Omaggio a Roland Barthes a 40 anni dalla scomparsa
Intervista sul cinema e il linguaggio cinematografico
a cura di Michel Delahaye e Jacques Rivette
da: Sentieri Selvaggi, n. 8, gennaio/febbraio 2021, bimestrale di cinema e…tutto il resto: cultura, tecnologie e narrazioni del 21° secolo, pp. 54–63
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Di seguito pubblichiamo una lunga conversazione apparsa sui Cahiers du cinéma n.147, nel settembre del 1963 e poi tradotta in italiano da Piero Anchisi per il primo numero di Cinema & Film (Inverno 1966–67).
Numerosi gli argomenti: la possibilità di individuare le caratteristiche di un “linguaggio cinematografico”, le differenze tra i modelli retorici della metafora e della metonimia, l’approccio semiologico ai film, la sospensione del senso. Alla fine, emerge la visione politica di un cinema che sappia di nuovo interrogarsi sui rapporti umani.
La rivista Cinema & Film introduce nel modo seguente la versione italiana dell’intervista di Roland Barthes ai Cahiers, revisionata dallo stesso autore.
Apriamo qui una serie di interviste con alcuni testimoni chiave della cultura contemporanea.
Il cinema è diventato un fatto di cultura allo stesso modo degli altri, e tutte le arti, tutte le correnti di pensiero, devono farvi riferimento, come il cinema ad esse. È un fenomeno d’informazione reciproca, talvolta evidente (non è sempre il migliore dei casi), spesso diffuso, che noi vorremmo, tra le altre cose, provare ad affrontare in questa conversazione.
Essendo il cinema sempre presente, tanto sullo sfondo, tanto in primo piano, ne uscirà, noi speriamo di vederlo, collocato in una prospettiva più vasta, che il conservatorismo o l’idolatria (che hanno anch’essi il loro compito da portare avanti) rischiano a volte di mettere in ombra.
Roland Barthes, autore de Il Grado zero della scrittura, di Miti d’oggi, di un Michelet, di Sur Racine, come anche d’innumerevoli e davvero eccitanti articoli (sparsi fino ad oggi in Théâtre Populaire, Arguments, La Revue de la Sociologie Française, Les Lettres Nouvelles, etc. ma di cui ci auspichiamo una prossima raccolta), primo decifratore e commentatore di Brecht, è il primo dei nostri ospiti d’onore.
Noi lo ringraziamo per la disponibilità nell’aver riletto con attenzione il testo di questa conversazione.
Come integra il cinema nella sua vita? Lo considera da spettatore o da spettatore-critico?
Bisognerebbe forse partire da come siamo abituati al cinema, dal modo in cui il cinema entra nella nostra vita. Non vado molto spesso al cinema, appena una volta alla settimana. Quanto alla scelta dei film, essa non è mai, in fondo, del tutto libera; senza dubbio preferirei andare al cinema da solo, dato che per me il cinema è un’attività interamente proiettiva; ma per impegni di vita sociale capita quasi sempre di andare al cinema in due o più ancora, e a partire da quel momento la scelta diventa, lo si voglia o no, “imbarazzata”. Se scegliessi in modo assolutamente spontaneo, bisognerebbe che la mia scelta avesse un carattere d’improvvisazione totale, liberata da ogni specie d’imperativo culturale o cripto-culturale, guidata dalle forze più oscure di me stesso. Ciò che provoca problemi nella vita dell’abitudinario di cinema è l’esistenza più o meno diffusa di una specie di morale dei film da vedere, di imperativi, d’origine strettamente culturale, abbastanza forti nel caso in cui si appartenga a un ambiente culturale (non fosse altro perché ci si deve mettere contro per essere liberi).
