Wilhelm von Humboldt: Stato e individuo
Saggio sui limiti dell’azione dello Stato
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Wilhelm von Humboldt
Wilhelm von Humboldt (1767–1835) può considerarsi il capostipite dei moderno costituzionalismo liberale. Nato a Potsdam fece i suoi studi giuridici a Francoforte sull’Oder e a Gottinga.
Fu poi a Parigi allo scoppio della rivoluzione francese. Viaggiò in seguito in Spagna, in Francia e in Italia (ove fu ambasciatore di Prussia). Fu ministro per il culto nel gabinetto liberale di Altenstein, ambasciatore a Vienna e a Londra, consigliere di Stato, di nuovo ministro nel 1829.
Letterato e glottologo oltre che filosofo, dette il meglio di sé nelle opere politiche (Idee sulla costituzione dello Stato suggerite dalla nuova Carta costituzionale francese, 1792; Idee per un saggio sui limiti dell’attività dello Stato, 1792; Memoriale sulla Costituzione tedesca, 1813; Memoriale sulla Costituzione prussiana per stati, 1819; Memoriale sulla Costituzione per stati, 1819).
Tema centrale del suo pensiero politico è quello del rapporto fra individuo e Stato. Impostando un confronto, che sarà ripreso da Constant, fra la libertà degli antichi e la libertà dei moderni, Humboldt mette in luce il primato individualistico nel mondo moderno in forza del quale vita privata e vita pubblica divergono e «la libertà della vita privata cresce a misura che diminuisce la libertà pubblica».
Lo Stato è così esonerato da quei compiti di virtù che ne improntavano la fisionomia nel mondo antico. La sua presenza è un «male necessario» che deve essere contenuto rigorosamente entro i confini di una promozione del libero dinamismo dell’«energia» individuale. L’associazione politica è bensì necessaria al superamento dello «stato di isolamento» ma quel superamento non può significare la soppressione o compressione della «personalità originale».
Lo Stato, dunque, «sia liberato da ogni cura per il bene positivo dei cittadini». Sua sfera essenziale e unica è la garanzia della sicurezza interna ed esterna. Per parte sua, dunque, l’uomo non si esaurisce nel cittadino, vive invece in questa doppia figura che può armonizzarsi soltanto quando «le leggi dello Stato richiedano al cittadino così poche qualità speciali, che la naturale forma dell’uomo possa conservarsi senza nulla sacrificare di sé.
Tutte le benefiche conseguenze di tale sistema scompaiono, quando l’uomo sia sacrificato al cittadino». L’ordinamento dello Stato, su cui si accentra ormai l’interesse teorico, si prospetta perciò come un sistema di garanzie costituzionali che deve principalmente comprendere:
«1) la sicurezza personale dell’individuo, derivante dal principio della legalità,
2) la sicurezza della proprietà,
3) la libertà di coscienza,
4) la libertà di stampa».
Si tratta di una prima organica formulazione del sistema dei diritti civili e politici nel quale si risolve ormai la tematica dei «diritti di natura» e che trova il suo epicentro nella costruzione di un equilibrio istituzionale dei poteri pubblici atto a stabilire organici limiti all’attività dello Stato.
Da questa impostazione deriva necessariamente la tendenziale trasposizione del problema politico nel problema giuridico. Come dice appunto Humboldt, diventano presupposti essenziali di qualsiasi legislazione:
«1) una teoria completa e generale del diritto,
2) una determinazione precisa del fine che lo Stato dovrebbe proporsi, o (ciò che in fondo è lo stesso) una determinazione dei limiti nei quali deve contenere la propria azione, ovvero una esposizione dello scopo speciale che questa od altra società si propone,
3) una teoria dei mezzi necessari all’esistenza dello Stato».
Siamo alla vigilia della grande fioritura ottocentesca delle scienze positive del diritto.
Seguono i primi quattro capitoli della prima parte del Saggio sui limiti dell’azione dello Stato nella traduzione di Giacomo Perticone (Torino, 1929). Le note di Humboldt sono contrassegnate come note dell’autore.
Umberto Cerroni
Saggio sui limiti dell‘azione dello Stato
Introduzione
Osservando le forme di governo più notevoli e le dottrine dei filosofi e politici più autorevoli, si rileva, con legittimo stupore, come un problema, degno di tutta l’attenzione, non sia stato studiato e risolto in maniera soddisfacente. I
l problema è questo: qual’è il fine dell’organizzazione sociale? Quali sono i limiti della sua azione? Tutti i legislatori e riformatori politici si occuparono sempre di assegnare i veri compiti dello Stato o dei singoli rappresentanti il governo e di distinguere i vari rami dell’amministrazione, avvisando ai mezzi perché una parte dei consociati non potesse annullare i diritti dell’altra.
A me pare invece che ogni nuovo tentativo di organizzazione non dovrebbe prescindere da alcuna di queste due considerazioni: che sia necessario, cioè, distinguere governanti e governati e la parte rispettiva nella costituzione dello Stato; che si debba, ancora, determinare i confini entro i quali lo Stato costituito potrà esercitare la propria azione.
Questo secondo punto, che tocca la vita privata dei cittadini, che dà la misura della loro libertà e della loro indipendenza, rappresenta veramente il punto principale; l’altro è soltanto il mezzo, necessario, per realizzare quello scopo.
È incontestabile che la ricerca del fine e dei limiti dell’azione dello Stato ha una grande importanza, forse maggiore di qualunque altro problema politico.
Si è già osservato che essa costituisce l’oggetto definitivo, per dir così, della scienza politica. Non solo, ma la sua applicazione è vastissima. Le rivoluzioni, i cambiamenti di costituzione sono sempre fondati su fattori molteplici e son gravi di conseguenze perniciose; invece qualunque governo, democratico o aristocratico, può estendere o restringere i confini della sua azione senza scosse e senza clamore, raggiungendo tanto più sicuramente il suo scopo, quanto meno evidente è stata la sua innovazione.
Le migliori opere dell’uomo son quelle in cui imita più perfettamente la natura. Il piccolo germe ignorato, accolto nel seno della terra, è certo più fecondo di bene che non l’eruzione d’un vulcano, necessaria ma infesta.
Non v’è mezzo di riforma, ai nostri tempi, di elevata cultura, più capace di produrre una maggiore libertà e una maggiore varietà di situazioni. Una grande libertà non è possibile senza una grande civiltà. E la libertà, conquistata rivoluzionariamente, bella e nobile senza dubbio, somiglia alla libertà, che lo Stato costituito spontaneamente concede, come la speranza somiglia al godimento, l’abbozzo all’opera compiuta.
Se guardiamo alla storia delle costituzioni, notiamo subito, che nessuna di esse ha delimitato preventivamente e in base a principi chiaramente posti, la propria sfera d’azione. La libertà dei cittadini, invece, fu sempre ristretta o in considerazione della necessità di organizzare e di assicurare il potere o in vista della utilità della assistenza morale e materiale della nazione.
Ciascuno dei due punti di vista è stato adottato, secondo che il potere avesse più o meno bisogno di difesa, o il legislatore spingesse più o meno lontano il suo sguardo; spesso poi furono adottati tutte due insieme.
Negli Stati dell’antichità, quasi tutte le disposizioni che riguardano la vita privata hanno carattere politico. Il governo, fondato sulla volontà nazionale, doveva cercare di esprimerla in tutti i suoi momenti. Lo stesso succede oggi nelle piccole repubbliche. Da questo angolo visuale, si può affermare che la libertà della vita privata cresce a misura che diminuisce la libertà pubblica, mentre la sicurezza segue la medesima proporzione di questa.
