Verità, male e tempo in Agostino

di Emanuele Severino

Mario Mancini
7 min readApr 18, 2022

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“Confessioni”, VII, XII, 18

La verità

Ma, intanto, sostanzialmente neoplatonica è la filosofia di Agostino (354–430) (come lo era stata quella di Origene e lo sarà quella di Scoto Eriugena — dove però la libertà della creazione è ancora sostanzialmente negata è il mondo viene inteso come “teofania”, cioè come manifestazione necessaria di Dio e come luogo in cui Dio produce stesso).

E, innanzitutto, è filosofia, epistéme, ossia volontà di affermate ciò che sta nella luce (De vera religione, XXXIX, D’ora in poi Dvr) e che pertanto non può essere negato: la verità, Alla base di Ogni discorsa vero c’è per Agostino, l’impossibilità di dubitare dell’esistenza della verità. Se si dubita che la verità esista, si è sicuri di dubitare, cioè si vede che è vero che si dubita, si vede l’esistenza di questa verità. E se questa verità esiste, esiste la verità ed è visibile. È visibile, non nella «luce del sole materiale», ma nella «luce» che «illumina ogni uomo» ed è l’essenza stessa dell’uomo: la sua coscienza razionale. «La verità abita nell’interno dell’uomo.» «Non voler uscire da te stesso per trovarla.» (Dvr, ibid.)

E la verità è innanzitutto — secondo quanto il pensiero filosofico ha affermato sin dal suo inizio — la necessità di non identificare l’essere mutevole e diveniente con la totalità dell’essere: la necessità di “trascendere” ogni essere mutevole e quindi la stessa coscienza umana in cui la verità si manifesta e che è essa stessa mutevole (innanzitutto, perché è il movimento che, cercando la verità, giunge a trovarla).

Trascendendo il mutevole, appare la forma originaria della verità, cioè l’Essere eterno e immutabile di Dio, che è il Principio di tutto ciò che esiste, e quindi anche della coscienza umana che, trascendendo il mutevole, afferma l’immutabile.

Proprio perché la forma originaria della verità è l’Essere eterno e immutabile, il ragionamento dell’uomo non crea la verità, ma la scopre. La verità esiste anche prima che sia scoperta. Ma una volta scoperta, «essa ci rinnova» (Dvr, ibid.). Tuttavia, in Agostino come in Tommaso, la filosofia è assunta in un contesto più ampio, che contiene anche la fede cristiana; sì che la riflessione su questo più ampio contesto, e la volontà di unire la filosofia e la fede cristiana, non hanno un carattere primariamente filosofico. La filosofia è «ancella della teologia» cristiana.

Il male

Anche nel modo in cui Agostino affronta il problema del male il neoplatonismo è presente. Sino a che la materia è intesa come indipendente da Dio (Platone, Aristotele), essa è insieme l’origine del male; ma se Dio, che è bontà e perfezione assoluta, è creatore anche della materia, il male non può essere inteso come qualcosa di positivo — tutto ciò che è creato da Dio, tutto ciò che esiste nell’universo è bene -, ma come privazione di essere: la privazione che necessariamente compete a ogni creatura in quanto essa non può possedere la perfezione di Dio; la privazione che compete alla mente e alla volontà dell’uomo quando egli pone la creatura al posto del creatore.

Agostino giunge a questo risultato, mostrando che le cose che “si corrompono” sono necessariamente “buone”. La corruzione delle cose è il divenire, l’annientamento. La radice di ogni dolore e di ogni male è cioè il corrompersi e l’annientamento di ciò che ci sta a cuore. Agostino ripropone il concetto platonico di “bene”: il bene è l’essere stesso, cioè il principio che in ogni cosa la fa essere ciò che essa è. Le cose che si corrompono non sono il bene sommo, perché il bene sommo è lo stesso Essere eterno di Dio che non può corrompersi. Ma se le cose che si corrompono non fossero “buone”, non potrebbero nemmeno corrompersi: la corruzione è tale solo in quanto diminuisce il bene in ciò che si corrompe. Private di ogni bene, le cose non esistono più, diventano un niente. Questo significa appunto che il loro essere “buone” è il loro stesso esistere e che quindi tutto ciò che esiste, proprio perché esiste (proprio perché è), è bene (Confessioni, VII, XII, 18. D’ora in poi Conf).

Con questa tesi Agostino non intende negare l’esistenza della corruzione e del dolore e dell’angoscia che essa produce, ma intende dire che il male è privazione dell’essere, è il niente che corrode tutte le cose mutevoli proprio in quanto esse non sono l’Essere eterno di Dio. Il male è presente nel mondo, e anzi, in quanto scaturisce dal divenire delle cose, ha quella stessa evidenza che compete al divenire; ma il male non è una realtà positiva, non è un essere di cui si debba cercare l’origine; è che quindi, con la Sua presenza, metta in difficoltà il pensiero che vede in Dio, cioè nel sommo bene, il creatore è quindi l’origine di tutte le cose: il male è il niente in cui cadono tutte le cose propinò perché esse sono create, cioè sono creature, cioè non sono l’Essere eterno di Dio.

L’atto creatore di Dio, quindi, non è origine del male, ma crea qualcosa che è, un essente, è dunque qualcosa che è bene. Con la Genesi Agostino può dire che «Dio ha creato buonissime tutte le cose». Ma poiché ciò che viene creato da Dio non è Dio, ma è qualcosa di corruttibile, il male è la mancanza di essere, il niente a cui conduce la corruzione del corruttibile.

