Uccellacci e uccellini Pier Paolo Pasolini nella critica del tempo

Mario Mancini
36 min readDec 24, 2020

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Il cammino incomincia e il viaggio è già finito.

Il Corvo

Come in tutte le favole, non c’è una storia ben definita in questo film: il pretesto narrativo è dato dalle considerazioni filosofiche (in chiave marxista) di un vecchio corvo che si rivolge a due uomini, padre (Totò) e figlio (Davoli). Il corvo sembra convincere il suo limitato pubblico con la saggezza delle sue parole, ma appena si presenta il problema della fame, gli “irragionevoli” umani gli tirano il collo e se lo mangiano. L’allegoria è chiara; il film una tardiva possibilità che Pasolini offrì al grandissimo Totò.

Pasolini su Uccellacci Uccellini

Non ho mai “messo al mondo” un film così disarmato, fragile e delicato come Uccellacci e uccellini. Non solo non assomiglia ai miei film precedenti, ma non assomiglia a nessun altro film. Non parlo della sua originalità, sarebbe stupidamente presuntuoso, ma della sua formula, che è quella della favola col suo senso nascosto. Il surrealismo del mio film ha poco a che fare col surrealismo storico; è fondamentalmente il surrealismo delle favole […]

Questo film che voleva essere concepito e eseguito con leggerezza, sotto il segno dell’Aria del Perdono del Flauto Magico, è dovuto in realtà a uno stato d’animo profondamente malinconico, per cui non potevo credere al comico della realtà (a una comicità sostantivale, oggettiva).

L’atroce amarezza dell’ideologia sottostante al film (la fine di un periodo della nostra storia, lo scadimento di un mandato) ha finito forse col prevalere. Mai ho scelto per tema di un film un soggetto così difficile: la crisi del marxismo della Resistenza e degli anni Cinquanta, poeticamente situata prima della morte di Togliatti, subita e vissuta, dall’interno, da un marxista, che non è tuttavia disposto a credere che il marxismo sia finito (il buon corvo dice: “Io non piango sulla fine delle mie idee, perché verrà di sicuro qualcun altro a prendere in mano la mia bandiera e portarla avanti! È su me stesso che piango…”).

Ho scritto la sceneggiatura tenendo presente un corvo marxista, ma non del tutto ancora liberato dal corvo anarchico, indipendente, dolce e veritiero. A questo punto, il corvo è diventato autobiografico, una specie di metafora irregolare dell’autore.

Totò e Ninetto rappresentano invece gli italiani innocenti che sono intorno a noi, che non sono coinvolti nella storia, che stanno acquisendo il primo jota di coscienza: questo quando incontrano il marxismo nelle sembianze del corvo.

La presenza di Totò e Ninetto in questo film è il frutto di una scelta precisa motivata da un altrettanto precisa posizione nell’ambito del rapporto tra personaggio e attore.

Ho sempre sostenuto che amo fare film con attori non professionisti, cioè con facce, personaggi, caratteri che sono nella realtà, che prendo e adopero nei miei film. Non scelgo mai un attore per la sua bravura di attore, cioè non lo scelgo mai perché finga di essere qualcos’altro da quello che egli è, ma lo scelgo proprio per quello che è: e quindi ho scelto Totò per quello che è. Volevo un personaggio estremamente umano, cioè che avesse quel fondo napoletano e bonario, e così immediatamente comprensibile, che ha Totò. E nello stesso tempo volevo che questo essere umano così medio, così “brava persona”, avesse anche qualcosa di assurdo, di surreale, cioè di clownesco, e mi sembra che Totò sintetizzi felicemente questi elementi.

Pier Paolo Pasolini, Capolavori italiani, L’Arca società editrice de “l’Unità”, maggio 1995.

Intervista a Totò

Lei conosce Pasolini da molto tempo?
No, è la prima volta che ho questo piacere. Ho letto delle sue opere, ma di persona l’ho conosciuto soltanto in occasione di questo film [Uccellacci e Uccellini]. So che è bravissimo e un intellettuale vero e profondo, non superficiale come molti altri. Non ho visto però gli altri suoi film, anche perché io vado poco al cinema… So che molti colleghi vanno spesso a vedere film…

Da che cosa deriva questo suo atteggiamento?…
No, non è una posa. Ma ho un po’ di paura che vedendo una cosa che mi piace, io possa essere portato a imitarla: mentre ho sempre cercato di essere me stesso, magari sbagliando…

Quindi questa non è una sua diffidenza nei confronti del cinema…
No, anzi, per carità…

Sembrerebbe quasi essere, forse, una forma di umiltà eccessiva da parte sua… perché lei ha un nome così affermato…
Ma il pubblico bisogna servirlo! Noi siamo come il padrone di un ristorante, quando entra un cliente… prego, si accomodi, comandi… mentre poi magari il padrone del ristorante a casa sua è un signore, ricchissimo e autonomo… ma io penso che si debba fare così… sbaglierò magari…

Allora La mandragola e poi questo Uccellacci e uccellini. De La mandragola lei conosceva qualche edizione teatrale, per il ruolo del suo personaggio?…
No, ma ho capito subito che cosa fosse il personaggio, personaggio difficile perché si può scivolare e andare nel volgare, nel pornografico, e allora occorre controllo. Difatti, non so se lei lo ha visto, ho cercato di essere misuratissimo, perché è pericoloso, perché è un frate vero, non un frate falso, e quindi un frate vero può fare certe cose, ma certe altre non può farle… Questo frate poi ha una sua psicologia, è un avido, uno spregiudicato, uno spudorato, è un falso bigotto, è bigotto, non si capisce che cosa è perché ha in sé tanti stati d’animo.

E poi, dopo, Uccellacci e uccellini: perché crede che Pasolini abbia pensato a lei?
Lui intende fare un film comico con un personaggio a sfondo comico, pur impegnato e significativo, per far capire qualche cosa. E ha creduto di scegliere me.

Dicendole che cosa? Come le ha spiegato il personaggio?
Mi ha spiegato poco, mi ha spiegato volta per volta, cioè: «Io preferirei che tu facessi così, così e così». Ma non so cosa ci sia prima e dopo non so cosa viene. Cerco di seguirlo e in una intervista mi ha chiamato… ha detto che sono come uno stradivario… Se io debbo raccontare il film in ordine, da cima a fondo, non lo posso dire. Inoltre, quello che lui mi dice io faccio. Ho una grande fiducia nella sua cultura, nella sua preparazione.

Può farmi l’esempio di una scena che ha girato?
Un esempio come? È una parola. Lei si riferisce ad uno stato d’animo?

Anche… Vogliamo ricordare una delle scene che lei ha girato?
Sì, sì, sto pensando, ma sono tutte così brevi. Per esempio in un episodio io vado da una famiglia poverissima perché debbo riscuotere dei soldi, da una donna che farebbe pena a chiunque, e invece io sono duro, cattivo, la voglio mandar via, voglio sfrattarla. Poi vado da una persona alla quale sono io che debbo dare dei soldi, e sono umile e pietoso come quella donna.

Quindi lei nel secondo momento mette in pratica un po’ di quello che ha visto nel primo…
Naturalmente, però rifatto alla mia maniera. Quando la donna parla, nel primo punto, sono duro, freddo, non me ne importa niente che non abbia soldi, che siano dei disgraziati, mentre poi in un secondo tempo quando vado da un proprietario, da un signore al quale debbo dare dei soldi, allora faccio come quella donna, naturalmente alla mia maniera.
Ho visto in proiezione alcune scene, con una fotografia molto bella, in aperta campagna…
Sono state scene faticose, molto faticose; camminare nel fango, nella melma, nelle sabbie mobili. Pasolini cerca a volte i posti più impensati, e del resto ha ragione lui, perché poi i risultati sono molto belli, non sono comuni.