Tutti gli antichi filosofi e quasi tutti gli antichi legislatori si sono preoccupati dell’uomo nel senso meno ampio, e dell’uomo hanno sempre avuto di mira specialmente la dignità morale. È così che la Repubblica di Platone, secondo la giusta osservazione di Rousseau è più un trattato di educazione che di politica.
Gli antichi si preoccupavano della forza e dello sviluppo dell’uomo come uomo; i moderni si preoccupano del suo benessere, della sua ricchezza, dei mezzi di guadagnarsela. Gli antichi cercavano la virtù, i moderni la prosperità. Perciò !e restrizioni della libertà erano più pesanti e più gravi, negli Stati antichi, in quanto colpivano la parte essenziale dell’uomo, la sua interiorità.
È naturale dunque che gli Stati dell’antichità avessero un carattere esclusivistico, che — a parte le condizioni di civiltà e la limitatezza dei mezzi di comunicazione — era determinato dalla educazione pubblica e dalla vita in comune, cui lo Stato presiedeva. E questo intervento determinava, d’altra parte, coll’intento di formare cittadini energici e sobri, un maggior sviluppo dello spirito e del carattere.
Oggi, invece, l’uomo è per se stesso libero, ma sembra soverchiato dalle cose che lo circondano; onde il suo primo movimento è diretto ad affrancarsi da questi legami esterni. Oggi, poiché lo Stato si occupa piuttosto di ciò che il cittadino possiede, e non di ciò che è, del suo sviluppo fisico, intellettuale e morale, come lo Stato antico, ma tende a imporgli, come leggi, le sue idee; le restrizioni alla libertà sopprimono l’energia, che è la fonte d’ogni virtù attiva e la condizione di ogni svolgimento compiuto. Presso gli antichi l’aumento d’energia compensava l’esclusivismo; oggi l’esclusivismo si aggiunge alla perdita d’energia.
Questa differenza tra antichi e moderni è evidente. Negli ultimi secoli, ciò che più attira la nostra attenzione è la rapidità dei progressi, la quantità e la applicazione delle invenzioni industriali, l’imponenza delle intraprese. Nell’antichità la grandezza, che ci colpisce, è legata alle azioni di un uomo e sparisce con esso; la fecondità dell’immaginazione, la profondità della mente, a forza del volere, l’unità coerente dell’esistenza intera, dà all’uomo il suo vero valore.
L’uomo, e principalmente la sua forza: ecco il fine di ogni attività per gli antichi; noi ci occupiamo troppo spesso d’un’unità astratta, in cui gli individui scompaiono, o, tutt’al più, ci occupiamo della sicurezza, del benessere degli individui, ma non della loro interiorità. Gli antichi ricercavano la felicità nella virtù, i moderni pensarono troppo tardi a sviluppare la virtù dalla felicità, e quello stesso che trattò della morale nella sua più compiuta purezza, assegnò, per via di deduzioni artificiose, al suo uomo ideale la felicità, non come un bene suo proprio, ma come una ricompensa esteriore.
Non voglio insistere oltre su questa differenza e finisco con una citazione dall’Etica di Aristotele: «A ciascuno è la cosa migliore e la più dolce, quella che gli è naturalmente propria. All’uomo dunque la vita che è secondo ragione, dato che l’uomo è soprattutto ragione»
Gli scrittori di diritto pubblico hanno spesso agitato la questione: Se lo Stato debba mirare soltanto alla sicurezza o al bene generale, materiale e morale, della nazione. La preoccupazione della libertà viene in sostegno della prima tesi; mentre l’idea che lo Stato possa dar qualcosa più della sicurezza, mediante la restrizione, abusiva della libertà, possibile ma non necessaria, sta a base della seconda; che è incontestabilmente la più diffusa, nella teoria e nella pratica.
Lo si vede nei principali sistemi di diritto pubblico, nei codici moderni, ispirati a teorie filosofiche, e nella storia degli ordinamenti della maggior parte degli Stati. L’agricoltura, i mestieri, le industrie d’ogni specie, i commerci, le arti, le stesse scienze traggono dallo Stato vita ed impulso. Ma, per quanto accettato ed applicato, questo principio merita d’essere rigorosamente studiato. E alla soglia di questo studio noi poniamo l’uomo considerato come individuo e nei suoi fini supremi.
II. L’uomo come individuo e gli scopi supremi della sua esistenza
Il vero fine dell’uomo, assegnatogli dalla ragione eterna, è lo sviluppo più ampio e compiuto di tutte le sue attività. Ma questo sviluppo richiede, oltre alla libertà, la diversità delle condizioni.
L’uomo il più libero e indipendente si svilupperà tanto più lentamente quanto più uniformi saranno le sue condizioni di vita. La società costituisce invece una specie di compressione, che, lungi dall’ostacolare l’attività dell’uomo, riesce a determinare meglio il mondo che lo circonda.
Libertà e diversità formano, per così dire, una cosa sola, sebbene concettualmente distinte. Ciascun uomo non può esplicare che una determinata attività, passando tutt’intero in una particolare azione. Cosi l’uomo sembrerebbe fatto per la specialità esclusiva, poiché la sua energia si disperde, estendendosi a più oggetti.
Ma a questo specialismo si sottrae, quando lavora a raccogliere le sue forze, a farle agire, in ogni momento della sua vita, tutte utilizzandole e moltiplicandole, anziché moltiplicare gli oggetti sui quali dirigerle.
Cosi riuniamo le forze che stanno per abbandonarci, a quelle che sorgono e si affermano in noi. Questa unione del passato e dell’avvenire nel presente si realizza nella società coi nostri simili. Ciascuno è naturalmente portato ad appropriarsi delle virtù degli altri: l’unione dei due sessi, il rapporto d’amicizia rende possibile questa appropriazione. L’utilità di questi vincoli per il progresso umano — già utilizzati nell’antichità — si misura dal grado di indipendenza che ciascuna delle parti mantiene pur nella intimità che le unisce; senza questa intimità, l’uno non potrebbe comprendere l’altro, senza autonomia non sarebbe possibile che l’uno si appropri ciò che ha compreso dell’altro.
La differenza tra gli individui non può essere troppo grande perché l’uno possa comprendere l’altro, né troppo piccola perché l’uno possa ammirare e desiderare per sé ciò che l’altro possiede. Autonomia, energia individuale e differenza costituiscono quella originalità alla quale deve tendere l’uomo, dalla quale dipende ogni sua grandezza e che dev’esser tenuta presente da chi vuol operare sugli uomini. Essa è nello stesso tempo effetto e causa della libertà dell’azione e della diversità degli agenti.
Tutto si può ridurre alla forma e alla materia; da questo connubio eterno, dalla diversità e dall’unità, dipende la compenetrazione dell’uomo, la fusione della materia e della forma, delle due nature interiore ed esterna riunite, da cui dipende la sua grandezza.
Quando il fiore appassisce nell’uomo, fa luogo al frutto perfetto; l’infinito imperscrutabile ce ne nasconde la magnifica bellezza. Ciò che l’uomo accoglie da fuori non è che semente; quantunque bella per sé, dev’esser fecondata dalla sua attività. Ma la sua influenza sull’uomo è sempre proporzionata alla sua vigoria e originalità.
Per me l’ideale più elevato della società umana sarebbe quello Stato, in cui il cittadino possa autonomamente e liberamente sviluppare le sue facoltà. La natura fisica e morale spinge gli uomini gli uni verso gli altri, e come le lotte della guerra sono più nobili di quelle del circo e gli eserciti di cittadini liberi di quelli di mercenari, così le lotte tra le energie di tali uomini saranno le più feconde di risultati.
