mi aveva reso indifferenti le vicissitudini della vita, innocui i suoi disastri, illusoria la sua brevità; quella sensazione aveva su di me lo stesso effetto che ha l’amore, mi colmava di un’essenza preziosa: o meglio, l’essenza non era dentro di me, quell’essenza ero io. Non mi sentivo più mediocre, casuale, mortale. Da dove mi veniva quella gioia travolgente? Capivo che era collegata al gusto del tè e del dolce ma, trascendendo infinitamente quei sapori, non poteva essere della stessa natura. Da dove proveniva? Cosa significava? Come afferrarla e definirla?».
Nei bocconi successivi l’incanto si affievolisce. Marcel depone la tazza e costringe la mente ad analizzare la sensazione fino a stancarsi. Dopo essersi riposato un poco, riprende la concentrazione con tutte le forze.
«Colloco davanti alla mente il gusto ancora recente di quel primo boccone, e sento qualcosa dentro di me che sussulta, che vorrebbe salire dal luogo in cui è riposto, qualcosa che si è disancorato, a grande profondità; non so cosa sia, ma ascende lentamente; avverto la resistenza che incontra e odo l’eco confusa dei grandi spazi che attraversa».
C’è poi un ulteriore grande sforzo per rintracciare con chiarezza, partendo dalla sensazione del gusto, il ricordo visivo dell’occasione che nel passato aveva dato origine a quell’esperienza.
«E tutt’a un tratto appare il ricordo. Il gusto era quello del pezzettino di madeleine che la domenica mattina, a Combray (dato che quelle mattine non uscivo di casa prima dell’ora della messa), quando andavo ad augurarle il buongiorno nella sua camera da letto, la zia Léonie mi dava dopo averlo intinto nella sua tazza di tè o di infuso di fiori di tiglio…
E, una volta riconosciuto il gusto del pezzetto di madeleine intinto nell’infuso di fiori di tiglio che la zia era solita darmi (nonostante allora non comprendessi la ragione per cui quel ricordo mi rendeva tanto felice, e dovessi rimandarne a molto tempo dopo la scoperta), immediatamente la vecchia casa grigia sulla strada, in cui si trovava la sua camera, si materializzò come uno scenario teatrale, affiggendosi al piccolo padiglione che si apriva sul giardino …E come quel gioco con cui si dilettano i giapponesi, di buttare in una ciotola di porcellana piena d’acqua dei pezzettini di carta fino a quel momento informi, i quali, non appena immersi, si distendono e prendono forma, si colorano, si differenziano, diventano fiori e case, personaggi definiti e riconoscibili, così in quel momento tutti i fiori del nostro giardino e del parco di M. Swann, e le ninfee della Vivonne e la brava gente del paese e le loro piccole abitazioni e la chiesa e tutta Combray e dintorni, tutto questo, prendendo forma e consistenza uscì, città e giardini, dalla tazza di tè».
Con questo si conclude il secondo tema e la magica introduzione alla parte su Combray del volume. Tuttavia, per gli scopi più ampi dell’opera nel suo insieme, vi invito a prestare attenzione all’ammissione «nonostante allora non comprendessi la ragione per cui quel ricordo mi rendeva tanto felice, e dovessi rimandarne a molto tempo dopo la scoperta».
Nel romanzo, di quando in quando, troveremo altre rimembranze del passato che renderanno felice Marcel, ma la cui importanza egli non comprenderà fino al momento in cui, in modo assai singolare, nell’ultimo volume la serie di forti emozioni subìte dai suoi sensi si fonderà ai ricordi in un momento di straordinaria illuminazione e, con esultanza — ripeto-, egli comprenderà l’importanza artistica della sua esperienza e potrà quindi iniziare a scrivere la grande narrazione di Alla ricerca del tempo perduto.
La zia Léonie e Françoise
La parte intitolata «Combray» si trova in una sezione del libro dedicata alla zia Léonie: la sua camera da letto il rapporto con la cuoca Françoise, l’interesse alla vita della
cittadina alla quale non può partecipare fisicamente essendo invalida. Sono pagine di facile lettura. Notate il metodo di Proust: per centocinquanta pagine prima della sua morte accidentale, la zia Léonie è il centro della tela i cui fili si irradiano fino al giardino, alla strada, alla chiesa, alle passeggiate attorno a Combray, e di quando in quando ritornano alla sua camera.