Dove avete girato?
In campagna, vicino a Roma. Ad esempio a Tuscania, ma naturalmente non in paese, ma in mezzo alla campagna, in mezzo ai boschi più impensati; poi all’Alberone, poi dalle parti di Fiumicino… cose terribili. Pensi che in una scena io avevo soltanto un paio di zoccoli, un saio di sacco che lasciava passare vento e freddo con la tessitura così rada. Gli zoccoli sono duri e pesanti, e poi l’altro giorno, con la melma, ogni zoccolo pesava venti chili, impregnato di fango, di creta…

Lei crede che il personaggio di questo film sia simile ad altri che lei ha già ha interpretato?
No no no. È tutto a sé. I miei, qui, sono personaggi astratti e concreti, che hanno dell’umanità ma certe volte non ne hanno.

Perché sono varie figure che lei interpreta…
Sì, tre: io sono un domatore [in un episodio poi tagliato dalla versione definitiva del film], un frate francescano e un poveraccio con un corvo. Tre personaggi con tre stati d’animo differenti l’uno dall’altro, però simili.

Peccato che lei non conosca Accattone, La ricotta, Il Vangelo.
È meglio, penso sia meglio, perché non sapendo niente posso essere più fresco, più sensibile…

Vuole dire alle soluzioni che le sono suggerite?
Eh sì…

Ma lei crede che il fatto di questa sua origine nella Commedia dell’Arte, di avere un animo napoletano così ricco di fantasia, di colore, abbia influito molto nella sua vita di attore?
Certamente sì. È la scuola migliore perché nata dalla vita. È un’esperienza innata, insieme con l’esperienza che poi si acquisisce…

Pasolini dice che lei è un uomo di grande umanità, di grande simpatia umana e di grande carica umana. E questo credo sia giustificato e provato da quelle che sono le sue vere caratteristiche…
Beh, come uomo cerco di essere buono. Lo dico da me, ma è così, anche la vita che faccio lo dice. Non esco, sono casa e lavoro, casa e lavoro. Un po’ come un frate in borghese.

Come un impiegato col suo lavoro. Mi sembra che sia il modo più serio per fare la sua professione.
E questo si sa in giro, che io lavoro con serietà.

E anche, e del resto lei ne è una prova, il comico è spesso timido e amaro, in fondo…
Sì, è così. Io cerco di non dirlo perché sembra una posa. Ma è proprio così, si nasce così; come uno nasce comico, ed è tragico e serio, è triste e malinconico insieme.

E le regole del mestiere sono sempre le stesse?
Sì, le regole, i canoni sono sempre gli stessi, c’è poco da fare. Si cambia il costume, si cambiano i fatti, ma i canoni della comicità rimangono sempre quelli, non esiste il comico moderno. Quello che dice di essere un comico moderno è uno che non fa ridere. Ha imparato a dire delle cose, magari ha lo scilinguagnolo, ma non è un vero comico. Il comico è d’istinto e deve avere tutto comico: la faccia, le orecchie, il naso, le mani, tutto, deve essere perfetto. Non è d’accordo?
Perché, al momento in cui si fa ridere, si inietta nel pubblico un tanto di amarezza e di dolore, e anche i suoi personaggi migliori infatti hanno questa componente…
Se io vado in scena e dico: «Mia moglie mi ha fatto le corna ed è scappata di casa, sono tre giorni che non mangio, sono andato sotto il tram e mi sono spezzato una gamba», il pubblico ride.

È vero. E perché ride? Perché lei dice tutto in un certo tono…
Lo dico in un certo tono… Però in fondo all’umanità c’è un briciolo di cattiveria, si gode delle disgrazie degli altri. Per esempio il cornuto fa ridere; il cornuto è un elemento da pochade perché fa ridere, mentre la sua è una disgrazia. Io non rido se vedo una commedia dove c’è un cornuto, ma piuttosto dico: «Ma guarda quel poveraccio, quella schifosa della moglie». Questo lo pensa il comico, perché è nato triste. La massa no, la massa ride. E così uno se cade per strada, fa ridere, se in palcoscenico l’altro gli dà una botta in testa il pubblico ride, e avviene sempre così delle disgrazie. Perciò la comicità nel tempo è sempre la stessa, dipende da come la si presenta, come la si porge.

Lei ha forse un po’ il rammarico, ora, di avere avuto eccessiva indulgenza nei confronti di un certo tipo di cinema così dozzinale, in fondo, come quello cui in prevalenza si è dedicato?
Senz’altro, perché avrei potuto fare qualcosa di molto meglio di quello che ho fatto, e invece, vede, per questo ho fallito, mentre credo di avere una vis comica non dico unica, ma rara. Io con la faccia posso esprimere tutto, invece ho trascurato questo e mi sono buttato a fare dei filmetti dozzinali che non mi hanno permesso di diventare internazionale. E ho fatto male. Un po’ per pigrizia, un po’ per i produttori italiani, i quali vogliono andare a colpo sicuro, perché quando il film incassava poco, cinquecento milioni, loro guadagnavano sempre, perché rientravano bene nei costi. Quindi, siccome i miei film andavano, loro giocavano sul sicuro. Poi un’altra cosa: noi non abbiamo i mezzi che hanno gli americani, i quali fanno i film comici con i mezzi meccanici. Noi no, il nostro cinema comico, siccome è povero, è basato sulle battute, sulle parole, sulle situazioni che non possono avere successo all’estero perché nella traduzione il significato si perde. E siccome il film deve durare un’ora e mezzo e si deve chiacchierare sempre, a un certo momento non si sa più cosa fare. Viceversa mi ricordo i simpaticissimi Stanlio e Ollio, che andavano a finire con i piedi nella pece, l’aeroplano cadeva quando uno era sopra e l’altro sotto, il somaro suonava il pianoforte, insomma tutte cose che in Italia non si fanno, perché da noi è tutto parole, parole, parole, con sceneggiatori da tre soldi i quali credono sia sufficiente buttare giù delle pagine.

Eh sì, mi pare lei abbia individuato bene alcuni dei motivi della mancanza della diffusione all’estero di un successo che in Italia è stato così clamoroso…
Una volta ho interpretato Totò sceicco, c’era un personaggio che si chiamava Omar, e io dicevo: «Omàr, Omàr, vide Omàr quanto è bello», e qui veniva la risata. Una sera sono andato a Nizza al cinematografo dove era proiettato questo film e la battuta, tradotta letteralmente, per forza non faceva più ridere, perché se ne era perduto il senso. È una questa, ma una fra le tante…

Ha mai pensato di lavorare in televisione?
Non mi piace la televisione. No, non ho mai pensato di lavorare in televisione, ho sempre scartato l’idea.

Per quale motivo?
La televisione serve molto ai giovanissimi, che in un momento, in una settimana vengono conosciuti da tutt’Italia. Ora io non so se poi rimangano, o se si esauriscano, si brucino. Ma un attore che è conosciuto da tanti anni, che da anni e anni sta sulla breccia, la sua fama se la deve un po’ tutelare facendosi vedere il meno possibile.