Non è forse questo che ci riporta all’antichità classica? Non è forse perché gli uomini allora sostennero le più aspre lotte contro la natura e contro i loro simili, che si svilupparono le loro forze e si moltiplicarono le loro facoltà originali?
Ogni passaggio da epoca a epoca segna una decadenza e quanto rapida si disegna nell’avvenire! È mortificata la varietà nella natura, immense foreste distrutte, paludi prosciugate; e la stessa varietà nell’uomo, con lo sviluppo delle comunicazioni e l’unificazione dei costumi.
Il bello, l’inconsueto, il meraviglioso scompaiono; l’azione dell’individuo, la risoluzione spontanea, geniale, impreveduta è sostituita dall’azione meccanica. La pressione dei fattori esterni sull’uomo si attenua, poiché egli dispone di maggiori mezzi per contrastarla, non essendo possibile giovarsi delle sole forze che la natura ha dato al singolo. Il perfezionamento delle scienze rende meno necessaria l’invenzione, e l’insegnamento che ne ricaviamo isterilisce la nostra intelligenza.
Ma è incontestabile che quando la varietà materiale vien meno, è sostituita da una varietà morale e intellettuale più ricca e più feconda. Il nostro spirito più coltivato percepisce le gradazioni e le differenze meno sensibili, che influiscono sul nostro carattere, meno rude ma più sensitivo, e sulla nostra vita pratica. Dovunque la sensibilità è il germe e la viva espressione dell’idea.
Non possiamo qui svolgere interamente questo concetto; ma da quanto abbiamo detto si può concludere che è necessario vigilare sulla nostra energia, sulla nostra originalità e sui mezzi atti a conservarle.
Tengo dunque per dimostrato che la vera ragione non può desiderare per l’uomo uno stato diverso da quello, nel quale il singolo goda della più completa libertà di sviluppare in sé e intorno a sé la propria personalità; ma anche nel quale la natura fisica non riceva dall’uomo nessun’altra forma all’infuori di quella, che liberamente ad essa dà l’individuo, secondo i suoi bisogni e le sue tendenze, limitati solo dai confini della sua forza e del suo diritto.
Questo principio deve esser posto a base di ogni studio politico e specialmente del nostro.
III. La cura dello Stato per il bene positivo dei cittadini
Con una formula generale possiamo determinare la vera estensione dell’azione dello Stato, facendola consistere in ciò che deve fare per il bene della società senza ledere il principio suesposto. Perciò si può affermare che lo Stato non ha il diritto di occuparsi delle cose private dei cittadini, finché non intaccano i diritti altrui. Per chiarire esaurientemente questa affermazione bisogna esaminare i diversi aspetti dell’influenza ordinaria o possibile dello Stato.
Esso ha un duplice scopo; tendere alla felicità o limitarsi ad evitare il male; e, in quest’ultimo caso, bisogna distinguere il male che deriva dalla natura o quello che viene dagli uomini. Se si limita solo al secondo, non ha altro scopo che la sicurezza; di questa sicurezza mi occuperò come del primo dei fini possibili compresi nel nome di bene positivo. La differenza dei mezzi di cui si serve lo Stato dà un’estensione diversa alla sua azione. Infatti, o tenta di raggiungere immediatamente lo scopo per mezzo della coazione, delle leggi proibitive e imperative e delle pene; oppure, in qualunque modo dà alla organizzazione sociale una forma idonea al raggiungimento dei suoi fini, vietando ogni azione contraria; o finalmente tende ad armonizzare le inclinazioni con la volontà, ad influire sui pensieri e sui sentimenti.
Nel primo caso si limita ad atti isolati; nel secondo caso determina il , modo di agire in generale; nel terzo determina il carattere e la maniera di pensare. Cosi, mentre nel primo caso l’influenza della delimitazione è assai piccola e nel secondo un po’ maggiore, nel terzo è enorme, sia perché agisce sul punto di origine delle azioni, sia perché la stessa possibilità dell’azione esige anche maggiori interventi.
Tuttavia, per quanto i campi dell’influenza dello Stato sembrino diversi, è difficile trovare una disposizione dello Stato che non comprenda parecchie cose insieme: così, per esempio, la sicurezza e la felicità dipendono strettamente l’una dall’altra; anche quella disposizione che si rivolge ad azioni singole agisce sul carattere, quando la frequenza genera l’abitudine.
Sarebbe assai difficile trovare in tutto ciò una distribuzione di tale materia conveniente al nostro studio. La cosa migliore è vedere se lo Stato deve avere per fine il benessere positivo della nazione, o soltanto la sua sicurezza, esaminare soprattutto l’oggetto e le conseguenze di tutte le sue prescrizioni, e studiare i mezzi di cui si serve per raggiungere ciascuno di questi due scopi.
Parlo qui della cura dello Stato per aumentare il benessere positivo della nazione, il benessere della popolazione, direttamente, per esempio, con la costruzione di ospizi di carità; indirettamente col favorire l’agricoltura, l’industria e il commercio; mi riferisco a tutte le operazioni finanziarie e monetarie, ai divieti di importazione e di esportazione (in quanto concorrono a questo fine); in breve intendo parlare di tutte le disposizioni prese per evitare o riparare i danni che derivano dalla natura; per creare o mantenere il bene materiale della nazione.
Del bene morale lo Stato si occupa soltanto per il mantenimento della sicurezza. Su questo punto tornerò tra poco.
Tutte le forme di intervento, secondo me, hanno conseguenze dannose, perché non sono conformi alla vera politica, che parte sempre da punti di vista elevati, ma umani.
1. — Lo spirito del governo si trasfonde in ciascuna di queste disposizioni; e, per quanto ragionevole e salutare possa essere, impone alla nazione l’uniformità; impone un indirizzo eteronomo. Gli uomini ottengono dei beni, col sacrifizio delle loro energie; mentre hanno creato lo stato sociale per aumentare le proprie forze, anche con la perdita di qualche vantaggio naturale. La varietà che deriva dall’unione di parecchi individui rappresenta il più gran bene che possa dare la società; e questa varietà aumenta col diminuire dell’intervento dello Stato.
Non si possono più chiamare però membri di una società, ma sudditi isolati di uno Stato, quando, venuti in rapporto con esso, questo rapporto si eserciti in modo che lo Stato finisce col soffocare la libera espressione delle loro forze. Quanto più lo Stato estende la sua azione, maggiore sarà la somiglianza non solo tra gli agenti, ma tra gli atti.
È questo il programma degli Stati che vogliono il benessere e la tranquillità; fini agevolmente conseguibili l’uno e l’altro, sino al punto da fare apparire gl’interessi individuali quasi non più contrastanti fra di loro. Ma l’uomo deve mirare a ben altro: alla varietà e all’attività, che sole possono formare caratteri temprati e forti; e nessuno certamente sta così in basso, da preferire alla grandezza il benessere e la felicità. Chi lo credesse, dimostrerebbe di non conoscere l’umanità e di voler trasformare gli uomini in macchine.
2. — Il secondo male, che queste disposizioni dello Stato producono, è l’indebolimento della nazione. Come la forma, espressa da una materia attiva, dà alla materia maggiore pienezza e bellezza; — che cosa infatti è il bello se non l’unione armonica di elementi che prima erano in lotta? — così la materia sarà annullata dalla forma che le si vorrà imporre dall’esterno.
