Tolleranza e commercio in Voltaire
Auerbach legge Voltaire
di Carlo Ginzburg
1. Nella sesta delle “Lettres philosophiques” di Voltaire
Nella sesta delle Lettres philosophiques di Voltaire ( 1734, ma scritte qualche anno prima) s’incontra una pagina famosa:
Entrate nella Borsa di Londra, in questo luogo più rispettabile di molte corti; vi vedete riuniti i deputati di tutte le nazioni per l’utilità degli uomini. Qui il giudeo, il maomettano e il cristiano discutono insieme come se fossero della stessa religione, e non danno dell’infedele se non a chi fa bancarotta; qui il presbiteriano confida nell’anabattista, e l’anglicano accoglie la promessa del quacchero. Uscendo da queste riunioni pacifiche e libere, gli uni vanno alla sinagoga, gli altri a bere; questo va a farsi battezzare in una grande tinozza in nome del Padre, del Figlio, allo Spirito Santo; l’altro fa tagliare il prepuzio di suo figlio e fa borbottare sul bimbo delle parole ebraiche che non intende affatto; questi altri vanno nella loro chiesa ad attendere Ispirazione divina col cappello sulla testa, e tutti sono contenti[1].
Su questo testo si soffermò lungamente Erich Auerbach nel suo grande libro (Mimesis,1946). La sua analisi si apriva con un avvertimento: la descrizione di Voltaire non ha intenti realistici. La frase non è ovvia, così come non era ovvia per Auerbach la nozione di realismo[2]. Tra le molte varianti di realismo analizzate in Mimesis troviamo il realismo moderno esemplificato dai romanzi di Balzac e Stendhal, nei quali eventi e esperienze singole s’intrecciano a forze storiche impersonali[3]. Una di queste forze è il mercato mondiale evocato da Voltaire nella pagina sulla Borsa di Londra. Auerbach preferì invece sottolineare le caratteristiche volutamente deformanti di una descrizione che, estraendo i particolari delle cerimonie religiose dai rispettivi contesti, ne fa qualcosa di assurdo e comico. Si tratta, osservava Auerbach, di una «tecnica del riflettore» (Scheinwerfertechnik) tipica della propaganda:
Specialmente nelle epoche agitate, il pubblico ricasca sempre in questo tranello, e tutti siamo in grado di trarre buon numero d’esempi dal passato più recente. […] Quando una forma di vita o un gruppo sociale ha fatto il suo tempo o ha anche solamente perduto favore o sopportazione, ogni iniquità scagliatagli contro dalla propaganda è salutata con gioia sadica[4].
Il riferimento implicito al nazismo riaffiora subito dopo in un’osservazione amaramente ironica su Gottfried Keller: «quest’uomo felice non poteva concepire nessun importante mutamento politico che non fosse nello stesso tempo un’espansione della libertà». Mimesis, scrisse retrospettivamente Auerbach, «è, in modo del tutto consapevole, un libro scritto da un uomo determinato, in una situazione determinata, all’inizio degli anni ’40 a Istanbul»[5]. Con queste parole Auerbach ribadiva la propria fedeltà al prospettivismo critico che aveva elaborato riflettendo sulla Scienza Nuova di Vico[6].
Dalla pubblicazione di Mimesis sono passati più di cinquantanni. La voce di Voltaire nella pagina commentata da Auerbach risuona oggi più forte che mai. Ma per leggere adeguatamente quella pagina dobbiamo utilizzare una prospettiva duplice, bifocale, che tenga conto sia di Voltaire sia del suo acutissimo lettore.
2. Il gioco di parole sulla parola infidèle
Il gioco di parole sulla parola infidèle, così come in generale la pagina di Voltaire sulla Borsa di Londra, potrebbero essere state ispirate dal celebre elogio della libertà intellettuale e religiosa di Amsterdam contenuto nell’ultimo capitolo del Tractatus theologico-politicus di Spinoza (1670):
Si prenda a esempio la città di Amsterdam, che con suo grande vantaggio e ammirazione di tutti i popoli sperimenta i frutti di questa libertà. In questo stato fiorente, in questa città senza pari, uomini di ogni provenienza e di ogni setta vivono nella massima armonia, e prima di affidare i loro beni a qualcuno vogliono sapere soltanto se sia ricco o povero, e se sia solito agire in buona o in mala fede (num bona fide, an dolo solitus sii agere). [7].
Le ultime parole, nell’anonima traduzione francese del Tractatus theologico-politicus pubblicata nel 1678 e diffusa sotto tre frontespizi diversi, ricalcano da vicino l’originale latino: «s’il est homme de bonne foy ou accoutumé à tromper»[8].
Negli scritti di Spinoza la parola «fides» ha, a seconda dei contesti, significati diversi, religiosi e non: credulità, pregiudizio, pietà, lealtà e via dicendo[9]. Il passaggio dall’ambito religioso a quello politico è esplicito nell’ultimo capitolo del Tractatus theologico-politicus: «Infine, se teniamo conto del fatto che la devozione di un uomo verso lo stato, come quella verso Dio, può conoscersi soltanto attraverso le azioni (Quod si denique ad hoc etiam attendamus, quod fides uniuscujusque erga rempublicam, siculi erga Deum, ex solis operibus cognosci potest…)»[10]. In queste parole risuona l’eco di uno degli autori preferiti di Spinoza. Nei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio Machiavelli aveva sostenuto che una repubblica bene ordinata richiede un vincolo religioso, una religione civica paragonabile a quella dell’antica Roma[11]. Ma nell’elogio di Amsterdam e delle sue libertà, «fides» più precisamente, la nozione giuridica di «bona fides» significa affidabilità commerciale[12]. Spinoza sembra aver spianato la strada alla battuta di Voltaire sulla bancarotta come forma d’infedeltà. La ritroviamo, trasformata in dichiarazione solenne, sul retro delle banconote americane: «In God we trust»[13].
Il confronto tra l’elogio di Amsterdam e la descrizione della Borsa di Londra rafforza l’ipotesi, già formulata su tutt’altra base, che Voltaire abbia conosciuto il Tractatus theologico-politicus prima di pubblicare le Lettres philosophiques[14]. Ma il tono dei due passi è diverso. Per Spinoza, Amsterdam era la dimostrazione vivente della tesi che la libertà di pensiero non è pericolosa dal punto di vista politico, anzi contribuisce alla felicità generale attraverso la prosperità del commercio. Voltaire, più di mezzo secolo dopo, lasciava capire che a Londra la prosperità del commercio aveva reso le divisioni religiose del tutto irrilevanti. Nella battaglia storica tra ragione e intolleranza religiosa l’Inghilterra era per Voltaire un modello:
Quoi! N’est-ce donc qu’en Angleterre
Que les mortels osent penser?
(Andiamo! soltanto in Inghilterra, dunque,
i mortali osano pensare?)
Questi versi, che distorcevano aggressivamente il significato di un passo di Orazio (Ep. I, 2, 40, ad Lollium) trasformando l’«essere saggio» in «pensare», fanno parte di una poesia scritta da Voltaire in morte dell’attrice Adrienne Lecouvreur. Mezzo secolo dopo Kant scelse le stesse parole di Orazio, nella stessa accezione deformata, per la sua famosa definizione dell’illuminismo: «Sapere aude!»[15].
3. L’irrilevanza delle differenze religiose
Per esprimere l’irrilevanza delle differenze religiose Voltaire si servì dello straniamento, ossia del procedimento letterario che trasforma qualcosa di familiare un oggetto, un comportamento, un’istituzione in qualcosa di strano, d’insensato, di ridicolo. Sklovsky, che per primo identificò e analizzò questo procedimento, notò che i philosophes ne avevano fatto largo uso. Nelle Lettres philosophiques lo si incontra ad ogni passo. Ecco come Voltaire descrive nella prima lettera il suo incontro con un innominato quacchero:
c’era più gentilezza nella fisionomia aperta e umana del suo viso che nell’uso di tirare una gamba dietro l’altra e di prendere in mano quello che è fatto per coprire la testa[16].
Con una perifrasi laboriosa, deliberatamente goffa, Voltaire invita il lettore a condividere il disprezzo del quacchero per i riti sociali. Poco dopo il disprezzo è esteso ai riti religiosi. «Siamo cristiani dice il quacchero e cerchiamo di essere buoni cristiani; ma non crediamo che il cristianesimo consista nel gettare dell’acqua fredda sulla testa, insieme a un po’ di sale»[17].
Dopo il battesimo, la guerra. Servendosi del solito procedimento estraniante il quacchero descrive, e condanna, la coscrizione militare:
Il nostro Dio, che ci ha ordinato di amare i nostri nemici e di soffrire senza lamentele, certo non vuole che traversiamo il mare per andare a sgozzare i nostri fratelli semplicemente perché degli assassini vestiti di rosso con un berretto alto due piedi arruolano dei cittadini facendo rumore con due bastoncini su una pelle d’asino ben tesa[18].
Il procedimento letterario usato da Voltaire ha dietro di sé una lunga tradizione che risale a Marco Aurelio[19]. Nei suoi Ricordi Marco Aurelio disse del laticlavio dei senatori romani: «questa veste orlata di porpora non è altro che lana di pecora impregnata del sangue di un pesce». Voltaire gettò sui comportamenti sociali uno sguardo simile, riducendo persone ed eventi alJe loro componenti essenziali. I soldati non sono altro che «degli assassini vestiti di rosso con un berretto alto due piedi»; invece di far rullare il tamburo essi fanno «rumore con due bastoncini su una pelle d’asino ben tesa». Anche i gesti più ovvi diventano strani, opachi, assurdi, come se venissero visti attraverso gli occhi di un estraneo, di un selvaggio o di un philosophe ignorant, come Voltaire si autodefinì in uno scritto più tardo.