Ma non potrebbe fare lei una proposta…
No, non vado d’accordo con la televisione. Poi, come le dicevo, non tutte le ciambelle riescono col buco. Quando si fanno tre, sei, sette, dieci, dodici trasmissioni, finché va bene la cosa è buona, si accontenta il pubblico, ma appena si sgarra di un ette allora subito: «Che barba… chiudi…»… E poi io sono nato libero e dover dire le battute che sono quelle, guai se si dice altro, lo sento come una camicia di forza che non posso sopportare…

Comunque io credo che varrebbe la pena di fare un tentativo in questo senso, e spero che un giorno ci sia un incontro fortunato tra lei e la televisione, per arrivare ancora una volta a un vastissimo pubblico…
Lei lo definisce fortunato, io la ringrazio…

Perché non incide un disco con i suoi sketch, un disco che magari raccolga anche le sue canzoni, le poesie? Gli unici ricordi obiettivi che ci rimangono di Petrolini sono i pochi brani che lui ha inciso…
Che cosa le posso dire? Sono un comico che improvvisa, se dico una battuta la dico così perché mi viene di farlo. Ho fatto ridere per anni dicendo «a prescindere»: ora, che cosa c’è in “a prescindere”? Se lei legge la parola, è una battuta da ridere? No, eppure io ho fatto ridere. Ho fatto ridere dicendo «è ovvio», dicendo «siamo uomini o caporali?», e che cosa significa? Niente, e ho fatto ridere.

Da: Uccellacci e uccellini. Un film di Pier Paolo Pasolini, a cura di Giacomo Gambetti, Garzanti, Milano, 1966.

Lino Micciché

Il film imposta una favola filosofica, dibattendo problemi spirituali e sociali di attualità. Nonostante qualche cedimento di ritmo e d’invenzione, la difficile impresa può considerarsi in parte riuscita, soprattutto in alcuni momenti ricchi di poesia.

(…) Proprio per appartenere a quel ‘cinema di poesia’ (…) è un film da vedere (…) e non da descrivere: la sua realtà di messaggio etico-politico è tutta sostanziata dalle spezzettature, dai ritmi (…) dalle sottolineature sonore che costituiscono in ultima analisi la vera chiave contenutistica del film (…). Cosicché l’ardita complessità di metafore (…) (ha) il potere di trasformarsi in umanissima tensione lirica.

Da: L’Avanti!, 12 maggio 1966

Alberto Anile

Antonio de Curtis e Pier Paolo Pasolini: è possibile immaginare due cineasti tanto diversi? Il primo è un comico, scatena la sua fantasia in piena libertà; il secondo è un intellettuale, la sua vita, le sue poesie, i suoi film sono atti politici. Il principe è un conservatore di spiccate simpatie monarchiche, il regista un uomo di sinistra pronto al duello dialettico con chiunque, anche con il partito di riferimento; l’arte di Totò si muove nel solco di una tradizione culturale, quella di PPP è spesso violenta opera di sperimentazione.

In comune Totò e Pasolini hanno almeno una cosa, la timidezza. La sera in cui s’incontrano, in casa del principe, Pasolini gli parla di un progetto cinematografico tra lunghe pause di imbarazzato silenzio; Antonio de Curtis ascolta compunto, covando dentro di sé il disgusto per i jeans sdruciti di Ninetto Davoli. Da quest’incontro stentato nasce Uccellacci e uccellini, girato subito dopo La mandragola e ancora prodotto da Alfredo Bini.

L’interesse di Pasolini per Antonio de Curtis era però già nato almeno un anno prima. Il 6 dicembre 1964 usci su «L’Unità», a firma di Pasolini, un soggettino cinematografico intitolato La (Ri)cotta; un progetto poco noto agli studiosi, che rappresenta il primissimo approccio del regista al comico napoletano, un abbozzo di collaborazione artistica che contiene già motivi e stilemi di Uccellacci e uccellini.

La (<Ri)cotta (scritto con la parentesi, per giocare sul doppio senso tra il formaggio e un secondo innamoramento) è una specie di seguito di La Ricotta, il famigerato episodio del film Rogopag che fruttò al regista un processo per vilipendio alla religione. Protagonista de La (<Ri)cotta è la figlioletta di Stracci, il barbone morto d’indigestione sulla croce durante le riprese di un film sul Vangelo; la bambina, che chiede l’elemosina suonando il violino, incontra il principe de Curtis, potente capitalista milanese.

Incantato dal suo candore, l’industriale prende la sua grossa automobile e s’inoltra nella periferia di Roma, chiedendo notizie della piccola e ringraziando con ricche elargizioni («soldi che volano come uccellacci al sole della borgata»). Riesce a ritrovarla ma i fratelli di lei approfittano della situazione e cominciano a ricattarlo. I parenti del principe lo trascinano in tribunale per farlo interdire «tutti vomitando come scariche sberleffi e orrende scuse di Pazzia all’ex-Papà»; l’industriale, «che se ne sta col suo scucchione come un Cristo sul banco degli imputati», riceve tutti gli improperi, rafforzati da una sfilza di torte di ricotta lanciategli in faccia da ciascun congiunto.

La Corte, annunciata da un urlo di rapace, si pronuncia per l’interdizione. Privato della sua macchinona, l’industriale torna a piedi nella borgata per cercare la ragazzina che nel frattempo è diventata una star del cinema. Il vecchio morirà in mezzo all’immondizia, lasciando le sue ultime volontà a un cane che gli si è avvicinato: «il cane, povero santo, mormora una preghiera […]: poi se ne va, su per l’erba che incrosta come una rogna la scarpata».

La (<Ri)cotta era stato immaginato per Totò, indicato esplicitamente come «il principe de Curtis» e caratterizzato da alcuni inconfondibili tratti somatici («lo scucchione», «gli occhioni»). La bambina, secondo un’annotazione dello stesso Pasolini, avrebbe dovuto essere quella Rossana Di Rocco che aveva appena interpretato l’angelo della resurrezione nel Vangelo secondo Matteo (e che in Uccellacci e uccellini, ancora bardata di ali, interpreterà un’amica di Ninetto).

Il soggettino non verrà mai trasformato in film, ma è il primo imbarazzato approccio culturale tra un coraggioso intellettuale e una maschera sublime. Il tono del testo volge già verso il comico, indulge (come succederà in Uccellacci e uccellini) all’omaggio a Charlot ma non riesce ancora a mettere a fuoco le peculiarità comiche del protagonista.

L’anno dopo Pasolini pubblica sul settimanale «Vie Nuove» tre nuovi soggetti dal titolo francese, L’aigle, Faucons et moineaux e Le corbeau, che costituiranno l’ossatura di Uccellacci e uccellini. L’aigle racconta dei miseri tentativi di un domatore francese che tenta, con la prosopopea di certi intellettuali parigini, di ammaestrare un’aquila che simboleggia il Terzo Mondo.

Il secondo parla di due fraticelli che ricevono da S. Francesco l’ordine di convertire i falchi e i passerotti. I due frati, dopo anni di sofferenze, riescono a comunicare con le due specie di uccelli e a convertirli al messaggio divino dell’amore, ma non possono impedire che i falchi continuino a predare i passeri. San Francesco li esorta a non arrendersi e i due fratini riprendono pazientemente il loro utopico apostolato.

