Voltaire sui “Pensieri” di Blaise Pascal

Lettera 25° delle “Lettere inglesi”

Mario Mancini
35 min readApr 11, 2021

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A sinistra Blaise Pascal e a destra Voltaire, ammiratore dell’opera scientifica di Pascal, ma molto scettico sui suoi “Pensieri”. Riteneva, a buon diritto, che Pascal rappresentasse tutte le cose che per lui, Voltaire, erano anatemi: lo spirito di parte, il dogmatismo, l’intolleranza, il pessimismo viscerale, l’oscurantismo. Anzi, «Pascal — scriveva Voltaire — aggredisce l’umanità molto più crudelmente di quanto aggredisca i gesuiti».

Vi invio le note critiche da me stese da lungo tempo sui Pensieri di Pascal. Non paragonatemi, vi prego a Ezechia, che volle far bruciare tutti i libri di Salomone. Rispetto il genio e l’eloquenza di Pascal; ma più lo rispetto, più son persuaso ch’egli stesso avrebbe corretto parecchi dei suoi Pensieri, che aveva scritti di getto per riesaminarli in seguito; ed è ammirando il suo genio che io combatto alcune delle sue idee.

A me sembra che, in generale, lo spirito con cui Pascal ha scritto questi Pensieri fosse di descrivere l’uomo sotto una luce odiosa. Egli si accanisce a dipingerci tutti bricconi e infelici. Scrive contro la natura umana press’a poco come scriveva contro i gesuiti. Imputa all’essenza della nostra natura ciò ch’è proprio soltanto di alcuni uomini. Pronuncia ingiurie eloquenti contro il genere umano. Io ardisco prendere le parti dell’umanità contro questo sublime misantropo; oso assicurare che noi non siamo né tanto bricconi né tanto infelici com’egli asserisce.

Sono inoltre assolutamente convinto che, se egli avesse seguito — nel libro che meditava — il disegno abbozzato nei Pensieri, avrebbe composto un’opera piena di eloquenti paralogismi e di falsità mirabilmente dedotte. Credo anzi che tutti i libri scritti recentemente a sostegno della religione cristiana[1] siano più adatti a scandalizzare che a edificare. Pretendono, questi autori, di saperne più di Gesù Cristo e degli Apostoli? È come voler sostenere una quercia circondandola di canne: si possono togliere quelle inutili canne, senza temere di recar danno all’albero.

Ho scelto con discrezione alcuni pensieri di Pascal; ad essi faccio seguire le risposte. Sta a voi giudicare se ho torto o ragione.

I — Le grandezze e le miserie dell’uomo sono talmente evidenti ch’è assolutamente necessario che la vera religione c’insegni che egli stesso possiede qualche grande principio di grandezza, e nel contempo qualche grande principio di miseria. Infatti è necessario che la vera religione conosca a fondo la nostra natura, vale a dire che conosca tutto ciò che essa ha di grande e tutto ciò che ha di misero, e la ragione dell’uno e dell’altro. Occorre inoltre che essa ci renda ragione dei sorprendenti contrasti che vi s’incontrano.

Questo modo di ragionare appare falso e pernicioso: infatti le favole di Prometeo e di Pandora, gli androgini di Platone e i dogmi dei Siamesi[2] offrirebbero altrettanto bene ragione di questi contrasti apparenti. La religione cristiana non ne risulterebbe meno vera quand’anche non se ne traessero queste abili conclusioni, le quali non possono servire che a fare sfoggio d’ingegno. Il cristianesimo insegna soltanto la semplicità, l’umanità, la carità: volerlo ridurre a metafisica, significa farne una sorgente di errori.

II — Si esaminino, su questo punto, tutte le religioni del mondo, e si veda se ve ne sia un’altra, oltre la cristiana, che possa appagare. Sarà forse quella insegnataci dai filosofi, che ci propongono come unico bene un bene ch’è in noi? È questo il vero bene? Hanno essi trovato il rimedio ai nostri mali? Significa aver guarito la presunzione dell’uomo l’averlo eguagliato a Dio? E coloro che ci hanno uguagliati alle bestie e ci hanno dato come unico bene i piaceri terreni, hanno forse trovato il rimedio alle nostre concupiscenze?

I filosofi non hanno insegnato alcuna religione; non è la loro filosofia che bisogna combattere. Nessun filosofo si è mai detto ispirato da Dio, perché da quel momento avrebbe cessato di esser filosofo, e avrebbe fatto il profeta. Non si tratta di sapere se Gesù Cristo debba aver la meglio su Aristotele, bensì di provare che la religione di Gesù Cristo è la vera, e quelle di Maometto, dei pagani e tutte le altre sono false.

III — E tuttavia senza questo mister0 [il peccato originale] ch’è il più incomprensibile di tutti, noi siamo incomprensibili a noi stessi. Il nodo della nostra condizione acquista i suoi contorni e risvolti nell’abisso del peccato originale, di modo che l’uomo è più incomprensibile senza questo mistero di quanto tale mistero sia incomprensibile all’uomo.

È forse ragionevole il dire: «l’uomo è incomprensibile senza questo mistero incomprensibile»? Perché voler andare più in là della Scrittura? Non è forse temerario credere ch’essa necessiti d’appoggio, e che quelle idee filosofiche possano dargliene?
Che avrebbe risposto il signor Pascal ad un uomo che gli avesse detto: «Io so che il mistero del peccato originale è l’oggetto della mia fede e non della mia ragione. Riesco a comprendere benissimo senza alcun mistero cosa sia l’uomo; vedo che viene al mondo come gli altri animali; che il parto delle madri è tanto più doloroso quanto più esse sono delicate; che talvolta donne e femmine di animali muoiono nel figliare; che vi sono talora dei bambini mal conformati i quali vivono privi di uno o due sensi o della facoltà di raziocinio; che i meglio formati sono quelli che hanno passioni più vive; che l’amore di se stessi è uguale in tutti gli uomini, ed è loro necessario quanto i cinque sensi; che tale sentimento istintivo ci è dato da Dio per la conservazione del nostro essere, e ci ha dato la religione per regolare tale sentimento; che le nostre idee sono giuste o incoerenti, oscure o chiare, a seconda che i nostri organi sono più o meno solidi, più o meno duttili, e a seconda che siamo più o meno appassionati; che noi dipendiamo in tutto dall’aria che ci circonda, dagli alimenti che ingeriamo, e che in tutto ciò non vi è nulla di contraddittorio. L’uomo non è un enigma, come voi lo immaginate per avere il piacere di risolverlo. L’uomo appare al suo posto nell’ambito della natura, superiore agli animali, cui è simile per gli organi, inferiore ad altri esseri, cui probabilmente somiglia per il pensiero. Come tutto ciò che vediamo, l’uomo è un misto di bene e di male, di piacere e di dolore. È dotato di passioni per agire, e di ragione per governare le proprie azioni. Se l’uomo fosse perfetto, sarebbe Dio, e i pretesi contrasti, che voi chiamate contraddizioni, sono gli ingredienti necessari che fanno parte della composizione dell’uomo, il quale è ciò che deve essere?».

IV — Seguiamo i nostri movimenti, osserviamo noi stessi, e vediamo se non vi troveremo i segni viventi di queste due nature.

