La parabola di Saint-Simon

Produttori e non produttori

Mario Mancini
9 min readDec 5, 2021

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Il socialismo utopistico
Introduzione di Umberto Cerroni
Charles Fourier
Robert Owen
Pierre Joseph Proudhon

Henri de Saint-Simon

Il conte Henri Claude de Rouvroy de Saint-Simon (17601825), primo della grande triade del socialismo utopistico che annovera ancora Owen e Fourier, ebbe una vita avventurosa.

Ufficiale nel corpo di spedizione francese in America, partecipò con Lafayette alla guerra d’indipendenza. Ritornato in Francia nel 1783 si occupò di ingegneria; partecipò marginalmente alla rivoluzione interessandosi piuttosto ai commerci e fu arrestato nel 1793.

Rinunciò però ai suoi titoli (volle chiamarsi Claude-Henri Bonhomme) e restò repubblicano. La sua prima opera furono le Lettere di un abitante di Ginevra ai suoi contemporanei, pubblicate anonime nel 1803, nelle quali è progettata una società depurata da nobili ed oziosi.

Nel 1808 precisava le sue idee in una Introduzione ai lavori scientifici del XIX secolo, cui seguirono altri scritti enciclopedici rimasti in gran parte inediti. Nel 1814 pubblicava una nuova opera intitolata Della riorganizzazione della società europea o della necessità e dei mezzi per riunire i popoli conservando a ciascuno la sua indipendenza nazionale. Seguirono poi, più importanti, il Sistema industriale e il Nuovo cristianesimo, in cui si avverte l’influenza ideale di Auguste Comte, al quale si era legato.

Ebbe numerosi discepoli, tra cui Olinde Rodriguez e soprattutto Bartolomeo Enfantin (1796–1864) e Pierre Leroux (1797–1871).

Il tema centrale dell’opera di Saint-Simon è costituito dalla rilevazione della fondamentale funzione che nella società svolge la produzione industriale, di fronte alla quale rivela la sua impotenza la vecchia struttura politica ed economica.

La società del nuovo secolo deve entrare in una fase ciclica nuova, quella della organizzazione, dopo l’età della schiavitù, del servaggio e del proletariato: sarà una fase “organica” di ricostruzione, dopo quella “critica” che ha sconvolto le istituzioni feudali.

L’esaltazione di questo momento ricostruttivo sospinge Saint-Simon verso una concezione gerarchica, organicistica e anche autoritaria, ma fondata su una netta distinzione dei membri della società in produttori e non produttori.

Il suo appello si colora di misticismo allorché chiede che gli sforzi di tutti si concentrino nella costruzione di un felice regno terrestre che realizzi ciò che la tradizione cristiana ha demandato al regno dei cieli.

Occorre una fede nuova, un “nuovo cristianesimo”. In questo scioglimento mistico-religioso della denuncia sain-simoniana vanno perdute le acute indagini sulle strutture civili della società moderna, la cui conclusione dissolve il valore delle differenze sociali che erano state individuate. Il centro motore della società è piuttosto il grande nucleo industriale organizzato che non la trama di rapporti sociali in cui si svolge il processo della produzione, l’impianto di una “organizzazione delle cose” piuttosto che la trasformazione dei rapporti di classe.

“Saint-Simon era una natura faustiana, che aveva indagato la vita della sua epoca in tutte le sue altezze e profondità, uno spirito universale che si elevava al di sopra dell’Illuminismo come del Romanticismo francese.
Contrariamente agli illuministi egli comprendeva l’intima connessione della storia, la giustificazione storica del Medioevo, la forza motrice della religione; ma contrariamente ai romantici respingeva il ritorno a forme di dispotismo feudale e clericale. Come grand seigneur della vecchia Francia egli proclamò che il potere non spettava più alla fede e all’esercito ma all’industria e alla scienza…
Alle geniali anticipazioni di Saint-Simon erano ancora commiste grossolane scorie di concezioni borghesi e persino gerarchiche, ma i semi da lui gettati hanno fecondato il socialismo posteriore nei campi più diversi, mentre il suo tumultuoso mondo ideale era illuminato da intuizioni profetiche che come raggi di sole squarciavano un cielo denso di nubi” (Mehring).

Segue il testo integrale della Parabola di Saint-Simon nella traduzione di Gian Mario Bravo. (Il socialismo prima di Marx, Roma, 1966).