Ma il modello di Voltaire era inglese. In uno dei suoi quaderni di appunti, redatto durante l’esilio londinese (1726–28) Voltaire buttò giù un accostamento che anticipava il succo della sesta lettera filosofica:
«L’Inghilterra è il punto d’incontro di tutte le religioni, così come la Borsa è il punto di ritrovo di tutti gli stranieri». In un altro passo Voltaire annotò, nella sua incerta grafia inglese, una versione più elaborata della stessa idea:
Dove non c’è libertà di coscienza raramente si trova libertà di commercio, perché la stessa tirannia intralcia commercio e religione. Nelle repubbliche e negli altri paesi liberi il numero delle religioni che si trovano in un porto di mare è pari al numero delle navi. Lo stesso dio viene adorato in forme diverse da ebrei, maomettani, pagani, cattolici, quaccheri, anabattisti, che scrivono ostinatamente gli uni contro gli altri, ma commerciano liberamente, con animo fiducioso e pacifico, simili a bravi attori che dopo aver recitato con gusto la propria parte combattendosi sulla scena, passino il resto del tempo a bere insieme[20].
Il titolo apposto a questo passo — Tale of a Tub — è stato giudicato «sviante» dal curatore moderno dai quaderni di appunti di Voltaire[21]. In realtà quel titolo ci dice attraverso quali vie la tecnica straniante fosse entrata a far parte dell’elaborazione delle Lettres philosophiques. In A Tale of a Tub (1704) Swift aveva raccontato, con continue digressioni, la storia di tre figli che litigano per il testamento del padre: una parabola che simboleggiava le dispute tra la Chiesa di Roma, la Chiesa d’Inghilterra, e i dissenzienti protestanti. Pur criticando aspramente sia i cattolici sia gli entusiasti Swift dichiarava apertamente che i punti d’accordo tra i cristiani erano più importanti delle loro divergenze[22]. Nei suoi appunti Voltaire tornò alla fonte della parabola di Swift, alla storia dei tre anelli che un vecchio padre lascia ai figli: ma ampliò il riferimento originario a cristiani, ebrei e maomettani, includendo anche i pagani. Nella versione finale, ambientata nella Borsa di Londra anziché in un porto di mare, i pagani scomparvero e il messaggio deistico risultò più attenuato. Ma il debito di Voltaire verso Swift è più ampio. A Tale of a Tub annunciava l’imminente pubblicazione di altri scritti del suo anonimo autore, tra i quali «Un viaggio in Inghilterra di una persona eminente di Terra Incognita tradotto dall’originale»: un’idea che riapparve qualche anno dopo in forma rovesciata nei Viaggi di Gulliver (1726). Senza i Viaggi di Gulliver Voltaire non sarebbe mai diventato se stesso[23]. Possiamo immaginare l’entusiasmo con cui lesse l’inventario degli oggetti contenuti nelle tasche di Gulliver scrupolosamente redatto da due minuscoli abitanti di Lilliput. Tra quegli oggetti c’era
una grossa catena d’argento che reggeva una macchina davvero meravigliosa. Avendogli comandato di estrarre ciò che era attaccato alla catena, vedemmo comparire un globo fatto per metà d’argento e per metà d’un metallo trasparente. Sopra v’erano tracciati in circolo alcuni strani segni […]. Egli ci ha accostato agli orecchi codesta macchina: essa faceva un rumore continuo simile a quello d’un mulino ad acqua. Noi supponiamo che si tratti di un animale di nuova natura oppure d’una divinità che costui adora; ma quest’ultima ipotesi è più verosimile[24].
Swift trasforma un oggetto quotidiano in qualcosa di sacro; Voltaire trasforma un evento sacro in qualcosa di quotidiano: «Celuici va se faire baptiser dans une grande cuve […] (questo va a farsi battezzare in una grande tinozza…)»[25]. In entrambi i casi vediamo dispiegarsi la stessa strategia defamiliarizzante. Lo sguardo stupefatto dell’estraneo distrugge l’aura generata dall’abitudine o dalla riverenza. Nessuna aura avvolge invece gli scambi commerciali che si svolgono nella Borsa di Londra: la loro razionalità è ovvia.
Nella sezione delle Lettres philosophiques dedicata a Swift («Vingt deuxième lettre: Sur M. Pope et quelques autres poètes fameux») non si fa parola dei Viaggi di Gulliver. Ma nell’edizione ampliata, pubblicata nel 1756, Voltaire inserì un lungo passo su A Tale of a Tub, identificandone le fonti nella storia dei tre anelli e in Fontenelle. E concluse:
Dunque quasi tutto è imitazione. L’idea delle Lettere persiane deriva da quella della Spia turca. Boiardo ha imitato Pulci, Ariosto ha imitato Boiardo. Le menti più originali prendono a prestito le une dalle altre. […] Ai libri succede quello che succede al fuoco nei nostri focolari; lo si va a prendere dal vicino, lo si accende a casa propria, lo si dà ad altri e appartiene a tutti[26].
Una splendida confessione mascherata.
4. Lo straniamento
Auerbach verosimilmente non aveva letto il saggio di Sklovsky sullo straniamento[27]. Ma le idee di Sklovsky, mediate da Sergej Tret’jakov, avevano avuto un’influenza decisiva sull’opera di Brecht, che certo Auerbach conosceva benissimo. II Verfremdung Effekt di Brecht, così profondamente legato alla tradizione dell’illuminismo, ricorda da vicino la «tecnica del riflettore» usata da Voltaire[28]. Di quella tecnica Auerbach sottolinea soltanto i rischi, non il potenziale critico: un giudizio unilaterale che sorprende. Certo, i procedimenti artistici o letterari sono meri strumenti, che possono essere usati per fini diversi o addirittura opposti. Un’arma (e anche lo straniamento Io è) può servire a uccidere un bambino o a impedire che un bambino venga ucciso. Ma se esaminiamo più da vicino la funzione dello straniamento negli scritti di Voltaire vediamo emergere una storia più complicata, che getta ulteriore luce sulla descrizione della Borsa di Londra, e indirettamente sulla lettura che ne fece Auerbach.
La pubblicazione delle Lettres philosophiques (1734) coincise con la redazione del Traité de métaphysique, rielaborato fino al 1738[29]. In quest’opera incompiuta, non destinata al pubblico e stampata solo dopo la sua morte, Voltaire esplorò a fondo le potenzialità eversive dello sguardo straniante che aveva posato sulla società inglese. Nell’introduzione («Dubbi sull’uomo») scrisse:
Pochi hanno una nozione larga di ciò che è l’uomo. I contadini di una parte d’Europa hanno della nostra specie quest’unica idea: che si tratti di un animale con due piedi, con la pelle annerita, capace di articolare poche parole, che coltiva la terra, che paga senza sapere perché certi tributi a un altro animale chiamato re, che vende i propri prodotti più cari possibile, e si riunisce in certi giorni dell’anno per cantare delle preghiere in una lingua che non capisce[30].
Solo trent’anni dopo Voltaire si arrischiò a pubblicare questo passo, in forma rielaborata, nella pseudonima Philosophie de l’histoire, poi ristampata come introduzione all’Essai sur les moeurs[31]. Nella nuova versione la descrizione straniata della società francese veniva attribuita, in maniera certo più plausibile, a Voltaire stesso. Nel Traité de métaphysique, invece, il punto di vista dei contadini introduceva in rapida successione quelli, altrettanto parziali, di un re, di un giovane parigino, di un giovane turco, di un prete, di un filosofo. Per trascendere queste prospettive limitate Voltaire immaginava un essere venuto dallo spazio: un’invenzione di stampo swiftiano poi ripresa in Micromégas [32]. Partito alla ricerca dell’uomo, il viaggiatore vede «delle scimmie, degli elefanti, dei negri, che sembrano avere tutti qualche barlume di ragione imperfetta». Sulla base di queste esperienze egli dichiara:
L’uomo è un animale nero che ha della lana sulla testa, che cammina su due zampe, dritto quasi come una scimmia, ma meno forte degli altri animali che hanno le sue stesse dimensioni, con un po’ più d’idee di loro e una maggiore capacità di formularle; è sottoposto alle stesse necessità, nasce, vive, e muore proprio come loro[33].
L’ingenuità del viaggiatore venuto dallo spazio da un lato lo fa cadere in una generalizzazione ridicola, dall’altro (per un’ambivalenza cara a Voltaire) gli consente di scorgere una verità decisiva: gli esseri umani sono animali. A poco a poco il viaggiatore scopre che quegli esseri appartengono a specie diverse, ciascuna delle quali ha un’origine indipendente e un posto preciso nella grandiosa gerarchia del cosmo:
Finalmente vedo degli uomini che mi paiono superiori ai negri, così come i negri sono superiori alle scimmie, e le scimmie sono superiori alle ostriche e agli altri animali della stessa specie[34].
Per sottolineare la diversità tra le specie umane Voltaire le paragonò a tipi diversi di alberi. Ventanni dopo, quest’analogia venne ripresa e sviluppata nell’Essai sur les moeurs (cap. CXIV). Ancora una volta i neri avevano nell’argomentazione di Voltaire un’importanza decisiva:
la membrana mucosa dei negri, di color nero e causa del loro colore, prova in maniera evidente che in ogni specie umana, così come nelle piante, c’è un principio che le differenzia.
A questo principio la natura ha subordinato i diversi gradi dell’indole dei popoli e quei caratteri che vediamo mutare così di rado. Questo è il motivo per cui i negri sono schiavi degli altri uomini. Una moltitudine di questi negri, comprati sulle coste dell’Africa come bestie, e trapiantati nelle nostre colonie americane, serve un piccolo numero di europei[35].