Qualche volta c’è del buono in questo, come in tutti gli snobismi. Si è sempre un po’ tentati di dialogare con questa specie di legge del gusto cinematografico, probabilmente tanto più forte quanto più questa cultura cinematografica è di fresca data. Il cinema non è più qualcosa di primitivo; vi si distinguono adesso fenomeni di classicismo, d’accademismo e d’avanguardia, e ci si ritrova posti, a causa dell’evoluzione stessa di questa arte, all’interno di un gioco di valori. A tal punto che, quando devo scegliere, i film che “bisogna” vedere entrano in conflitto con l’idea di imprevedibilità, di disponibilità totale che rappresenta ancora il cinema per me, e, in modo più preciso, con dei film che, spontaneamente, vorrei vedere, ma che non sono i film selezionati da questa specie di cultura diffusa in via di formazione.
Che cosa pensa del livello di questa cultura, ancora molto diffusa nel caso del cinema?
È una cultura diffusa perché confusa; voglio dire che c’è al cinema una specie di possibile miscuglio di valori: gli intellettuali si mettono a difendere film di massa e il cinema commerciale può assorbire molto velocemente film d’avanguardia. Questa “acculturazione” è tipica della nostra cultura di massa, ma ha un ritmo differente a seconda dei generi; al cinema, sembra essere molto intensa; in letteratura, la caccia è molto più riservata; non penso sia possibile aderire alla letteratura contemporanea senza certe conoscenze, conoscenze anche tecniche, dato che l’essere della letteratura si è trasferito nella sua tecnica. Insomma, la situazione culturale del cinema è attualmente contraddittoria: mobilita delle tecniche, che determinano l’esigenza di certe conoscenze, e un sentimento di frustrazione se non si posseggono, ma il suo essere non è nella sua tecnica, contrariamente alla letteratura: potete immaginare una letteratura-verità, analoga al cinema-verità? Con il linguaggio è impossibile, la verità è impossibile con il linguaggio.
Tuttavia ci si riferisce costantemente all’idea di un “linguaggio cinematografico”, come se l’esistenza e la definizione di questo linguaggio fossero universalmente ammesse, tanto se si usa il termine linguaggio in un senso puramente retorico (ad esempio le convenzioni stilistiche attribuite all’angolazione dall’alto o al movimento di macchina), quanto se lo si usa in un senso molto generale, come rapporto di un significante a un significato.
Per quanto mi riguarda, consumo il cinema in modo puramente proiettivo, e non da analista, probabilmente perché non sono riuscito a integrarlo nella sfera del linguaggio.
Non c’è forse, se non impossibilità, almeno difficoltà del cinema ad entrare nella sfera del linguaggio?
Possiamo cercare di situare questa difficoltà. Fino ad oggi, il modello di tutti i linguaggi è sembrato essere la parola, il linguaggio articolato. Questo linguaggio articolato è un codice, utilizza un sistema di segni non-analogici (e che quindi possono essere, e sono, discontinui); al contrario, il cinema a prima vista si presenta come un’espressione analogica della realtà (e, per giunta, continua); e un’espressione analogica e continua non si sa da che parte prenderla per introdurvi, innescarvi un’analisi di tipo linguistico; per esempio, come suddividere (semanticamente), come far variare il senso di un film, di un frammento di film? Dunque, se la critica volesse trattare il cinema come un linguaggio, abbandonando l’inflazione metaforica del termine, dovrebbe innanzitutto discernere se ci sono nel continuo filmico degli elementi non analogici, o di un’analogia deformata, o trasposta, o codificata, provvisti di una sistematizzazione tale da poter esser trattati come frammenti di un linguaggio; questi sono problemi di ricerca concreta che non sono stati ancora affrontati, che potrebbero esserlo dapprima sulla base di testi filmici, per vedere quindi, se possibile, di stabilire una semantica, anche parziale (senza dubbio parziale), del film. Si tratterebbe, applicando metodi strutturalisti, di isolare degli elementi filmici, di vedere come vengono capiti, a quale significato corrispondono a seconda dei casi e, facendoli variare, vedere in quale momento la variazione del significante comporta una variazione del significato. Si sarebbero allora veramente isolate nel film delle unità linguistiche, da cui si potrebbero successivamente costruire le “classi”, i sistemi, le declinazioni.