Tante contraddizioni si troverebbero in un soggetto semplice?
Questa duplicità dell’uomo è così evidente che taluni hanno pensato che noi abbiamo due anime, sembrando loro che un soggetto semplice debba essere incapace di tali e così improvvise mutazioni, da una smisurata presunzione al più orribile abbattimento.
Le nostre diverse volontà non sono contraddizioni della natura umana, e l’uomo non è un soggetto semplice. Egli è composto da innumerevoli organi: se uno solo di tali organi subisce la benché minima alterazione, tutte le impressioni del cervello ne vengono di necessità modificate, e l’animale ha nuovi pensieri e nuove volontà. È verissimo che noi siamo, a tratti abbattuti dalla tristezza, a tratti gonfi di presunzione: e ciò deve avvenire quando ci troviamo in situazioni opposte. Un animale accarezzato e nutrito dal suo padrone, e un altro che venga ucciso lentamente e abilmente per operarne la dissezione, provano sensazioni ben contrastanti. Lo stesso accade a noi; e le differenze insite in noi sono così poco contraddittorie che sarebbe contraddittorio esserne privi.
I folli i quali hanno asserito che noi possediamo due anime potevano, per la stessa ragione, attribuircene trenta o quaranta; giacché un uomo preso da una grande passione ha spesso trenta o quaranta idee differenti della medesima cosa, ed è fatale che le abbia, a seconda che tale oggetto gli appaia sotto differenti aspetti.
Questa pretesa duplicità dell’uomo è un’idea tanto assurda quanto metafisica. Potrei dire, allo stesso modo, che il cane che morde e che blandisce è duplice; che la gallina la quale ha tanta cura dei suoi piccini e che in seguito li abbandona fino a non riconoscerli, è duplice; che il ghiaccio, il quale di volta in volta riflette oggetti diversi, è duplice; che l’albero, il quale a tratti è carico e a tratti è spoglio di foglie, è duplice. Ammetto che l’uomo è incomprensibile; ma lo è anche tutto il resto della natura, e non vi sono maggiori contraddizioni apparenti nell’uomo che non in tutto il rimanente.

V — Non scommettere sull’esistenza di Dio significa scommettere sulla sua inesistenza. Che cosa sceglierete dunque? Soppesiamo il profitto e la perdita, scegliendo di credere che Dio esiste. Se vincete, guadagnate tutto; se perdete, non perdete nulla. Scommettete dunque, senza esitare, che esiste. — Sì, occorre scommettere; ma io forse scommetto troppo. — Vediamo un po’: poiché le probabilità di vincere e di perdere sono pari, quand’anche aveste due sole vite da scegliere per ottenerne una, potrete ancora scommettere.

È falso dire: «Non scommettere sull’esistenza di Dio significa scommettere sulla sua inesistenza»; giacché chi dubita e chiede di esser illuminato, non scommette certo né pro né contro.
D’altronde, questo paragrafo appare un po’ sconveniente e puerile; l’idea del gioco, del profitto e della perdita, non si addice alla gravità dell’argomento.
Inoltre, l’interesse che io ho a credere una cosa non è una prova dell’esistenza di tale cosa. Voi mi dite: «Se credessi che avete ragione, vi darei l’impero del mondo». Auguro allora di tutto cuore che abbiate ragione; ma finché non me l’avrete dimostrato, io non potrò credervi.
A Pascal si potrebbe dire: cominciate col convincere la mia ragione. Io ho indubbiamente interesse che esista un Dio; tuttavia, se nel vostro sistema Dio non compare altro che per pochissimi eletti; se il loro numero è così spaventosamente piccolo; se io non posso far proprio nulla da me, ditemi, ve ne prego, che interesse ho io a credervi? Non ho forse un evidente interesse ad esser persuaso del contrario? Con che animo osate mostrarmi un’infinita felicità, cui uno solo tra un milione di uomini ha a stento il diritto di aspirare? Se volete convincermi, affrontate la cosa diversamente, e non venite ora a parlarmi di gioco d’azzardo, di scommessa, di testa e croce, e ora a spaventarmi disseminando spine sul cammino che voglio e devo percorrere. Il vostro ragionamento servirebbe soltanto a creare degli atei, se la voce di tutta quanta la natura non ci gridasse che vi è un Dio, con una forza pari alla debolezza di queste vostre sottigliezze.

VI — Vedendo l’accecamento e là miseria dell’uomo, e quegli stupefacenti contrasti che si scoprono nella sua natura, e guardando tutto l’universo muto, e l’uomo privo di luce, abbandonato a se stesso e quasi smarrito in questo cantuccio dell’universo, senza sapere chi ve l’abbia messo, che cosa ci sia venuto a fare, che ne sarà di lui quando morirà, sono preso da terrore come un uomo che sia stato trasportato dormente in un’isola deserta e spaventosa e che si desti senza ravvisare ove si trovi e senza avere alcun mezzo per uscirne; e a questo punto mi stupisco che si possa non esser presi da disperazione in una così misera condizione.

Mentre leggo queste riflessioni, ricevo una lettera da un amico che si trova in un paese molto lontano[3]. Ecco le sue parole: «Mi trovo qui come mi ci avete lasciato, né più lieto né più triste, né più ricco né più povero, godendo d’una salute perfetta, possedendo tutto ciò che rende piacevole la vita, senza amore, senza avarizia, senza ambizione e senza invidia; e finché tutto ciò durerà, avrò l’audacia di chiamarmi un uomo assai felice».
Vi sono molti uomini felici come lui. Agli uomini accade come agli animali: un cane mangia e dorme con la sua padrona; un altro gira lo spiedo[4] ed è contento anche lui; un altro ancora diventa idrofobo e lo si uccide. Per conto mio, quando guardo Parigi o Londra, non vedo alcuna ragione di cadere in quella disperazione di cui parla Pascal; vedo una città che non somiglia per nulla a un’isola deserta, ma è popolata, opulenta, incivilita, e gli uomini vi sono felici per quanto lo consente la natura umana. Qual è l’uomo saggio disposto a impiccarsi perché non sa come si può vedere Dio faccia a faccia, e la sua ragione non riesce a sbrogliare il misterodella Trinità? Allo stesso modo bisognerebbe disperarsi di non avere quattro piedi e due ali.
Perché inorridire di fronte al nostro essere? La nostra esistenza non è così infelice come ci si vuol far credere. Considerare l’universo un carcere oscuro, e tutti gli uomini dei criminali in attesa di essere giustiziati, è idea da fanatico. Credere che il mondo sia un luogo di delizie ove non si debba provare altro che piacere, è vaneggiamento da sibarita. Pensare che la terra, gli uomini e gli animali sono quello che devono essere nell’ordine della Provvidenza, è — io credo — proprio di un uomo saggio.

VII — [Gli Ebrei pensano] che Dio non lascerà eternamente gli altri popoli in queste tenebre; che verrà per tutti un liberatore; ch’essi sono al mondo per annunziarlo; che sono fatti apposta per essere gli araldi di questo grande evento, e per chiamare tutti i popoli a unirsi a loro nell’attesa di quél liberatore.

Gli Ebrei hanno sempre atteso un liberatore; ma il liberatore sarà per loro e non per noi. Essi aspettano un Messia che li renda padroni dei cristiani; e noi speriamo che il Messia riunisca un giorno gli Ebrei ai cristiani: essi pensano su ciò precisamente il contrario di quel, che pensiamo noi.