Voltaire pensava che la storia umana si fosse sviluppata all’interno della gerarchia costituita dalle diverse specie umane; oggi diremmo, dalle razze. Anche se le parole «razzismo» e «razzista» allora non esistevano, chiedersi (come si è fatto tante volte) se Voltaire fosse o no razzista sembra assolutamente legittimo[36]. Sembra però utile distinguere in via preliminare tra razzismo in senso lato e razzismo in senso stretto. Il primo sostiene che (a) le razze umane esistono e (b) sono disposte in una scala gerarchica. Il secondo, oltre a sottoscrivere (a) e (b), sostiene che © la gerarchia tra le razze non può essere modificata né dall’educazione né dalla cultura. Voltaire, che era senza dubbio un razzista in senso lato, non aderì mai pienamente al razzismo in senso stretto: ma vi arrivò molto vicino ogni volta che si trovò a parlare dei neri. «La maggior parte dei negri, e tutti i cafri, sono sprofondati nella stessa stupidità», scrisse nella Philosophie de l’histoire. Pochi anni dopo, nel 1775, aggiunse: «E vi marciranno per molto tempo»[37].
5. La questione della razza
L’atteggiamento di Voltaire nei confronti della questione della razza, e più specificamente nei confronti dei neri, era largamente condiviso dai philosophes[38]. Ma un dato personale può aver contribuito a rafforzarlo. Fin da giovane Voltaire aveva investito ingenti somme nella Compagnia delle Indie, che era largamente coinvolta nel commercio degli schiavi[39]. Di questo fatto Voltaire, che com’è noto aveva un gran fiuto per gli affari, era senza dubbio al corrente. E in ogni caso, la tratta degli schiavi era un elemento importante del sistema economico di cui cantò le lodi nel poemetto Le Mondain (al quale seguì la Défense du mondain ou l’apologie du luxe, 1736):
Le superflu, chose très nécessaire,
A réuni l’un et l’autre hémisphère.
Voyezvous pas ces agiles vaisseaux
Qui du Texel, de Londres, de Bordeaux,
S’en vont chercher, par un heureux échange,
Des nouveaux biens, nés aux sources du Gange,
Tandis qu’au loin, vainqueurs des musulmans,
Nos vins de France enivrent les sultans[40]?
(II superfluo, ch’è cosa molto necessaria,
ha riunito l’uno e l’altro emisfero.
Non vedete forse queste agili navi
Che dalla Texel, da Londra, da Bordeaux, Vanno a cercare, per un felice scambio,
Nuovi prodotti nati alle sorgenti del Gange,
Mentre lungi da noi, vincitori dei musulmani,
I vini di Francia inebriano i sultani?.
Il tono frivolo di questo poemetto rococò contrasta con la gravità del suo contenuto. Una delle merci che avevano contribuito a unificare i due emisferi erano gli «animali negri» venduti come schiavi. Il lusso stimola il progresso, aveva spiegato Mandeville nella Favola delle api[41]. Ma il paradosso di Mandeville sui vizi privati che generano pubbliche virtù si riferiva unicamente agli stati europei. Il paradiso terrestre evocato nell’euforica conclusione del Mondain («Il paradiso terrestre è dove sono io») era il frutto del saccheggio sistematico del mondo.
6. L’anticipazione della società di massa
Le radici settecentesche delle ideologie razziste più tarde, benché spesso rimosse, sono fuori discussione. Non credo però che esse spieghino l’accostamento tra Voltaire e la propaganda nazista proposto da Auerbach. Certo, non si può escludere che Auerbach si sia sentito personalmente offeso dal commento sarcastico di Voltaire sui riti ebraici. La persecuzione nazista aveva fatto di Auerbach un ebreo e un esule[42]. Il verso di Marvell posto in epigrafe a Mimesis («Had we but world enough and time…») allude ironicamente alle limitazioni storiche e geografiche che avevano condizionato la genesi del libro. L’ironia ne nascondeva un’altra, più amara: Marvell prosegue assicurando l’amata riluttante che se vuole può resistergli «fino alla conversione degli ebrei (till the conversion of the Jews)»[43]. Ma l’insofferenza mescolata all’ammirazione che Auerbach manifesta nei confronti di Voltaire aveva implicazioni più ampie.
All’inizio del suo esilio a Istanbul Auerbach scrisse alcune lettere a Walter Benjamin, con cui era evidentemente in rapporti di amicizia. In una di esse, datata 3 gennaio 1937, Auerbach parlò delie sue prime impressioni sulla Turchia:
il risultato [della politica di Kemal Atatürk] è un nazionalismo fanaticamente ostile alla tradizione; un rifiuto dell’intera eredità culturale maomettana; la costruzione di un rapporto immaginario con una identità originaria turca, e una modernizzazione tecnologica in senso europeo […]. Il risultato è un nazionalismo estremo, accompagnato dalla distruzione simultanea del carattere nazionale storico. Questo quadro, che in paesi come la Germania, l’Italia, e perfino la Russia (?) non è visibile a tutti, qui appare in piena evidenza.
Seguiva una previsione:
Per me sta diventando sempre più chiaro che l’attuale situazione internazionale non è altro che un’astuzia della provvidenza [List der Vorsehung], volta a portarci, attraverso un sentiero tortuoso e sanguinoso, verso un’internazionale di trivialità e un esperanto culturale. Un sospetto del genere mi era già venuto in Germania e in Italia, vedendo la tremenda inautenticità della propaganda del «sangue e suolo»: ma soltanto qui le prove di questa tendenza mi sono sembrate pressoché certe[44].
Le dittature nazionaliste (il termine «Russia», sia pure accompagnato da un punto interrogativo, è sintomatico) erano dunque una tappa di un processo storico che avrebbe finito col cancellare tutti i tratti specifici, compresi quelli nazionali, portando all’affermazione di una civiltà indifferenziata su scala mondiale. Questa traiettoria paradossale suggeriva a Auerbach l’espressione «astuzia della provvidenza»: una fusione, ispirata da un’osservazione di Croce, della provvidenza di Vico con l’astuzia della ragione di Hegel[45]. Auerbach non aveva dubbi, questo processo avrebbe segnato una grave perdita sul piano culturale. La stessa preoccupazione riemerge, dopo la fine della seconda guerra mondiale, nel saggio Filologia e letteratura mondiale (Philologie und Weltliteratur) (1952)[46]. La guerra fredda, che aveva diviso il mondo secondo due modelli contrapposti ma intimamente simili, tendeva a produrre una standardizzazione, una perdita di diversità, un’uniformità che affievolivano tutte le tradizioni individuali e nazionali.
La continuità evidente tra la lettera a Benjamin del 1937 e il saggio del 1952 getta luce su un testo cronologicamente intermedio, il capitolo di Mimesis che analizza la pagina di Voltaire sulla Borsa di Londra. In quella pagina Auerbach lesse l’anticipazione di una società di massa culturalmente omogenea, regolata dalle leggi razionali del mercato. Nonostante le loro enormi differenze, illuminismo e nazismo gli apparvero come tappe di un processo storico lunghissimo, che avrebbe ridotto le particolarità (religiose o di altro genere) a elementi variopinti e irrilevanti, prima di cancellarle definitivamente.
Una tesi molto simile venne proposta da Adorno e Horkheimer nella Dialettica dell’illluminismo (1947, ma scritta nel 1944). Le rapide notazioni di Auerbach nella lettera a Benjamin non possono essere paragonate all’elaborata complessità dei «frammenti filosofici» di Adorno e Horkheimer. Ma non si fa fatica a immaginare un dialogo di esuli tra Istanbul e Santa Monica, all’inizio degli anni ’40, sull’ambivalenza dell’illuminismo.
7. Ambivalenza dell’Illuminismo
Quest’ambivalenza è dichiarata fin dall’introduzione alla Dialettica dell’illuminismo. «La critica presentata nel primo saggio, scrivono i due autori, intende preparare un concetto positivo [dell’illuminismo] che lo liberi dall’irretimento nel cieco dominio»[47]. Nel corso del libro questa nozione positiva di illuminismo, attraverso una torsione dialettica, si rivela basata sulla negazione:
Non il buono, ma il cattivo è l’oggetto della teoria […]. Il suo elemento è la libertà, il suo tema l’oppressione. Dove la lingua diventa apologetica, è già corrotta […]. Ce solo un’espressione per la verità: il pensiero che nega l’ingiustizia.
Chi ha incarnato questo pensiero è Voltaire, al quale gli autori si rivolgono pateticamente: «hai proclamato ai quattro venti con pathos, commozione, violenza e sarcasmo l’ignominia della tirannia»[48]. Ma come sappiamo l’uomo che scrisse il Trattato sulla tolleranza condivideva con la maggior parte dei suoi contemporanei una serie di atteggiamenti, soprattutto sulla questione delle razze umane, che affermavano l’ingiustizia anziché negarla. Inutile ripetere il luogo comune sui limiti storici di un movimento in maggioranza maschile, bianco, e nato in Europa. Ma che l’illuminismo sia morto non è affatto certo. Proprio la biografia intellettuale di Voltaire, che dell’illuminismo è l’emblema, mostra la ricchezza e la complessità delle contraddizioni indicate da Horkheimer e Adorno.
8. L’orrore del mondo
In quella biografia c’è una svolta famosa, legata al terremoto di Lisbona del 1755. La distruzione di una città intera e la morte di un gran numero d’innocenti costrinsero Voltaire a fare i conti col problema del male. Nel Poème sur le désastre de Lisbonne ou examen de cet axiome: Tout est bien, composto poco dopo l’evento, Voltaire guardò al mondo intero come a una catena interminabile di orrori:
Eléments, animaux, humain, tout est en guerre.
Il le faut avouer, le mal est sur la terre:
Son principe secret ne nous est point connu.
(Elementi, animali, umani, tutto è in guerra.
Bisogna riconoscerlo, il male è sulla terra:
Il suo principio segreto ci è ignoto).
Voltaire cercò questo «principio segreto» negli scritti di Bayle, che aveva riflettuto con tanta profondità sul male, ma inutilmente. Anche Bayle non dava risposte. Voltaire respinse la massima di Pope («Tutto è bene») e la propria filosofia passata:
Les sages me trompaient, et Dieu seul a raison.
(I saggi m’ingannavano, e solo Dio ha ragione).