Difatti il Nulla sopprime l’Essere. Nell’uomo tutto è organizzazione. Quel che deve svilupparsi, dev’essere seminato in lui. Ogni forza suppone l’entusiasmo; e nulla può alimentarlo nell’uomo più della consapevolezza che l’idea che l’ispira è qualcosa di suo.
L’uomo considera suo non solo quel che possiede, ma anche quel che fa, e chi coltiva un giardino ne è più precisamente proprietario dell’uomo pigro e ozioso che ne gode. Forse questo ragionamento non sembra trovare applicazione nella realtà.
Forse anche pare che il progresso di molte scienze, da noi attribuito all’intervento dello Stato, sia più utile allo svolgimento delle facoltà intellettuali, della civilizzazione e soprattutto del carattere. Ma ogni nuovo acquisto di conoscenze non porta immediatamente al perfezionamento delle facoltà intellettuale, e quando tale perfezionamento si effettua in realtà, non gioverà all’intera nazione, ma soltanto a una parte, e precisamente a quella parte che detiene il governo.
In genere l’intelligenza e tutte le altre forze dell’uomo progrediscono per la sua individuale attività ed operosità, o per l’uso delle scoperte altrui. Le disposizioni dello Stato sono sempre accompagnate, più o meno, dalla costrizione, ed anche quando ciò non è, esse abituano l’uomo a contare su di un insegnamento su di una direzione e di un sussidio esterno, piuttosto che aprirsi da sé le sue vie.
Il modo in cui lo Stato può educare i cittadini è questo; affermare quel che crede il meglio, poi dirigere verso di quello l’attività dei cittadini, o direttamente per mezzo di una legge, o indirettamente per mezzo di qualche istituzione sempre imperativa; o col suo credito, colla promessa di un compenso, e con qualsiasi mezzo di incoraggiamento; o finalmente limitarsi a raccomandarlo.
Ma qualunque metodo scelga, si allontanerà sempre dal migliore procedimento; il quale senza dubbio consiste nel presentare tutte le possibili soluzioni del problema, per preparare l’uomo a scegliere da sé o, meglio ancora, a trovare questa soluzione, limitandosi a liberarlo dagli ostacoli circostanti, lo Stato può seguire questo metodo, in modo negativo, per mezzo della libertà, che, senza prevenire gli ostacoli, ne affida il superamento alla forza e alla capacità; in modo positivo, formando il cittadino per mezzo di un’educazione veramente nazionale.
In seguito esamineremo più attentamente l’obiezione che a questo punto si presenta: che l’intervento, cioè, di cui parliamo, è rivolto piuttosto al fatto che all’educazione; fa sì che il campo sia ben coltivato, senza preoccuparsi se chi lo coltiva ne ricavi un insegnamento.
Le cure eccessive dello Stato influiscono negativamente sull’energia e il carattere morale. Né è necessario fermarsi oltre su questo concetto. Chi è eccessivamente guidato, arriva al punto da sacrificare quasi volontariamente ogni residuo di attività individuale; si sente liberato dal governo di sé, posto in altre mani, e crede di fare abbastanza aspettando la loro guida e seguendola.
La nozione del merito e della colpa si confonde in lui. L’idea del merito non l’entusiasma più; il sentimento della colpa si fa sentire più raramente con minore intensità; ed egli si limita a prenderne atto. Se poi arrivasse a pensare che le intenzioni dello Stato non sono del tutto giuste, e che lo Stato non cerca soltanto il suo vantaggio, ma ha un altro scopo più lontano, ne sarebbe compromessa non solo l’energia, ma la purezza della sua volontà morale.
Allora si considererà libero da ogni dovere, che non gli sia direttamente imposto dallo Stato; diventerà sospettoso persino dei miglioramenti che si tenta di procurargli. Cercherà, finché possibile, di sottrarsi alle stesse leggi dello Stato: e ogni violazione di esse diventerà ai suoi occhi un guadagno.
Se si pensa che una parte considerevole della nazione non concepisce una morale che superi i limiti delle leggi dello Stato, non si può non presentarsi lo spettacolo scoraggiante dei più santi doveri e degli ordini più arbitrari collocati sullo stesso piano.
Quest’influenza dannosa viene egualmente esercitata nei rapporti dei cittadini tra loro. La coscienza che hanno dell’intervento dello Stato, diminuisce l’interesse che dovrebbero mostrare reciprocamente e li riduce all’indifferenza scambievole. Invece quanto più un uomo è persuaso che tutto dipende da sé, tanto più attivo è l’interesse ch’egli prende agli altri; l’esperienza stessa dimostra che, nelle classi oppresse e abbandonate dallo Stato, il sentimento della solidarietà è più sviluppato.
Ma quando il cittadino è indifferente verso il suo concittadino, avviene nello Stato lo stesso che nella famiglia, quando i suoi membri non sono legati tra loro. Se l’uomo fosse libero nel movimento e nell’azione, privo di ogni aiuto esterno ch’egli stesso non si fosse procurato, sarebbe, senza dubbio, spesso nell’imbarazzo e nel dolore.
Ma poiché la felicità dell’uomo sta in ciò che può procurarsi da sé con la sua forza, e questo conato acuisce l’ingegno e forma il suo carattere; quando lo Stato soffoca l’attività individuale con un intervento troppo esteso, l’uomo che ha preso l’abitudine di affidarsi completamente ad una forza estranea si trova in condizione assai più triste.
Mentre la lotta e il lavoro alleviano la disgrazia, l’attesa senza speranza la rende più amara. Anche nelle condizioni più favorevoli, gli Stati di cui parlo troppo spesso fanno come quei medici che procurano la malattia per allontanare la morte h Quando non esistevano i medici, si conosceva soltanto la salute o la morte.
3. — Quel che occupa l’uomo, sia che tenda direttamente o indirettamente a soddisfare i suoi bisogni fisici, sia che abbia un qualunque fine esterno, si collega intimamente al suo fine interiore; ed è questo secondo che si vuole raggiungere, mentre l’altro diventa un gradino necessario o accidentale.
Quanto più forte è l’unità dell’uomo, tanto più lo scopo esterno si salda liberamente a quello interiore, e si allacciano insieme più strettamente, nonostante che la scelta non sia stata libera. Così l’uomo può raggiungere una bellezza sublime in una esistenza che concordi col suo carattere.
Forse cosi tutti, contadini e operai, diventerebbero artisti, cioè uomini innamorati del loro lavoro in se stesso, e lo perfezionerebbero con una genialità tutta propria, e per questo avrebbero cura delle loro forze intellettuali, elevando il carattere. Così soltanto l’umanità sarebbe nobilitata da quelle cose che, per quanto belle in sé, spesso non fanno che disonorarla.
Più l’uomo è abituato a vivere nel mondo delle idee e dei sentimenti, più l’intelligenza e la moralità sono forti e delicate, ed egli cerca le situazioni esterne che possono arricchire il suo io interiore. Non si può dire quanto l’uomo guadagna in grandezza e bellezza, allorché impara a considerare innanzi tutto il suo essere interiore, come la causa prima e lo scopo ultimo di ogni fatica, e il corpo soltanto come involucro.
Non appare assai chiaro dalla storia come la libertà, per esempio, nell’agricoltura, può sviluppare il carattere di un popolo? Il lavoro che dedica alla terra e il raccolto che lo compensa, avvicinano cordialmente l’uomo al suo campo e al suo focolare.
La partecipazione alla fatica benedetta, il godimento in comune, stabiliscono in ogni famiglia un dolce vincolo, da cui non viene escluso neppure l’animale, compagno del lavoro. I frutti che bisogna seminare e raccogliere, e che di rado ingannano la speranza dell’uomo, lo rendono paziente, fiducioso, economo.