VIII — La legge da cui questo popolo è governato è al tempo stesso la più antica del mondo, la più perfetta, e la sola che sia sempre stata osservata senza interruzione in uno Stato. È ciò che Filone Ebreo dimostra in diversi passi e che Giuseppe spiega mirabilmente contrastando Appione, rilevando ch’essa è così antica che il nome stesso di “legge” non divenne noto ai popoli più antichi se non più di mille anni dopo: tanto che Omero, il quale ha parlato di tanti popoli, non se ne è mai servito. Ed è facile giudicare la perfezione di quella legge dalla sua semplice lettura, vedendo che e stato provveduto a tutto con tanta saggezza, tanta equità, tanto discernimento, che i più antichi legislatori greci e romani, avendone qualche lume, hanno impostato su di essa le loro leggi principali: la qual cosa appare da quelle che gli Ebrei chiamano le “Dodici Tavole”, e dalle altre prove che Giuseppe ne offre.

È completamente falso che la legge dei Giudei sia la più antica, perché prima di Mosè, loro legislatore, essi dimoravano in Egitto, il paese più rinomato della terra per la saggezza delle sue leggi.
È completamente falso che il nome di “legge” sia stato conosciuto solo dopo Omero: egli parla delle leggi minoiche, e il vocabolo “legge” si trova già in Esiodo. Ma quand’anche il nome di legge non si trovasse né in Esiodo né in Omero, questo non proverebbe nulla. C’erano dei re e dei giudici: dunque c’erano delle leggi.
È inoltre completamente falso che i Greci e i Romani abbiano preso delle leggi dagli Ebrei. Non può essere avvenuto all’inizio delle loro repubbliche, perché allora non potevano conoscere gli Ebrei; non può essere accaduto al tempo della loro grandezza, perché allora avevano per quei barbari un disprezzo universalmente conosciuto.

IX — Questo popolo è ammirevole anche per la sua sincerità. Gli Ebrei conservano con amore e fedeltà il libro in cui Mosè dichiara che essi sono stati sempre ingrati verso Dio, e sa che lo saranno ancora di più dopo la sua morte, ma chiama il cielo e la terra a testimoni contro di loro per averglielo detto a sufficienza; che alla fine Dio irritandosi contro di loro li disperderà fra tutti i popoli della terra, e come essi lo hanno offeso adorando degli dèi estranei, così lui li colpirà prescegliendo un popolo che non è il suo. Malgrado ciò, questo libro che li disonora in tanti modi, essi lo conservano a costo della propria vita. È una sincerità che non ha altri esempi nel mondo, né radici nella natura.

Tale sincerità ha esempi dovunque e le sue radici proprio nella natura. L’orgoglio di tutti gli Ebrei è interessato a credere che non è stata affatto la loro detestabile politica, la loro ignoranza delle arti, la loro rozzezza a perderli, bensì la collera di Dio, che li punisce. Essi pensano con soddisfazione che per abbatterli ci son voluti dei miracoli, e che la loro nazione è sempre la prediletta da Dio, che la punisce.
Se un predicatore salisse sul pulpito e dicesse ai Francesi: «Voi siete dei miserabili, privi di coraggio e di comportamento; siete stati battuti a Hochstedt e a Ramillies[5]
perché non avete saputo difendervi», si farebbe lapidare. Ma se invece dicesse: «Voi siete dei cattolici prediletti da Dio; i vostri infami peccati avevano irritato l’Eterno, che a Hochstedt e a Ramillies vi abbandonò agli eretici; ma quando siete tornati al Signore, allora Egli ha benedetto il vostro coraggio a Denain», tali parole lo renderebbero bene accetto all’uditorio.

X — Se vi è un Dio, non bisogna amare che lui, e non le creature.

Bisogna amare, e assai teneramente, le creature; bisogna amare la propria patria, la propria donna, il padre, i figli; e bisogna amarli al punto che Dio ce li fa amare nostro malgrado. I princìpi contrari servono solo a creare dei barbari ragionatori.

XI — Noi nasciamo ingiusti, perchè ciascuno tende a se stesso. Ciò è contrario ad ogni ordine. Bisogna tendere a ciò che è generale; e l’inclinazione verso se stessi è l’inizio d’ogni disordine sia in guerra come in politica, in economia …

Ciò è assolutamente conforme all’ordine. È altrettanto impossibile che una società possa formarsi e sussistere senza amor proprio come sarebbe impossibile fare dei figli senza concupiscenza, e pensare a nutrirsi senza appetito ecc. È l’amore di noi stessi che alimenta l’amore per gli altri; è per i nostri reciproci bisogni che siamo utili al genere umano; questa è la base di ogni rapporto, è l’eterno legame tra gli uomini. Senza di esso, non si sarebbero inventate le arti, né si sarebbe costituita una società di dieci persone. È questo amore di sé, che ogni animale ha ricevuto dalla natura, ad ammonirci di rispettare quello degli altri. La legge regola questo amore di sé, e la religione lo perfeziona. È ben vero che Dio avrebbe potuto fare delle creature intente unicamente al bene altrui. In tal caso, i mercanti si sarebbero recati nelle Indie per carità, e il muratore avrebbe spaccato pietre per far piacere al suo prossimo. Ma Dio ha stabilito le cose diversamente. Non accusiamo l’istinto che egli ci dà e facciamone l’uso che lui ci comanda.

XII — [Il significato nascosto delle profezie] non poteva indurre in errore, e soltanto un popolo così sensuale quanto quello ebraico poteva errare. Perché, quando i beni sono promessi in abbondanza, che cosa poteva impedir loro d’intendere i beni autentici se non la cupidigia, che li spingeva a pensare ai beni terreni?

A dirla franca, forse il popolo più spirituale della terra avrebbe ragionato diversamente? Erano schiavi dei Romani; aspettavano un liberatore che li rendesse vittoriosi e facesse rispettare Gerusalemme in tutto il mondo: coi soli lumi della ragione, come potevano vedere quel vincitore, quel monarca, in Gesù povero e messo in croce? Come potevano intendere, sotto il nome della loro capitale, una Gerusalemme celeste, essi cui il Decalogo non aveva nemmeno parlato dell’immortalità dell’anima? Come poteva un popolo così attaccato alla legge riconoscere, senza una luce superiore, nelle profezie, che non erano la sua legge, un Dio celato sotto il sembiante di un ebreo circonciso, il quale con la sua nuova religione ha distrutto e reso abominevoli la Circoncisione e il Sabato, fondamenta sacre della legge giudaica? Ancora una volta, adoriamo Dio senza voler penetrare l’oscurità dei suoi misteri.

XII — Il tempo del primo avvento di Gesù Cristo è stato predetto. Il tempo del secondo no, perché il primo doveva essere segreto, mentre il secondo dev’essere strepitoso è talmente manifesto che perfino i suoi nemici riconosceranno.

Il tempo del secondo avvento di Gesù Cristo è stato predetto ancora più chiaramente del primo. Probabilmente Pascal aveva dimenticato che Gesù Cristo lo dice espressamente, nel capitolo XXI di S. Luca: «Quando vedrete un esercito circondare Gerusalemme, sappiate che la desolazione è vicina… Gerusalemme sarà rasa al suolo, e vi saranno dei segni nel sole e nella luna e nelle stelle; i flutti del mare faranno un grandissimo frastuono… Le virtù dei cieli saranno squassate; e allora essi vedranno figlio dell’uomo venire sopra una nuvola con grande potenza e grande maestà».