Voltaire non era certo un grande poeta. Ma i versi pedestri del suo poema sul terremoto di Lisbona esprimono una vera partecipazione, in ultima analisi più intellettuale che emotiva[49]. Nella prefazione (1756) e soprattutto nel postscriptum, Voltaire si espresse con maggior cautela: «Purtroppo bisogna sempre avvertire che le obiezioni che un autore muove a se stesso vanno distinte dalle sue risposte alle obiezioni»[50]. Ma il suo atteggiamento mentale era cambiato profondamente. Un passo da uno scritto precedente mostra fino a che punto egli fosse stato «ingannato»:
Per quanto riguarda i rimproveri d’ingiustizia e di crudeltà che vengono rivolti a Dio, rispondo in primo luogo che, anche supponendo che esista un male morale (che mi pare una chimera), questo male è altrettanto inesplicabile nel sistema basato sulla materia che in quello basato su un dio.
La crudeltà e l’ingiustizia sono infatti nozioni puramente umane:
non abbiamo altre idee di giustizia se non quelle, che ci siamo formati noi stessi, di un’azione utile alla società, conforme alle leggi che noi stessi abbiamo stabilito per il bene comune; ma quest’idea, essendo legata soltanto ai rapporti tra gli uomini, non può avere alcuna analogia con Dio. In questo senso, affermare che Dio è giusto o ingiusto è altrettanto assurdo che affermare che Dio è azzurro o quadrato.
È dunque insensato rimproverare Dio perché le mosche sono mangiate dai ragni […][51].
Il passo è tratto dal Traité de métaphysique. Quando lo scrisse Voltaire aveva quarant’anni, era sano, era felice, era nel pieno della sua storia d’amore con M.me de Châtelet. Il male per lui semplicemente non esisteva. La vecchiaia, come Voltaire stesso riconobbe nel Poème sur le désastre de Lisbonne, aveva contribuito alla sua conversione intellettuale:
Sur un ton moins lugubre on me vit autrefois
Chanter des doux plaisirs les séduisantes lois;
D’autres temps, d’autres moeurs: instruit par la vieillesse,
Des humains égarés partageant la faiblesse,
Dans une épaisse nuit cherchant à m’éclairer,
Je ne sais que souffrir, et non pas murmurer[52].
(In tono meno lugubre mi si vide in passato
Cantar le leggi seducenti dei dolci piaceri;
Altri tempi, altre usanze; istruito dalla vecchiaia,
Condivido la debolezza degli umani sviati,
Cerco una luce in una notte buia,
E so solo soffrire, non già mormorare).
Voltaire alludeva qui a due operette scritte subito dopo il Traité de métaphysique: Le Mondain (già ricordato) e la sua apologia, La Défense du Mondain. Nella Défense, Voltaire polemizzava con un immaginario critico de Le Mondain, ricordandogli che il lusso in cui viveva era reso possibile dalla circolazione mondiale delle merci. Una di esse era l’argento:
Cet argent fin, ciselé, godronné,
En plats, en vase, en soucoupe tourné,
Fut arraché dans la terre profonde
Dans le Potose, au sein d’un Nouveau Monde[53].
(Quest’argento fine, cesellato, increspato, trasformato
In piatti, in vasi, in sottocoppe,
Fu strappato dalle profondità della terra
Nel Potosi, in seno al Nuovo Mondo).
E Voltaire concludeva spensieratamente: «Tout l’univers a travaillé pour vous (L’universo intero ha lavorato per voi)». In quei versi giovanili non comparivano agenti umani. Passarono anni. Negli Essai sur les moeurs (cap. CXLVIII) Voltaire parlò delle miniere peruviane in maniera meno impersonale, e più cupa, accennando ai «negri, comprati in Africa e trasportati in Perù come animali destinati al servizio degli uomini» che si erano aggiunti ai minatori indigeni[54].
Quest’accenno potrebbe risalire ai primi mesi del 1756, allorché Voltaire lavorava contemporaneamente alle ultime aggiunte all’Essai sur les moeurs e al Poème sur le désastre de Lisbonne[55]. Una tappa ulteriore di questa riflessione è testimoniata da un’aggiunta inserita nell’edizione del 1761 dell’Essai sur les moeurs (cap. CLII). In essa si vede emergere un atteggiamento molto più compassionevole nei confronti degli schiavi e le loro sofferenze[56]:
Nel 1757 nella San Domingo francese si contavano circa trentamila persone, più centomila schiavi negri o mulatti che lavoravano negli zuccherifici e nelle piantagioni di indaco e di cacao, abbreviando la propria vita per soddisfare i nostri nuovi appetiti e per far fronte ai nostri nuovi bisogni, sconosciuti ai nostri padri. Andiamo a comprare questi negri sulle coste della Guinea, nella Costa d’Oro e in quella d’Avorio. Trent’anni fa si poteva avere un bel negro per cinquanta lire, un quinto di quello che si paga per un bel bue grasso. […] A questa gente diciamo che sono uomini come noi, salvati dal sangue di un Dio morto per loro, e poi li mettiamo a lavorare come bestie da soma: vengono nutriti peggio; se vogliono scappare, gli si taglia una gamba; li si fa girare a forza di braccia l’albero dei mulini da zucchero, dopo avergli dato una gamba di legno. E osiamo ancora parlare di diritto di natura! Questo commercio non arricchisce uno stato, al contrario: distrugge vite umane, provoca naufragi, e senza dubbio non è un vero bene: ma poiché gli uomini si sono fatti delle nuove necessità, la Francia compra a caro prezzo all’estero un superfluo diventato necessario[57].
Le ultime parole riecheggiavano un verso di Le Mondain, scritto quasi quarantanni prima: «il superfluo, cosa molto necessaria…». L’autocitazione era consapevole, e forse non priva di autoironia. Quand’era giovane Voltaire aveva abbracciato euforicamente il mondo così com’era; invecchiando, aveva finito con l’accettare il dolore e la sofferenza come parte della condizione umana. Ma come scrisse La Rochefoucauld, «abbiamo tutti abbastanza forza per sopportare i mali degli altri»[58]. La schiavitù rispondeva a nuovi desideri, a nuovi bisogni, a nuove necessità: era insomma, lasciava capire Voltaire, un risultato crudele ma inevitabile del progresso.
9. La tolleranza verso gli animali
Ma il terremoto di Lisbona del 1755 influì sul pensiero di Voltaire anche in un senso più generale. Il rifiuto della necessità (compresa la necessità del male) lo portò, in maniera non del tutto coerente, a respingere l’idea della grande catena dell’essere argomentata con eloquenza da Pope nel suo Essay on man[59]. «È probabile che vi sia una distanza immensa tra l’uomo e l’animale, tra l’uomo e le sostanze superiori» scrisse Voltaire in una nota al Poème sur le désastre de Lisbonne[60]. Ma anche questo fragile antropocentrismo avrebbe finito con incrinarsi.
«Darei i quarantanove convitati che ho avuto a cena pur di avere voi», scrisse Voltaire a d’Alembert l’8 ottobre 1760. D’Alembert rispose paragonando scherzosamente le cene di Ferney alla Borsa di Londra descritta da Voltaire: il gesuita e il giansenista, il cattolico e il sociniano, il convulsionario e l’enciclopedista s’incontravano per abbracciarsi e ridere insieme[61]. Ma c’era chi partecipava a questi conviti non per mangiare ma per essere mangiato. Pochi anni dopo (1763) Voltaire volle dar loro una voce nel Dialogo del cappone e della pollastra (Dialogue du chapon et de la poularde)[62]. In poche pagine, scritte in tono apparentemente leggero, una pollastra e un cappone si confidano: sono stati castrati. Il cappone, più esperto del mondo, rivela all’ingenua pollastra il destino che li attende: verranno uccisi, cotti e mangiati. Arriva l’aiutante del cuoco; la pollastra e il cappone si dicono addio.
Quello dei dialoghi tra animali è un genere che risale all’antichità greca e romana. Di solito si tratta di scritti con un fine didattico: le voci umanizzate degli animali impartiscono agli esseri umani una lezione morale. Voltaire partì da questa tradizione ma la rielaborò, ricorrendo ancora una volta allo straniamento. La forma dialogica gli consentì di fare a meno dell’osservatore esterno. Non si trattava di una scelta obbligata. Nel Galimatias dramatique, scritto nel 1757 e pubblicato nel 1765, un gesuita, un giansenista, un quacchero, un anglicano, un luterano, un puritano e un mussulmano intrecciano una discussione teologica che richiama ancora una volta la descrizione della Borsa di Londra. La parte dell’osservatore distante e ragionevole è affidata non al narratore ma a un cinese, che ha l’ultima parola: questi europei sono tutti pazzi, bisogna chiuderli in manicomio[63]. Nel Dialogo del cappone e della pollastra, invece, lo straniamento è affidato alla voce dei due attori.
Ma attori non è la parola giusta. I due animali sono vittime: non agiscono ma patiscono[64]. Al cappone che le chiede perché sia così triste, la pollastra risponde descrivendo minuziosamente la feroce operazione alla quale è stata sottoposta:
Una maledetta serva mi ha presa sulle ginocchia, mi ha ficcato un lungo ago nel culo, mi ha afferrato l’uteri, l’ha arrotolata attorno all’ago, me l’ha strappata e l’ha data da mangiare al gatto[65].