In Le corbeau si narra infine di un padre e di un figlio che camminano verso un orizzonte sconosciuto; li accompagna un loquacissimo corvo, che assume il ruolo dell’intellettuale marxista. I due uomini incontrano diverse disavventure, patiscono e fanno patire, perennemente accompagnati dagli insegnamenti e dai consigli del corvo, finché decidono di agguantare il volatile e di divorarlo; a pancia piena, padre e figlio, «vanno di spalle, per la strada bianca, verso il loro destino come nei film di Charlot».

Uccellacci e uccellini è il primo lungometraggio di Pasolini dopo Il Vangelo secondo Matteo. Totò avrà la parte del domatore, del fraticello anziano e del viandante-padre; Ninetto Davoli, un ragazzetto ricciuto che veniva a curiosare sul set di La ricotta, interpreterà l’assistente del domatore, il fraticello giovane e il viandante figlio.

Il principe accetta senza particolare convinzione: vedersi scelto da un intellettuale stimato in mezzo mondo lo riempie di soddisfazione, ma lui, personalmente, non sa capirlo e non sa valutarlo.

«Ho letto delle sue opere» dice di Pasolini, «ma di persona l’ho conosciuto soltanto in occasione di questo film. So che è bravissimo e un intellettuale vero e profondo, non superficiale come molti altri. Non ho visto però gli altri suoi film, anche perché io vado poco al cinema… (…] Penso sia meglio, perché non sapendo niente posso essere più fresco, più sensibile».

Uccellacci e uccellini entra in lavorazione nell’ottobre del ’65; si gira nelle campagne laziali, a Tuscania, all’Alberone, a Fiumicino; la fine delle riprese è prevista per dicembre. Alfredo Bini ha fatto una fatica del diavolo per convincere i distributori a puntare su un film che racconta della caduta dell’ideologia marxista. Lo stesso Totò, di fronte a un soggetto allegorico così ellittico e originale, coltiva i suoi dubbi. E non potrebbe essere altrimenti: dopo vent’anni di serrato lavoro cinematografico, Antonio de Curtis cambia di colpo metro, metodo e ambizioni artistiche per farsi manovrare da un cineasta con cui, sotto svariati punti di vista, non ha nulla in comune.

«Totò non voleva assolutamente fare cose diverse da quelle che ha sempre fatto» spiega oggi Bini; «ha fatto con me La mandragola e Uccellacci e uccellini — me l’ha detto — perché era un momento in cui non lavorava quasi più, aveva questo problema fisico, non era più richiesto per filmetti d’incasso… Tra Totò e Pasolini il rapporto era strano.

Per Totò era un rapporto istintivo, non concettuale: lui non aveva niente a che spartire con Pasolini, né come linguaggio, né come modo di fare. Per il regista aveva un estremo rispetto. Mi ricordo che Totò diceva: “Sicuramente è un genio, io non so bene quello che vuole, però lo faccio perché sento che va bene”».

La collaborazione tra Totò e Pasolini, uomini di genio ognuno nel proprio campo, entrerà col tempo nel mito. Ma è necessario sottolineare che, soprattutto all’inizio della lavorazione, il rapporto dell’attore con il regista si consuma all’insegna della perplessità (come ci ha confermato Vincenzo Cerami, allora aiuto regista di Pasolini, nell’intervista che pubblichiamo alla fine del capitolo).

Ad alcuni giornalisti Totò dichiara cautamente (e con l’abituale squisita gentilezza) che Pasolini è un regista intelligente, che a differenza di altri lo lascia poco libero di improvvisare, che lui non capisce tutto ma gli si affida. «Mi ha spiegato poco» dice Totò a Giacomo Gambetti, «mi ha spiegato volta per volta, cioè: “Io preferirei che tu facessi così, così e così”. Ma non so che cosa ci sia prima e dopo non so cosa viene. […] Se io debbo raccontare il film in ordine, da cima a fondo, non lo posso dire. Inoltre, quello che lui mi dice io faccio. Ho una gran fiducia nella sua cultura, nella sua preparazione».

Poi, con altri, sfoga tutto il suo scetticismo. «Questo Pasolini, pasolineggia un po’ troppo» dice a Nino Longobardi. «Stiamo a metà del film e non ho ancora capito che razza, che schifezza di film, stiamo facendo. Certe volte io gli prendo la mano, faccio a modo mio. Insomma, capisci, cerco di forzare la situazione. Ma lui urla, mi sgrida, mi strapazza, come se fossi un ragazzino. No, questo non lo devi fare, mi dice, ma io lo faccio lo stesso».

Pasolini, da parte sua, gli fa ripetere più volte le scene, cosa che Totò considera deleterio per il proprio lavoro; il regista gli chiede di limitarsi, di mettere da parte i suoi tipici lazzi, ma è sicuro della sua scelta. «Totò è uno stradivarius» dichiara durante le riprese. «Basta che gli venga suggerita una situazione e lui reagisce con una sinfonia assurda e meravigliosa di gesti e di espressioni. […] L’ho scelto perché è il vero, il più vigoroso dei mimi comici.

Questo film, pur con i suoi intenti di satira impegnata, è essenzialmente comico. Il mio primo film comico. Ma per me il cinema comico autentico resta quello che si esprimeva per gesti più che per parole. La grande epoca del comico fu quella di Charlot, di Buster Keaton; poi, con l’avvento del sonoro, la comicità è diventata più brillante, ma meno profonda. Forse l’unico comico del cinema contemporaneo che mi commuove, oltre al semplice effetto meccanico di farmi ridere, è Tati. Ed anche lui si esprime senza parole. Cosi, avendo bisogno di un comico che mi aiutasse a ritrovare questa validità del cinema muto non potevo pensare che a Totò».

Col trascorrere delle settimane la fiducia dell’attore aumenta, la stima prende il sopravvento sulla diffidenza. Si sgretolano anche le barriere della reciproca timidezza: l’Altezza Imperiale e il grande intellettuale si eclissano, adesso ci sono soltanto Totò e Pierpa’. La lavorazione conosce momenti difficili, faticosi, ma l’attore accetta docilmente di correre per i campi, di rimanere a lungo in ginocchio sulla terra, di arrampicarsi su cumuli di terra, di pesticciare nel fango. «Sono state scene faticose, molto faticose» dice a Giacomo Gambetti che lo intervista durante le riprese, camminare nel fango, nella melma, nelle sabbie mobili. Pasolini cerca a volte i posti più impensati, e del resto ha ragione lui perché poi i risultati sono molto belli, non sono comuni. […]. Pensi che in una scena avevo soltanto un paio di zoccoli, un saio di sacco che lasciava passare vento e freddo con la tessitura così rada. Gli zoccoli sono duri e pesanti, e poi l’altro giorno, con la melma, ogni zoccolo pesava venti chili, impregnato di fango, di creta…».

Le sequenze più difficili sono quelle con il corvo. «Sono animali strani» ricorda Bini: «il nostro era affettuoso con tutti, ma quando vedeva Totò cercava di cavargli gli occhi. E non si capisce perché: forse sentiva la necrotizzazione di una parte delle pupille… Ho dovuto mettergli un nastro di pellicola nero intorno al becco e convincere Totò che questo corvo non era cattivo. Lui sentiva che quel corvo era suo nemico. Cambiai corvo e anche l’altro voleva cavargli gli occhi. Allora andai a via della Vite, dove c’era un negozio di animali che aveva un corvo nato in cattività e che quindi voleva rimanere nella sua gabbia, aveva paura a stare fuori. Prendevo la gabbia, la portavo dietro la macchina da presa, loro appoggiavano il corvo per terra e l’uccello cominciava a camminare per raggiungere la gabbia. Girammo cosi molte scene, con soddisfazione di Totò».