Quello che dice lei non ricalca certe esperienze fatte alla fine del muto, su un piano più empirico, soprattutto dai sovietici, e non molto concludenti, salvo quando questi elementi di linguaggio erano presi da un Ejzenstejn nella prospettiva di una poetica? Ma quando queste ricerche sono rimaste sul piano della pura retorica, come in Pudovkin, sono state subito contraddette: nel cinema accade come se, nel momento in cui viene proposto un rapporto semiologico, questo debba immediatamente essere contraddetto.
In ogni modo, se si arrivasse a stabilire una semantica parziale su alcuni punti precisi (vale a dire per dei significati precisi), diventerebbe difficile spiegare perché tutto il film non è costruito come una giustapposizione di elementi discontinui; ci si scontrerebbe con un secondo problema, quello del discontinuo dei segni — o del continuo dell’espressione.
Ma sarà possibile arrivare a scoprire queste unità linguistiche, a saperne di più, dato che esse non sono fatte per essere percepite in quanto tali? Lo spettatore è impregnato dal significato a un altro livello, in modo diverso dal lettore.
Senza dubbio abbiamo una visione troppo ristretta dei fenomeni semantici, e sono quelle che potremmo chiamare le grandi unità significanti le più difficili ad essere comprese; la stessa difficoltà si trova nella linguistica, dato che la stilistica non è eccessivamente avanzata (ci sono stilistiche psicologiche, ma non ancora strutturali). Probabilmente, anche l’espressione cinematografica appartiene all’ordine delle grandi unità significanti, che corrispondono a significati globali, diffusi, latenti, non appartenenti alla stessa categoria dei significati isolati e discontinui del linguaggio articolato. Questa opposizione fra una microsemantica e una macrosemantica potrebbe costituire forse un altro modo di considerare il cinema come linguaggio, abbandonando il piano della “denotazione” (abbiamo appena visto che è molto difficile ricollegare ad esso le unità primarie, letterali) per passare al piano della “connotazione”, cioè a quello dei significati globali, diffusi, in qualche modo secondi. Sarebbe opportuno, a questo punto, ispirarsi ai modelli retorici (e non più letteralmente linguistici) isolati da Jakobson, da lui estesi in maniera generale al linguaggio articolato e che lui stesso ha applicato, di sfuggita, al cinema: intendo parlare della metafora e della metonimia. La metafora è il prototipo di tutti i segni che possono essere sostituiti gli uni agli altri per similitudine; la metonimia è il prototipo di tutti i segni il cui senso si sovrappone (“se recouvre”) perché entrano in contiguità, si potrebbe dire in contagio; per esempio, un calendario di cui vengono staccati i fogli è una metafora; si è tentati di dire che al cinema ogni montaggio, cioè ogni continuità significante, è una metonimia e, dato che il cinema è montaggio, che il cinema è un’arte metonimica (almeno per ora).
Ma il montaggio è nello stesso tempo un elemento non circoscrivibile, dato che tutto è montabile, dall’inquadratura di una pistola di sei fotogrammi a un gigantesco movimento di macchina di cinque minuti che comprende trecento persone e una trentina di azioni intrecciate. Questi due piani possono benissimo essere montati l’uno dopo l’altro, senza per questo essere sullo stesso piano…
Credo che sarebbe interessante vedere se il procedimento cinematografico può essere convertito metodologicamente in unità significante; se i procedimenti di elaborazione corrispondono a delle unità di lettura del film. Il sogno di ogni critico è quello di poter definire un’arte in base alla sua tecnica.
Ma i procedimenti sono tutti ambigui; ad esempio, la retorica classica dice che l’inquadratura dall’alto significa dominio; eppure ci sono duecento casi (a dir poco) in cui essa non ha affatto questo senso.
Quest’ambiguità è normale e non è essa a complicare il nostro problema. I significanti sono sempre ambigui; il numero dei significati eccede sempre il numero dei significanti: se non fosse così, non ci sarebbe né letteratura, né arte, né storia, né niente di ciò che fa muovere il mondo. La forza di un significante non è data dalla sua chiarezza, ma dal fatto di essere percepito come significante — direi: qualunque sia il suo senso: non sono le cose a contare, ma il posto delle cose. Il legame del significante col significato ha molta meno importanza dell’organizzazione dei significanti tra loro; l’inquadratura dall’alto ha potuto significare il dominio, ma noi sappiamo che questa retorica è sorpassata proprio perché la sentiamo fondata su un rapporto di analogia fra “plonger” e “dominare”, che ci sembra ingenuo soprattutto oggi in cui una psicologia della “denegazione” ci ha insegnato la possibile esistenza di un rapporto valido fra un contenuto e la forma che sembra il più “naturalmente” contraria ad esso. In questo risveglio del senso provocato dall’inquadratura dall’alto, ciò che importa è il risveglio, non il senso.