Non è qui predetto chiaramente il secondo avvento? Ma se ciò ancora non è accaduto, non spetta a noi l’ardimento d’interrogare la Provvidenza.

XIV — Il Messia, secondo gli Ebrei carnali, dev’essere un gran principe temporale. Secondo i cristiani carnali, egli è venuto per dispensarci dall’«amare Dio» e per darci dei sacramenti che «operano tutto» senza il nostro apporto. Né l’uno né l’altro rappresentano la religione cristiana né quella ebraica.

Questo pensiero è più un passo satirico che una riflessione cristiana. Si vede che il colpo, qui, è tirato contro i gesuiti. Ma, a dire il vero, quale gesuita ha mai detto che Gesù Cristo «è venuto per dispensarci dall’amare Dio»? La disputa sull’amore di Dio è una pura disputa di parole, come la maggior parte delle altre controversie scientifiche che hanno causato odi tanto violenti e così spaventose sventure.
In questo passo c’è anche un altro difetto, ed è l’opinione che l’attesa d’un Messia fosse presso gli Ebrei una questione religiosa, mentre era soltanto un’idea consolatrice. Gli Ebrei speravano in un liberatore, ma non era stato loro ordinato di credervi come articolo di fede. Tutta la loro religione era racchiusa nei libri della Legge. I profeti non sono stati mai considerati dagli Ebrei come legislatori.

XV — Per esaminare le profezie, bisogna capirle. Infatti se si crede che esse abbiano un unico significato, allora è certo che il Messia non è venuto; ma se esse hanno due significati, è certo ch’egli è venuto nella persona di Gesù Cristo.

La religione cristiana è tanto veritiera che non ha bisogno di prove dubbie. Ora, se qualcosa potesse scuotere le fondamenta di questa santa e ragionevole religione, è proprio questa opinione di Pascal. Egli vuole che nella Scrittura tutto abbia due significati; ma chi avesse la sventura di essere incredulo, potrebbe dirgli: «Chi dà un doppio significato alle proprie parole, intende ingannare gli uomini, e tale duplicità è sempre punita dalle leggi; come dunque potete, senza arrossire, ammettere in Dio ciò che viene punito ed è detestato negli uomini? Che dico? Con quale disprezzo e con quale indignazione non trattate gli oracoli dei pagani, perché avevano due significati! Non si potrebbe dire, piuttosto, che le profezie riguardanti direttamente Gesù Cristo hanno un solo significato, come quelle di Daniele, di Michea e di altri? Non si potrebbe anzi dire che, quand’anche non avessimo intelligenza alcuna delle profezie, la religione sarebbe ugualmente dimostrata?».

XVI — La distanza infinita tra i corpi e gli spiriti raffigura la distanza infinitamente più infinita tra gli spiriti e la carità, giacché essa è soprannaturale.

C’è da credere che, se avesse potuto rivedere la sua opera, Pascal non avrebbe usato questo guazzabuglio di parole.

XVII — Le debolezze più appariscenti sono forze per coloro che intendono bene le cose. Per esempio, le due Genealogie di S. Matteo e di S. Luca, è chiaro che non sono state fatte di comune accordo.

Avrebbero dovuto, gli editori dei Pensieri di Pascal, stampare questo pensiero, la cui sola esposizione è forse capace di far torto alla religione? A che serve dire che quelle genealogie, quei cardini fondamentali della religione cristiana sono in contrasto, senza dire in che cosa possono concordare? Insieme col veleno bisognerebbe fornire l’antidoto. Che si penserebbe di un avvocato il quale dicesse: «La mia parte si contraddice, ma per chi sa intendere bene le cose questa debolezza è una forza?».

XVIIII — Non ci si rimproveri più, dunque, la mancanza di chiarezza, giacché ne facciamo professione; ma si riconosca la verità della religione nella sua stessa oscurità, nei pochi lumi che ne riceviamo e nell’indifferenza che abbiamo di conoscerla.

Ecco degli strani indizi di verità portati da Pascal! Quali sono allora i segni della menzogna? Ma come! Per esser creduti basterebbe dire: «Sono oscuro, sono incomprensibile?», Sarebbe assai più sensato non presentare agli occhi altro che i lumi della fede, invece che siffatte tenebre di erudizione.

XIX — Se vi fosse una sola religione, Dio sarebbe troppo manifesto.

E che! Voi dite che, se vi fosse una sola religione, Dio sarebbe troppo manifesto! Ma dimenticate di aver detto, ad ogni pagina, che un giorno vi sarà una sola religione? Secondo voi, dunque, Dio sarà allora troppo manifesto.

XX — Io dico che la religione ebraica non consisteva in nessuna di queste cose, ma soltanto nell’amore di Dio e che Dio riprovava tutte le altre cose.

Come! Dio riprovava tutto ciò che lui stesso ordinava con tanta cura agli Ebrei, e con dettagli così prodigiosi! Non è più vero dire che la legge di Mosè consisteva sia nell’amore che nel culto? Riportare tutto all’amore di Dio attesta forse non tanto l’amor di Dio, quanto l’odio di ogni giansenista per il suo prossimo molinista[6].

XXI — La cosa più importante nella vita è la scelta di un mestiere; ma ne dispone il caso. È il costume che fa i muratori, i soldati e i conciatetti.

Ma che cosa può produrre i soldati, i muratori e tutti i lavoratori manuali, se non ciò che si chiama caso e costume? Unicamente alle arti dell’ingegno si viene destinati da se stessi. Ma per i mestieri che tutti possono fare, è naturalissimo e pienamente ragionevole che ne disponga il costume.

XXII — Ciascuno esamini il proprio pensiero, lo troverà sempre occupato col passato e con l’avvenire. Noi non pensiamo quasi affatto al presente; e se vi pensiamo, è soltanto per prenderne lume onde predisporre l’avvenire. Il presente non rappresenta mai il nostro fine; il passato e il presente sono i nostri mezzi; soltanto l’avvenire è il nostro obiettivo.

Anziché lamentarcene, dobbiamo ringraziare l’autore della natura di averci dato questo istinto che ci trascina senza posa verso l’avvenire. Il tesoro più prezioso dell’uomo è questa speranza, che mitiga i nostri dolori e ci dipinge piaceri futuri durante il possesso di quelli presenti. Se gli uomini fossero tanto sventurati da occuparsi soltanto del presente, non si seminerebbe, non si costruirebbe, non si pianterebbe, non si provvederebbe a nulla: si mancherebbe di tutto proprio in mezzo a quel falso godimento. Com’è, possibile che un uomo dell’ingegno di Pascal sia incappato in un luogo comune tanto falso? La natura ha stabilito che ogni uomo goda del presente nel nutrirsi, nel mettere al mondo dei figli, ascoltando suoni gradevoli, occupando la propria facoltà di pensare e di sentire; e che uscendo da tali condizioni, e spesso anzi proprio nel bel mezzo di esse, pensi al domani: senza di che, oggi perirebbe di miseria.

XXIII — Ma quando ho guardato più da vicino, ho scoperto che questa ripugnanza che gli uomini provano per il riposo e il rimanere soli con se stessi, deriva da una causa ben fondata, cioè dalla naturale infelicità della nostra condizione debole e mortale, e tanto misera che nulla può consolarci quando nulla c’impedisce di pensarvi e non vediamo altri che noi stessi.