L’ultimo episodio che viene realizzato è L’aigle, poi denominato Totò al circo, che verrà tagliato all’ultimo momento in sala di montaggio. Al di là delle interpretazioni allegoriche, per Pasolini il domatore francese (monsieur Courneau) è l’occasione per una rivalsa personale nei confronti di Michel Cournot, un critico della nouvelle vague che «ha dato in vere e proprie incandescenze, davanti al Vangelo secondo Matteo» come ha scritto lo stesso regista. «È stato lui che mi ha ispirato il personaggio della mia favola. Lui è il razionalismo esasperato, disperato e messo fuori causa da un nuovo rapporto, scandaloso, col mondo dell’irrazionalismo, il Terzo Mondo».

Nelle ultime sequenze il domatore si lascia a sua volta civilizzare dall’aquila; ne afferra la più riposta essenza, si lascia irretire dalla sua arcana natura e si trasforma a sua volta in un volatile. Nel finale abbandona le sue convinzioni e il circo in cui viveva per andare a spiccare il volo dal Gran Sasso.

Totò rifà per l’ultima volta l’imitazione di un uccello. Salito su uno sgabello si trasforma prodigiosamente in un’aquila, le membra irrigidite da una nuova natura, l’occhio incantato da chissà quali inedite visioni, i muscoli e le giunture mobilissime, a sessantasette anni suonati. Una sequenza magnifica che vedranno in pochi. Costretto a tagliare alcune dispendiose scene comiche, Pasolini non riesce più a decidere che forma dare all’episodio. Lo monta, lo rimonta, lo porta a una lunghezza di pochi minuti, lo trasforma in un apologo narrato dal corvo, come ha già fatto con la favoletta dei due fraticelli. Alla fine, anche per suggerimento del produttore, risolve di eliminarlo definitivamente.

L’operazione culturale di Pasolini, nei confronti di Totò, è estremamente coraggiosa ma in parte contradditoria, coscientemente e scopertamente ambigua. Il regista — sono parole sue — sceglie Totò «per la sua natura doppia: da una parte il sottoproletario napoletano e dall’altra il puro e semplice clown, cioè un burattino snodato, l’uomo dei lazzi, degli sberleffi». E sulla stessa contraddittoria base costruisce stilisticamente il film, mescolando neorealismo (con citazioni di Rossellini e Fellini) e favola, confondendo allegorie politiche e omaggi alle comiche di Charlot, accogliendo qualche lazzo tipico di Totò in un discorso ideologico sulla crisi dei partiti marxisti. Dove Totò e Ninetto, Innocenti di cognome e di fatto, camminano ignari verso un avvenire che la dottrina comunista non è più in grado di delineare.

Anche il lavoro sugli interpreti è spesso ambiguo. Pasolini adopera gli attori come materiale espressivo, alternando la vitalità dell’uomo preso dalla strada con la consumata abilità del professionista, mescolando nella stessa inquadratura l’allegria spontanea di Ninetto con le smorfie calibratissime di Totò. Dopo la Magnani di Mamma Roma e il Totò di Uccellacci e uccellini, Pasolini utilizzerà a modo suo altri grandi nomi del cinema italiano, da Silvana Mangano (Edipo re) a Massimo Girotti (Teorema), giocando a decostruire non solo grandi capacità interpretative ma anche le stesse icone cinematografiche.

Un dato importante del recupero di Pasolini è l’aver cercato di spogliare Totò dall’aggressività di cui l’aveva caricato il cinema degli anni ’50 («il mio Totò è quasi tenero e indifeso come un implume, è sempre pieno di dolcezza, di povertà fisica»), per riportarlo in ambiti più visivi, da comicità del muto, in zone molto prossime a quella surrealtà che costituiva l’essenza della vis comica di Totò fra gli anni ’30 e ’40, sui palcoscenici e in alcune sequenze dei primissimi film. Un’intuizione che riguarda soprattutto l’episodio francescano e il finale di quello del domatore, peraltro assente dal montaggio definitivo.

Complessivamente il film sconta un pedaggio eccessivo all’ideologia, al messaggio allegorico e ai sottintesi politici; i simbolismi di cui è costellato sono spesso stimolanti e mantengono ancora oggi una loro arcana fascinazione, ma per quanto all’epoca Bini si sia adoperato per mitigare il complesso linguaggio intellettuale di Pasolini, Uccellacci e uccellini parla spesso più alla ragione che al cuore, richiudendosi nello stretto circolo dei pensatori e degli intellettuali (e di conseguenza, nella sterminata filmografia di Totò, è il film che incasserà meno in assoluto).

L’altro grande merito del »riutilizzo» di Totò da parte di Pasolini è naturalmente quello del recupero tout court. Di fronte alla scelta del regista critici e intellettuali rimangono all’inizio perplessi. Anche all’uscita del film, i pareri su Totò non sono concordi: Moravia scrive che «nella parte del padre ci ha dato una delle sue migliori interpretazioni»; Kezich, sempre molto critico nei confronti del principe, lo vede «preoccupato e incerto».

Poi il film viene presentato trionfalmente a Cannes dove Totò riceve una menzione speciale per la sua interpretazione («rimase sbigottito, incredulo», ricorda Vincenzo Cerami). E a questo punto gli italiani sono costretti ad accodarsi. L’anno successivo, pochi mesi prima della sua scomparsa, il sindacato dei giornalisti cinematografici consegnerà a Totò il nastro d’argento come miglior attore protagonista.

Da I film di Totò (1946–1967). La maschera tradita, Le Mani, Genova, 1998

Edoardo Bruno

La costruzione di un’opera-apologo come Uccellacci uccellini porta alle estreme conseguenze la necessità dì quella chiarezza espressiva per cui i simboli debbono raggiungere, anche nella loro ipotesi di ambiguità, una dimensione — oggettiva o soggettiva — sempre significante.

La forma prescelta porta avanti il discorso della tendenziale popolarità per cui l’opera filmica deve avere suggerito riflessioni, mediazioni, contenuti intellegibili.

È una estensione dell’opera-saggio, del film cioè che al di fuori dagli schermi narrativi (o prevalentemente narrativi) propone piccole o grandi moralità, definisce lo sgomento di una generazione, annota, come nelle pagine diaristiche, quanto giorno dopo giorno si addensa nella nostra esperienza di uomini vivi, impiegati a cercare una dimensione razionale (anche istintivamente razionale), nel riordinare i fatti di cui siamo, in un modo o in un altro, testimoni.

Un modo nuovo di intendere il cinema — non come apparentemente la teorizzazione di Pasolini, poteva suggerire, di poesia o di prosa — ma, di diaristica, come occasione di meditazioni, «operetta morale», dove sì impastano osservazioni, idee improvvise o meditate contestazioni. Un modo di arricchire il cinema, certamente di una dimensione nuova, di aggiungervi uno spazio concreto risarcendo di altre esperienze, la scrittura filmica, sperimentando su un più vasto pubblico, quanto più strettamente sembrava appartenere ad un genere squisitamente letterario, intellettualmente riservato «a pochi».