Lasciata la zia a pettegolare con Françoise, Marcel si reca a messa con i genitori e segue la famosa descrizione della chiesa di Saint-Hilaire di Combray, con i suoi riflessi iridescenti, le sue immagini fantastiche di vetro e pietra. La prima volta che viene fatto il nome dei Guermantes, quella famiglia romanticamente nobile emerge dai colori all’interno della chiesa.
«Due arazzi tessuti ad alto liccio rappresentavano l’incoronazione di Ester (in cui, secondo la tradizione, il tessitore aveva dato ad Assuero i lineamenti di un re Francia e a Ester quelli di una dama dei Guermantes, di cui il re era l’amante); i colori, sfumando l’uno nell’altro, donavano maggiore espressività, risalto, luminosità alle immagini».
È superfluo ripetere che, dato che Proust aveva inventato l’intera famiglia, non poteva specificare di quale re si trattasse. Visitiamo l’interno della chiesa e poi di nuovo l’esterno; e a questo punto ha inizio il delizioso tema del campanile, campanile che si vede da qualunque punto, «con Ia sua forma indimenticabile incisa su un orizzonte entro il quale Combray ancora non appariva», come quando ci si avvicinava in treno.
«E durante una delle passeggiate più lunghe che facevamo da Combray, incontravamo un punto in cui la strada stretta sfociava tutt’a un tratto su una pianura immensa delimitata all’orizzonte da tratti di boschi sui quali svettava solitaria l’esile punta del campanile di Saint-Hilaire, così aguzza, così rosa da sembrare meramente scalfita sul cielo dall’unghia di un pittore desideroso di dare a quel paesaggio, a quel quadro fatto di sola natura: questo piccolo tocco d’arte, questa unica indicazione di presenza umana».
La descrizione merita di essere esaminata attentamente. C’è un’intensa vibrazione poetica in tutto il brano, nella guglia rosata che si erge sui tetti accostati alla rinfusa, una specie di ago indicatore per una serie di rimembranze, il punto esclamativo di teneri ricordi.
Una semplice transizione ci conduce a un altro personaggio. Siamo stati in chiesa, siamo tornando a casa, e incontriamo spesso M. Legrandm, un ingegnere civile che trascorre il fine settimana nella sua abitazione di Combray. Oltre a essere ingegnere civile, è anche un letterato e, come diventerà via via evidente nel corso del libro, è l’eseplare perfetto dello snob plebeo.
Rientra a casa, troviamo di nuovo la zia Léonie la quale ha una visita, una zitella energica e vivace benché sorda, Eulalie. Ci apprestiamo a pranzare. Le doti culinarie di Françoise sono probabilmente giustapposte ai quadrifogli scolpiti sui portici delle cattedrali del Milleduecento. In altre parole, il campanile e ancora presente e si profila sopra il cibo ricercato. Notate la crema al cioccolato. Le papille gustative hanno un ruolo molto poetico nel metodo proustiano di ricostruire il passato: la crema al cioccolato era
«leggera ed evanescente come un brano musicale celebrativo nel quale [Françoise] aveva profuso tutto il suo talento … lasciarne anche un nonnulla nel piatto da portata sarebbe stato scortese quanto alzarsi e uscire da una sala da concerto prima della fine del “pezzo”, e sotto gli occhi stessi del compositore».
Nelle pagine successive si affronta un tema importante, che conduce a una delle principali figure femminili del libro, colei che più avanti conosceremo come Odette Swann, moglie di Swann, ma che qui compare come un anonimo ricordo precedente di Marcel: la signora vestita di rosa.
Ecco come fa la sua comparsa: un tempo uno zio, lo zio Adolphe, viveva nella stessa loro casa di Combray, ma adesso non vi abita più. Da ragazzo, l’autore andava a trovarlo a Parigi e gli piaceva parlare di teatro con lui. Saltano fuori nomi di grandi attrici e tra questi quello di un personaggio inventato, Berma.
A quanto pare, lo zio Adolphe era un gaudente, e in una circostanza piuttosto imbarazzante Marcel incontra a casa sua una giovane donna vestita di seta rosa, una cocotte, una donna di facili costumi, il cui amore può essere comperato con un diamante o una perla. Questa è l’affascinante signora che diventerà la moglie di Swann, ma la sua identità è un segreto che non viene svelato al lettore.
