Roland Barthes: le tre virtù di Antonioni

Vigilanza, saggezza, fragilità

Mario Mancini
8 min readJun 7, 2020

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Nella sua tipologia Nietzsche distingue due figure: il prete e l’artista. Di preti ne abbiamo oggi da vendere; di tutte le religioni e anche senza religione; ma di artisti,

caro Antonioni,

che tu mi prestassi per un attimo qualche tratto della tua opera per permettermi di fissare le tre forze, o, se preterisci, le tre virtù che ai miei occhi costituiscono l’artista. Le dico subito; la vigilanza, la saggezza e la più paradossalmente di tutti, la fragilità.

Contrariamente al prete, l’artista ammira e si stupisce; il suo sguardo può essere critico, ma non è accusatore: l’artista non conosce risentimento. Proprio perché tu sei un artista la tua opera è aperta al Moderno. Molti prendono li Moderno come una bandiera di combattimento levata contro II vecchio mondo, i suoi valori compromessi; ma per te, non è il termine statico di una facile opposizione; anzi, al contrario, Il Moderno è la difficoltà attiva di seguire il mutare del Tempo, non più solamente a livello della grande Storia, ma all’interno di quella piccola Storia di cui è misura l’esistenza di ciascuno di noi,

Cominciata all’indomani dell’ultima guerra, la tua opera si è cosi rivolta, di momento in momento, secondo un doppio movimento di vigilanza, al mondo contemporaneo e a te stesso; ognuno dei tuoi film è stato, a livello personale, un’esperienza storica, l’abbandono cioè di un problema vecchio e la formulazione di una domanda nuova; il che significa che tu hai vissuto e trattalo la storia di questi ultimi trent’anni con sottigliezza, non come la materia di un riflesso artistico o di un impegno ideologico, ma come una sostanza di cui tu dovevi captare, di opera in opera, il magnetismo, per te, il contenuto e la forma sono storici allo stesso modo; i drammi, come tu hai detto, sono indifferentemente psicologici e plastici.

Il sociale, il narrativo, il nevrotico, non sono che livelli, pertinenze, come si dice in linguistica, del mondo totale, che è l’oggetto di ogni artista: c’è una successione, non una gerarchia degli interessi. Per essere precisi, contrariamente al filosofo, l’artista non evolve; come uno strumento molto sensibile, egli percorre le successioni del Nuovo che la propria storia gli presenta: la sua opera non è un riflesso fisso, ma una moire su cui passano, secondo l’inclinazione dello sguardo e le sollecitazioni del tempo, le figure del Sociale o del Passionale, e quelle delle innovazioni formali, dal modulo narrativo all’impiego del colore.

La tua inquietudine per l’epoca non è quella dello storico, del politico o del moralista, ma piuttosto quella dell’utopista che cerca di scorgere su punti precisi il mondo nuovo, poiché ha voglia di quel mondo e vuole già fame parte. La vigilanza dell’artista, che è la tua, è una vigilanza amorosa, una vigilanza del desiderio.

Chiamo saggezza dell’artista non una virtù antica, ancor meno un discorso mediocre, ma, al contrario, quel sapere morale, quell’acutezza di discernimento che gli permette di non confondere mai il senso e la verità. Quanti crimini l’umanità non ha commesso in nome della Verità! E pure tale verità non è mal stata che un senso. Quante guerre, repressioni, tenori, genocidi, per il trionfo di un senso! Lui, l’artista, sa che il senso di una cosa non è a sua verità; questo sapere è una saggezza, una saggezza folle, si potrebbe dire, che trae il sapere dalla comunità, dal branco dei fanatici e degli arroganti. Non tutti gli artisti, tuttavia, hanno questa saggezza, alcuni ipostatizzano il senso. Tale operazione terroristica generalmente si chiama realismo.

Cosi, quando dichiari (in un’intervista con Godard):

«Provo il bisogno di esprimere la realtà in termini che non siano affatto realistici»,

tu testimoni una corretta percezione del senso: non lo imponi, ma non lo abolisci.

Tale dialettica conferisce ai tuoi film (uso ancora lo stesso termine) una grande sottigliezza la tua arte consiste nel lasciare la strada del senso sempre aperta, e come indecisa, per scrupolo. E proprio in questo che tu assolvi il compito dell’artista di cui il nostro tempo ha bisogno: né dogmatico, né insignificante.

