L’animalismo di Voltaire

Le sofferenze degli animali

Mario Mancini
8 min readFeb 13, 2022

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Passi tratti dal breve scritto di Voltaire ”Dialogo del cappone e della pollastra” (Dialogue du chapon et de la poularde).

Il brano che segue è tratto dal saggio di Carlo Ginzburg dal titolo Tolleranza e commercio in Voltaire. Auerbach legge Voltaire.

La tolleranza verso gli animali

Ma il terremoto di Lisbona del 1755 influì sul pensiero di Voltaire anche in un senso più generale. Il rifiuto della necessità (compresa la necessità del male) lo portò, in maniera non del tutto coerente, a respingere l’idea della grande catena dell’essere argomentata con eloquenza da Pope nel suo Essay on man. «È probabile che vi sia una distanza immensa tra l’uomo e l’animale, tra l’uomo e le sostanze superiori» scrisse Voltaire in una nota al Poème sur le désastre de Lisbonne. Ma anche questo fragile antropocentrismo avrebbe finito con incrinarsi.

«Darei i quarantanove convitati che ho avuto a cena pur di avere voi», scrisse Voltaire a d’Alembert l’8 ottobre 1760. D’Alembert rispose paragonando scherzosamente le cene di Ferney alla Borsa di Londra descritta da Voltaire: il gesuita e il giansenista, il cattolico e il sociniano, il convulsionario e l’enciclopedista s’incontravano per abbracciarsi e ridere insieme. Ma c’era chi partecipava a questi conviti non per mangiare ma per essere mangiato. Pochi anni dopo (1763) Voltaire volle dar loro una voce nel Dialogo del cappone e della pollastra (Dialogue du chapon et de la poularde). In poche pagine, scritte in tono apparentemente leggero, una pollastra e un cappone si confidano: sono stati castrati. Il cappone, più esperto del mondo, rivela all’ingenua pollastra il destino che li attende: verranno uccisi, cotti e mangiati. Arriva l’aiutante del cuoco; la pollastra e il cappone si dicono addio.

Quello dei dialoghi tra animali è un genere che risale all’antichità greca e romana. Di solito si tratta di scritti con un fine didattico: le voci umanizzate degli animali impartiscono agli esseri umani una lezione morale. Voltaire partì da questa tradizione ma la rielaborò, ricorrendo ancora una volta allo straniamento. La forma dialogica gli consentì di fare a meno dell’osservatore esterno. Non si trattava di una scelta obbligata. Nel Galimatias dramatique, scritto nel 1757 e pubblicato nel 1765, un gesuita, un giansenista, un quacchero, un anglicano, un luterano, un puritano e un mussulmano intrecciano una discussione teologica che richiama ancora una volta la descrizione della Borsa di Londra. La parte dell’osservatore distante e ragionevole è affidata non al narratore ma a un cinese, che ha l’ultima parola: questi europei sono tutti pazzi, bisogna chiuderli in manicomio. Nel Dialogo del cappone e della pollastra, invece, lo straniamento è affidato alla voce dei due attori.

Ma attori non è la parola giusta. I due animali sono vittime: non agiscono ma patiscono. Al cappone che le chiede perché sia così triste, la pollastra risponde descrivendo minuziosamente la feroce operazione alla quale è stata sottoposta:

Una maledetta serva mi ha presa sulle ginocchia, mi ha ficcato un lungo ago nel culo, mi ha afferrato l’uteri, l’ha arrotolata attorno all’ago, me l’ha strappata e l’ha data da mangiare al gatto.

Il desiderio di nutrirsi di cibi squisiti può giustificare una mutilazione così feroce? Voltaire costringe chi legge a porsi questa domanda. Un uso (il cibarsi di pollame) che la maggior parte di noi dà per scontato, viene improvvisamente defamiliarizzato; il distacco intellettuale crea le premesse di un’improvvisa identificazione emotiva. Il cappone accusa gli esseri umani osservando che alcuni spiriti illuminati hanno vietato il consumo delle carni animali: i bramini indiani, Pitagora e il filosofo neoplatonico Porfirio. Lo scritto di Porfirio intitolato De abstinentia fu tradotto in francese sotto il titolo Traitétouchant I’abstinence de la chair des animaux (1747). Voltaire possedeva una copia di quest’opera e ne sottolineò alcune pagine. Ma più importante, e più prossima allo spirito del Dialogo del cappone e della pollastra, è una fonte finora non identificata: la Favola delle api di Mandeville. Una delle note, designata con la lettera «P», include una favola che ispirò il poema di Voltaire Le Marseillois et le lion (1768). Nel commentare la favola Mandeville accennò all’uso di castrare gli animali per renderne più morbida la carne, e descrisse in tono appassionato l’uccisione di un bue:

quando gli viene inferta un’ampia ferita, e gli viene tagliata la vena giugulare, quale mortale può udire senza provare compassione i mugli dolorosi che si mescolano ai flotti di sangue?

In gioventù Mandeville si era laureato in medicina e l’aveva praticata per alcuni anni. Aveva scritto allora un’operetta (De brutorum operationibus, 1690) in cui sosteneva, seguendo Cartesio, che gli animali, essendo privi di un’anima, sono macchine. La conclusione della nota «P» della Favola delle api suona come una palinodia:

quando una creatura ha dato prove così convincenti, così chiare dei terrori di cui è preda, dei dolori e delle sofferenze che prova, esiste forse un discepolo di Cartesio che sia così abituato al sangue da non confutare, con la propria compassione, la filosofia di quel vano ragionatore?

Il cappone di Voltaire riecheggiava Mandeville:

in effetti, mia cara pollastra, non sarebbe un oltraggio alla divinità affermare che abbiamo dei sensi per non sentire, e un cervello per non pensare? Questa fantasia, degna a quanto si dice di un pazzo di nome Cartesio, non sarebbe forse il colmo del ridicolo e un’inutile giustificazione della barbarie?

Il Dialogo del cappone e della pollastra sembra, più che un’esortazione al vegetarianesimo, una riflessione sulla possibilità di ampliare i confini della tolleranza, fino a includere gli animali (o almeno alcuni di loro. Tanto più colpisce l’attacco che Voltaire lancia, per bocca della pollastra, contro gli ebrei. Riprendendo uno dei suoi temi favoriti, pur senza ricorrere, come altre volte, a stiracchiate testimonianze bibliche, Voltaire accusa gli ebrei di cannibalismo esclamando: «È giusto che i rappresentanti di una specie così perversa si divorino reciprocamente, e che la terra sia purgata da questa razza». Parole come «specie» e «razza» suggeriscono una certa distanza tra la pollastra e Voltaire, che generalmente parla degli ebrei come di un «popolo». Anche delle vittime innocenti, sembra suggerire ironicamente Voltaire, non sono immuni da pregiudizi. Il cappone definisce gli uomini «quegli animali che sono bipedi come noi e sono molto inferiori a noi perché non hanno piume». Il cappone e la pollastra condividono i pregiudizi dei loro persecutori, ciò che li rende al tempo stesso ridicoli e familiari. Alla fine del dialogo il cappone, che ha parlato con disprezzo dei cristiani per i loro crudeli usi alimentari, muore pronunciando le parole di Gesù: «Ahi! Mi prendono per il collo. Perdoniamo i nostri nemici».

È un’allusione certamente priva d’intenzioni blasfeme. Il servo sofferente di Isaia, preso a modello da Gesù, dalla sua immagine rielaborata redazionalmente, o da entrambi, è paragonato a un agnello innocente condotto al macello (Is. 53:7). Per la maggior parte degli esseri umani le sofferenze degli animali appaiono insignificanti se paragonate alle sofferenze degli esseri umani. Ma molte culture ricorrono agli animali per esprimere, condannandola, l’uccisione di esseri umani innocenti.