Questa frase «non vediamo che noi stessi» non ha senso. Che uomo sarebbe colui che non agisse affatto limitandosi a contemplare se stesso? Io dico che non soltanto un uomo simile sarebbe un imbecille, inutile alla società, ma che un tal uomo non può esistere: perché, che cosa mai contemplerebbe? Il suo corpo, i suoi piedi, le sue mani, i suoi cinque sensi? O sarebbe un idiota, oppure egli farebbe uso di tutte queste cose. Se ne starebbe forse a contemplare la propria facoltà di pensiero? Ma tale facoltà egli non può contemplarla che esercitandola. O non penserà a nulla, oppure penserà alle idee che gli son già venute, oppure ancora ne metterà insieme di nuove: ora, egli non può ricevere idee che dal di fuori. Eccolo dunque necessariamente occupato o coi suoi sensi o con le sue idee; eccolo dunque proiettato fuori di sé, oppure imbecille.
Lo ripeto, è impossibile alla natura umana rimanere in questo immaginario torpore; è assurdo pensarlo; è insensato pretenderlo. L’uomo è nato per l’azione, come il fuoco tende verso l’alto e la pietra in basso. Non essere occupato e non esistere, è per l’uomo la medesima cosa. Tutta la differenza sta nelle occupazioni, tranquille o tumultuose, pericolose o utili.

XXIV — L’uomo ha un istinto segreto che lo porta a cercare il divertimento e l’occupazione fuori di lui stesso, il che deriva dal sentimento continuo della propria miseria; ed ha un altro istinto segreto, ch’è un residuo della grandezza della sua natura originaria, e gli dà la consapevolezza che la felicità consiste, in realtà, soltanto nel riposo.

Essendo questo istinto segreto il principio primo e il fondamento necessario della società, esso deriva piuttosto dalla bontà divina, ed è più lo strumento della nostra felicità che il sentimento della nostra miseria. Non so che cosa facessero i nostri primi padri nel paradiso terrestre; ma se ognuno di essi non avesse pensato che a sé, l’esistenza del genere umano ne sarebbe stata compromessa per sempre. Non è forse assurdo pensare ch’essi avessero sensi perfetti, cioè strumenti d’azione perfetti, unicamente per darsi alla contemplazione? E non è ameno il fatto che menti pensanti possano vedere nell’ozio un titolo di nobiltà e nell’azione una diminuzione della nostra natura?

XXV — Proprio per questa ragione, quando Cinea[7] diceva a Pirro, il quale si proponeva di godere il riposo con i suoi amici dopo aver conquistato gran parte del mondo, ch’egli avrebbe fatto meglio ad anticipare la propria felicità godendo fin da quel momento quel riposo senza andare a cercarla con tante fatiche, gli dava un consiglio carico di gravi difficoltà, e non certo più ragionevole dei progetti di quel giovane ambizioso. L’uno e l’altro ritenevano che l’uomo possa contentarsi di sé e dei suoi beni presenti, senza colmare il vuoto del proprio animo con speranze immaginarie: il che è falso. Pirro non poteva esser felice né prima né dopo aver conquistato il mondo.

L’esempio di Cinea è buono per le satire di Boileau, ma non per un’opera filosofica. Un re saggio può esser felice a casa propria; e poiché Pirro ci viene tramandato come un folle, ciò non può valer d’esempio per il resto degli uomini.

XXVI — Bisogna riconoscere che l’uomo è tanto infelice ch’egli si annoierebbe anche senza alcuna causa esterna di noia, per lo stato medesimo della sua condizione.

Al contrario, l’uomo è, da questo punto di vista, molto fortunato; e noi dobbiamo esser grati all’autore della natura di aver unito la noia all’inazione, per costringerci in tal modo ad essere utili al prossimo e a noi stessi.

XXVII — Come mai quest’uomo, che ha perduto di recente il suo unico figlio e che accasciato da liti e processi era stamani così turbato, ora invece non ci pensa più? Non vi stupite: è occupatissimo a indagare da dove passerà un cervo che i suoi cani inseguono con ardore da sei ore. All’uomo, anche se pieno di tristezza, non occorre di più. Se si riesce a indurlo in un qualche divertimento, eccolo felice per quello spazio di tempo.

Quell’uomo si comporta benissimo: la distrazione è un rimedio contro il dolore più sicuro del chinino contro la febbre; non biasimiamo, in questo, la natura, ch’è sempre pronta a soccorrerci.

XXVII — S’immagini un certo numero di uomini in catene, tutti condannati a morte, di cui alcuni vengono ogni giorno scannati davanti agli occhi degli altri: i superstiti scorgono la propria condizione in quella dei loro simili, e guardandosi gli uni con gli altri con dolore e senza speranza, aspettano il proprio turno. È il quadro della condizione umana.

Questo non è certo un paragone giusto: gli infelici in catene che vengono scannati l’uno dopo l’altro, sono infelici non soltanto perché soffrono, ma anche perché provano ciò che gli altri non soffrono. La sorte naturale di un uomo non è né di esser incatenato né di esser scannato; ma tutti gli uomini son fatti, come gli animali e le piante, per crescere, per vivere un certo tempo, generare un loro simile e morire. In una satira si può mostrare quanto si voglia l’uomo dal suo lato peggiore; ma per poco che ci si serva della ragione, si dovrà riconoscere che di tutti gli animali l’uomo è il più perfetto, il più felice, e quello che vive più a lungo. Invece di stupirci, dunque, e di lamentarci dell’infelicità e della brevità della vita, dobbiamo stupirci e rallegrarci della nostra felicità e della sua durata. Ragionando solo da filosofo, oso dire che ci vuole davvero una buona dose di orgoglio e di temerità a pretendere che, per natura, dovremmo esser migliori di quel che siamo.

XXIX — I saggi pagani i quali hanno detto che vi è un solo Dio, sono stati perseguitati, gli Ebrei odiati, i cristiani ancora di più.

I pagani sono stati talvolta perseguitati, come lo sarebbe oggi un uomo che venisse ad insegnare l’adorazione di un Dio, indipendentemente dal culto riconosciuto. Socrate non è stato condannato per aver detto: «vi è un solo Dio», ma per essersi levato contro il culto esteriore del paese e per essersi fatto, molto inopportunamente, dei nemici potenti. Quanto agli Ebrei, erano odiati non perché credessero in un unico Dio ma perché odiavano ridicolmente gli altri popoli, perché erano dei barbari che massacravano senza pietà i nemici vinti, perché quel vile popolo, superstizioso, ignorante, privo di arti, privo di commercio, disprezzava i popoli più civili. Quanto infine ai cristiani, erano odiati dai pagani perché tendevano ad abbattere la religione e l’Impero, scopo che alla fine raggiunsero, come i protestanti si sono resi padroni di quegli stessi paesi ove furono a lungo odiati, perseguitati e massacrati.

XXX — I difetti di Montaigne sono grandi. È pieno di parole sporche e disoneste. È roba che non vale niente. I suoi sentimenti sul suicidio e sulla morte sono orribili, sono orribili.

Montaigne parla da filosofo, non da cristiano: espone il pro e il contro del suicidio. Filosoficamente parlando, che male fa alla società un uomo che la lascia quando non può più servirla? Un vecchio ha il mal della pietra e soffre dolori insopportabili; gli dicono: «Se non vi fate operare, morirete; se vi si opera, potrete ancora farneticare, sbavare e trascinarvi per un anno, di peso a voi e gli altri». Supponiamo che il poveruomo prenda allora la decisione di non essere più a carico di nessuno: ecco a un dipresso il caso esposto da Montaigne.