Cosi, nei tuoi primi cortometraggi sui netturbini romani o sulla fabbricazione del rayon a Torviscosa, la descrizione critica di un’alienazione sociale vacilla, senza venir meno, a vantaggio di un sentimento più patetico, più immediato, dei corpi al lavoro. Ne II grido, il senso forte dell’opera consiste, se sì può dire, nell’ambiguità stessa del senso: l’errare senza meta di un uomo che in nessun luogo può confermare la propria identità e l’ambiguità della conclusione (suicidio o incidente) conducono lo spettatore a dubitare del senso del messaggio.

Questa fuga dal senso, che non è la sua abolizione, ti permette di scuotere le fissità psicologiche del realismo: in Deserto rosso, la crisi non è più una crisi di sentimenti, come ne L’eclisse, poiché i sentimenti qui sono certi (l’eroina ama il marito) tutto si intreccia e fa male in una zona seconda in cui gli affetti — il disagio degli affetti — sfugge a quell’armatura del senso che è il codice delle passioni.

Infine — per non farla troppo lunga — i tuoi ultimi film portano la crisi del senso nel cuore dell’identità degli avvenimenti (Blow-Up) o delle persone (Professione reporter). In fondo, nel corso della tua opera, c’è una critica costante, dolorosa ed esigente a un tempo, di quella traccia profonda del senso che si chiama destino.

Questo vacillare — preferirei dire con più precisione: questa sincope del senso — segue vie tecniche, propriamente filmiche (scenografia, piani, montaggio) che non spetta a me analizzare, poiché non ne ho la competenza; sono qui, mi sembra, per dire in che cosa la tua opera, al dì là del cinema, coinvolge tutti gli artisti del mondo contemporaneo: tu lavori per rendere sottile il senso di ciò che l’uomo dice, racconta, vede o sente, e tale sottigliezza del senso, questa convinzione che il senso non si ferma grossolanamente alla cosa detta, ma si spinge sempre più lontano, ammaliato dal fuori senso, è quella, credo, di tutti gli artisti, il cui oggetto non è questa o quella tecnica, ma quello strano fenomeno che è la vibrazione.

L’oggetto rappresentato vibra, a scapito del dogma. Penso alle parole del pittore Braque «il quadro è finito quando ha cancellato l’idea». Penso a Matisse che disegna un ulivo dal suo letto, e si mette a osservare, dopo un po’, i vuoti tra i rami, e scopre che, con questo nuovo modo di vedere, sfugge all’immagine abituale dell’oggetto disegnato, al cliché «ulivo», Matisse scopriva cosi il principio dell’arte orientale, che vuole sempre dipingere il vuoto, o meglio, che coglie l’oggetto raffigurabile in quel raro momento in cui il pieno della sua identità cade bruscamente in un nuovo spazio, quello dell’interstizio. In un certo modo la tua arte è anch’essa un’arte dell’Interstizio (di questo L’avventura potrebbe essere la stupefacente dimostrazione), e dunque, in un certo modo, la tua arte ha un qualche rapporto con l’Oriente.

Proprio il tuo film sulla Cina mi ha fatto venire la voglia di fare un viaggio laggiù; e se questo film è stato provvisoriamente respinto da coloro che avrebbero dovuto comprendere come la sua forza d’amore fosse superiore a ogni propaganda, è perché è stato giudicato secondo un riflesso dei potere e non secondo un’esigenza di verità. L’artista è senza potere, ma ha un qualche rapporto con la verità; la sua opera, sempre allegorica se è una grande opera, la coglie di striscio, il suo mondo è una verità tangenziale (l’indirect de la verité).

Perché questa sottigliezza del senso è decisiva? Precisamente perché il senso, non appena viene fissato e imposto, non appena cessa di essere sottile, diviene uno strumento, una posta nel gioco del potere. Assottigliare il senso fino a sottrarlo è dunque un’attività politica seconda, come lo è ogni sforzo che tende a sbriciolare, a turbare, a disfare il fanatismo del senso, Il che non è privo di pericoli.

Così la terza virtù dell’artista (intendo la parola «virtù» nel senso latino), è la sua fragilità: l’artista non è mai sicuro di vivere, di lavorare, proposizione semplice ma seria: può essere spazzato via.