Dopo un primo periodo “analogico”, il cinema non sta appunto uscendo da questo secondo periodo dell’anti-analogia mediante un uso meno rigido, non codificato, delle “figure di stile”?
Penso che se i problemi del simbolismo (l’analogia mette infatti in causa il cinema simbolico) perdono la loro chiarezza, la loro acutezza, è soprattutto perché fra le due grandi vie linguistiche indicate da Jakobson, la metafora e la metonimia, il cinema sembra, per il momento, avere scelto la via metonimica o, se preferite, sintagmantica, dato che il sintagma è un frammento esteso, combinato, attualizzato di segni, in una parola un brano di narrazione (“récit”). È sorprendente come, contrariamente alla letteratura del “non succede niente” (il cui prototipo sarebbe L’éducation sentimentale), il cinema, anche quello che non si presenta a prima vista come un cinema di massa, sia un discorso in cui la storia, l’aneddoto, l’argomento (con la sua conseguenza principale, la “suspence”) non è mai assente; neppure il “rocambolesco”, che è la categoria enfatica, caricaturale dell’aneddotica, è incompatibile con l’ottimo cinema. Al cinema “succede qualcosa”, il che è naturalmente in stretto rapporto con la strada metonimica, sintagmatica di cui ho appena parlato. Una “buona storia” è infatti, in termini strutturali, una serie riuscita di “dispatchings” sintagmatici: data una certa situazione (un certo segno), da cosa può essere seguita? Esiste un certo numero di possibilità, ma un numero finito (è su questa finitezza, su questa chiusura dei possibili che si fonda l’analisi strutturale), ed è in questo che la scelta che il regista fa del “segno” seguente è il significante; il senso è infatti una libertà, ma vigilata (dal finito dei possibili); ogni segno (ogni “momento” della narrazione, del film) non può essere seguito che da certi altri segni, da certi altri momenti; questa operazione, che consiste nel prolungare nel discorso, nel sintagma, un segno mediante un altro segno (secondo un numero finito, e a volte ristrettissimo, di possibilità), si chiama “catalisi”; nel caso della parola, ad esempio, non si può catalizzare il segno “cane” se non mediante un piccolo numero di altri segni (abbaia, dorme, mangia, morde, corre, ecc…, ma non cuce, vola, scopa, ecc.); la narrazione, il sintagma cinematografico è sottomesso anche esso a regole di catalisi, che il regista pratica senza dubbio empiricamente, ma che il critico, l’analista, dovrebbe tentare di ritrovare. Infatti ogni catalisi ha la sua parte di responsabilità nel senso finale dell’opera.
L’attitudine del regista, per quanto possiamo giudicare, è quella di avere un’idea più o meno precisa del senso prima, e di ritrovarla più o meno modificata dopo. Durante la realizzazione, è preso quasi interamente da un lavoro che si colloca al di fuori della preoccupazione del senso finale; il regista fabbrica delle piccole cellule successive, guidato da… Da che cosa? È appunto questo che sarebbe interessante determinare.