Il desiderio di nutrirsi di cibi squisiti può giustificare una mutilazione così feroce? Voltaire costringe chi legge a porsi questa domanda. Un uso (il cibarsi di pollame) che la maggior parte di noi dà per scontato, viene improvvisamente defamiliarizzato; il distacco intellettuale crea le premesse di un’improvvisa identificazione emotiva. Il cappone accusa gli esseri umani osservando che alcuni spiriti illuminati hanno vietato il consumo delle carni animali: i bramini indiani, Pitagora e il filosofo neoplatonico Porfirio. Lo scritto di Porfirio intitolato De abstinentia fu tradotto in francese sotto il titolo Traité … touchant I’abstinence de la chair des animaux (1747). Voltaire possedeva una copia di quest’opera e ne sottolineò alcune pagine[66]. Ma più importante, e più prossima allo spirito del Dialogo del cappone e della pollastra, è una fonte finora non identificata: la Favola delle api di Mandeville. Una delle note, designata con la lettera «P», include una favola che ispirò il poema di Voltaire Le Marseillois et le lion (1768)[67]. Nel commentare la favola Mandeville accennò all’uso di castrare gli animali per renderne più morbida la carne, e descrisse in tono appassionato l’uccisione di un bue:
quando gli viene inferta un’ampia ferita, e gli viene tagliata la vena giugulare, quale mortale può udire senza provare compassione i mugli dolorosi che si mescolano ai flotti di sangue?
In gioventù Mandeville si era laureato in medicina e l’aveva praticata per alcuni anni. Aveva scritto allora un’operetta (De brutorum operationibus, 1690) in cui sosteneva, seguendo Cartesio, che gli animali, essendo privi di un’anima, sono macchine. La conclusione della nota «P» della Favola delle api suona come una palinodia:
quando una creatura ha dato prove così convincenti, così chiare dei terrori di cui è preda, dei dolori e delle sofferenze che prova, esiste forse un discepolo di Cartesio che sia così abituato al sangue da non confutare, con la propria compassione, la filosofia di quel vano ragionatore[68]?
Il cappone di Voltaire riecheggiava Mandeville:
in effetti, mia cara pollastra, non sarebbe un oltraggio alla divinità affermare che abbiamo dei sensi per non sentire, e un cervello per non pensare? Questa fantasia, degna a quanto si dice di un pazzo di nome Cartesio, non sarebbe forse il colmo del ridicolo e un’inutile giustificazione della barbarie[69]?
Il Dialogo del cappone e della pollastra sembra, più che un’esortazione al vegetarianesimo, una riflessione sulla possibilità di ampliare i confini della tolleranza, fino a includere gli animali (o almeno alcuni di loro) [70]. Tanto più colpisce l’attacco che Voltaire lancia, per bocca della pollastra, contro gli ebrei. Riprendendo uno dei suoi temi favoriti, pur senza ricorrere, come altre volte, a stiracchiate testimonianze bibliche, Voltaire accusa gli ebrei di cannibalismo esclamando: «È giusto che i rappresentanti di una specie così perversa si divorino reciprocamente, e che la terra sia purgata da questa razza»[71]. Parole come «specie» e «razza» suggeriscono una certa distanza tra la pollastra e Voltaire, che generalmente parla degli ebrei come di un «popolo»[72]. Anche delle vittime innocenti, sembra suggerire ironicamente Voltaire, non sono immuni da pregiudizi. Il cappone definisce gli uomini «quegli animali che sono bipedi come noi e sono molto inferiori a noi perché non hanno piume». Il cappone e la pollastra condividono i pregiudizi dei loro persecutori, ciò che li rende al tempo stesso ridicoli e familiari. Alla fine del dialogo il cappone, che ha parlato con disprezzo dei cristiani per i loro crudeli usi alimentari, muore pronunciando le parole di Gesù: «Ahi! Mi prendono per il collo. Perdoniamo i nostri nemici»[73].
È un’allusione certamente priva d’intenzioni blasfeme. Il servo sofferente di Isaia, preso a modello da Gesù, dalla sua immagine rielaborata redazionalmente, o da entrambi, è paragonato a un agnello innocente condotto al macello (Is. 53:7)[74]. Per la maggior parte degli esseri umani le sofferenze degli animali appaiono insignificanti se paragonate alle sofferenze degli esseri umani. Ma molte culture ricorrono agli animali per esprimere, condannandola, l’uccisione di esseri umani innocenti.
10. Tutto rinasce per l’assassinio
Nel 1772 Voltaire scrisse una «diatriba» intitolata II faut prendre un parti ou le principe d’action[75]. Aveva settantotto anni. Ancora una volta tornava su questioni intorno a cui aveva riflettuto ossessivamente nel corso della sua lunga vita: Dio, il male, la tolleranza. Voltaire parlò dell’Essere Eterno, delle leggi eterne della natura alle quali ogni essere vivente è assoggettato. Descrisse il mondo come una scena di sterminio reciproco:
tutti gli animali si massacrano reciprocamente, spinti da un impulso irresistibile. Non c’è animale che non abbia la propria preda, e che, per impadronirsene, non ricorra a qualcosa di simile all’astuzia e alla furia con cui l’odioso ragno attira e divora la mosca innocente. Un gregge di pecore che bruca l’erba divora nello spazio di un’ora un numero di insetti superiore a quello degli uomini che abitano la terra.
Questa strage, osservò Voltaire, fa parte del progetto della natura:
Queste vittime muoiono soltanto dopo che che la natura ha provveduto a rimpiazzarle. Tutto rinasce per l’assassinio[76].
Questa pagina fece un’impressione incancellabile su un lettore contemporaneo: il marchese di Sade. Nel suo celebre pamphlet Francesi, ancora uno sforzo se volete essere repubblicani Sade sostenne che l’assassinio è un comportamento del tutto normale, dato che nel mondo naturale l’assassinio è dappertutto[77]. Voltaire era arrivato a una conclusione diversa. Egli usò parole dettate dalla compassione come «vittime» e «assassinio» e le rafforzò con una condanna degli usi carnivori degli esseri umani:
Che cosa ce di più abominevole del nutrirsi continuamente di cadaveri?
Dalle sofferenze degli animali Voltaire passò alle sofferenze degli esseri umani. Il male esiste: guerre, malattie, terremoti lo provano. Il principio «Tutto è bene» è assurdo. L’Essere Supremo è dunque responsabile del male? In Il faut prendre un parti ne discutono un ateo, un manicheo, un pagano, un ebreo, un turco, un teista e un cittadino. L’autopresentazione dei vari interlocutori fa trasparire l’atteggiamento di Voltaire nei loro confronti. Per le argomentazioni dell’ateo prova rispetto, ma il suo portavoce è il teista, che spiega che il male è il risultato della distanza tra il creatore e le creature: un’argomentazione insoddisfacente, come ammette lo stesso Voltaire. Il teista si prende gioco di tutte le religioni, e critica soprattutto gli ebrei:
I cafri, gli ottentotti, i negri della Guinea sono molto più ragionevoli e più onesti degli ebrei. Voi [ebrei] avete superato tutti i popoli con le vostre favole svergognate, con la vostra cattiva condotta, la vostra barbarie; di tutto questo portate la pena, è il vostro destino.
II turco, invece, è lodato per la sua tolleranza:
Soprattutto, continuate a essere tolleranti: è il vero modo di compiacere l’Essere degli esseri, che è il padre dei turchi e dei russi, dei cinesi e dei giapponesi, dei neri dei rossi e dei gialli, della natura intiera[78].
Il brusco passaggio dall’intolleranza (verso gli ebrei) alla tolleranza (verso tutti gli altri, almeno in teoria) rivela un’incoerenza profonda nel pensiero di Voltaire. Il suo Dio sarà stato indifferente al colore della pelle; Voltaire spesso non lo era. In generale, non era un pensatore rigoroso. Ma l’incapacità di vivere all’altezza dei principi universali dell’illuminismo non riguarda soltanto Voltaire. L’illuminismo, lo si è detto spesso, è un progetto incompiuto. Alla fine di Il faut prendre un parti il cittadino auspica la tolleranza, ampliandone i confini fino ad includere (sia pure in maniera scherzosa) anche gli animali:
In tutte le discussioni che si verificheranno, è esplicitamente proibito darsi del cane, anche al culmine dell’ira, a meno che non si trattino da uomini i cani, nel caso che ci rubino la cena o ci mordano, ecc. eec. ecc. [79].
Nella società tollerante delineata alla fine di II faut prendre un parti le donne non sono neppure menzionate. Può darsi che questo atteggiamento, così come quello verso gli schiavi, vada ricondotto ai limiti storici dell’illuminismo, e in quanto tale debba essere distinto dalla sua eredità ideale. Ci si può chiedere se quest’eredità sia realizzabile. Ci si può chiedere se la sua realizzazione sia auspicabile. Come si è visto, Auerbach rispose affermativamente alla penultima domanda, e negativamente all’ultima.
11. Tolleranza e intollerenza verso lo stesso esito
La riapertura della Borsa di New York pochi giorni dopo gli attentati alle torri del World Trade Center ha mostrato (me l’ha fatto notare Adriano Sofri) la straordinaria attualità della pagina di Voltaire sulla Borsa di Londra. La razionalità e globalità del mercato finanziario sono state contrapposte al fanatismo settario dei fondamentalismi religiosi: un gesto in cui Voltaire si sarebbe riconosciuto con entusiasmo.
La reazione di Auerbach sarebbe stata ovviamente diversa. Egli era abituato a guardare lontano e da lontano. Nelle vicende sanguinose che si svolgono sotto i nostri occhi avrebbe visto una tappa del tortuoso itinerario destinato a imporre nel mondo intero, attraverso convulsioni d’ogni genere, una società culturalmente omogenea. Ai suoi occhi, intolleranza (come quella di cui era personalmente vittima) e tolleranza contribuivano per vie opposte allo stesso risultato. Auerbach avrebbe forse condiviso anche le preoccupazioni di chi, in una prospettiva cosmica, ritiene che la diminuzione della diversità sia biologica sia culturale possa minacciare, nei tempi lunghissimi, le capacità di adattamento della specie umana. Il fisico Freeman Dyson formulò questa preoccupazione in un capitolo tra i più intensi della sua autobiografia, intitolato Cladi e Cloni[80]. Sono passati ventanni, nel frattempo è nata Dolly.
Note al testo
Nel 1999 ho discusso una versione precedente di queste pagine, in inglese, con i mici studenti di UCLA, con i partecipanti all’European History & Culture Colloquium (Department of History, UCLA), con Pier Cesare Bori, con Alberto Gajano, con Francesco Orlando, con Adriano Sofri. La versione italiana tiene conto delle loro osservazioni, e delle critiche che mi sono state comunicate da David Feldman. A tutti va il mio ringraziamento.