Il dono ch’egli riceve direttamente dalla natura; il sentimento sempre vivo che, se l’uomo semina, non è però lui che fa germogliare e crescere la semenza; quel dipendere sempre dalla stagione buona o cattiva, dà al cuore il pensiero dolce o terribile di esseri superiori, inspira il timore o la speranza, suggerisce la preghiera e la riconoscenza.
L’immagine viva d’una grandezza semplice, d’un ordinamento indistruttibile, d’un’immensa bontà, dà all’anima la grandezza, la semplicità, la dolcezza e la sottomissione libera e felice alle leggi e alla morale. Sempre abituato a produrre, mai a distruggere, l’agricoltore è pacifico, nemico della crudeltà e della violenza; anzi, pieno del sentimento che ogni aggressione non provocata è ingiusta, ha un odio insuperabile contro ogni distruttore della sua pace.
La libertà è però la condizione indispensabile perché l’azione, anche la più spirituale, possa avere effetti benefici. Quel che l’uomo non sceglie da sé, quello cui deve tendere, non s’identifica mai col suo e gli resta sempre estraneo. Per effettuarlo, non usa delle sue forze di uomo, ma di una spinta meccanica.
Gli antichi, soprattutto i Greci, consideravano brutta e vergognosa ogni occupazione che non avesse per iscopo il progresso dell’io, ma solo quello delle forze del corpo o l’acquisto di beni esteriori. Perciò i loro filosofi più filantropici approvavano la schiavitù, che per essi era un mezzo, senza dubbio ingiusto e barbaro, di assicurare lo sviluppo della forza e della bellezza di una parte del genere umano, col sacrifizio dell’altra parte.
Ma il giudizio e l’esperienza mostrano chiaramente l’errore che sta alla base di questo ragionamento. Ogni lavoro può elevare l’uomo e dargli una forma ben definita e degna del suo essere. Il risultato dipende dal modo in cui l’uomo intende il suo lavoro; e si può stabilire, come regola generale, che produce buoni effetti, se il lavoro in sé riempie l’anima dell’uomo; invece gli effetti sono meno buoni, e talvolta anzi dannosi, quando si considera soltanto il risultato di cui il lavoro è semplice mezzo.
Ciò che attrae per sé, suscita la stima e l’amore; ciò che rappresenta un mezzo, desta soltanto l’interesse; e mentre da una parte la stima e l’amore nobilitano, l’interesse degrada.
Ora, se lo Stato volesse occuparsi della varia attività dei sudditi, dovrebbe porsi dal punto di vista dei risultati, e fissare le regole più idonee allo scopo.
Questo ristretto punto di vista non è mai tanto dannoso come quando il vero fine dell’uomo è puramente intellettuale o morale. Questo avviene negli studi scientifici, nelle opinioni religiose e in tutti i vincoli che uniscono gli uomini tra loro, e nel matrimonio, che è il più naturale e il più importante per gl’individui e per lo Stato.
L’«unione di due persone di diverso sesso», fondata soprattutto sulla differenza di sesso, secondo la definizione più esatta che si dà del matrimonio, può essere intesa in tanti modi diversi quante sono le maniere possibili di comprendere la differenza, appunto, di sesso, o come tendenza del cuore, o come proposito della ragione.
Per ogni uomo è un’occasione sicura di sperimentare il proprio carattere morale, specialmente la forza e la natura della sua sensibilità. Si propone il raggiungimento di un fine esteriore o pone in prima linea il suo io interiore? È prevalente in lui la ragione o il sentimento? L’iniziativa mutevole o la decisione costante? I vincoli ch’egli stesso sceglie sono effimeri o solidi? Sino a che punto conserva la sua attività personale o spontanea?
Tutti questi punti ed altri modificano i suoi rapporti nella vita coniugale. Ma in qualunque modo siano determinati, la loro azione sulla personalità e sulla felicità umana è evidente. Lo sforzo che compie per realizzare l’ideale può riescire o no; ma da esso dipende il suo essere. Quest’influenza è considerevole, specialmente nella parte più sensibile dell’umanità, che ha una complessa organizzazione morale e una profonda sensitività.
In questa classe bisogna collocare le donne, più che gli uomini; il loro carattere dipende dalla natura dei rapporti della famiglia; libere da gran parte delle occupazioni esterne; dedicate a quelle che pongono l’io interiore al riparo da ogni scossa; più forti per quel che possono essere, che per quel che possono fare; più significative nel raccoglimento che nell’espressione dei loro sentimenti; dotate al massimo grado della facoltà dell’espressione immediata, per l’organismo più delicato, l’occhio più mobile, la voce più penetrante; destinate, nei rapporti con gli altri, ad attendere e a seguire invece che a precedere; deboli, ma disposte ad attaccarsi fortemente per l’ammirazione che sentono per la grandezza e la forza altrui; aspirando continuamente, coll’unione, a ricevere dall’essere a cui sono unite, a plasmare quel che hanno ricevuto e a ridarlo formato; piene di coraggio che viene dalla preoccupazione dell’amore e dal sentimento della forza che non teme le avversità, e non cede al dolore; le donne si avvicinano più dell’uomo all’ideale dell’umanità; e, se lo raggiungono più raramente, è perché è più difficile seguire la via diritta che deviare.
Non si può dire quanto grande sia l’influenza dello sviluppo del carattere femminile nella società. Ogni categoria di esseri ha una sua dote eminente: quella della donna consiste nel custodire il tesoro della morale.
L’uomo vuole la libertà, la donna la purezza
(Goethe, Torquato Tasso, atto 2°, scena 1)
e, secondo questa profonda verità del poeta, mentre l’uomo si sforza di spezzare i limiti che possono ostacolare il suo svolgimento, la donna pone quei benefici limiti esterni, senza dei quali la forza non saprebbe raggiungere il suo pieno sviluppo; e li pone con infinita delicatezza, perché conosce completamente la vita interiore dell’uomo nei suoi molteplici rapporti; infatti la sua facoltà di percezione non ha ostacoli e la dispensa dal servirsi dei sottili ragionamenti che assai spesso oscurano la verità.
Se fosse necessario, la storia potrebbe dimostrare come la moralità delle nazioni dipende strettamente dalla stima che si fa della donna. Da ciò risulta che gli effetti del matrimonio possono variare secondo la varietà dei caratteri individuali, e possono derivarne le più disastrose conseguenze, se lo Stato cerca di definire con le leggi un legame che ha una così stretta relazione con la natura personale degli individui, o a farlo dipendere da altro che non sia la libera volontà.
Lo stesso avverrebbe se lo Stato si preoccupasse delle conseguenze del matrimonio, della popolazione, dell’educazione dei fanciulli, ecc. È facile provare all’evidenza questa tesi a proposito di un’eventuale azione dello Stato rivolta alla vita interiore.
Studi accurati dimostrano, è vero, che l’unione indissolubile dell’uomo e della donna è la più propizia e che evidentemente nessun’altra forma potrebbe derivarne dal vero amore, spontaneo e libero. Il quale per altro non può condurre a rapporti diversi da quelli che stabiliscono le nostre leggi e i nostri costumi: l’educazione fisica dei fanciulli, l’educazione privata, l’unità della vita, la comunanza dei beni, la direzione degli affari esterni da parte dell’uomo e il governo della casa affidato alla donna.