Non può essere guidato, più o meno coscientemente, che dalla sua ideologia profonda, dal suo partito preso nei confronti del mondo. Il sintagma infatti è responsabile del senso tanto quanto il segno stesso, e quindi il cinema può diventare un’arte metonimica, e non più simbolica, senza perdere niente della sua responsabilità, al contrario. Mi ricordo che Brecht ci aveva suggerito, per la rivista Théâtre populaire, di organizzare degli scambi (epistolari) fra lui e dei giovani autori drammatici francesi; si sarebbe trattato di “giocare” al montaggio di una commedia immaginaria, cioè di una serie di situazioni, come a una partita a scacchi; uno avrebbe proposto una situazione, l’altro avrebbe scelto la situazione successiva, e naturalmente (qui era l’interesse del “gioco”) ogni mossa sarebbe stata discussa in funzione del senso finale, cioè, secondo Brecht, della responsabilità ideologica. Ma autori drammatici francesi non ce ne sono. In ogni caso potete vedere come Brecht, teorico acuto — ed esperto — del “senso”, avesse una coscienza fortissima del problema sintagmatico. Tutto ciò sembra provare la possibilità di scambi fra la linguistica e il cinema, a patto di scegliere una linguistica del sintagma piuttosto che una linguistica del segno.
Forse affrontare il cinema come linguaggio non sarà mai perfettamente possibile; ma è nello stesso tempo necessario per evitare di godere del cinema come di un oggetto privo di senso, un puro oggetto di piacere, di fascino, completamente privato di ogni radice e significato. Il cinema invece, lo si voglia o no, ha sempre un senso; c’è dunque sempre un elemento di linguaggio che agisce…
Certo, l’opera ha sempre un senso; ma è proprio la scienza del senso, che gode attualmente di una espansione straordinaria (per una sorta di snobismo fecondo), a insegnarci paradossalmente che il senso, per così dire, non è racchiuso nel significato. Il rapporto tra significante e significato (cioè il segno) sembra da principio il fondamento stesso di ogni riflessione “semiologica”; ma in seguito si è portati ad avere del “senso” una visione molto più ampia, molto meno centrata sul significato (tutto ciò che abbiamo detto del sintagma va in questa direzione). Questo ampliamento è dovuto senza dubbio alla linguistica strutturale, ma anche a un uomo come Lévi-Strauss, che ha mostrato come il senso (o, più esattamente, il significante) fosse la più alta categoria dell’intellegibile. In fondo, è l’“intellegibile” umano che ci interessa. Come fa il cinema a manifestare o a ritrovare le categorie, le funzioni, la struttura dell’intellegibile elaborato dalla nostra storia, dalla nostra società? A questa domanda potrebbe rispondere una “semiologia” del cinema.
È senza dubbio impossibile fare qualcosa d’inintellegibile.
Assolutamente. Tutto ha un senso, anche il non senso (che ha almeno il senso secondo di essere un non senso). Il senso è una tale fatalità per l’uomo che l’arte, in quanto libertà, sembra adoperarsi, soprattutto oggi, non a “fare” del senso ma, al contrario, a “sospenderlo”; non a costruire dei sensi ma a non riempirli “esattamente”.
Forse potremmo prendere a questo punto un esempio: nella regia (teatrale) di Brecht, ci sono elementi di linguaggio che non sono, da principio, suscettibili d’esser codificati.
In rapporto a questo problema del senso, il caso di Brecht è molto complicato. Da un lato, ha avuto, come ho detto, una coscienza acuta delle tecniche del senso (posizione, la sua originalissima in rapporto al marxismo, poco sensibile alle responsabilità della forma); conosceva la responsabilità totale dei più umili significanti, come il colore di un costume o la collocazione di un proiettore; si sa quanto fosse affascinato dai teatri orientali, nei quali la significazione è molto codificata (“codifiée”) — sarebbe meglio dire: “codicizzata” (“codée”) — e di conseguenza pochissimo analogica; infine, abbiamo visto con quale minuzia lavorava, e voleva che si lavorasse, alla responsabilità semantica dei “sintagmi” (l’arte epica, da lui predicata, è del resto un’arte fortemente sintagmatica); naturalmente tutta questa tecnica era pensata in funzione di un senso politico. “In funzione di”, ma forse non “in vista di”; ed è qui che tocchiamo il secondo aspetto dell’ambiguità brechtiana; io mi domando se questo senso “impegnato” dell’opera di Brecht non è in fin dei conti, a modo suo, un senso “sospeso”; vi ricorderete certo che la sua teoria drammatica comporta una serie di divisione funzionale della scena e della sala: all’opera il compito di porre degli interrogativi (nei termini evidentemente scelti dall’autore: si tratta di un’arte responsabile), al pubblico quello di trovare le risposte (ciò che Brecht chiama “l’esito” — “issue” -); il senso (nell’accezione positiva del termine) si trasferiva dalla scena alla sala; insomma c’è senz’altro nel teatro di Brecht un senso, un senso fortissimo, ma questo senso è sempre una domanda. Forse ciò spiega perché questo teatro, pur essendo senza dubbio un teatro critico, polemico, impegnato, non è tuttavia un teatro militante.