XXXI — Quanti astri ci hanno rivelato i cannocchiali che per i nostri filosofi, prima, non esistevano! Si attaccava arditamente la Scrittura sui tanti cenni che vi si trovano circa il gran numero delle stelle. «Ne esistono soltanto mille e ventidue — si diceva, — noi lo sappiamo».

È certo che, in materia di fisica, la Sacra Scrittura si è sempre rapportata alle idee correnti; sicché essa suppone che la Terra sia immobile, che il Sole cammini, ecc. Non si deve affatto a una raffinatezza astronomica se dice che le stelle sono innumerevoli, bensì al fatto di concordare con le idee comunemente diffuse. In effetti, quantunque i nostri occhi non ci rivelino se non circa mille e ventidue stelle, pure, se si guarda fisso il cielo, la vista abbagliata crede di vederne un’infinità. La Scrittura parla quindi secondo questo pregiudizio comune, giacché essa non ci è stata data per far di noi dei fisici; ed è assai probabile che Dio non rivelasse né ad Abacuc né a Baruc né a Michea[8] che un giorno un inglese di nome Flamstead[9] avrebbe inserito nel suo catalogo più di settemila stelle scoperte col suo telescopio.

XXXII — È un segno di coraggio, da parte di un uomo morente, quello di andare ad affrontare, nella debolezza e nell’agonia, un Dio onnipotente ed eterno?

Ciò non è mai accaduto; e solo in delirio un uomo può dire: «Credo in un Dio, e lo sfido».

XXXIII — Credo di buon grado alle storie i cui testimoni si fanno sgozzare.

La difficoltà non consiste soltanto nel sapere se si debba prestar fede a testimoni che muoiono per sostenere la propria deposizione, come hanno fatto tanti fanatici, ma piuttosto se tali testimoni siano effettivamente morti per questo, se le loro deposizioni siano state conservate, se essi abbiano abitato i paesi ove si dice siano morti. Perché Giuseppe, nato ai tempi della morte di Cristo, Giuseppe nemico di Erode, Giuseppe poco attaccato al giudaismo, non ha detto una parola di tutto ciò? Ecco che cosa Pascal avrebbe potuto chiarire con successo, come hanno fatto dopo di lui tanti eloquenti scrittori.

XXXIV — Le scienze hanno due estremi che si toccano. Il primo è la pura ignoranza naturale in cui si trovano tutti gli uomini nascendo; l’altro è quello cui pervengono le grandi anime, che avendo percorso tutta la via del sapere concessa agli uomini, s’avedono di non saper nulla e s’imbattono in quella ignoranza donde erano partiti.

Questo pensiero è un, puro sofisma, e la sua falsità sta in quella parola ignoranza considerata in due sensi diversi. Chi non sa né leggere né scrivere è un ignorante; ma un matematico, per il fatto che ignora i princìpi segreti della natura, non si trova al punto d’ignoranza da cui era partito quando ha cominciato a imparare a leggere. Newton non sapeva perché l’uomo, quando vuole, muove il braccio; ma non era perciò meno dotto in tutto il resto. Chi non conosce l’ebraico, ma sa il latino, è dotto a paragone di chi conosce soltanto il francese.

XXXV — Non significa esser felici il poter godere di un divertimento, perché esso proviene da altrove e dal di fuori; e quindi l’uomo ne dipende, e di conseguenza può venir turbato da mille accidenti che rendono inevitabili le afflizioni.

È momentaneamente felice chi prova piacere, e tale piacere non può venire che dal di fuori. Noi non possiamo ricevere né sensazioni né idee se non dagli oggetti esterni, come non possiamo nutrire il nostro corpo se non introducendovi sostanze estranee, che si trasformano nella nostra.

XXXVI — L’estrema elevatezza d’ingegno è tacciata di follia, come l’estrema mancanza. Solo la mediocrità è ritenuta buona.

Non è già l’estrema elevatezza di ingegno, bensì la sua estrema vivacità e volubilità che viene tacciata di follia. L’estrema elevatezza è l’estrema esattezza, l’estrema finezza, l’estrema vastità della mente, qualità diametralmente opposte alla follia.

L’estrema mancanza d’ingegno è una carenza di concetti, un vuoto di idee; non è affatto la follia, è la stupidità. La follia è un disordine organico, che fa scorgere troppo affrettatamente parecchi oggetti, o che concentra l’immaginazione sopra uno solo di essi con soverchia applicazione e violenza. Non è affatto la mediocrità ad esser ritenuta buona, è l’allontanamento dai due estremi, è ciò che si chiama il giusto mezzo, e non mediocrità.

XXXVII — Se la nostra condizione fosse veramente felice, non avremmo bisogno di distrarci dal pensarvi.

La nostra condizione è precisamente di pensare agli oggetti esterni, coi quali abbiamo un necessario rapporto. È falso che si possa distrarre un uomo dal pensare alla condizione umana; perché, a qualsiasi cosa egli applichi la mente, l’applicherà a qualcosa che è necessariamente connesso alla condizione umana; e ancora una volta, si badi bene, pensare a sé facendo astrazione dalle cose naturali, significa non pensare assolutamente a nulla.

Invece d’impedire a un uomo di pensare alla propria condizione, non si fa che intrattenerlo sui vantaggi che essa presenta. Si suol parlare a un dotto di reputazione e di scienza; a un principe, di ciò che è in rapporto con la sua grandezza; a tutti gli uomini, del piacere.

XXXVIII — I grandi e i piccoli hanno gli stessi casi, gli stessi dispiaceri e le stesse passioni! Ma alcuni si trovano nella parte alta della ruota, altri vicino al centro, e così sono meno travagliati dai medesimi movimenti.

È falso che i piccoli siano meno travagliati dei grandi; al contrario, la loro disperazione è più viva perché hanno meno risorse. Su cento londinesi che si uccidono, novantanove appartengono al popolino, e uno solo è di condizione elevata. Il paragone della ruota è ingegnoso ma falso.

XXXIX — Agli uomini non si insegna ad essere onesti, e s’insegna loro invece tutto il resto. Eppure, essi non si vantano di nulla quanto dell’onestà. Così, essi si vantano di sapere l’unica cosa che non imparano.

Agli uomini si insegna ad essere onesti e, se così non fosse, pochi riuscirebbero ad esserlo. Lasciate vostro figlio, nell’infanzia, prendere tutto ciò che troverà a portata di mano, a quindici anni sarà bandito di strada; lodatelo per aver detto una menzogna, diventerà falso testimone; lusingate la sua concupiscenza, diverrà certamente un debosciato. Agli uomini si insegna tutto, la virtù, la religione.

XL — Che sciocca idea ha avuto Montaigne a descrivere se stesso! E non solo incidentalmente e contro i suoi principi, come capita a tutti sbagliando, ma secondo le sue massime e con un disegno ben determinato dal principio alla fine. Ora, dire sciocchezze per caso e per debolezza, è un male comune; ma dirne di proposito, e di questa portata, è addirittura intollerabile.

Che bell’idea ha avuto Montaigne a descrivere se stesso, come ha fatto! Giacché egli ha descritto la natura umana. E che idea meschina è quella di Nicole[10] di Malebranche, di Pascal, di disprezzare Montaigne!