Ritorniamo a Combray e alla zia Léonie la quale, come una specie di divinità domestica, domina per intero questa parte del libro. È invalida, alquanto grottesca ma anche molto patetica, e, seppure isolata dalla vita a causa della malattia, è curiosissima di ogni minimo pettegolezzo di Combray. Per certi aspetti, è una specie di parodia, un’ombra grottesca dello stesso Marcel nella veste di autore malato che tesse la tela per catturarvi la vita che ronza attorno a lui.
Una domestica incinta compare per un attimo ed è paragonata a una figura allegorica di Giotto, proprio come Mme de Guermantes appariva nell’arazzo della chiesa. Merita notare che, in tutta l’opera, il narratore o Swann spesso mettono in relazione l’aspetto fisico di qualche personaggio coni dipinti di famosi pittori antichi, in buona parte appartenenti alla scuola fiorentina. Il ricorso a questa tecnica ha due motivi, uno principale e uno secondario. Il principale è, ovviamente, che per Proust l’arte era la realtà essenziale della vita.
L’altro è più personale: nel descrivere giovani uomini, egli cela sotto la maschera di noti dipinti il piacere intenso che gli procurava la bellezza maschile· e nel descrivere giovani donne, celava sotto la stessa maschera la sua indifferenza sessuale per le donne e l’incapacità di descriverne il fascino. Ma, fino a questo punto, il fatto che in Proust la realtà sia una maschera non dovrebbe più turbarci.
vita. L’altro è più personale: nel descrivere giovani uomini, egli celava sotto la maschera di noti dipinti il piacere intenso che gli procurava la bellezza maschile; e nel descrivere giovani donne, celava sotto la stessa maschera la sua indifferenza sessuale per le donne e l’incapacità di descriverne il fascino. Ma, giunti a questo punto, il fatto che in Proust la realtà sia una maschera non dovrebbe più turbarci.
Segue un afoso pomeriggio estivo, una vera e propria concentrazione di colore e calura estivi attorno a un giardino e a un libro; notate come il libro si fonde con ciò che circonda Marcel, il lettore. Ricordate che, pur essendo trascorsi trentacinque anni, Marcel continua incessantemente a cercare nuove vie per ricostruire quella cittadina dei primi anni dell’adolescenza.
Come in una specie di rievocazione storica, dei soldati sfilano dietro il giardino, e subito dopo il tema della lettura serve a introdurre l’autore di un libro, che Proust chiama Bergotte. Questo personaggio ha alcune affinità con Anatole France — uno scrittore realmente esistente che sarà citato a parte — ma tutto sommato Bergotte è un’invenzione (la sua morte è descritta in modo superbo nelle pagine di un volume successivo).
Incontriamo di nuovo Swann, e troviamo un primo accenno alla figlia Gilberte, di cui Marcel in seguito si innamorerà, la quale è collegata con Bergotte, amico del padre, che le illustra le bellezze di una cattedrale. Marcel è colpito dal fatto che il suo autore prediletto faccia da guida a una ragazzina negli studi e negli interessi: questa è una di quelle romantiche proiezioni di relazioni in cui si raffigurano tanti personaggi di Proust.
Entra in scena un amico di Marcel, un giovanotto di nome Bloch, individuo alquanto sussiegoso ed eccessivo, nel quale si combinano cultura, snobismo e un temperamento ipersensibile; e con lui compare il tema dell’intolleranza razziale.
Swann è ebreo, come lo è Bloch, e anche Proust per parte di madre; ne consegue che Proust era molto preoccupato delle tendenze antisemite presenti negli ambienti borghesi e aristocratici del suo tempo, tendenze che storicamente culminarono nel caso Dreyfus, l’avvenimento politico più importante di cui si tratterà nei volumi successivi.
Torniamo alla zia Léonie, che riceve la visita di un prete erudito. Si affaccia di nuovo il tema del campanile e, come scandito da rintocchi d’orologio, risuona quello di Eulalie, Françoise, e della domestica incinta man mano che si chiariscono e definiscono la mentalità di ciascuna e i loro rapporti reciproci. Scopriamo che Marcel arriva a origliare il sogno della zia — un fatto molto singolare negli annali della letteratura; origliare è certamente uno dei più antichi stratagemmi usati in letteratura, ma qui l’autore lo porta ai limiti estremi.