Questo tentativo può essere esteso al cinema?
È sempre molto difficile e abbastanza inutile trasferire una tecnica (il senso è appunto una tecnica) da un’arte all’altra; non per purismo dei generi, ma perché la struttura dipende dai materiali impiegati; l’immagine spettatoriale non è fatta della stessa materia dell’immagine cinematografica, non si offre nello stesso modo al sezionamento (“découpage”), alla durata, alla percezione; il teatro mi sembra un’arte molto più “grossolana” o, se preferite, più “grossa” del cinema (anche la critica teatrale mi sembra più grossolana della critica cinematografica), dunque più vicina ai compiti diretti, d’ordine polemico, sovversivo, contestatore (lascio da parte il teatro dell’accordo, del conformismo, delle pance piene).
Da qualche anno, lei ha evocato la possibilità di determinare il significato politico d’un film esaminandone, al di là del suo soggetto, l’approccio che lo costituisce in quanto film: essendo il cinema di sinistra caratterizzato, in generale, dalla lucidità, il cinema di destra da un richiamo alla magia…
Ciò che mi domando oggi, è se non esistano arti, per natura o per tecnica, più o meno reazionarie. Io lo penso della letteratura; io non credo che una letteratura di sinistra sia possibile. Una letteratura problematica sì, ovvero una letteratura del senso sospeso; un’arte che richiama delle risposte, ma che non le dà. Credo che la letteratura, nel migliore dei casi, sia questo. Quanto al cinema, ho l’impressione che su questo piano esso sia molto vicino alla letteratura, e che sia, per la sua materia e la sua struttura, molto più preparato del teatro ad una responsabilità davvero particolare delle forme che io ho chiamato tecnica del senso sospeso. Credo che il cinema abbia difficoltà ad offrire dei sensi chiari, e che, allo stato attuale, non deve farlo. I migliori film (a mio parere) sono quelli che meglio sospendono il senso. Sospendere il senso è un’operazione estremamente difficile, che esige a volte grande tecnica ed un’onestà intellettuale totale. Perché ciò vuol dire sbarazzarsi di tutti i sensi parassiti, cosa estremamente difficile.
Ha visto dei film che le hanno trasmesso questa sensazione?
Sì, L’Angelo Sterminatore. Non credo affatto che l’avvertimento di Buñuel all’inizio — “Io, Buñuel, vi dico che il film non ha alcun senso” — sia una civetteria; credo che sia veramente la definizione del film. Ed in questa prospettiva il film è davvero bello: si può vedere come, in ogni momento, il senso è sospeso, senza essere mai, ben inteso, un non-senso. Non si tratta assolutamente d’un film assurdo. È un film che è pieno di senso; pieno di ciò che Lacan chiama la “significanza”. È pieno di significanza ma non ha né un senso né una serie di piccoli sensi. Ed allo stesso tempo è un film che scuote profondamente, che scuote profondamente al di là del dogmatismo, al di là delle dottrine. Normalmente, se la società dei consumatori del film fosse meno alienata, questo film dovrebbe, come si dice volgarmente e giustamente, “far riflettere”. Si potrebbe del resto mostrare, ma ci vorrebbe del tempo, come i sensi che “prendono” in ogni istante, nostro malgrado, sono indirizzati in un “dispatching” estremamente dinamico, estremamente intelligente, verso un senso successivo, che a sua volta non è mai definitivo.
E il movimento del film è il movimento stesso di questo dispatching continuo.