Ma ciò non legittima l’azione di Stato. Il male, secondo me, consiste in ciò: che la legge comanda, mentre questi rapporti possono nascere soltanto dalla volontà; e quando la costrizione si oppone alla volontà, questa ci distoglie dalla via diritta.
Perciò io credo che lo Stato non solo dovrebbe allentare tutti i legami, ma dovrebbe mantenersi estraneo al matrimonio, affidandolo alla libera scelta degl’individui.
Il timore di sconvolgere con questo procedimento tutti i rapporti di famiglia o forse d’impedirne la formazione — per quanto sia fondato su condizioni reali ma limitate — non mi spaventa, perché considero esclusivamente la natura degli uomini e degli Stati in generale.
Infatti l’esperienza spesso dimostra che i costumi condannano ciò che la legge permette; l’idea di costrizione esterna è completamente estranea a questi rapporti che, come il matrimonio, si fondano soltanto sulla tendenza e sul dovere interiore. D’altra parte gli effetti delle disposizioni coercitive non rispondono mai al fine proposto nel promulgarle.
4 — [La cura del bene positivo dei cittadini provoca ancora altri inconvenienti, perché — esercitandosi su una folla eterogenea — gl’individui si trovano imprigionati entro schemi generali, che non si applicano ai singoli senza danno grave.
5 — Impedisce lo sviluppo dell’individualità e dell’originalità.] Nella vita morale e in genere nella vita pratica, l’uomo, ammesso che osservi le regole derivate dai principi del diritto, ha continuamente di mira il proprio sviluppo originale e quello altrui, che gli fa liberamente trascurare ogni altro interesse di fronte a questo, senza esservi affatto spinto dal motivo volgare d’una legge prescrittiva.
Ma tutte le attività che l’uomo può svolgere in sé, sono assai strettamente unite; se questo legame, nell’ordine delle cose intellettuali, senza essere più profondo, è già più importante e notevole che nell’ordine delle cose fisiche, lo è ancora più nel mondo morale.
Gli uomini dunque devono unirsi insieme perché sia soppresso il loro stato d’isolamento, non la personalità originale. L’unione non deve fondere un essere in un altro, ma, se posso esprimermi così, aprire le vie dell’uno verso l’altro; ognuno deve paragonare ciò che è suo con ciò che riceve dagli altri; deve modificare, non soffocare o lasciarsi soffocare.
Come la verità nell’ordine intellettuale, così la dignità nell’ordme morale non è mai in lotta con se stessa; e così legami stretti e vari, che uniscono tra loro i caratteri originali, sono necessari per annullare ciò che non può dare ad alcuno grandezza né bellezza, se non per conservare e rinnovare la parte migliore di se stesso, che resta intatta nei rapporti reciproci. Di qua lo sforzo ininterrotto di conoscere negli altri il carattere più profondamente personale, di utilizzarlo ed agire su di esso, pur serbando il più gran rispetto per questo, che è il carattere più proprio di un essere libero.
Tale è il principio, sinora trascurato più degli altri, che dev’essere sempre presente allo spirito di quelli che governano gli uomini. Perciò quando lo Stato si assume una cura positiva, anche soltanto del bene esteriore e fisico, che si collega strettamente all’io interiore, non può non essere di ostacolo allo sviluppo della personalità. Questo è un altro motivo per non assumere tale cura, se non in caso di estrema necessità.
Queste sono press’a poco le conseguenze più dannose di un’azione positiva dello Stato per il benessere dei cittadini.
6. — Ciò che è detto sopra, è fondato per altro sul supposto che le istituzioni dello Stato siano già formate: guardiamo ora al momento della loro formazione.
Evidentemente bisognerà ora pesare i vantaggi e gli svantaggi derivanti dalle restrizioni della libertà. Ma questa valutazione sì fa difficilmente ed è forse impossibile fissarla in modo esatto e completo.
Infatti ogni disposizione restrittiva è in lotta con la libera e naturale manifestazione delle energie individuali; crea sempre nuovi rapporti ed è impossibile prevedere quelli che possono derivarne, anche supponendo la più grande regolarità nell’ordine delle cose e facendo astrazione da tutte le complicazioni e gli imprevisti, che non mancano mai di prodursi. Ognuno che ha occasione di partecipare al governo superiore dello Stato, riconosce per esperienza e con sicurezza, quanto raramente le regole abbiano un’applicazione immediata e assoluta; applicazione che, invece, è puramente relativa, mediata.
Perciò si moltiplicano necessariamente i mezzi, che finiscono con l’allontanarci dallo scopo prefisso. Non solo un tale Stato ha bisogno di più denaro; ma anche di un’organizzazione più complicata per la sua sicurezza politica. Quanto minore è la coesione tra le parti, tanto più dev’essere vigile l’azione dello Stato. Di qui nasce la questione difficile e troppo trascurata: se le forze naturali dello Stato siano sufficienti a produrre i mezzi necessari al suo fine.
Se il calcolo è stato fatto male, ne deriverà un vero caos; disposizioni nuove e confuse vengono a dare all’attività statale una tensione eccessiva. Di questo e di altri mali ancora soffrono un gran numero di Stati.
Non bisogna trascurare un’osservazione che sorge a questo punto, e riguarda assai da vicino l’uomo e il suo svolgimento. L’amministrazione dello Stato è così intralciata che, per non finire in una vera confusione, rende necessaria una gran quantità di disposizioni speciali e occupa un gran numero di persone che, nella maggior parte, non hanno da far altro che imbrattare carta e riempire formulari.
Non solo un gran numero di buone intelligenze sono forse tarpate e molte mani che potrebbero lavorare utilmente ne sono distolte; ma tutte le energie spirituali soffrono di questa occupazione o inutile o troppo speciale. Ne deriva ancora questo risultato: la cura degli affari di Stato rende gli agenti perfettamente dipendenti dalla parte che governa, che li paga, e non dalla nazione.
Molti altri mali ci mostra l’esperienza con evidenza inconfutabile: l’attesa dell’aiuto dello Stato, la mancanza d’iniziativa personale, la falsa presunzione, la pigrizia, la inettitudine… In una tale amministrazione tutto dipende dalla più stretta sorveglianza, dall’attività puntuale e coscenziosa, perché le occasioni di mancare a questa sorveglianza e a quest’attività son sempre più frequenti.
E ci si sforza allora, e con ragione, a far passar tutto per il maggior numero di mani possibili, per impedire ogni possibilità di errore o di malversazione. Con tale sistema gli affari vanno meccanicamente e gli uomini diventano macchine; la vera abilità, l’onestà ed insieme la fiducia, vanno sempre più scomparendo.
Le occupazioni di cui parlo, assumono agli occhi di tutti un’enorme importanza, di modo che necessariamente il punto di vista del valore o non-valore, dell’onore e della vergogna, dello scopo e del mezzo, ne resta completamente rovesciato.
— Conchiudiamo questa parte del nostro studio con una considerazione che ci riporta ai concetti fondamentali. Si trascurano cioè gli uomini per occuparsi delle cose, e le facoltà per non vederne che i risultati.
Con questo sistema lo Stato assomiglia a un insieme di strumenti e di organi, piuttosto che di energie capaci di azione e di godimento.
Trascurando la spontaneità degli agenti, pare che non si lavori che per il loro benessere; ma, anche supponendo che sia così, ciò sarebbe sempre contrario alla dignità umana.