Il sabato si pranza prima. Proust dà molta importanza alle piccole tradizioni familiari, quegli schemi multiformi di abitudini domestiche che vivacemente distinguono una famiglia dall’altra. Poi, in alcune pagine successive inizia il bellissimo tema dei fiori di biancospino che verrà sviluppato maggiormente in seguito. Ci troviamo di nuovo in chiesa, con l’altare adorno di fiori
«resi ancor più belli dal contorno smerlato delle foglie scure, sulle quali erano sparsi a profusione, come sopra lo strascico di un abito da sposa, mazzolini di boccioli di un candore abbagliante. Pur non osando guardarli se non attraverso le dita della mano, sentivo che quella disposizione elegante era composta di cose vive, e che la natura stessa, ritagliando la frastagliatura del fogliame e aggiungendo l’ornamento finale di quei nivei boccioli, aveva reso la decorazione degna sia del giubilo dei convenuti che della solennità spirituale. Sull’altare, un po’più in alto, si aprivano qua e là con grazia spontanea delle corolle che trattenevano con noncuranza, a mo’ di ultimo, vaporoso ornamento, il fascio di stami, sottili come fili della Vergine, che velavano il fiore stesso di una nebbiolina bianca, e facendovi scorrere lo sguardo, cercando di imitare, nel mio intimo, quel loro modo di fiorire, lo immaginavo come un movimento del capo rapido e impulsivo, con un’occhiata civettuola delle pupille contratte, fatto da una ragazzina vestita di bianco, svagata e vivace».
In chiesa incontriamo un certo M. Vinteuil. Nella cittadina provinciale di Combray tutti lo considerano un tipo piuttosto strambo che si diletta di musica; né Swann né il giovane Marcel si rendono conto che la sua musica gode di enorme fama a Parigi. Inizia così il tema importante della musica.
Come già detto, Proust è vivamente interessato alle varie maschere sotto le quali una persona appare alle altre: pertanto, Swann non è che il figlio di un operatore di borsa per la famiglia di Marcel, mentre per i Guermantes egli è un personaggio affascinante e romantico dell’alta società parigina.
Nel corso di tutta quest’opera scintillante troviamo numerosi altri esempi di valori variabili nei rapporti umani. Oltre al tema di una nota musicale ricorrente, il «piccolo tema», come vedremo in seguito, Vinteuil introduce anche quello dei rapporti omosessuali, che viene sviluppato nel corso dell’intero racconto, gettando nuova luce su alcuni personaggi. Nel caso specifico, è la figlia omosessuale di Vinteuil a essere coinvolta.
Marcel è uno Sherlock Holmes straordinario e anche fortunatissimo nel cogliere accenni di gesti e frammenti di chiacchiere che vede o sente. (Fra parentesi, i primi personaggi omosessuali della letteratura moderna sono descritti in Anna Karenina, e precisamente nel XIX capitolo della seconda parte, quando Vronskij fa colazione alla mensa del reggimento. In modo conciso ma vivido sono descritti due ufficiali, e la descrizione non lascia dubbi sulla relazione che li unisce).
La casa di Vinteuil sorge in un avvallamento circondato dai ripidi pendii di una collina e su quella scarpata, nascosto tra gli arbusti che la coprono, il narratore, fermo a pochi passi dalla finestra del salotto, vede il vecchio Vinteuil che sistema un foglio di musica- la propria musica — in modo da attirarvi lo sguardo dei genitori di Marcel, che si stanno recando a fargli visita, ma all’ultimo momento lo ritira bruscamente per non far credere agli ospiti di essere lieto di vederli soltanto perché questo gli darebbe modo di suonare per loro le proprie composizioni.
Un’ottantina di pagine dopo il narratore è di nuovo nascosto fra gli arbusti e di nuovo osserva la stessa finestra. A quel punto il vecchio Vinteuil è già morto e la figlia è in lutto stretto; il narratore la vede appoggiare la foto del padre sopra un tavolino, ripetendo il gesto con cui il genitore aveva preparato il foglio di musica. Ma l’intenzione della figlia è malvagia, sadica: nell’accingersi al rapporto sessuale, l’amica lesbica insulterà la fotografia. Tra l’altro, la scena non regge molto dal punto di vista delle azioni che seguiranno, e la faccenda dello spiare ne accresce la goffaggine.