Note
[1] Cfr. Voltaire, Lettres philosophiques, in Mélanges, a cura di J. Van Den Heuvel, Paris 1961, pp. 1718: «Entrez dans la bourse de Londres, cette place plus respectable que bien des cours; vous y voyez rassemblés les députés de toutes les nations pour l’utilité des hommes, là le juif, le mahométan et le chrétien traitent l’un avec l’autre comme s’ils étaient de la même religion, et ne donnent le nom d’infidèles qu’à ceux qui font banqueroute; là le presbytérien se fie à l’anabaptiste, et l’anglican reçoit la promesse du quaker. Au sortir de ces pacifiques et libres assemblées, les uns vont à la synagogue, les autres vont boire, celuici va se faire baptiser dans une grande cuve au nom du Père par le Fils au Saint-Esprit; celuilà fait couper le prépuce de son fils et fait marmotter sur l’enfant des paroles hébraiques qu’il n’entend point; ces autres vont dans leur église attendre l’inspiration de Dieu leur chapeau sur la tête, et tous sont contents».
[2] E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, trad. it. (modificata) A. Romagnoli, H. Hinterhäuser, Torino 1964, li, pp. 161–66, in particolare p. 163. A. Compagnon, Le démon de la théorie, Paris 1998, p. 103, afferma che in Mimesis «la notion de réalisme allait encore de soi». Ma nella conclusione del libro (II, p. 342) Auerbach scrisse: «dato che neanche l’espressione “realistico” è univoca». Sul piano strettamente fattuale la descrizione di Voltaire era forse abbastanza precisa. Una pianta della Borsa di Londra datata «Août et septembre 1784» (Ecole des Ponts et Chaussee, ms. 8. manuscript of Le Sage, 1784) indica che ad alcune minoranze religiose erano assegnati determinati settori («Place des Quakers», «Place des Juifs»). Questa classificazione apparentemente s’intersecava con un’altra basata sulle professioni o sul settore di attività commerciale («Place des Drapiers», «Place de la Jamaïque», etc.). Ringrazio vivamente Margaret Jacob per avermi illustrato la pianta e per avermene dato una riproduzione.
[3] Auerbach, Mimesis cit., II, pp. 220–68 (capitolo «All’Hòtel de la Mole», su Stendhal, Balzac, Flaubert). Auerbach non chiarì mai in maniera esplicita i rapporti tra i vari tipi di realismo. Questa reticenza è stata interpretata, a torto, in chiave antiteorica: cfr. R. Wellek, Auerbach’s Special Realism, in «The Kenyon Review», 16 (1954), pp. 299–307.
[4] Auerbach, Mimesis cit., II, p. 165.
[5] «Epilegomena zu Mimesis», citato da A. Roncaglia nella sua introduzione a Mimesis cit., I, p. XX; ho corretto una lieve imprecisione nella traduzione. Sul frontespizio del libro si legge: «scritto a Istanbul tra il maggio 1942 e l’aprile 1945». Cfr. Introduzione di J.M. Ziolkovpski a E. Auerbach, Literary Language and Its Public in Late Latin Antiquity and in the Middle Ages, Princeton 1993, p. XXII.
[6] Si veda, di chi scrive, Occhiacci di legno. Nove riflessioni sulla distanza, Milano 1998, pp. 171–93.
[7] B. De Spinoza, Tractatus theologico politicus, cap. XX: «urbs Amstelodamum exemplo sit, quae tanto cum suo incremento, et omnium nationum admiratione hujus libertatis fructus experitur; in hac enim fiorentissima Republica, et urbe prestantissima omnes cujuscunque nationis et sectae homines summa cum concordia vivunt, et ut alicui bona sua credant, id tantum scire curant, num dives, an pauper sit, et num bona fide, an dolo solitus sit agere» (Opera, cd. C. Gebhardt, III, pp. 245–46).
[8] (B. De Spinoza] Traitté des ceremonies superstitieuses des Juifs tant Anciens que Modernes, à Amsterdam 1678, p. 527. Ho consultato un altro esemplare con un frontespizio diverso; La clef du sanctuaire par un sçavant homme de notre siècle, Leyden 1678.
[9] B. De Spinoza, Tractatus tkeologicopoliticus, pref.: «fides jam nihil aliud sit quam credulitas et praejudicia»; cap. XIV: «Superest jam, ut tandem ostendam, inter fidem, sive theologiam, et Philosophiam, nullum esse commercium»; cap. XX: «fides ejusque fundamental determinanda sunt; quod quidem in hoc capite facere constitui, simulque fidem Philosophia separare, quod totius opens praecipuum intentum fuit» (Opera, III, pp. 8, 179, 275–76). Si veda su tutto ciò E. Giancotti Boscherini, Lexicon Spinozanum, La Haye 1970, pp. 423–27.
[10] B. De Spinoza, Opera cit., III, p. 243.
[11] G. Procacci, Machiavelli nella cultura europea dell’età moderna, Bari 1995, pp. 275–76.
[12] L. Lombardi, Dalla «fides» alla «bona fides», Milano 1961; G. Freyburger, Fides. Étude sémantique et religieuse depuis les origines jusqu’à l’époque augustéenne, Paris 1986. Nel 1584 Johannes Molanus, professore all’università di Lovanio, pubblicò un’opera intitolata Libriquinque de fide haereticis servanda, très de fide rebellibus servanda: cfr. A. Prosperi, Fede, giuramento, Tolleranza e commercio inquisizione, in Glaube und Eid, a cura di P. Prodi, E. Mollerluckner, München 1993, pp. 157–71.
[13] Me l’ha fatto notare Pier Cesare Bori, che ringrazio. La tesi proposta con argomenti molto convincenti da A. Hirschman in The Passion and the Interests (Princeton 1977) può essere estesa alla religione. Verso il 1833 Stendhal fece un accenno sprezzante alla «giovane America in cui tutte le passioni, o quasi, si riducono al culto del dollaro» (abbozzo d’introduzione alle Chroniques Italiennes, Romans et nouvelles, éd. H. Martineau, Paris 1947, p. 544).
[14] P. Verniere, Spinoza et la pensée française avant la Révolution, II, Paris 1954, pp. 498–99. R. Pomeau, La religion de Voltaire, nuova ed. Paris 1969, p. 54, n. 82 sostiene invece che a quel tempo Voltaire conosceva l’opera di Spinoza solo indirettamente. Cfr. anche C. Porset, Notes sur Voltaire et Spinoza, in Spinoza au XVIIIe siècle, a cura di O. Bloch, Paris 1990, pp. 225–40.
[15] “Osent penser”, expression remarquable», osservò R. Pomeau a proposito del passo di Voltaire (Les «Lettres philosophiques»: le projet de Voltaire, in «Studies on Voltaire and the Eighteenth Century», 179 (1979), pp. 11–24, in particolare p. 12). L’importanza di Orazio per Voltaire è stata sottolineata da I.O. Wade, The intellectual Development of Voltaire, Princeton 1969, pp. 15–18. Su «sapere aude», si vedano le belle pagine di F. Venturi, Contributi a un dizionario storico, I: Was ist Aufklarung? Sapere aude!», in «Rivista storica italiana», LXXI (1959), pp. 119–28; ID., Utopia e riforma nell’illuminismo, Torino 1970, pp. 12–18 (e vedi anche, di chi scrive, L’alto e il basso in Miti emblemi spie, Torino 1984, pp. 107–32). Voltaire possedeva un esemplare dell’edizione di Orazio tradotta da Dacjer (Amsterdam 1727), in cui il passo è correttamente interpretato in un’accezione morale, non intellettuale: «ayez le courage d’être vertueux»: cfr. Venturi, Contributi cit., p. 120. Scoprire che la distorsione delle parole di Orazio risaliva a Voltaire avrebbe certamente fatto piacere a Venturi.
[16] «Il y avait plus de politesse dans l’air ouvert et humain de son visage qu’il n’y en a dans l’usage de tirer une jambe derrière l’autre et de porter à la main ce qui est fait pour couvrir la tète» (Voltaire, Lettres philosophiques, in Mélanges cit., p. 1).
[17] «Nous sommes chrétiens, et tâchons d’être bons chrétiens; mais nous ne pensons pas que le christianisme consiste à jeter de l’eau froide sur la tête, avec un peu de sel» (ivi, p. 2).
[18] «Notre Dieu qui nous a ordonne d’aimer nos ennemis et de souffrir sans murmure ne veut pas sans doute que nous passions la mer pour aller égorger nos frères, parce que des meurtriers vêtus de rouge avec un bonnet haut de deux pieds enrôlent des citoyens en faisant du bruit avec deux petits bâtons sur une peau d ane bien tendue» (ivi, p. 4).
[19] C.Ginzburg, Occhiacci di legno cit., pp. 18–20.
[20] «England is meeting of all religions, as the Royal exchange is the rendez vous of all foreigners»; «Where there is not liberty of conscience, there is seldom liberty of trade, the same tyranny encroaching upon the commerce as upon Relligion. In the Commonwealths and other free countrys one may see in a see port, as many relligions as shipps. The same god is there differently worship’d by jews, mahometans, heathens, catholiques, quackers, anabaptists, which write strenuously one against another, but deal together freely and with trust and peace; like good players who after having humour’d their parts and fought one against another upon the stage, spend the rest of their time in drinking together» (Voltaire’s Notebooks, a cura di Th. Besterman, I, II ed. Geneve 1968 [Les oeuvres complètes de Voltaire, 81], pp. 51–65.
[21] Ivi, p. 43, n. 2.
[22] J. Swift, A Tale of a Tub…, a cura di A.C. Guthkelch, D.N. Smith, Oxford 1920, p. 139.