XLI — Quando ho esaminato perché si conceda tanta fiducia a un’infinità di impostori che dicono di possedere dei rimedi, fino a mettere spesso la propria vita nelle loro mani, mi è sembrato che la vera causa stia nel fatto che esistono rimedi autentici; non sarebbe infatti possibile che ce ne fossero tanti falsi e che vi si desse tanto credito, se non ne esistessero di veri. Se non ne fossero mai esistiti e tutti i mali fossero incurabili, è impossibile che gli uomini ne avessero immaginata l’esistenza, e che tanti altri per di più avessero dato credito a coloro che si vantavano di possederne. Allo stesso modo, se un uomo si vantasse di impedire la morte, nessuno gli crederebbe, non esistendo di ciò alcun esempio. Ma, essendoci stati una gran quantità di rimedi riconosciuti efficaci dalla attestazione stessa dei più grandi uomini, la credenza umana si è indirizzata in tal senso, e non potendo la cosa esser negata in linea generale (giacché esistono effetti particolari che sono autentici), il volgo, che non riesce a discernere quali tra tutti gli effetti siano autentici, crede a tutti. Parimenti, a far credere in tanti falsi effetti lunari è il fatto che ce ne sono di veri, come il flusso del mare.

Così, mi sembra altrettanto evidente che ci sono tanti falsi miracoli, false rivelazioni e sortilegi, perché ve ne sono di veri.

A me sembra che la natura umana non abbia bisogno del vero per cadere nel falso. Mille false influenze sono state attribuite alla Luna prima d’immaginare minimamente il suo vero rapporto con le maree. Il primo uomo che si è ammalato, ha creduto senza difficoltà al primo ciarlatano. Nessuno ha mai visto né i lupi mannari né i maghi, ma molti vi hanno creduto. Nessuno ha mai visto la trasformazione dei metalli, ma parecchi si sono rovinati per aver creduto nella pietra filosofale. I Romani, i Greci, tutti i pagani credevano dunque ai falsi miracoli da cui erano sommersi, sol perché ne avevano visti di veri?

XLII — Il porto è un punto di riferimento per coloro che si trovano su una nave; ma dove troveremo questo punto fermo nella morale?

In quest’unica massima accettata da tutti i popoli: «Non fate ad altri ciò che non vorreste fosse fatto a voi».

XLIII — Ferox gens nullam esse vitam sine armis putat[11]. Preferiscono la morte alla pace; gli altri preferiscono la morte alla guerra. Qualunque idea può essere preferita alla vita, il cui amore sembra così forte e così naturale.

Tacito lo ha detto dei Catalani; ma non esistono popoli di cui sia stato detto e si possa dire: «Preferiscono la morte alla guerra».

XLIV — Più si ha ingegno, e più si scoprono uomini originali. La gente comune non trova differenze tra gli uomini.

Gli uomini veramente originali sono pochissimi; quasi tutti si regolano, pensano e sentono sotto l’influenza del costume e dell’educazione: nulla è più raro d’uno spirito che avanzi su una via nuova. Ma in questa folla d’uomini che marciano di conserva, ciascuno ha piccole differenze nel suo cammino, e le persone di vista lunga le avvertono.

XLV — Vi sono dunque due specie di intelligenza, l’una atta a penetrare vivacemente e profondamente le conseguenze dei principi, ed è l’intelligenza teoretica; l’altra atta a capire uri gran numero di principi senza confonderli, ed è l’intelligenza geometrica.

L’uso vuole oggi, mi pare, che si chiami intelligenza geometrica l’intelligenza metodica e conseguente.

XLVI — È più facile sopportare la morte senza pensarci che pensare alla morte senza provarne paura.

Non si può dire che un uomo sopporti la morte facilmente o difficilmente quando non vi pensi affatto. Chi non sente nulla, non sopporta nulla.

XLVII — Noi supponiamo che tutti gli uomini concepiscano e sentano nello stesso modo gli oggetti che loro si presentano; ma lo supponiamo del tutto gratuitamente, perché non ne abbiamo alcuna prova. So bene che nelle medesime occasioni si usano le medesime parole, e che ogni volta che due uomini vedono, per esempio, la neve, esprimono entrambi la vista di questo oggetto con le stesse parole, dicendo ambedue ch’essa è bianca, e che da tale conformità di uso si trae una valida congettura d’una conformità d’idee; ma ciò non risolve definitivamente la questione, benché sia possibile scommettere per una risposta affermativa.

Non era il color bianco che bisognava addurre come prova. Il bianco, che è l’insieme di tutti i raggi, sembra splendente a tutti, abbaglia un po’ a lungo andare, fa a tutti gli occhi il medesimo effetto; mentre si potrebbe dire che gli altri colori non sono forse percepiti da tutti gli occhi allo stesso modo.

XLVIII — Qualsiasi nostro ragionamento si riduce a cedere al sentimento.

Il nostro ragionamento si riduce a cedere al sentimento in fatto di gusto, non in fatto di scienza.

XLIX — Coloro che giudicano un’opera in base a una regola sono, in confronto agli altri, come coloro che hanno un orologio rispetto a chi non ne ha. Uno dice: «Siamo qui da due ore». L’altro dice: «No, sono soltanto tre quarti d’ora». Guardo il mio orologio; dico all’uno: «Voi vi annoiate»; e all’altro: «A voi il tempo passa veloce».

Nelle opere di gusto, in musica, in poesia, in pittura, a servire da orologio è il gusto; chi ne giudica soltanto secondo regole, ne giudica male.

L — Cesare era troppo vecchio, mi sembra, per divertirsi a conquistare il mondo. Tale divertimento andava bene per Alessandro: era un giovanotto difficile da tener fermo; ma Cesare doveva essere più maturo.

Comunemente ci s’immagina che Alessandro e Cesare siano usciti di casa col disegno di conquistare la terra: ma non è così. Alessandro succedette a Filippo nel comando in capo della Grecia, e fu incaricato della giusta impresa di vendicare i Greci dalle ingiurie del re di Persia; vinse il nemico comune, e prosegui le sue conquiste fino all’Indo, perché il regno di Dario si estendeva fino all’Indo; allo stesso modo che, se non fosse stato per il maresciallo di Villars[12],il duca di Malborough sarebbe giunto fino a Lione.
Quanto a Cesare, era uno dei capi della repubblica. Si bisticciò con Pompeo, come i giansenisti coi molinisti; e allora si trattò di sterminarsi a vicenda. Una sola battaglia, in cui non furono uccisi neppure diecimila uomini, decise di tutto.
Del resto, il pensiero di Pascal è forse falso in ogni senso. Occorreva la maturità di Cesare per cavarsela in mezzo a tanti intrighi; ed è stupefacente che Alessandro, alla sua età, abbia rinunziato ai piaceri per fare una guerra così difficile.

LI. — È divertente considerare che vi è gente al mondo la quale, avendo rinunziato a tutte le leggi divine e naturali, si è fatta per se stessa delle leggi cui obbedisce rigorosamente, come ad esempio i ladri …

Si tratta di cosa più utile che divertente, perché dimostra che nessuna società umana può sussistere un sol giorno senza regole.

LII — L’uomo non è né angelo né bestia, e disgrazia vuole che chi cerca di far l’angelo, fa la bestia.

Vuol far l’angelo chi cerca di distruggere le passioni invece di regolarle.