C’è anche, in questo film, una riuscita iniziale che è responsabile della riuscita globale. La storia, l’idea, l’argomento, hanno una nitidezza che dà l’impressione di necessità. Si ha l’impressione che Buñuel non abbia dovuto far altro che tirare il filo. Fino ad oggi non ero mai stato molto buñuelista; ma qui Buñuel ha potuto, inoltre, manifestare tutta la sua metafora (perché Buñuel è sempre stato molto metaforico), tutto il suo arsenale e la sua riserva personale di simboli; tutto è stato inglobato da questa specie di nitidezza sintagmatica, proprio perché il dispatching è fatto, in ogni secondo, esattamente come si dovrebbe.
Del resto, Buñuel ha sempre rivelato la sua metafora con una nitidezza tale, ha sempre saputo rispettare l’importanza di ciò che viene prima e ciò che viene dopo in un tale modo, che era già come isolarla, metterla tra virgolette, dunque andarle oltre o distruggerla.
Purtroppo per gli appassionati ordinari di Buñuel, lui stesso si definisce innanzitutto per la sua metafora, per la “ricchezza” dei suoi simboli. Ma se il cinema moderno ha una direzione è proprio ne L’Angelo Sterminatore che possiamo trovarla.
A proposito di cinema «moderno», lei ha visto “L’Immortale”?
Sì, i miei rapporti (astratti) con Robbe-Grillet mi complicano un po’ le cose. Sono di cattivo umore. Non avrei voluto che facesse cinema. Ebbene, ecco là la metafora… Infatti Robbe-Grillet non uccide del tutto il senso, lui lo nasconde; lui crede che sia sufficiente nascondere il senso per eliminarlo. È più difficile eliminare un senso.
E lui dà sempre più rilievo ad un senso sempre più piatto.
Perché lui non “varia” il senso, non lo sospende. La variazione impone un senso sempre più forte, d’ordine ossessivo. Un numero ridotto di significanti “variati” (nel senso della parola in musica) rinvia allo stesso significato (è la definizione della metafora). Al contrario, in questo famoso Angelo Sterminatore, senza parlare della specie di derisione rivolta alla ripetizione (all’inizio, nelle scene letteralmente riprese), le scene (i frammenti sintagmatici) non costituiscono un susseguirsi immobile (ossessivo, metaforico), ciascuna di esse partecipa alla trasformazione progressiva da una società di festa ad una società di coercizione, esse costruiscono una durata irreversibile.
In più Buñuel ha giocato il gioco della cronologia; la non cronologia è una facilità: è una falsa garanzia della modernità.
E ritorniamo qui a ciò che dicevo all’inizio: è bello perché ha una storia; una storia con un inizio, una fine, una suspense. Attualmente, la modernità appare troppo spesso come un modo per barare con la storia o con la psicologia. Il criterio più immediato di modernità, per un’opera, è di non essere “psicologica” nel senso tradizionale del termine. Ma allo stesso tempo, non sappiamo in alcun modo come espellere questa famosa psicologia, questa famosa affettività tra gli esseri, questa vertigine relazionale che (e là sta il paradosso) non è ormai più presa in carico dalle opere d’arte, ma dalle scienze sociali e dalla medicina: la psicologia, oggi, non è che nella psicanalisi, che, quale che sia l’intelligenza, quale che sia il rilievo che vi ci si mette, è praticata da dei medici. “L’anima” è diventata un fatto patologico. C’è una sorta di rinuncia delle opere moderne davanti al rapporto interumano, inter-individuale. I grandi movimenti di emancipazione ideologica — diciamo, per parlare chiaramente, il marxismo — hanno lasciato da parte l’uomo privato, e senza dubbio non si poteva fare altrimenti.
Ciononostante, sappiamo molto bene che anche in quel caso ci sono sprechi, c’è qualcosa che non va. Ogni qualvolta che ci saranno delle “scene” di matrimonio, ci saranno delle domande problematiche da porre al mondo.
Il vero grande soggetto dell’arte moderna è quello della possibilità della felicità. Attualmente al cinema tutto accade come se ci fosse la constatazione dell’impossibilità di una felicità da raggiungere nel presente, con una sorta di ricorso al futuro. Forse gli anni a venire vedranno dei tentativi di una nuova idea di felicità.