Il suo scopo, però, è quello di dare il via alla lunga serie di rivelazioni omosessuali e rivalutazioni di personaggi che occupano tante pagine dei volumi successivi e determinano tanti cambiamenti nell’immagine di molti di loro. Inoltre, più avanti, la presumibile relazione di Albertine con la figlia di Vinteuil diventerà per Marcel una specie di fissazione gelosa.
Ma ritorniamo al tragitto di ritorno dalla chiesa a casa e alla zia Léonie, il ragno al centro della tela, e alla preparazione del pranzo da parte di Françoise, in cui si rivela la sua grossolana crudeltà nei confronti sia dei polli che delle persone. Dopo un po’riappare Legrandin: filisteo e snob, servile adulatore di una duchessa, non desidera che lei veda i suoi modesti amici, la famiglia del narratore. È interessante notare quanto falsi e pomposi suonino i suoi discorsi sulle bellezze di un paesaggio.
Il tema delle passeggiate
Il tema delle due passeggiate che la famiglia fa nei dintorni di Combray entra ora nella fase culminante. Una passeggiata andava in direzione di Méséglise, ovvero «dalla parte di Swann», perché costeggiava la proprietà di Swann, Tansonville; l’altra andava «dalla parte dei Guermantes», perché conduceva alla proprietà dei duchi di Guermantes. E durante la passeggiata dalla parte di Swann che il tema del biancospino, il tema dell’amore, e quello della figlioletta di Swann, Gilberte, con uniscono in un bellissimo sprazzo di arte pittorica.
«Trovai tutto il sentiero vibrante della fragranza dei biancospini. La siepe somigliava a una fuga di cappelle le cui pareti scomparivano sotto la profusione dei fiori ammonticchiati sugli altari [reminiscenza della prima volta in cui è stato introdotto il tema del biancospino nel chiesa]; sotto, il sole proiettava sul terreno un quadrato di luce, come filtrata da un vetro istoriato; il profumo che i fiori riversavano su di me era così oleoso, e così circoscritto, quasi mi trovassi davanti all’altar della Vergine.
«Ma avevo un bell’attardarmi davanti ai biancospini, a inalare, a cercare di imprimere nella mente, che non sapeva bene cosa farne, a perdere, al fine di poterlo ritrovare, il loro profumo invisibile e immutabile, a entrare in sintonia con il ritmo che distribuiva i fiori qua e là con giovanile allegrezza, e a intervalli imprevisti come certi intervalli musicali; essi mi offrivano senza fine lo stesso incanto, con una profusione inesauribile, ma senza permettermi di penetrarlo più a fondo, come certe melodie che si possono suonare cento volte di seguito senza avvicinarsi di più al loro segreto. Distolsi per un attimo lo sguardo da loro, per potervi ritornare con rinnovata energia».
Ma riguardandoli, i biancospini non gli forniscono alcun chiarimento (perché Marce! comprenderà appieno l’importanza di questa esperienza solo in seguito all’illuminazione che gli verrà nell’ultimo volume) ma l’estasi sarà ancor più intensa quando il nonno gli indicherà un fiore particolare.
«Edera di fatto un biancospino, ma rosa, ancor più bello di quello bianco. Anch’esso era vestito a festa … ma abbigliato in modo ancor più sfarzoso, perché i fiori attaccati al ramo, l’uno sull’altro, così da non lasciare alcun punto privo d’ornamento, [primo paragone:] come le nappe che abbelliscono il bastone di una pastorella rococò, erano “colorati”, e quindi di qualità superiore, secondo gli standard estetici di Combray, rispetto a quelli “semplici”, [secondo paragone:] basato il giudizio sulla scala dei prezzi dell’emporio principale sulla piazza, o di Camus, dove i biscotti più costosi erano quelli con lo zucchero rosa. Io stesso [terzo paragone:] preferivo il formaggio con la pasta rosa, quello sul quale mi era stato permesso schiacciare delle fragole. E quei fiori [ecco la fusione di tutti i sensi:] avevano scelto precisamente il colore di deliziose cose commestibili, o del delicato abbellimento di un abito per una grande festa, colori che, essendo ovvio il motivo della loro superiorità, sono quelli la cui bellezza è più evidente agli occhi dei bambini … Sui rami più alti, come tanti minuscoli rosai ad alberello con i vasi nascosti nel rivestimento di carta merlettata e gli esili tronchi che, nelle grandi festività, formano una foresta sull’altare, si aprivano mille boccioli di colore più chiaro, i quali, schiudendosi, lasciavano intravedere, come in fondo a una coppa di marmo rosa, una sfumatura rosso sangue, svelando, ancor più dei fiori sbocciati, la caratteristica speciale e irresistibile del biancospino in qualunque posto germogli, in qualunque posto sbocci, può germogliare e sbocciare solo con i fiori rosa».