[23] Ivi, pp. 345–46. Cfr. anche J. SWIFT, Journal to Stella, a cura di H. Willliams, Oxford 1948,1, April 14 1711, pp. 254–55. R. Pomeau, La religion de Voltaire, nuova ed., Paris 1969, pp. 131–32, afferma erroneamente che fino al 1756 Voltaire ricorda Swift soltanto in quanto autore di Gulliver. Pomeau cita Wolff, Elementa matheseos universae, come possibile fonte di Micromégas, senza menzionare i Viaggi di Gulliver (Voltaire, Romans et contes, Paris 1966, p. 125). Ma vedi I.O. Wade, Voltaire’s «Micromégas»: A Study in the Fusion of Science, Myth, and Art, Princeton 1950, p. 28.
[24] J. Swift, I viaggi di Gulliver, tr. di A. Valori, Genova 1913 (Gulliver’s Travels, eds. P. Dixon, J. Chalker, Harmondsworth 1967, p. 70: «a great silver chain, with a wonderful kind of engine at the bottom. We directed him to draw out whatever was at the end of that chain; which appeared to be a globe, half silver, and half of a transparent metal; for on the transparent side we saw certain figures circularly drawn […]. He put this engine to our ears, which made an incessant noise like that of a watermill. And we conjecture it is either some unknown animal, or the god that he worships»). E vedi G. Celati, Introduzione a J. Swift, I viaggi di Gulliver, Milano 1997, p. XIX.
[25] Il corsivo è mio.
[26] «Ainsi presque tout est imitation. L’idée des Lettres persanes est prise de celle de L’Espion turc. Le Boiardo a imité le Pulci, l’Arioste a imité le Boiardo. Les esprits les plus originaux empruntent les uns des autres. […] Il en est des livres comme du feu dans nos foyers; on va prendre ce feu chez son voisin, on l’allume chez soi, on le communique à d’autres et il appartient à tous» (Voltaire, Mélanges cit., p. 13–94).
[27] Lachmann, Die «Verfremdung» und das «Neue Sehen» bei Viktor Sklovskij, in «Poetica», III (1969), pp. 226–49.
[28] Cfr. F. Orlando, Illuminismo e retorica freudiana, Torino 1982, p. 163.
[29] Voltaire, Mélanges cit., pp. 157 ss. Per la data dell’opera cfr. I.O. Wade, Studies on Voltaire, Princeton 1947, pp. 871–29. Cfr. anche l’edizione a cura di H. Temple Patterson, Manchester 1917.
[30] «Peu de gens s’avisent d’avoir une notion bien étendue de ce que c’est que l’homme. Les paysans d’une partie de l’Europe n’ont guère d’autre idée de notre espèce que celle d’un animal à deux pieds, ayant une peau bise, articulant quelques paroles, cultivant la terre, payant, sans savoir pourquoi, certains tributs à un autre animal qu’ils appellent roi, vendant leur denrées le plus cher qu’ils peuvent, et s’assemblant certains jours de l’année pour chanter des prières dans une langue qu’ils n’entendent point» (Voltaire, Mélanges cit., p. 157).
[31] Voltaire, La philosophie de l’histoire, a cura di J.H. Baumfitt. seconda ed. rivista [The complete works of Voltaire, 59], Genève 1969, p. 109. Sulle versioni ulteriori di questo passo vedi Ginzburg, Occhiacci di legno cit., p. 28.
[32] Wade, Voltaire’s «Micromégas» cit., p. 28, sostiene che il testo pubblicato serba tracce di una più antica versione perduta, intitolata Voyage du baron de Gangan (1739). W.H. Barber, The Genesis of Voltaire’s «Micromégas», in «French Studies», XI (1957), pp. 115, respinge la maggior parte delle argomentazioni di Wade, ma concorda sulla derivazione dell’idea originaria di Micromégas dagli interessi scientifici di Voltaire nel decennio 1730-’40.
[33] «Des singes, des éléphants, des nègres, qui semblent tous avoir quelque lueur d’une raison imparfaite […]. L’homme est un animal noir qui a de la laine sur la tête, marchant sur deux pattes, presque aussi adroit qu’un singe, moins fort que les autres animaux de sa taille, ayant un peu plus d’idées qu’eux, et plus de facilité pour les exprimer; sujet d’ailleurs à toutes les mêmes nécessités, naissant, vivant, mourant tout comme eux» (Voltaire, Mélanges cit., pp. 159–60).
[34] Ivi, p. 180. Cfr. S. Landucci, I filosofi e i selvaggi, Bari 1972, pp. 80 ss.
[35] «La membrane muqueuse des nègres, reconnue noire, et qui est la cause de leur couleur, est une preuve manifeste qu’il y a dans chaque espèce d’hommes, comme dans les plantes, un principe qui les différencie. La nature a subordonné à ce principe ces différents degrés de génie et ces caractères des nations qu’on voit si rarement changer. C’est par là que les nègres sont les esclaves des autres hommes. On les achète sur les côtes d’Afrique comme des bêtes, et les multitudes de ces noirs, transplantés dans nos colonies d’Amérique, servent un très petit nombre d’Européens» (Voltaire, Essai sur les moeurs, éd. R. Pomeau, Paris 1963, II, p. 335).
[36] Cfr. M. Dochet, Anthropologie et Histoire au siècle des lumières, Paris 1971; C. Hunting, The Philosophes and Black Slavery: 1748–1765, in «Journal of the History of Ideas», luglio-sett. 1978, pp. 405–18. Cfr. anche G. Gliozzi, Poligenismo e razzismo agli albori del secolo dei Lumi, «Rivista di Filosofia», LXX (1979), pp. 131.
[37] «La pluspart des nègres, tous les Cafres sont plongés dans la même stupidité» (La Philosophie de l’histoire, p. 96); «Et y croupiront longtemps» (ibidem). Vedi anche la battuta razzista contenuta in Les Lettres d’Amabed (Voltaire, Romans et contes, a cura di F. Deloffre, J. Van Der Heuvel, Paris 1979, pp. 507–08). C. Hunting, The Philosophe, p. 417, n. 16, sostiene, in maniera non convincente, che il passo voleva mettere in ridicolo le opinioni correnti sui neri. Di opinione contraria Deloffre, Les Lettres d’Amabed cit., p. 1136 nota.
[38] Lo nega Hunting, The Philosophes, ma si veda A. Burgjo, Razzismo e lumi. Su un «paradosso» storico, in «Studi settecenteschi», 13 (1992–1993), pp. 293–329.
[39] Si veda l’articolo, alquanto apologetico, di E.P. Abanime, Voltaireantiesclavagiste, in «Studies on Voltaire and the Eighteenth Century», 182 (1979), pp. 237–52
[40] Voltaire, Mélanges cit., p. 205.
[41] Cfr. A. Morize, L’apologie du luxe au XVIIIeme siècle et «Le mondain» de Voltaire, Paris 1909; Wade, Studies on Voltaire cit., pp. 22–49; A.O. Aldridge, Mandeville and Voltaire, in Mandeville Studies, a cura di I. Primer, The Hague 1975, pp. 142–56. Wade sostiene che Voltaire conobbe The Fable of the Bees solo nel 1755, allorché scrisse La Défense du Mondain. si noti però che Wade stesso ha mostrato che Le Mondain era stato influenzato da Melon, Essai politique sur le commerce (1756) a sua volta influenzato da Mandeville.
[42] Non esiste a tutt’oggi una biografia di Auerbach. Molte informazioni utili in H.U. Gumbrecht, Pathos of the Earthly Progress, Literary History and the Challenge of Philology, a cura di S. Lerer, Stanford 1996, pp. 15–55.
[43] I versi sono citati Y.H. Yerüshalmi, Assimilation and Racial AntiSemitism: The Iberian and the German Models, in «The Leo Baeck Memorial Lecture», 26 (1992), pp. 21–22.
[44] K. Barck, Walter Benjamin and Erich Auerbach: Fragments of a Correspondence, in «Diacritics», 22 (winter 1992), trad. A. Reynolds, pp. 81–85 (si tratta di una versione abbreviata di 5 Briefe Erich Auerbachs an Walter Benjamin in Paris, in «Zeitschrift ftir Germanistik», 9 (1988), pp. 688–94). Devo la conoscenza di queste lettere a Stephen Greenblatt, che ringrazio vivamente.
[45] . Croce, La filosofia di Giambattista Vico, II ed. rivista, Bari 1922, p. 254. Auerbach tradusse in tedesco sia la Scienza Nuova (1925) sia la monografia di Croce su Vico (1927, insieme a Th. Lücke).
[46] E. Auerbach, Philology and Weltliteraiur, in «The Centennial Review», 15 (1969), pp. 1–17 (apparso originariamente come Philologie der Weltliteraiur, in Weltliteraiur. Festgabe für Fritz Strich, a cura di W. Henzen, W. Muschg, E. Staiger, Bern 1952, pp. 539–50). Vedi anche un accenno di Ziolkowski nell’Introduzione cit., p. XXV.
[47] M. Horkheimer, T.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, trad, it., Torino 1980, p. 8.
[48] Ivi, pp. 254–55.
[49] H. Mason, Voltaire’s Sermon against Optimism: the «Poème sur le désastre de Lisbonne», in Enlightenment Essays in Memory of Robert Shackleton, a cura di G. Barber, C.P. Courtney, Oxford 1988, pp. 189–205.
[50] «Il est toujours malheureusement nécessaire d’avertir qu’il faut distinguer les objections que se fait un auteur de ses réponses aux objections» (Voltaire, Oeuvres, a cura di L. Moland (di qui in avanti Moland), IX, Paris 1877, p. 469).