Pasolini con Uccellacci uccellini, oltrepassa i limiti delle sue osservazioni teoriche, perché definisce la prassi di un comportamento, più immediato e diretto, portando le osservazioni a realizzarsi in scelte precise. Infatti quando Pasolini proponeva per il cinema parafrasando Constantino Nigra (la poesia dell’Italia inferiore è lirica, quella dell’Italia superiore è generalmente narrativa. La prima è soggettiva, la seconda e oggettiva …) facendo sua cioè, la equazione lirica = soggettiva e viceversa; in Uccellacci e uccellini, respinge; o meglio, accantona. Quando è lirico ovvero soggettivo il suo discorso? Quando il fraticello fischia come il falchetto o danza saltellando, predicando amore come il passerotto? O quando Francesco riflette sulla necessità di modificare le cose del mondo, anche a costo di dimenticare l’amore, operando una diversa strutturazione della società? O tutto il film, come ha scritto Moravia è poesia? Nel senso poetico, romanticamente corrotto e superato (contraddicente la stessa sua più avanzata accettazione di poesia-ideologia), ovvero nel senso popolaresco di strambotto, con contenuto prevalentemente etico-satirico?

Propenderei per quest’ultima interpretazione, se si dovesse considerare l’opera come applicazione pratica delle avanzate teorizzazioni (ancora aperte, e perciò modificabili); ma senza esserne molto convinto. La soluzione di film diaristico, di «operetta morale» mi convince di più. Il pretesto del corvo, che predica a questi due personaggi astorici, che passeggiano in un mondo concreto, fatto di paesaggi conclusi, di contadini amari, di giovani mai completamente spensierati, di vagabondi, di intellettuali servi, di signori arroganti, di aerei jet, di ragazze dalle grandi ali, di prostitute dagli occhi azzurri, permette di intrecciare un commento particolare, di cambiare punti di vista, di crescere con le cose, di commentare faticosamente i giorni che sono venuti e quelli che verranno. Permette — come il grillo parlante collodiano — di scocciare l’umanità; ma anche di lasciargli porzioni di cuore e di intelligenza, che valgono a farla progredire, consapevole, anche nella distrazione, anche nella vaghezza, di questa coscienza inquieta che è la coscienza di chi ancora non conosce.

Da qui l’amarezza e la consapevolezza che resta, anche oltre il dispetto per le parti del film irrisolte, o inutili, per la inefficacia espressiva. Così le lungaggini di quelle attese di frate Ciccilio, del facile gioco di vedergli passare addosso estati e inverni col crescergli rovi e cespugli; così l’incontro con i saltimbanchi di gusto felliniano, impastato di motivi estranei all’acre essenzialità del discorso.

Nonostante questi compromessi di scelta, l’opera riesce a conservare il tono di un diario, di commentario ideologico, a ridosso di due personaggi compiuti, che avanzano, con apparente disordine, per le strade del mondo. E il mondo, non c’è dubbio, è il mondo di cui Pasolini è attento testimone; il mondo di questa appassionante vicenda che dilacera anche l’osservazione più distaccata, che diviene rappresentazione di un dolore continuo. Così non c’è rottura, neanche stilistica con quanto precede.

Quella lunga passeggiata ricca di voci, sulla strada notturna, divenuta palcoscenico, grazie ai lampioni, di Mamma Roma, è il richiamo più immediato a questa assurda strada, per la quale procedono — padre e figlio; e il commento — denso, aggrumato, contraddittorio fino allo spasimo — de La rabbia, è il precedente a questa forma di appunti, di osservazioni, di riflessioni. li funerale di Togliatti irrompe nel film, come d’improvviso, nell’agosto 1963, ha fatto irruzione nella Roma oziosa, nell’Italia in vacanza, travolgendo uomini e donne, nel pianto, nello stupore, nell’irrazionale certezza che si concludeva un’età, e si maturavano altre dimensioni, altri modi di portare avanti i problemi.

Il funerale di Togliatti è la cronaca di un avvenimento che già è storia; o meglio è la storia che diviene, sotto i nostri occhi, avvenimento che accade mentre tutti siamo spettatori e attori. Così all’inizio del film, quell’ arrivo al bar con i giovani che ballano e d’improvviso, più avanti quel capannello di gente che umanamente e cinicamente osserva e commenta un avvenuto suicidio: Pasolini guarda, estende la sua testimonianza a uomini che gli sono vicini e lontani, e allo stesso tempo, dimensiona con la macchina da presa una realtà che è natura e coscienza.

Il significato della parabola trascende il simbolo; la morte dell’ideologia avviene sotto i nostri occhi e come tutte le morti organiche, lascia qualcosa che resiste, trasforma e modifica. La realtà si arricchisce sempre dell’esperienze degli altri. Il nostro progresso passa attraverso dolore e disperazione. Ma anche questa è ideologia.

Da Filmcritica n. 167 (1966)

Giovanni Grazzini

Pasolini continua a farci sorprese. Ora ha inventato il film «ideo-comico», che sarebbe l’umorismo applicato alla politica e alla sociologia, ovverosia l’impegno ideologico superato dalla favola; insomma, il cervello scavalcato dalla poesia. Per capirci meglio: Pasolini è un intellettuale scontento, che andando in là con gli anni, sente l’insufficienza degli schemi razionali della cultura di sinistra, e capisce come qualmente la storia proceda per vie ignote e misteriose, sulle quali però l’intelligenza del cuore incide più delle formule dottrinarie. Questa presa di coscienza è netta, ma poiché Pasolini diffida di se stesso (ancora qualche anno, e l’Immoralista sarà tutto risucchiato nella sua matrice borghese), intanto ha prodotto una singolare figura di artista, il quale non vuole rinunziare alla speranza marxista ma nel contempo è corretto dall’esperienza sentimentale, e faticosamente cerca di rispondere al solito «quo vadis?» sposando Cristo a Marx, passando se occorre attraverso il Croce.

Chiamato ad esprimere questo viluppo di stati d’animo e di stimoli intellettuali, ha avvertito che l’unico modo per cautelarsi dalle tentazioni di un pio storicismo era di ribaltare il suo sentimento d’amore, di pietà, di tolleranza universale in ironia punteggiata di sarcasmo verso il proprio ambiente: un «mea culpa» pronunciato con tono giocoso e scanzonato, cominciando dai titoli di testa che esorcizzano l’amarezza dell’autoritratto, ma dove è facile leggere cicatrici sempre aperte, dalle quali sgorgano umori contraddittori, non ancora decantati nell’ispirazione poetica.

Uccellacci e uccellini è appunto la confessione, sincera e confusa, di un momento di crisi successivo alla sconfitta, ma espresso in un tal cocktail di polemica culturale e di slanci lirici, e così vagamente risolto sul piano del racconto, che il film assume il carattere di un’agenda di fatti personali; certamente di grande interesse per l’intellighenzia che si diverte a riconoscere, fra gli interpreti, artisti e scrittori del bel mondo romano, poco più di un amabile gioco cabalistico per il grande pubblico, costretto a dibattersi in una rete di simboli e di citazioni che vanno da Lukàcs a Giorgio Pasquali.

Il film consiste grosso modo di due episodi, ambedue interpretati da Totò e dal giovane Ninetto Davoli: due figure picaresche assunte a simbolo dell’umanità incamminata verso l’ignoto. In un paesaggio di periferia, i due, padre e figlio, si aggirano fra le borgate; nei loro strani incontri si ricapitola l’assurdità del mondo contemporaneo, dove l’antico mistero della vita e della morte si intreccia alle sorprese dei nuovi costumi, e ne nascono interrogativi sul destino di fronte ai quali i due innocenti pellegrini rimangono muti. La realtà è così indecifrabile che in loro non desta alcuna, sorpresa l’arrivo di un corvo parlante. L’animale dichiara di venire dal paese di Ideologia, d’esser figlio del dubbio e della coscienza. E racconta a suo modo un fatto accaduto nel Miileduecento.