Tutto rinasce per l’assassinio

Nel 1772 Voltaire scrisse una «diatriba» intitolata II faut prendre un parti ou le principe d’action. Aveva settantotto anni. Ancora una volta tornava su questioni intorno a cui aveva riflettuto ossessivamente nel corso della sua lunga vita: Dio, il male, la tolleranza. Voltaire parlò dell’Essere Eterno, delle leggi eterne della natura alle quali ogni essere vivente è assoggettato. Descrisse il mondo come una scena di sterminio reciproco:

tutti gli animali si massacrano reciprocamente, spinti da un impulso irresistibile. Non c’è animale che non abbia la propria preda, e che, per impadronirsene, non ricorra a qualcosa di simile all’astuzia e alla furia con cui l’odioso ragno attira e divora la mosca innocente. Un gregge di pecore che bruca l’erba divora nello spazio di un’ora un numero di insetti superiore a quello degli uomini che abitano la terra.

Questa strage, osservò Voltaire, fa parte del progetto della natura:

Queste vittime muoiono soltanto dopo che che la natura ha provveduto a rimpiazzarle. Tutto rinasce per l’assassinio.

Questa pagina fece un’impressione incancellabile su un lettore contemporaneo: il marchese di Sade. Nel suo celebre pamphlet Francesi, ancora uno sforzo se volete essere repubblicani Sade sostenne che l’assassinio è un comportamento del tutto normale, dato che nel mondo naturale l’assassinio è dappertutto. Voltaire era arrivato a una conclusione diversa. Egli usò parole dettate dalla compassione come «vittime» e «assassinio» e le rafforzò con una condanna degli usi carnivori degli esseri umani:

Che cosa ce di più abominevole del nutrirsi continuamente di cadaveri?

Dalle sofferenze degli animali Voltaire passò alle sofferenze degli esseri umani. Il male esiste: guerre, malattie, terremoti lo provano. Il principio «Tutto è bene» è assurdo. L’Essere Supremo è dunque responsabile del male? In Il faut prendre un parti ne discutono un ateo, un manicheo, un pagano, un ebreo, un turco, un teista e un cittadino. L’autopresentazione dei vari interlocutori fa trasparire l’atteggiamento di Voltaire nei loro confronti. Per le argomentazioni dell’ateo prova rispetto, ma il suo portavoce è il teista, che spiega che il male è il risultato della distanza tra il creatore e le creature: un’argomentazione insoddisfacente, come ammette lo stesso Voltaire. Il teista si prende gioco di tutte le religioni, e critica soprattutto gli ebrei:

I cafri, gli ottentotti, i negri della Guinea sono molto più ragionevoli e più onesti degli ebrei. Voi [ebrei] avete superato tutti i popoli con le vostre favole svergognate, con la vostra cattiva condotta, la vostra barbarie; di tutto questo portate la pena, è il vostro destino.

II turco, invece, è lodato per la sua tolleranza:

Soprattutto, continuate a essere tolleranti: è il vero modo di compiacere l’Essere degli esseri, che è il padre dei turchi e dei russi, dei cinesi e dei giapponesi, dei neri dei rossi e dei gialli, della natura intiera.

Il brusco passaggio dall’intolleranza (verso gli ebrei) alla tolleranza (verso tutti gli altri, almeno in teoria) rivela un’incoerenza profonda nel pensiero di Voltaire. Il suo Dio sarà stato indifferente al colore della pelle; Voltaire spesso non lo era. In generale, non era un pensatore rigoroso. Ma l’incapacità di vivere all’altezza dei principi universali dell’illuminismo non riguarda soltanto Voltaire. L’illuminismo, lo si è detto spesso, è un progetto incompiuto. Alla fine di Il faut prendre un parti il cittadino auspica la tolleranza, ampliandone i confini fino ad includere (sia pure in maniera scherzosa) anche gli animali:

In tutte le discussioni che si verificheranno, è esplicitamente proibito darsi del cane, anche al culmine dell’ira, a meno che non si trattino da uomini i cani, nel caso che ci rubino la cena o ci mordano, ecc. eec. ecc.

Nella società tollerante delineata alla fine di II faut prendre un parti le donne non sono neppure menzionate. Può darsi che questo atteggiamento, così come quello verso gli schiavi, vada ricondotto ai limiti storici dell’illuminismo, e in quanto tale debba essere distinto dalla sua eredità ideale. Ci si può chiedere se quest’eredità sia realizzabile. Ci si può chiedere se la sua realizzazione sia auspicabile. Come si è visto, Auerbach rispose affermativamente alla penultima domanda, e negativamente all’ultima.

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.