LIII — Un cavallo non cerca di farsi ammirare dal suo compagno: si vede bene tra loro una sorta di emulazione nella corsa, ma senza conseguenze. Infatti, dentro la stalla, il più pesante e il più sgraziato non cederà per questo la propria avena all’altro. Non è lo stesso tra gli uomini, la loro virtù non cerca soddisfazione in se stessa, ed essi non son contenti se non riescono a trarne vantaggio sugli altri.

L’uomo più sgraziato del mondo non cede, nemmeno lui, il proprio pane all’altro, ma il più forte lo toglie al più debole; e sia tra gli animali che tra gli uomini, i grossi mangiano i piccini.

LIV — Se l’uomo cominciasse con lo studiare se stesso, vedrebbe quanto è incapace di andare oltre. Come è possibile che una parte conosca il tutto? Egli aspirerà forse a conoscere almeno le parti con le quali ha rapporti. Ma le parti del mondo hanno tutte tali rapporti e tali legami reciproci, che ritengo impossibile conoscere l’una senza l’altra e senza il tutto.

Per il fatto che non può conoscere tutto, non bisognerebbe distogliere l’uomo dal cercare ciò che gli è utile.
«Non possis oculo quantum contendere Lynceus,
Non tamen idcirco contemmas lippus inungix»[13].
Noi possediamo molte verità e abbiamo fatto molte invenzioni utili. Consoliamoci di non conoscere i rapporti che possono esistere tra un ragno e l’anello di Saturno, e continuiamo ad esaminare ciò ch’è alla nostra portata.

LV — Se il fulmine cadesse nei luoghi bassi, i poeti e coloro i quali non sanno ragionare altro che su cose dì tal genere, mancherebbero di prove.

Un paragone non costituisce prova né in poesia né in prosa: serve in poesia da abbellimento, e in prosa a chiarire e a render più evidenti le cose. I poeti che hanno paragonato le sventure dei grandi al fulmine che colpisce le montagne, farebbero paragoni contrari se avvenisse il contrario.

LVI — La commistione tra spirito e corpo è ciò che ha fatto confondere le idee sulle cose a quasi tutti i filosofi, i quali attribuiscono al corpo ciò che appartiene soltanto allo spirito, e allo spirito ciò che non può convenire se non al corpo.

Se sapessimo che cos’è lo spirito, potremmo dolerci del fatto che i filosofi gli hanno attribuito ciò che non gli appartiene; ma noi non conosciamo né lo spirito né il corpo; non possediamo alcuna idea del primo e abbiamo idee assai imperfette sul secondo. Non possiamo perciò sapere quali siano i loro limiti.

LVII — Come si dice bellezza poetica, bisognerebbe dire anche bellezza geometrica e bellezza medica. Tuttavia non lo si dice; e la ragione è che si sa bene quale sia l’oggetto della geometria e quale quello della medicina, ma si ignora in che cosa consista il piacere che è oggetto della poesia. Si ignora in che consista il modello naturale da imitare; e mancando tale conoscenza, sono stati inventati alcuni termini bizzarri: secolo d’oro, meraviglia dei nostri giorni, lauro fatale, bell’astro ecc.; e un simile gergo vien chiamato bellezza poetica. Ma chi immaginerà una donna vestita su tal modello, vedrà una gentil damigella tutta ricoperta di lustrini e di collane di latta.

Questo è del tutto falso: non si deve dire né bellezza geometrica né bellezza medica, perché un teorema e una purga non sollecitano piacevolmente i sensi, e l’appellativo di bellezza si dà soltanto alle cose che incantano i sensi, come la musica, la pittura, l’eloquenza, la poesia, l’architettura regolare ecc.
Altrettanto falsa è la ragione addotta da Pascal. Si sa benissimo in che consista l’oggetto della poesia: nel rappresentare con forza, chiarezza, delicatezza e armonia; la poesia è l’eloquenza armoniosa. Bisogna proprio che Pascal avesse ben poco gusto per dire che lauro fatale, bell’astro e altre sciocchezze del genere siano bellezze poetiche; e bisogna che gli editori di questi Pensieri fossero persone ben poco versate nelle belle lettere per stampare una riflessione così indegna del suo illustre autore.
Non vi mando le altre mie osservazioni sui Pensieri di Pascal, che porterebbero a discussioni troppo lunghe. È sufficiente aver ritenuto di scorgere in quel grande genio alcuni errori di disattenzione.

Per uno spirito limitato come il mio è un conforto essere assolutamente convinto che gli uomini più grandi possono sbagliare al pari di quelli comuni.

Note

[1] Allusione al trattato dell’abate Claude-François d’Houtteville (1688–1742), La religion chrétienne prouvée par les faits (1722), e probabilmente anche al Traité de la vérité de la religion chrétienne (1684, ristampato nel 1729) di Jacques Abbadie (1658–1727).

[2] Cfr. Bayle, Dictionnaire historique et critique, articolo “Sadeur” per gli androgini di Platone e articolo “Ruggeri” per i dogmi dei Siamesi.

[3] Il ricco mercante e diplomatico londinese Everard Falkener (1684–1748), amico di Voltaire che ne era stato ospite in Inghilterra. A lui Voltaire dedicò, nel 1733 (l’anno della prima edizione delle Lettere filosofiche) la tragedia Zaïre.

[4] Riferimento al tourne-broche, un apparecchio per arrostire la carne, inventato nel XV secolo. Era mosso da una ruota entro la quale veniva rinchiusa un cane particolarmente addestrato che con le zampe la faceva ruotare.

[5] Nel 1704 e 1706, durante la guerra di Successione spagnola.

[6] I seguaci del teologo gesuita spagnolo Luis de Molina (1536–1600), che nell’opera Concordia liberi arbitrii cum gratiae donis (1588) aveva cercato di conciliare la libertà umana con l’efficacia della grazia divina. Il molinismo era l’obiettivo polemico del rigorismo giansenista.

[7] Cinea, ministro di Pirro, re delld’Epiro; oratore, scolaro è imitatore di Demostene.

[8] Profeti dell’Antico Testamento.

[9] John Flamstead (1649–1719), astronomo inglese, fondatore dell’Osservatorio di Greenwich, autore di una Historia coelestis britannica e di un Atlas coelestis.

[10] Pierre Nicole (1625–95), teologo francese, uno dei maggiori rappresentanti del giansenismo, autore di varie opere, tra cui Logique ou l’art de penser (1662), Logique de Port-Royal, Traité de la gràce générale. Tradusse in latino le Lettres provinciales di Pascal.

[11] «Popolo barbaro, per esso la vita senza armi è niente»: Tito Livio, XXXIV, 17.

[12] Louis-Hector duca di Villars (1653–1743), condottiero francese, maresciallo di campo dal 1689 e maresciallo dì Francia dal 1702. Nel 1709, durante al guerra di Successione spagnola, comandante in capo dell’esercito francese, si batté con il principe Eugenio e il duca di Marlborough a Malplaquet, dove riusci ad arginare l’avanzata nemica.

[13] « Non puoi certo gareggiare con Linceo nella vista; ma non per questo, se hai gli, occhi cisposi, devi sdegnare un unguento»: Orazio,· Epistolae, I, 1, 28–29.

Da: Voltaire, Lettere inglesi, a cura di Paolo Alatri, Editori Riuniti, Roma 1971, pp. 152–182.

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Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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