L’uomo gode soprattutto quando si sente nel pieno possesso della sua forza e della sua unità. È pur troppo vero che anche allora si trova vicino il più possibile all’altro estremo. Lo sforzo segue allo sforzo e la meta rimane sempre nel pugno dell’invitto destino. Tuttavia, poiché soltanto il sentimento di quel che è elevato merita il nome di felicità, il dolore e la sofferenza prendono un nuovo aspetto. L’uomo ripone la sede della felicità e dell’infelicità nel suo intimo, cui non arrivano le agitazioni della corrente che lo porta.
Questo sistema, secondo me, tenta inutili sforzi per liberarci dal dolore. Chi sente la felicità nella grandezza, accetta, supera e gode del dolore e della morte stessa.
Ma dovevo occuparmi dell’effetto esercitato dall’inferenza dello Stato, che è l’argomento da trattare. Si comprende facilmente che tutti gli inconvenienti sono assai diversi secondo il modo e il grado di questa ingerenza. Per ciò che contengono di generale queste pagine, prego di non fare ravvicinamenti o paragoni coi fatti.
Nella realtà assai di rado si trova un caso semplice e completo; perciò non si distingue l’azione particolare di ogni fattore separato. Non bisogna più dimenticare che, dato un principio del male, questo fa poi progressi rapidissimi. Due grandi forze riunite, come due grandi debolezze, producono una moltiplicata forza o una moltiplicata debolezza.
Quale pensiero potrebbe determinare la rapidità di questo movimento? Anche ammettendo che i danni siano meno considerevoli di quel che io dico, mi sembra che la teoria qui svolta sia giustificata ampiamente dagli infiniti vantaggi, che deriverebbero dalla sua applicazione, supponendo che l’applicazione sia interamente possibile. Infatti, per la stessa natura delle cose, la forza sempre attiva, mai inoperosa, si oppone e supera ogni ostacolo; così si può dire senza sbagliare che il più ardente entusiasmo produce necessariamente e sempre più bene che male. Potrei presentare qui il quadro felice di un popolo che viva nella più completa libertà anche nei più vari rapporti; potrei dimostrare come l’originalità, la molteplicità delle energie apparirebbe più bella e più grande che nella stessa superba antichità, in cui per altro il carattere di un popolo meno colto è sempre più rude; in cui l’unione di tutte le nazioni e di tutte le parti del mondo dànno una più grande ricchezza di elementi; potrei mostrare quale vigore nascerebbe se ciascuno si assimilasse queste forze con un’attività spontanea senza limiti e sempre alimentata dalla libertà; potrei dimostrare come l’attività interiore dell’uomo ne uscirebbe raffinata, come le sue attività si moltiplicherebbero e tutto ciò che è fisico ed esteriore penetrerebbe l’essere interiore, morale e intellettuale; e il vincolo che unisce le due nature dell’uomo acquisterebbe maggior forza, se nulla venisse a scuotere la libera reazione di tutte le opere umane sullo spirito e sul carattere…
Potrei finire notando come gli effetti benefici di una simile costituzione potrebbero attenuare l’orrore delle miserie umane, della natura nemica e delle passioni cozzanti. Ma è sufficiente aver notato il contrasto; mi basta abbozzare le idee lasciandole alla prova di un esame più profondo.
Se tento di trarre da tutto ciò la conclusione, trovo che il principio fondamentale di questa parte del presente studio è questo: che lo Stato sia liberato da ogni cura per il bene positivo dei cittadini; che non intervenga più di quel che è necessario per dar loro la sicurezza interna ed esterna; che non limiti mai la loro libertà per uno scopo diverso.
Dovrei ora occuparmi dei mezzi coi quali quest’ingerenza potrebbe essere esercitata attivamente; ma poiché i miei principi mi conducono a disapprovarla in sé, posso non occuparmene, limitandomi a notare in generale, che i mezzi coi quali si limita la libertà nell’interesse del benessere possono essere di diversa natura.
Diretti, come le leggi, gl’incoraggiamenti, i premi; indiretti, come la condizione del sovrano, che è il proprietario più importante, le concessioni fatte a cittadini isolati, di privilegi, di monopoli ecc. Tutti, secondo il grado e il modo in cui si usano, sono causa di mali diversi.
Supponendo anche che nessuno abbia nulla da obiettare alla mia critica, pare strano che si voglia interdire allo Stato quel che chiunque può fare: stabilire ricompense, distribuire soccorsi, esser proprietario. Se fosse possibile in pratica, com’è concepibile in teoria, che lo Stato abbia doppia funzione, non vi sarebbe da dir nulla in contrario.
Avverrebbe quello stesso che avviene quando un privato acquista grande influenza. Ma, senza tener conto del distacco profondo che c’è tra teoria e pratica, l’azione di un privato può essere arrestata dalla concorrenza di altri cittadini, dalla morte e da altre cause, che non esistono trattandosi dello Stato.
Resta dunque sempre il principio che lo Stato non deve occuparsi di altro che della sicurezza. Le azioni dei privati hanno moventi diversi da quelli dello Stato: per esempio, un cittadino propone delle ricompense; ammettendo che esercitino la stessa influenza di quelle proposte dallo Stato (ciò che non è), questo cittadino agisce così anche per interesse proprio.
Ma l’interesse di chi si trova in contatto continuo con gli altri cittadini e nelle stesse loro condizioni, è in stretta relazione con l’interesse o col pregiudizio degli altri cittadini e naturalmente con la loro condizione. Invece i moventi dello Stato sono idee e principi su cui anche il più sano giudizio spesso può essere errato; talvolta i moventi nascono dalla condizione privata dello Stato, che è in opposizione al benessere e alla sicurezza dei cittadini e, in ogni caso, non è mai la stessa. Se ci fosse unità, non sarebbe più lo Stato ad agire.
In questo e in quel che precede, si è presa in considerazione la forza dell’uomo come tale e il suo perfezionamento interiore. Si tratta ora di sapere se ciò, in cui lo Stato non deve ingerirsi, può prosperare senza il suo aiuto.
Sarebbe il momento di esaminare particolarmente i vari sistemi dell’industria, dell’agricoltura, del commercio, e di dire, con cognizione di causa, nei singoli casi, quali sono i vantaggi e gl’inconvenienti della libertà e dell’attività affidata a se stessa.
La mancanza di competenza tecnica m’impedisce di approfondire questo esame; d’altra parte non è indispensabile al mio studio. Mi limito ad alcune osservazioni generali: qualunque cosa si fa meglio, quando la si considera per se stessa e non per quel che può produrre.
E ciò è tanto naturale nell’uomo che spesso anche ciò che è stato iniziato per utilità, finisce con l’appassionare. Ciò deriva dal fatto che l’azione è più dolce del possesso, se è libera e spontanea; infatti l’uomo più attivo, al lavoro forzato preferirebbe l’inerzia. Inoltre l’idea della proprietà è unita a quella della libertà, e dobbiamo appunto all’idea della proprietà l’energia della nostra attività.
L’unità dell’organizzazione è necessaria per raggiungere qualunque grande risultato, questo è certo. È necessaria anche per evitare i grandi flagelli; la carestia, le inondazioni ecc.; ma quest’unità può esser raggiunta per mezzo di disposizioni prese dalla nazione e non soltanto con disposizioni prescritte dallo Stato.
Per questo c’è bisogno di una cosa: dare alle diverse parti e all’intera nazione la libertà di contrarre obbligazioni. C’è sempre una profonda differenza tra le disposizioni prese dalla nazione e quelle prescrizioni dello Stato: le prime hanno un potere mediato, le seconde immediato; le prime, per conseguenza, lasciano maggior libertà per formare, sciogliere o modificare l’obbligazione.