Ora Totò è frate Ciccillo, che insieme al giovane frate Ninetto ha avuto da san Francesco l’ordine di predicare l’amore agli uccelli. Come dirla, bisogna intanto imparare il linguaggio dei pennuti. Dopo un anno d’immobilità e di preghiera, frate Ciccillo canta vittoria; in un colloquio fatto di stridi trasmette ai falchi il messaggio evangelico.

Un altro anno di meditazione, quanto basta per capire che i passeri si esprimono saltellando, e il contatto è stabilito, con una specie di balletto, anche con quei mansueti uccellini. Ma la predicazione non dà frutti, perché i falchi continuano ad azzannare i passerotti.

Addolorati e delusi, i due frati si convincono che questa è la fatalità del mondo, la sopraffazione dei deboli. «Bisogna cambiarlo, il mondo», ribatte san Francesco, e li manda a ricominciare tutto da capo. Vale a dire, spiegherà Pasolini, che le singole classi sociali possono essere singolarmente evangelizzate, ma non sono ancora sufficientemente educate a rispettarsi fra loro. Con tanti saluti alla lotta di classe. (E infatti Pasolini farà sapere che le parole del suo san Francesco riecheggiano le considerazioni sulla pace espresse da Paolo VI all’Onu).

Secondo episodio, sul tema dell’egoismo e del diritto di proprietà. Dopo essere stato preso a fucilate perché ha abusivamente concimato un campo, ed essersi visto ripagato con una patacca (antifecondativi fuori uso in luogo d’un callifugo) dell’aiuto prestato a una compagnia di guitti, Totò si presenta, in veste di padrone di casa, a una povera donna, e per sfrattarla assume il tono del più spietato uomo d’affari. Ma poco dopo, sempre accompagnato dal corvo chiacchierone, tocca a lui prostrarsi, in veste di debitore insolvente, a un riccone che sta offrendo un party intellettuale. Stesi a terra, lui e Ninetto, da minacciosi cani lupo, supplicano pietà.

Riprendono il cammino, assistono ai funerali di Togliatti (un inserto di cinegiornale che ci ripaga, con la sua verità, degli apologhi cifrati), si svagano, padre e figlio, con una sgualdrinella di nome Luna. E finalmente, ammazzano il corvo saccente che per tutto il tempo ha continuato a fare sfoggio di dialettica marxista, se lo mangiano e continuano il viaggio.

Con l’aiuto del libro che Pasolini ha dedicato al film si viene a sapere come sotto il velame sia da intendere che l’umanità nel suo procedere verso un orizzonte ignoto divora quel che deve divorare; in questo caso un certo razionalismo ideologico di tipo stalinista, ormai superato ma non tanto da non servire di nutrimento, ecc. ecc. E che il discorso degli anni Cinquanta è superato dal messaggio giovanneo.

Orbene. Impenetrabile ai più nello sterpeto delle metafore, Uccellacci e uccellini è uno scherzo surreale (imparentato talvolta con Zavattini), un girotondo fittiziamente popolaresco, in realtà uno sfogo personale che rivela ancora una volta i guasti portati dal sovraccarico di cultura in una personalità artistica sempre notevole sul piano dell’immediatezza espressiva. Anche chi, e saranno i più, non riuscirà ad afferrare i nessi logici e i sottintesi del film (il commento musicale alterna canti della Resistenza a brani classici), sarà infatti colpito dal buffo delle situazioni, dal controcanto ironico di Ninetto, dalla precisione con cui il paesaggio — il romanico di Tuscania soprattutto -– è chiamato a evocare un’atmosfera di grottesca magia (ma il vecchio difetto, il racconto bloccato da certi estetismi, la trasandatezza della recitazione in attori usati soltanto come isole decorative, Pasolini non l’ha perso).

E il resto lo fa Totò, che col suo impagabile istinto comico, servito da una mimica stavolta magistralmente controllata, riassume e affranca il film mutando un personaggio bislacco nella vivente idea dell’assurdo.

Da Corriere della Sera, 5 maggio 1966

Tullio Kezich

Se c’è un film che va visto con il testo a fronte è proprio Uccellacci e uccellini. Per fortuna l’editore Garzanti gli ha dedicato un nutrito libro con gli scritti teorici e tecnici di Pasolini, la sceneggiatura integrale e un’ampia intervista con Totò.

Dal libro apprendiamo che la primitiva intenzione dell’autore era quella di mettere insieme “un’operetta poetica nella lingua della prosa” in tre episodi. Nel primo un domatore francese, acconciato come una caricatura di de Gaulle, cerca di far parlare un’aquila riluttante: ma dopo molte promesse e minacce, attraverso la lettura dell’enciclica giovannea Pacem in terris, il domatore assume egli stesso i modi dell’aquila e addirittura spicca il volo. La chiave dell’apologo? Il rapace rappresenta il Terzo Mondo, chiuso nella propria fierezza primitiva, e il domitore è un’immagine del neocolonialismo.

Nel secondo episodio san Franceso d’Assisi ordina a due fraticelli di predicare ai falchetti e ai passeri, ma anche dopo aver imparato ad amare il Signore, gli uccellacci uccidono gli uccellini. Segno, dice Francesco con le parole di Paolo VI all’ONU, che il mondo così com’è non va.

Nel terzo episodio padre e figlio in giro per il mondo incontrano un corvo che fa loro la morale: è un intellettuale di sinistra e non a caso il suo itinerario incrocia i funerali di Togliatti. Alla fine i due vagabondi, seccati dai discorsi dell’incomodo compagno, decidono di mangiarselo e proseguono il loro cammino.

Nella versione definitiva Uccellacci e uccellini perde il primo episodio, quello dell’aquila, e introduce con qualche sforzo la storiella dei frati come un racconto fatto dal corvo. Il terzo episodio disegna cosi l’arco narrativo dell’intero film, ma la sua pur trasparente moralità ci sembra più chiara alla lettura che sullo schermo.

L’eliminazione di molte battute e di alcuni cartelli può aver giovato al ritmo, però non favorisce la comprensione del film. Cosi Totò e Ninetto vagano per la periferia romana, ascoltano distrattamente e capiscono a metà i discorsi che gli fa il corvo parlante con la voce del letterato Francesco Leonetti, si comportano alternativamente da sfruttati e da sfruttatori seguendo l’istinto della loro umana naturalezza e si mangiano il compagno di strada: cioè introiettano l’ideologia e passano oltre.

Nonostante tutto la classe degli ignari fa le sue esperienze e il mondo in qualche modo continua. Uccellacci e uccellini resta purtroppo un film di élite: buono a funzionare come pomo della discordia in una riunione di intellettuali, troppo sibillino per farsi comprendere dal pubblico vasto. Eppure la strada era giusta, la forma della favola poteva fondere felicemente il lirismo di Pasolini con la sua vocazione pedagogica e narrativa. il risultato è affascinante come tutte le cose del poeta di La ricotta, ma non altrettanto risolto e convincente.

L’impasto fra passione e ideologia, fra tecnica e ispirazione non avviene. Anziché fornire argomenti alla meditazione, Uccellacci e uccellini lascia con le idee confuse. Stilisticamente è aperto a ogni sorta di derivazioni: rosselliniane (i frati sono quasi una citazione liberamente variata di Francesco, giullare di Dio), felliniane, godardiane e zavattiniane, senza dimenticare gli archetipi di Charlot.