La prima fragilità dell’artista è questa: egli fa parte dì un mondo che cambia, ma anche lui cambia; è banale, ma per l’artista è vertiginoso; poiché non sa mai se I’opera che propone è prodotta dal cambiamento del mondo o dal cambiamento delia propria soggettività. Tu sei sempre stato consapevole di questa relatività del Tempo, quando dichiaravi, per esempio, in un’intervista.

«Se le cose di cui parliamo oggi non sono quelle di cui parlavamo subito dopo la guerra, significa in effetti che i! mondo intorno a noi è cambiato, ma che anche noi siamo cambiati. Le nostre esigenze, i nostri propositi, i nostri temi, sono cambiati».

La fragilità qui è quella di un dubbio esistenziale che afferra l’artista a mano a mano che avanza nel suo cammino e nella sua opera; è un dubbio difficile, anche doloroso, perché l’artista non sa mai se ciò che vuole dire è una testimonianza veritiera sul mondo così come è cambiato, oppure il semplice riflesso egoistico della propria nostalgia o del proprio desiderio viaggiatore einsteiniano, non sa mai se è il treno che si muove o lo spazio-tempo, se è testimone o uomo di desiderio.

Un altro motivo di fragilità è, paradossalmente, per l’artista, la fermezza e l’insistenza dello sguardo. Il potere, qualunque esso sia, perché è violenza, non può guardare, se guardasse un minuto di più (un minuto di troppo), perderebbe la sua essenza di potere. Lui, l’artista, si ferma e guarda a lungo, e posso immaginare che tu ti sei fatto cineasta perché la macchina da presa è un occhio, obbligato, per predisposizione tecnica, a guardare.

Quello che tu aggiungi a tale predisposizione, comune a tutti i cineasti, è il modo radicale di guardare le cose, radicale fino al loro esaurimento. Da una parte tu guardi a lungo ciò che, dalla convenzione politica (i contadini cinesi) o dalla convenzione narrativa (i tempi morti dì un’avventura), non ti era stato chiesto di guardare. Dall’altra parte il tuo eroe preferito è colui che guarda (fotografo o reporter).

Il che è pericoloso, poiché guardare più a lungo del richiesto (insisto su questo supplemento d’intensità) disturba gli ordini stabiliti, quali die siano, nella misura in cui, di solito, il tempo stesso dello sguardo è controllato dalla società; da cui, quando l’opera sfugge a questo controllo, la natura scandalosa di certe fotografie e di certi film non i più indecenti o i più aggressivi, ma semplicemente i più «posati».

L’artista è dunque minacciato, non solo dal potere costituito — il martirologio degli artisti censurati dallo Stato, lungo tutto il corso della Storia, sarebbe di una lunghezza disperante — ma anche dal sentimento collettivo, sempre latente, che una società può benissimo fare a meno dell’arte: l’attività dell’artista è sospetta perché disturba il confort, la sicurezza dei sensi stabiliti, perché è nello stesso tempo dispendiosa e gratuita, perché la società nuova che cerca se stessa, attraverso regimi molto diversi, non ha ancora deciso cosa deve pensare, cosa dovrà pensare del lusso.

Caro Antonioni,

ho cercato di dire nel mio linguaggio intellettuale le ragioni che hanno di te, al di là del cinema, uno degli artisti del nostro tempo. Non si tratta di un facile complimento, tu lo sai; poiché quella di essere artisti oggi è una situazione non più sostenuta dalla bella coscienza di una grande funzione sacra o sociale, essa non significa più prendere serenamente posto nel Pantheon borghese dei Fari dell’Umanità, significa, ad opera, dover affrontare in se stessi quegli spettri della soggettività moderna (dal momento che non siamo più preti), che sono la stanchezza ideologica, la cattiva coscienza sociale, l’attrazione e il disgusto dell’arte facile, il tremito della responsabilità, l’incessante scrupolo che lacera l’artista tra solitudine e gregarietà.

Bisogna dunque che tu oggi approfitti di questo momento tranquillo, armonioso, riconciliato, in cui tutta una collettività è d’accordo per riconoscere, ammirare, amare la tua opera poiché domani ricomincerà il duro lavoro

Da l’Unità, 27 novembre 1992

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Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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