[51] «A l’égard des reproches d’injustice et de cruauté qu’on fait à Dieu, je réponds d’abord que supposé qu’il y ait un mal moral (ce qui me paraît une chimère), ce mal moral est tout aussi impossible à expliquer dans le système delà matière que dans celui d’un Dieu (…) nous n’avons d’autres idées de la justice que celles que nous nous sommes formées de toute action utile à la société, et conforme aux lois établies par nous pour le bien commun; or, cette idée n’étant qu’une idée de relation d’homme à homme, elle ne peut avoir aucune analogie avec Dieu. Il est tout aussi absurde de dire de Dieu, en ce sens, que Dieu est juste ou injuste que de dire que Dieu est bleu ou carré. Il est donc insensé de reprocher à Dieu que les mouches soient mangées par les araignées» (Voltaire, Mélanges cit., pp. 169–70).
[52] Molano, IX, p. 478, nota 12.
[53] Voltaire, Mélanges cit., p. 208.
[54] «Des nègres qu’on achetait en Afrique, et qu’on transportait au Pérou comme des animaux destinés au service des hommes» (ID., Essai sur les moeurs, éd. R. Pomeau, Paris 1965, II, p. 560).
[55] Cfr. per esempio Voltaire, Correspondence, a cura di Th. Besterman, D 6709,6758,6758, 6776.
[56] Un’argomentazione analoga sembra essere stata proposta da R. Arruda nella sua dissertazione inedita La réaction littéraire de Voltaire et ses contemporains au tremblement de terre de Lisbonne de 1755 (1977, Middlebury College): cfr. F.A. Spear, con la partecipazione di E. Kreacer, Bibliographie analytique des écrits relatifs a Voltaire 1966–1990, Oxford 1992, p. 294. Per le aggiunte all’Essai sur les moeurs mi sono servito dell’edizione curata da Pomeau. Cfr. in generale H. Duranton, Les manuscrits et les éditions corrigées de «l’Essai sur les mœurs», in Die Nachlassedition La publication des manuscrits inédits, Bern 1979, pp. 54–62.
[57] «On comptait, en 1757, dans la Saint-Domingue française, environ trente mille personnes, et cent mille esclaves nègres ou mulâtres, qui travaillaient aux sucreries, aux plantations d’indigo, de cacao, et qui abrègent leur vie pour flatter nos appétits nouveaux, en remplissant nos nouveaux besoins, que nos pères ne connaissaient pas. Nous allons acheter ces nègres à la côte de Guinée, à la côte d’Or, à celle d’Ivoire. II y a trente ans qu’on avait un beau nègre pour cinquante livres; c’est à peu près cinq fois moins qu’un boeuf gras […]. Nous leurs disons qu’ils sont hommes comme nous, qu’ils sont rachetés du sang d’un Dieu mort pour eux, et ensuite on les fait travailler comme des bêtes de somme: on les nourrit plus mal; s’ils veulent s’enfuir, on leur coupe une jambe, et on leur fait tourner à bras l’arbre des moulins à sucre, lorsqu’on leur a donné une jambe de bois. Après cela nous osons parler du droit des gens! […] Ce commerce n’enrichit point un pays; bien au contraire, il fait périr des hommes, il cause des naufrages; il n’est pas sans doute un vrai bien; mais les hommes s’étant fait des nécessités nouvelles, il empêche que la France n’achète chèrement de l’étranger un superflu devenu necessaire» (Voltaire, Essai sur les mœurs cit., II, pp. 379–80).
[58] La Rochefoucauld, Maximes, a cura di J. Truchet, Paris 1967, p. 11.
[59] Cfr. A.O.Lovejoy, The Great Chain of Being, Cambridge 1961, pp. 252–53, p. 365 n. 15. E vedi anche Dictionnaire philosophique (1764), a cura di Ch. Mervaud, Oxford 1994,1, pp. 513–21, articolo Chaine des êtres créés.
[60] «Il y a probablement une distance immense entre l’homme et la brute, entre l’homme et les substances supérieures» (Moland, IX, p. 471).
[61] D. 9289, D 9329 (Voltaire, Correspondence, ed. T. Besterman, XXII). La risposta di d’Alembert contiene un’allusione sarcastica a Rousseau, suggerita da una stampa intitolata Repas de nos philosophes, e dalla commedia Les Philosophes di Charles Palissot, entrambe dello stesso anno 1760.
[62] II dialogo figura comunque nel volume antologico della Pleiade, più volte citato (Voltaire, Mélanges cit.). Cfr. anche Ch. Mervaud, Voltaire à table. Plaisir du corps, plaisir de l’esprit, Paris 1998, pp. 154–56. H. Hastings, Man and Beast in the French Thought of the Eighteenth Century, Baltimore 1936, pp. 257–58, lo definisce, un po’ sbrigativamente, «humorous».
[63] Voltaire, Mélanges cit., pp. 323–35.
[64] E. Auerbach, Remarques sur le mot «passion», in «Neuphilologische Mitteilungen», 38 (1937), pp. 218–24; ID., Passio als Leidenschaft, in Gesammelte Aufsätze zur romanischen Philologie, Bern 1967, pp. 161–75.
[65] «Une maudite servante m’a prise sur ses genoux, m’a plongé une longue aiguille dans le cul, a saisi ma matrice, l’a roulée autour de l’aiguille, l’a arrachée et l’a donné à manger à son chat» (Voltaire, Mélanges cit., p. 679).
[66] R. Galliani, Voltaire, Porphyre et les animaux, in «Studies on Voltaire and the Eighteenth Century», 199 (1981), pp. 125–38.
[67] Moland, X, pp. 140–48.
[68] Mandeville, Fable of the Bees, ed. by F.B. Kaye, Oxford 1924, I, pp. 169–81. Questo passo va aggiunto all’esame particolareggiato degli echi di Mandeville nell’opera di Voltaire preparato da Wade (Studies on Voltaire cit., pp. 12–56). Su Cartesio e gli animali cfr. Hastings, Man and Beast cit.; L. Cohen Rosenfield, From Beast-Machine to Man-Machine, New York 1941. Avverto che la mia conoscenza del De brutorum operationibus di Mandeville è solo indiretta.
[69] Voltaire, Mélanges cit., p. 682.
[70] Ch. Mervaud, Voltaire à table cit., pp. 153–68.
[71] «Il est juste qu’une espèce si perverse se dévore elle-même, et que la terre soit purgée de cette race» (Voltaire, Mélanges cit., p. 681).
[72] Cfr. N. Hudson, From Nation to Race: The Origin of Racial Classification in Eighteenth Century Thought, in «Eighteenth Century Studies», 29 (1996), pp. 247–64 (che mi è stato segnalato da Daniel Stolzenberg). Sul presunto cannibalismo degli ebrei cfr. Voltaire, Dictionnaire philosophique, I: Anthropophages, pp. 347–49; II: Jephté, pp. 240–42, nonché B.E. Schwarzbach, Voltaire et les Juifs: bilan et plaidoyer, in «Studies on Voltaire and the Eighteenth Century», 358 (1998), pp. 27–91, specialmente pp. 82–83.
[73] «Aïe! On me prend par le cou. Pardonnons à nos ennemis» (Voltaire, Mélanges cit., p. 684).
[74] Cfr. Ginzburg, Occhiacci di legno cit., pp. 100–17.
[75] Sade, La Philosophie dans le boudoir, in Oeuvres, III, a cura di M. Delon, Paris 1998, pp. 143–53. Tornerò altrove su questo tema.
[76] «Tous les animaux s’égorgent les uns les autres; ils y sont portés par un attrait invincible […] il n’est point d’animal qui n’ait sa proie, et qui, pour la saisir, n’emploie l’équivalent de la ruse et de la rage avec laquelle l’exécrable araignée attire et dévore la mouche innocente. Un troupeau de moutons dévore en une heure plus d’insectes, en broutant l’herbe, qu’il n’y a d’hommes sur la terre […] Ces victimes n’expirent qu’après que la nature a soigneusement pourvu à en fournir de nouvelles. Tout renaît pour le meurtre» (Molano, XXVIII, Paris 1880, p. 534).
77 Ivi, p. 549.
[77] Sade, La Philosophie dans le boudoir, in Oeuvres, III, a cura di M. Delon, Paris 1998, pp. 143–53. Tornerò altrove su questo tema.
[78] «Les Cafres, les Hottentots, les nègres de Guinée, sont des êtres beaucoup plus raisonnables et plus honnêtes que les Juifs […] Vous (Juifs) l’avez emporté sur toutes les nations en fables impertinentes, en mauvaise conduite, et en barbarie; vous en portez la peine, tel est votre destin […] Continuez surtout à être tolérants: c’est le vrai moyen de plaire à l’Etre des êtres, qui est également le père des Turcs et des Russes, des Chinois et des Japonais, des nègres, des tannés et des jaunes, et de la nature entière» (ivi, p. 551 ).
[79] Auerbach, Mimesis cit., II, pp. 334–38.
[80] F. Dyson, Disturbing the Universe, New York 1979, p. 223. Ma vedi anche le osservazioni sui rapporti tra culture formulati da C. Levi-Strauss, Le regard éloigné, Paris 1983, pp. 11–17–21–48.
Da: Carlo Ginzburg, Tolleranza e commercio. Auerbach legge Voltaire, in “Quaderni storici”, Vol. 37, № 109 (1), Aprile 2002, pp. 259–283.
Erich Auerbach (Berlino, 1892 - Wallingford (Connecticut, usa,1957), è stato professore di romanistica alla Yale University e uno dei fondatori della corrente critica conosciuta con il nome di stilistica. Studioso di Dante deve la sua notorietà internazionale a Mimesis del 1946, che raccoglie i suoi studi sul realismo letterario europeo dalle origini fino alla prima metà del Novecento. Un’altra opera importante è Introduzione alla filologia romanza pubblicata in lingua italiana da Einaudi. L’influenza di Auebarch è tutt’oggi forte nell’ambito degli studi di critica letteraria e soprattutto di letteratura comparata.
Carlo Ginzburg, nato a Torino nel 1939, dopo aver a lungo insegnato a Bologna e negli Stati Uniti, dal 2006 al 2010 è stato titolare della cattedra di Storia delle Culture europee alla Scuola Normale Superiore di Pisa.