Non vi è dunque alcuna cosa, nell’universo, di cui si possa dire: «Essa non dovrebbe esistere». Ogni cosa ha il suo posto nell’Ordinamento dell’universo. Tale Ordinamento è determinato dal fatto che alcune cose hanno più realtà di altre e quindi sono “superiori” ad esse. Ed è “migliore”, cioè ha più realtà e più bene, un Ordinamento che oltre alle cose “superiori” contiene anche quelle “inferiori” (mostri, animali feroci, fulmini, ghiacci, tempeste), piuttosto che un Ordinamento che contenga solo quelle “superiori”.

A sua volta, la malvagità non è qualcosa di reale, ma è la deviazione della volontà (Conf., VII, XVI, 22). Tale deviazione, infatti, è il venir meno (l’annientamento, la corruzione) dell’orientamento con cui la volontà si adegua all’Ordinamento vero della realtà, dove il bene supremo di Dio domina i beni inferiori.

Nella sua deviazione (cioè nel suo mancamento), la volontà antepone ciò che ha meno essere e meno bene a ciò che ha più essere e più bene, e quindi essa, oltre che dalla malvagità, è guidata dall’errore, perché crede che ciò che non è sia ( Conf., VII, XV, 21).

Proprio perché anche la malvagità è mancanza di essere, anche i malvagi — per quel tanto che essi hanno esistenza e dunque hanno bene — sono adatti, come la vipera e il verme {Conf., VII, XVI, 22), alle parti inferiori della creazione, e quindi un universo che li comprende è migliore di un universo che li escluda.

L’origine della deviazione (o “defezione”) della volontà non è Dio, ma il “libero arbitrio”, cioè la facoltà in base glia quale la volontà vuole ciò che potrebbe rifiutare, e rifiuta ciò che potrebbe volere. Il “peccato” è appunto la defezione della volontà: nel peccato, l’anima è privata dell’essere (cioè si annienta la sua relazione a Dio), come nella morte il corpo è privato dell’anima.

La vera libertà non è quindi il libero arbitrio, cioè il “poter non peccare”, ma è il “non poter peccare”. Questa condìzione, che è il superamento del dissidio tra la tentazione del peccato e il dovere di non peccare, non è qualcosa di naturale per l’uomo, ma può realizzarsi solo come dono di Dio, “grazia”.,

Per quanto poi riguarda i mali che sono sofferti dall’uomo, ma non sono dovuti alla corruzione naturale delle creature, essi sono da intendere come l’effetto della giustizia divina; e se un male è giusto non è un male; ed è giusto perché è fatto da Colui che non può fare nulla di ingiusto.

Concependo il male come privazione di essere, Agostino si mette in condizione di superare lo gnosticismo e il manicheismo che, proprio per risolvere il problema della presenza del male in una realtà abitata da Dio, affermano (accentuando il dualismo metafisico di Platone e di Aristotele) che al Dio buono si contrappone un Dio malvagio che è il creatore del mondo e dunque il responsabile del male che vi si trova.

Il tempo

Dio non crea nel tempo: Dio crea il tempo. Se creasse nel tempo, il tempo sarebbe indipendente da Dio; ma tutto ciò che esiste e non è Dio è creato da Dio.

Il tempo esiste, tuttavia, solo se lo si intende come la relazione dell’“anima” al divenire (Conf., XI). Già Aristotele aveva definito il tempo come «il numero del moto [la misura del divenire, compiuta dall’anima] secondo il prima e il poi» (Fisica, IV, 11): la relazione dell’anima al divenire, nella quale l’anima misura il divenire mediante le categorie del “prima” (“molto prima”, “un po’ prima”, “poco prima” e tutte le sfumature intermedie) e del “poi” (“poco dopo”, “molto dopo”, eccetera).

Se il tempo non è inteso come relazione dell’anima al divenire, il tempo non esiste. Non si può sostenere che il tempo sia costituito semplicemente dal passato, dal futuro e dal presente. Infatti il passato, è ciò che non è più (ossia è ormai niente), il futuro è ciò che non è ancora (ossia è ancora niente), e il presente è il suo trascorrere nel passato (ossia è il suo annientarsi, altrimenti non sarebbe più tempo; ma eterno presente). E quindi il tempo, concepito come semplice unità di presente, passato e futuro, non può esistere.

Tuttavia il tempo è misurato: del passato e del futuro si dice che sono lunghi o corti; e non si può misurare ciò che non è (il niente). Si misura, dunque, la presenza del passato, la presenza del presente, la presenza del futuro, e questa presenza è un tratto dell’anima: «il presente del passato è la memoria, il presente del presente è la visione, il presente del futuro è l’attesa» (Conf., XI, XX, 26). Il tempo è il “distendersi” dell’anima al passato (in quanto essa è memoria), al presente (in quanto essa è attenzione, visione) e al futuro (in quanto essa è attesa).

Misurare il tempo significa misurare questa “distensione” dell’anima, che è reale. Passando, le cose si annientano, ma rimane ed è esistente la loro traccia nell’anima; essendo future, le cose sono ancora niente, ma è già esistente l’atto col quale l’anima le attende; ed è esistente anche l’attenzione verso ciò che, come presente, è un trascorrere nel niente del passato.

Da Emanule Severino, La filosofia del greci al nostro tempo. La filosofia antica e medievale, Garzanti, Milano, 2004, pp. 277–282

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.