Esattamente. Nessuna grande ideologia, nessuna grande utopia non si prende in carico oggi questo bisogno. Abbiamo avuto tutta una letteratura utopica interspaziale, ma il genere di micro-utopia che consisterebbe ad immaginare delle utopie psicologiche o relazionali, non esiste nemmeno. Ma se il principio strutturalista della rotazione dei bisogni e delle forme intervenisse qui, si potrebbe presto arrivare ad un’arte più esistenziale. Come a dire che le grandi dichiarazioni anti-psicologiche di questi ultimi dieci anni (dichiarazioni alle quali ho partecipato io stesso, com’è giusto) dovrebbero invertirsi e diventare fuori moda. Per quanto ambigua che sia l’arte di Antonioni, è forse proprio per questo che ci emoziona e ci sembra importante. Detto in altre parole, se volessimo riassumere ciò di cui abbiamo voglia in questo momento, attendiamo: film sintagmatici, film con una storia, film “psicanalitici”.
[Collaborazione alla traduzione: Dafne Leda Franceschetti]
Ronad Barthes
Umberto Eco ha scritto che Roland Barthes “ci ha insegnato l’avventura di un uomo di fronte a un testo, non ci ha offerto modelli schematici da applicare, bensì un esempio vivente di come ‘incantarci’ ogni giorno di fronte alla vitalità e al mistero della semiosi”. Saggista, critico letterario, filosofo, scrittore, semiologo, Barthes (1915–1980) è stato uno dei principali esponenti dello strutturalismo francese. La sua opera si è sempre contraddistinta per una rivoluzionaria interdisciplinarietà, collocandosi al confine tra diverse scienze umane. I suoi scritti trovano voce in una zona espressiva originalissima, a metà fra il lavoro di ricerca teorica e quello di scrittura letteraria. Ha insegnato all’École pratique des hautes études dal 1962 e dal 1976 al Collège de France. Come si evince da alcuni dei suoi testi principali, tra cui Saggi critici (1964), L’impero dei segni (1970), Il piacere del testo (1973), Frammenti di un discorso amoroso (1977) per Barthes la critica letteraria è una scienza necessariamente connessa ad altre scienze, come ad esempio la linguistica strutturale, la psicoanalisi,
la sociologia e l’antropologia. In aperta antitesi alla tradizione accademica, vedeva nel testo produttore di segni — e non solo nell’autore — il luogo privilegiato dell’analisi. Nell’ultima parte della sua produzione sembrò perfino teorizzare l’abolizione della distinzione fra opera letteraria e critica.
Cinema & Film
Venne fondata nel 1966 da Adriano Aprà, che la diresse fino al 1970. La rivista nacque da una scissione interna alla redazione di Filmcritica. Aprà che collaborava con la rivista di Edoardo Bruno dal 1964, decise insieme a Luigi Martelli, Maurizio Ponzi, Stefano Roncoroni e Luigi Faccini di imbattersi in un nuovo progetto editoriale di ricerca e libertà critica. Il primo numero dell’inverno 1966-67 fu autoprodotto con i compensi degli stessi fondatori. Grazie alla mediazione di Pier Paolo Pasolini, l’editore Garzanti intervenne e finanziò i numeri successivi. Presto ai redattori si aggiungeranno altre firme, tra cui il talentuoso Enzo Ungari e il futuro sceneggiatore Franco Ferrini. I punti di riferimento della rivista, a cadenza trimestrale, erano Rossellini, Godard, Pasolini, Carmelo Bene, Jerry Lewis, il giovane Bertolucci. L’editoriale del primo numero si apre con una vera e propria dichiarazione programmatica: “Cinema e Film è una rivista in formazione e autoformazione: non viene pubblicata per ripetere il già risolto ma per manifestare una ricerca di ‘gruppo’ in via di svolgimento”. Tra le caratteristiche della testata c’era quella di pubblicare una notevole mole di saggi e interviste inediti in Italia. La rivista cessa di pubblicare con il numero 12, estate-autunno 1970.
Si ringrazia la redazione di Sentieri selvaggi e il suo direttore, Federico Chiacchiari, per averci reso disponibile questo testo.
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