E Totò? Francamente temiamo che Pasolini abbia sbagliato la scelta del protagonista. Il linguaggio di Totò è quello dell’attore comico, la sua verifica è la risata: se Totò non fa ridere non è più Totò. E nelle favole di Uccellacci e uccellini lo vediamo preoccupato e incerto: un po’ si appoggia ai lazzi del suo repertorio, che assumerebbero il consueto valore in un altro contesto, e un po’ si affanna a inseguire il ritratto del suo personaggio. La conclamata innocenza del protagonista è esposta a troppe sinistre tentazioni per non lasciare qualche dubbio: nel film c’è un Totò vagabondo e clown, ma c’è anche un Totò strisciante con i potenti e cattivo con i poveri che non sappiamo proprio dove collocare.

Da Tullio Kezich, Il cinema degli anni sessanta, 1962–1967, Edizioni Il Formichiere

Aggeo Savioli

Con Uccellacci e uccellini il cinema italiano dimostra di avere ancora qualcosa da dire. Le ideologie non muoiono, si aggiornano.

Buon successo per Uccellacci e uccellini, al Festival di Cannes: dopo la modesta figura fatta dal nostro concorrente ufficiale, il cinema italiano ha dimostrato quest’oggi di avere ancora qualcosa da dire, qualche autore — come appunto Pier Paolo Pasolini — da esporre all’attenzione e alla discussione ad un livello internazionale. Peccato che, con il regista, con il produttore Alfredo Bini e con l’esordiente attore Ninetto Davoli non fosse qui, a ricevere la sua bella parte di applausi, il meraviglioso Totò, cui anche i più riservati nei giudizio complessivo non hanno risparmiato il loro aperto consenso.

Vivacissima, tra una proiezione e l’altra è stata la conferenza stampa, che ha avuto un interprete fuori dell’ordinario in Roberto Rossellini, ammiratore di Uccellacci e uccellini e, a sua volta, uno dei maestri riconosciuti di Pasolini; per quest’ultimo, Francesco giullare di Dio è un autentico capolavoro; e non c’è da stupirsi, dunque, se si avverte traccia di quell’alto esempio nell’episodio centrale della nuova opera pasoliniana, forse il più liricamente ispirato. Ma, in generale, l’autore pensa — ed è anche questa una specie di omaggio non servile a Rossellini — che nella prima parte di Uccellacci e uccellini vi sia una sorta di decantazione rarefatta del neorealismo». Altro omaggio, Pasolini ha voluto fare a Chaplin, chiaramente «citato» nel personaggio di Totò.

Ideologia e linguaggio: questi i due punti più dibattuti nella conferenza stampa; e quelli, pure, sui quali maggiormente si accende il rovello dei critici. Vi è una certa contraddizione, ha notato qualcuno, tra la struttura dell’apologo, scelta dal regista, e il contenuto: che non è moralistico, come nelle favole classiche, bensì, appunto, ideologico. Questo contrasto ha posto effettivamente a Pasolini questioni tecnico stilistiche non indifferenti; anche per avere egli voluto attingere, deliberatamente, toni e risultati di franca comicità (e le risate, da parte del pubblico, non hanno fatto difetto, sin dagli spiritosi titoli di testa cantati). Cosi è evidente che l’ambiguità della forma legittima, come qualsiasi modo di rappresentazione, — e congrua al momento dubitativo, interrogativo, che il film riflette — richiede da parte il pubblico un particolare sforzo interpretativo, una robusta disponibilità intellettuale.

Uccellacci e uccellini intende significare la fine delle ideologie? Piuttosto un loro aggiornamento (dice Pasolini, ed è testo anche il nostro parere), il loro svincolamento dal peso del passato: il corvo chiacchierone e saputo muore, mangiato dai due protagonisti, così come muore — biologicamente e storicamente — quanto di vecchio è nell’umanità; ma le idee che erano depositate nel suo corpo sopravvivono, e forse trasmetteranno utilmente ai suoi divoratori, a questi emblemi del sottoproletariato, del terzo mondo, d’una vita allo stato di natura che tende di riscattarsi e insieme di riscattare il mondo moderno. Il finale del film è volutamente sospeso tra disperazione e speranza, così come sempre sospesi tra il buio delle etere e la luce della razionalità sono i temi dei personaggi Pasolini.

Il «terzo mondo», i nuovi paesi continuano ad affascinare. Il suo prossimo cimento — lo conferma anche il produttore Bini — sarà una elaborazione cinematografica della Orestiade (ricordiamo, per inciso che lo scrittore-regista curò una traduzione della trilogia di Eschilo, per Gassman, nel 1960), interpretata da soli attori negri. I problemi di una presa di coscienza della democrazia — che nutrirono la tragedia greca — si pongono intatti oggi, nella maniera drammatica a tutti nota, proprio delle giovani nazioni, che accedono via via, con fatica e con dolore, alla libertà.

Da: l’Unità, 14 maggio 1966

Georges Sadoul

Padre e figlio (Totò e Ninetto Davoli) incontrano un Corvo filosofeggiante che farà la strada con loro e che spiega la vita secondo la sua ideologia (in crisi), raccontando apologhi (uno su un francescano del duecento che predica agli uccelli e converte sia i falchi sia i passeri, ma a parte, i falchi continuano a mangiare i passeri). Finiscono ai funerali di Togliatti, fanno l’amore con una bella prostituta, vengono picchiati dai padroni e picchiano i dipendenti, e infine tirano il collo al Corvo, affamati e stufi di chiacchiere.

Un film-saggio, in cui Pasolini (il Corvo) esprime le sue idee su se stesso, sul mondo e naturalmente sui sottoproletari, sul marxismo, sulla fine delle ideologie, sul Terzo Mondo, ecc., convincendo ovviamente una minoranza, e alternando brani riusciti ad altri molto mediocri. Questa forma di “film-saggio” è certo destinata a qualche sviluppo.

Da Dizionario dei film, Firenze, Sansoni, 1968

Gian Piero dell’Acqua

Padre e figlio camminano in una Italia immaginaria e insieme estremamente realistica. Incontrano un Corvo parlante che cerca di spiegare loro la vita secondo filosofia e razionalismo, ma anche narrando storie esemplari (come quella dei frati del Duecento). Infine, i due capitano a Roma, mescolandosi per un tratto con la folla che partecipa ai funerali di Palmiro Togliatti.

Riprendono poi la strada, fanno l’amore con una giovane e fresca prostituta, e, sentendo i morsi dell’appetito, tirano il collo al Corvo, stanchi di tante chiacchiere, e se lo mangiano. Singolare, e talora ispirata allegoria di Pasolini sul vero e vitale itinerario della contemporanea società italiana tanto spesso definita “in crisi” ma non meglio identificata.

Il Corvo è l’intellettuale marxista come fu concepito in Italia fino alla morte di Togliatti; la morte del capo comunista è un evento che fa piangere folle, come il messaggio di pace di Giovanni XXIII: Totò e Ninetto, che sono due tra la folla, mangiano il Corvo assimilandone il meglio, e vanno avanti verso un nuovo umanesimo, che per Pasolini è insieme cristiano e marxista.

Il film, a eccezione di alcuni frammenti superflui, decantava serenamente e con vigore intellettuale le idee politico-sociali di uno scrittore contraddittorio quanto passionalmente democratico.

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.