Umberto Cerroni

Parabola di Saint-Simon

Supponiamo che la Francia perda all’improvviso i suoi cinquanta primi fisici, i suoi cinquanta primi chimici, i suoi cinquanta primi fisiologhi, i suoi cinquanta primi matematici, i suoi cinquanta primi poeti, i suoi cinquanta primi pittori, i suoi cinquanta primi musicisti, i suoi cinquanta primi letterati;

i suoi cinquanta primi meccanici, i suoi cinquanta primi ingegneri civili e militari, i suoi cinquanta primi architetti, i suoi cinquanta primi artificieri, i suoi cinquanta primi medici, i suoi cinquanta primi chirurghi, i suoi cinquanta primi farmacisti, i suoi cinquanta primi marinai, i suoi cinquanta primi orologiai;

i suoi cinquanta primi banchieri, i suoi duecento primi negozianti, i suoi seicento primi coltivatori, i suoi cinquanta primi mastri d’officina, i suoi cinquanta primi fabbricanti di armi, i suoi cinquanta primi conciatori, i suoi cinquanta primi tintori, i suoi cinquanta primi minatori, i suoi cinquanta primi fabbricanti di panni, i suoi cinquanta primi fabbricanti di cotone, i suoi cinquanta primi fabbricanti di sete, i suoi cinquanta primi fabbricanti di tela, i suoi cinquanta primi fabbricanti di chincaglieria, i suoi cinquanta primi fabbricanti di maioliche e porcellane, i suoi cinquanta primi fabbricanti di cristalli e vetrerie, i suoi cinquanta primi armatori, le sue cinquanta prime case di trasporto, i suoi cinquanta primi tipografi, i suoi cinquanta primi incisori, i suoi cinquanta primi orafi e altri lavoratori di metalli;

i suoi cinquanta primi muratori, i suoi cinquanta primi carpentieri, i suoi cinquanta primi falegnami, i suoi cinquanta primi maniscalchi, i suoi cinquanta primi fabbri, i suoi cinquanta primi coltellinai, i suoi cinquanta primi fonditori e altre cento persone di diversa condizione non determinata, assai abili nelle scienze, nelle belle arti e nei diversi mestieri, facendo in tutto i primi tremila sapienti, artisti e artigiani della Francia.

Questi uomini sono i produttori più necessari della Francia, forniscono i beni più importanti, dirigono i lavori più utili per la nazione e la rendono feconda nelle scienze, nelle belle arti e nelle arti e mestieri: sono realmente il fiore della società francese; sono i francesi più utili al loro paese, che gli arrecano la gloria maggiore, che accelerano di più la sua civilizzazione e la sua prosperità: la nazione, perduti costoro, diverrebbe un corpo senz’anima; cadrebbe immediatamente in uno stato di inferiorità nei confronti delle nazioni di cui è oggi la rivale, e sarebbe sempre subalterna al loro sguardo, finché non avesse posto riparo a questa perdita, finché non le fosse rigermogliata una testa.

La Francia avrebbe bisogno di un’intera generazione almeno per rimediare a una tale disavventura; infatti gli uomini che si distinguono nei lavori di una utilità positiva sono delle reali anomalie, e la natura non è prodiga di eccezioni, soprattutto di tal specie.

Passiamo ad un altro caso. Supponiamo che la Francia conservi tutti gli uomini di genio ch’essa possiede nelle scienze, nelle belle arti e nelle arti e mestieri, e che invece abbia la disgrazia di perdere, nello stesso giorno, Sua Altezza il fratello del Re, Monsignor il duca di Angoulème, Monsignor il duca di Berry, Monsignor il duca di Orléans, Monsignor il duca di Borbone, la duchessa di Angouléme, la duchessa di Berry, la duchessa di Orléans, la duchessa di Borbone e la signorina di Condé;

ch’essa contemporaneamente perda tutti i grandi ufficiali della corona, tutti i ministri di Stato, con o senza dipartimento, tutti i consiglieri di Stato, tutti i referendari, tutti i suoi marescialli, tutti i suoi cardinali, arcivescovi, vescovi, grandi vicari e canonici, tutti i prefetti e i viceprefetti, tutti gli impiegati nei ministeri, tutti i giudici e, in più, i diecimila proprietari più ricchi fra coloro che conducono una vita pari a quella dei nobili.

Di solito vengono indicati come artigiani soltanto i semplici operai. Per evitare le circonlocuzioni, intendiamo con questa espressione tutti coloro che si occupano di prodotti materiali, cioè: i coltivatori, i fabbricanti, i commercianti, i banchieri e tutti i garzoni e gli operai che essi impiegano.

Questo avvenimento rattristerebbe indubbiamente i francesi, perché essi sono buoni e non saprebbero restare indifferenti di fronte alla sparizione improvvisa di un gran numero di compatriotti.

Ma questa perdita di trentamila individui, i più importanti dello Stato, non sarebbe causa per loro di dolore se non in un senso puramente sentimentale, perché non ne risulterebbe alcun danno politico per lo Stato.