In origine tutti gl’impegni contratti dallo Stato non erano altro che alleanze tra nazioni. Ma l’esperienza ci dimostra come furono sempre funeste le conseguenze di altri programmi, che superassero il mantenimento della sicurezza; il potere deve allora necessariamente divenire assoluto e quest’assolutezza si estende dal suo terreno di origine (che è la funzione di polizia) a tutti gli altri campi, in modo che l’organizzazione politica si allontani sempre più dal suo principio. Ora una qualunque misura non può esser valida in uno Stato se non in quanto mantenga e rafforzi quel patto medesimo.
Questa ragione potrebbe essere sufficiente. Ma anche quando il patto fondamentale sia rispettato interamente e l’impegno assunto dallo Stato sia veramente impegno della nazione, la volontà dei singoli non potrà esprimersi che per mezzo di rappresentanti, i quali però non possono costituire un organo di fedele espressione degl’interessi dei singoli rappresentati.
Ma tutto ciò che si è detto presuppone la necessità dell’adesione del singolo; quindi è escluso il sistema della votazione a maggioranza, sebbene non se ne possa concepire un altro, per le obbligazioni che toccano il benessere positivo dei cittadini. Non resta pertanto ai dissenzienti che uscire dalla società per sottrarsi alla sua giurisdizione e annullare per la loro parte le decisioni della maggioranza.
Ma ciò è impossibile, se uscire dalla società significhi uscire dallo Stato.
D’altra parte è preferibile contrarre per determinate ragioni obblighi determinati, anziché generali, per gl’indeterminati bisogni dell’avvenire.
Ogni vasta associazione è restrittiva della libertà dei singoli; quanto più l’uomo opera per se medesimo, tanto più si sviluppa: in una grande associazione esso si trasforma molto facilmente in uno strumento. Accade anche spesso che tali associazioni siano causa che il simbolo prenda il posto della realtà stessa: ciò che costituisce un ostacolo a ogni progresso.
I muti geroglifici non possono entusiasmarci come la natura vivente: basta pensare agli ospizi di carità. Vi è cosa che uccida così ogni senso di compassione, che geli ogni appello dolce e fiducioso all’uomo?
Chi non disprezzerebbe il mendicante che preferisse lasciarsi nutrire tranquillamente all’ospizio, anziché essere assistito non da una mano indifferente, ma da un cuore pietoso?
Concedo subito che senza le grandi associazioni, attraverso le quali si può dire che l’umanità abbia operato in questi ultimi secoli, non sarebbero stati possibili tutti i nostri progressi rapidi, ma soltanto rapidi. I frutti si sarebbero formati più lentamente, ma sarebbero maturati. E non sarebbero stati forse più dolci?
Credo dunque di poter scartare questa obiezione. Ne restano due altre che esamineremo in seguito. La prima domanda: se lo Stato, limitato nelle sue funzioni come l’abbiamo descritto, possa mantenere la sicurezza; la seconda: se la creazione dei mezzi necessari per il conseguimento di questo fine dello Stato, non moltiplichi fatalmente le violazioni della libertà dei sudditi, prodotte dagl’ingranaggi della macchina governativa.
IV. La cura dello Stato per il bene negativo dei cittadini, per la loro sicurezza
Non sarebbe necessario alcun accordo tra gli Stati, se il male che spinge il desiderio dell’uomo a violare i giusti limiti del dominio altrui e che eccita la discordia, figlia di questa violazione, somigliasse ai mali fisici o ai mali morali, che mettono capo alle calamità, sia per eccesso di godimenti o di privazioni, sia per altri fatti che perturbano le condizioni necessarie alla conservazione. Ai primi si opporrebbe il coraggio e la prudenza degli uomini; ai secondi la loro saggezza illuminata dall’esperienza e nei due casi si finirebbe sempre con una lotta.
Non esiste perciò alcun potere supremo e inviolabile, che determini nettamente l’idea dello Stato. Non avviene la stessa cosa nelle discussioni degli uomini, i quali si riferiscono sempre e necessariamente a un potere di tale natura. Perché nella discordia le lotte si seguono l’una all’altra: l’offesa provoca la vendetta, la quale è alla sua volta una nuova offesa.
Bisogna dunque arrivare a una forma di vendetta che non ne permetta alcun’altra, — cioè alla pena inflitta dallo Stato, — oppure a una decisione che costringa le parti a ritornare nella pace, cioè alla decisione del giudice.
Perciò il comando imperativo e l’obbedienza assoluta non sono mai tanto necessari come nella lotta dell’uomo contro l’uomo, sia che ci si debba difendere dal nemico esterno o che si tratti di mantenere la tranquillità dentro lo Stato. Senza sicurezza, l’uomo non può svolgere la sua attività, né goderne i frutti, perché senza sicurezza non esiste libertà.
E questo bene l’uomo non può procurarselo da sé: questa verità è fissata dalle ragioni che abbiamo più accennato che svolto; nonché dall’esperienza che i nostri Stati — legati tra loro da trattati e convenzioni, in cui cosi spesso le violenze sono impedite dal timore — si trovano in una condizione che non ci può non far pensare all’uomo nello sfato naturale; e tuttavia non godono della sicurezza di cui gode il più umile cittadino, anche nella più imperfetta costituzione politica.
Se prima ho respinto l’intervento dello Stato in parecchi punti, perché la nazione può egualmente provvedere a se stessa, senza incontrare i danni che sogliono seguire l’azione dello Stato; per lo stesso motivo limito quest’azione alla sicurezza, che è la sola cosa che l’uomo isolato e abbandonato alle sue forze non può procurarsi da sé. Perciò credo di poter fissare questo primo principio positivo, salvo a definirlo più nettamente, in seguito: la conservazione della sicurezza contro i nemici esterni o contro i disordini interni, è il fine che lo Stato deve proporsi e per il quale deve spiegare la sua azione.
Così ho tentato di stabilire finora questo principio negativamente, sostenendo che lo Stato non deve estendere oltre i limiti della sua influenza.
Questo concetto è giustificato tanto dalla storia, che nelle più antiche nazioni, i re non furono altro che condottieri in guerra e giudici in pace. Parlo dei re perché — mi si permetta la parentesi — la storia ci mostra re e monarchie proprio nell’epoca in cui il sentimento della libertà è più caro all’uomo, che riconosce solo la forza personale e ripone la più grande soddisfazione nel libero svolgimento di essa.
Fu questa la forma politica degli Stati dell’Asia, dell’antica Grecia, dell’Italia e delle tribù germaniche, che più di tutte furono gelose della loro libertà.
Se si riflette a questo fatto, si resta persuasi di questa verità: che la scelta di una monarchia è la prova della più grande libertà di quelli che la scelgono. L’idea di un padrone che comandi, deriva dal sentimento che un capo è necessario. Si sente grandemente il bisogno di un uomo che sia condottiero e giudice.
L’uomo veramente libero non pensa che un capo può divenire un padrone, non ne sospetta la possibilità; non dà ad alcuno il diritto di soffocare la sua libertà e non attribuisce ad alcun uomo libero il disegno di diventare un padrone.
Infatti anche l’ambizioso, che non può comprendere tutta la bellezza della libertà, ama la schiavitù, solo perché non vorrebbe essere schiavo. Cosi avviene della morale di fronte al vizio, della teologia di fronte all’eresia, della politica di fronte alla servitù. Quel che è certo è che i nostri monarchi non parlano un linguaggio dolce come il miele, come i re di Omero e di Esiodo.
Tratto da: Il pensiero politico, a cura di Umberto Cerroni, Roma, Editori Riuniti, 1966, pp. 680–703