Arriviamo quindi a Gilberte, che nel pensiero di Marcel è sempre associata alla magnificenza dei boccioli di biancospino.
«Una ragazzina di un biondo rossiccio, che aveva l’aria di tornare da una passeggiata e teneva in mano una vanga da giardiniere, ci guardava, sollevando verso di noi il viso spruzzato di efelidi rosee…
La guardai, sulle prime con quello sguardo che non è solo un portavoce dagli occhi, ma alla cui finestra tutti i sensi si affacciano, impietriti e ansiosi; quello sguardo che vorrebbe raggiungere, toccare, catturare, portare via esultante il corpo a cui è diretto, e col corpo l’anima … uno sguardo inconsapevolmente supplichevole, che voleva costringerla a notarmi, a fare conoscenza con me. Lei gettò un’occhiata di sbieco davanti a sé, per valutare il nonno e mio padre, e senza dubbio si fece l’idea che eravamo ridicoli, perché si girò con aria non interessata e sdegnosa, arretrò, come per risparmiare al proprio viso di trovarsi nel loro campo visivo; e quando essi, continuando a camminare senza averla notata, mi avevano superato, lei lasciò scorrere lo sguardo lungo tutto lo spazio che ci separava, nella mia direzione, senza alcuna espressione particolare, senza avere l’aria di vedermi, ma con un’intensità, un sorrisetto dissimulato che non sapevo interpretare sulla base degli insegnamenti di buona educazione che avevo ricevuto, se non come dimostrazione di enorme ripugnanza; e contemporaneamente, con la mano abbozzò nell’aria un gesto sconveniente, al quale, quando era indirizzato in pubblico a una persona che non si conosceva, il piccolo dizionario di buona creanza che portavo dentro di me attribuiva un solo significato, quello di un’insolenza intenzionale.
“Gilberte, vieni qui; cosa stai facendo?” gridò con voce penetrante e autoritaria una signora in bianco, che fino a quel momento non avevo visto e a breve distanza dalla quale un signore con un abito di lino grezzo, che mi era ugualmente sconosciuto, mi fissava con occhi che gli uscivano dalle orbite; la bambina smise di colpo di sorridere e, afferrata la vanga, se ne andò senza girarsi verso di me, con aria docile, inscrutabile e sorniona.
E fu così che il nome di Gilberte mi giunse all’orecchio, concessomi come un talismano … col mistero della sua vita, che quelle sillabe designavano agli esseri fortunati che vivevano e camminavano e viaggiavano con lei; dischiudendo, sotto l’arco di biancospino rosa che si apriva all’altezza della mia spalla, la quintessenza della loro familiarità — così intensamente dolorosa per me — con lei, e con tutto il mondo sconosciuto della sua esistenza, del quale non sarei mai entrato a far parte».
Ovviamente, Marcel finirà con l’entrare in quel mondo, non solo quello di Odette ma anche quello del signore vestito di lino grezzo, Charlus, che in seguito si evolverà nel più mirabile ritratto di omosessuale della letteratura. Tuttavia, nella sua innocenza, la famiglia di Marcel crede che egli sia l’amante di Mme Swann e la disgusta il fatto che la bambina debba vivere in una tale atmosfera.
Solo molto più tardi Gilberte confesserà a Marcel di essersi sentita offesa dalla sua immobilità, quando la guardava senza fa e neppure un gesto per iniziare un’amicizia alla quale lei avrebbe corrisposto.
Da: Vladimir Nabokov, Lezioni di letteratura, Milano, Adelphi, 2018, pp. 314–332