Anzitutto per il fatto che sarebbe assai facile occupare i posti divenuti vacanti: esiste un gran numero di francesi in grado di esercitare le funzioni di fratello del re bene quanto Sua Altezza; molti sono capaci di occupare i posti di principe bene come Monsignore duca d’Angoulème, come Monsignore duca d’Orléans, come Monsignore duca di Borbone; molte francesi sarebbero buone principesse al pari della duchessa d’Angoulème, della duchessa di Berry, delle signore d’Orléans, di Borbone e di Condé.

Le anticamere del castello sono piene di cortigiani pronti a sostituire i grandi ufficiali della corona; l’armata ha una gran quantità di militari, buoni capitani quanto i nostri marescialli attuali.

Quanti garzoni valgono come i nostri ministri di Stato! Quanti amministratori sono in grado di gestire gli affari dei dipartimenti meglio dei prefetti e dei viceprefetti tuttora in attività! Quanti avvocati, buoni giuristi come i nostri giudici!

Quanti curati, capaci quanto i nostri cardinali, i nostri arcivescovi, i nostri vescovi, i nostri grandi vicari e i nostri canonici! Per ciò che poi riguarda i diecimila proprietari che vivono come i nobili, i loro eredi non avrebbero certo bisogno di un qualche apprendistato per fare gli onori di casa nei loro saloni bene quanto loro.

La prosperità della Francia non può essere determinata se non per effetto e come risultato del progresso delle scienze, delle belle arti e delle arti e mestieri: ora, i principi, i grandi ufficiali della corona, i vescovi, i marescialli di Francia, i prefetti e i proprietari oziosi non lavorano affatto per il progresso delle scienze; non vi contribuiscono, anzi, non possono non nuocervi, perché si sforzano di protrarre il predominio esercitato fino ad oggi dalle teorie congetturaci sulle conoscenze positive; essi nuocciono necessariamente alla prosperità della nazione privando, com’essi fanno, i sapienti, gli artisti e gli artigiani del primo grado di considerazione che loro appartiene legittimamente; nuocciono, perché impiegano i loro mezzi pecuniari in modo non direttamente utile per le scienze, per le belle arti e per le arti e mestieri; nuocciono perché, annualmente, sulle imposte pagate dalla nazione, prelevano una somma da 3 a 400 milioni a titolo di stipendi, di pensioni, di gratifiche, di indennità ecc., per il pagamento dei loro lavori, che però sono del tutto inutili.

Questi ragionamenti rendono evidente il fatto più importante della politica attuale; offrono una visuale donde si scopre questo fatto in tutta la sua estensione e con un sol colpo d’occhio: provano chiaramente, per quanto in modo indiretto, che l’organizzazione sociale è ben lungi dall’essere perfetta; che gli uomini si fanno ancora governare dalla violenza e dall’astuzia; che la specie umana, politicamente parlando, è ancora immersa nell’immoralità:

— giacché i saggi, gli artisti e gli artigiani, i soli esseri umani i cui lavori siano di una utilità positiva per la società e le cui opere non vengano a costare ad essa quasi nulla, sono resi subalterni dai principi e dagli altri governanti, i quali non sono che degli empirici più o meno incapaci;

— giacché i dispensatori della stima e delle altre ricompense nazionali, in generale non devono il predominio di cui godono che al caso della nascita, all’adulazione, all’intrigo o ad altre azioni poco stimabili;

— giacché coloro che sono incaricati di amministrare gli affari pubblici si dividono tra loro, tutti gli anni, la metà dell’imposta, mentre non giungono ad impiegare un terzo dei contributi, di cui non s’impadroniscono personalmente, in un modo che sia utile per gli amministrati.

Queste argomentazioni provano che la società attuale rappresenta veramente il rovescio del mondo:

— perché la nazione ha ammesso come principio base che i poveri dovevano essere generosi verso i ricchi, e conseguentemente che i meno agiati dovevano privarsi quotidianamente di una parte del necessario per aumentare il superfluo dei grandi proprietari;

— perché i massimi colpevoli, i ladri generali, coloro che dissanguano la totalità dei cittadini e che sottraggono loro annualmente da 3 a 400 milioni, hanno l’incarico di punire i piccoli delitti contro la società;

— perché l’ignoranza, la superstizione, l’accidia e il gusto dei piaceri dispendiosi costituiscono l’appannaggio dei capi supremi della società, mentre le persone capaci, econome e laboriose non sono impiegate che come dipendenti e come strumenti;

— perché, in una parola, in tutti i tipi di attività, gli uomini incapaci hanno il compito di dirigere le persone capaci; per quanto si riferisce alla moralità, gli uomini più immorali sono chiamati ad educare virtuosamente i cittadini e, in relazione alla giustizia distributiva, i grandi colpevoli sono preposti a punire le colpe dei piccoli delinquenti.

Da Umberto Cerroni, Il pensiero politico. Dalle origini ai nostri giorni, Editori Riuniti, Roma, 1966, pp. 758–762

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.