Trionfo e rottura della scrittura borghese
di Roland Barthes
Da: Il grado zero della scrittura, Parte seconda
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Nella Letteratura preclassica c’è l’apparenza di una pluralità di scritture; ma questa varietà sembra assai minore se si pongono i problemi di linguaggio in termini di struttura e non più in termini di arte.
Esteticamente, il sedicesimo secolo e l’inizio del diciassettesimo mostrano una fioritura assai libera dei linguaggi letterari, perché gli uomini sono ancora impegnati in una conoscenza della natura e non in una espressione dell’essenza umana; in virtù di ciò la scrittura enciclopedica di Rabelais, o la scrittura preziosa di Corneille — per presentare solo momenti tipici — hanno per forma comune un linguaggio in cui l’ornamento non è ancora rituale, ma costituisce in sé un procedimento di investigazione applicato a tutto il mondo nella sua estensione.
Ciò dà a questa scrittura preclassica l’intonazione stessa della sfumatura e l’euforia di una libertà. Per un lettore moderno l’impressione di varietà è tanto più forte in quanto la lingua sembra ancora voler tentare strutture instabili e non ha definitivamente fissato lo spirito della propria sintassi e le leggi di accrescimento del proprio vocabolario.
Per riprendere la distinzione tra lingua e «scrittura» si può dire che fin verso il 1650 la Letteratura francese non aveva ancora superato una problematica del linguaggio e che appunto per questo ignorava la scrittura.
In effetti, finché la lingua esita sulla sua stessa struttura, una morale del linguaggio è impossibile; la scrittura compare soltanto nel momento in cui la lingua costituita e nazionale diventa una specie di negatività, un orizzonte che distingue ciò che è proibito da ciò che è lecito, senza più domandarsi le origini o le giustificazioni di questo tabù.
Creando un criterio atemporale della lingua i grammatici classici hanno liberato i Francesi da ogni problema linguistico, e questa lingua epurata è diventata una scrittura, cioè un valore del linguaggio, dato immediatamente come universale in virtù delle congiunture storiche.
La diversità dei «generi» e il movimento degli stili all’interno del dogma classico sono dati estetici non di struttura; né l’una né l’altro debbono trarre in inganno: è innegabile che la società francese nell’intero periodo in cui l’ideologia borghese ha progredito e trionfato, ha avuto a disposizione una scrittura unica, strumentale e insieme ornamentale.
Strumentale, perché la forma era concepita in funzione del contenuto, come un’equazione algebrica è in funzione di un’operazione; ornamentale, perché questo strumento veniva decorato accidentalmente e esteriormente in rapporto alla propria funzione, senza che ci si vergognasse di attingere alla tradizione; in altre parole questa scrittura borghese, ripresa da scrittori diversi, non provocava mai il disgusto del suo retaggio, non essendo che il felice sfondo su cui si levava l’atto del pensiero.
Certo, gli scrittori classici hanno conosciuto anch’essi una problematica della forma, ma il dibattito era lungi dal vertere sulla varietà e il senso delle scritture, ancor meno sulla struttura del linguaggio; era in causa solo la retorica, cioè l’ordine del discorso pensato secondo un fine di persuasione.
Alla singolarità della scrittura borghese corrispondeva quindi la pluralità delle retoriche; inversamente, proprio quando i trattati di retorica hanno cessato di destare interesse, verso la metà del secolo XIX, la scrittura classica ha cessato di essere universale e sono nate le scritture moderne.
Questa scrittura classica evidentemente è una scrittura di classe. Nata nel secolo XVIII, nel gruppo immediatamente vicino al potere, formata a forza di dogmatiche risoluzioni, rapidamente epurata di tutti i procedimenti grammaticali che la spontanea soggettività dell’animo popolare aveva potuto elaborare, e indirizzata, invece, a un compito definitorio, all’origine la scrittura borghese venne offerta col cinismo proprio dei primi trionfi politici, come la lingua di una classe minoritaria e privilegiata; nel 1647 Vaugelas raccomanda la scrittura classica come uno stato di fatto non di diritto; la chiarezza è solo un’abitudine di corte.
Nel 1660, al contrario, per esempio nella grammatica di Port-Royal, la lingua classica si riveste dei caratteri dell’universalità, la chiarezza diventa un valore.
In realtà, la chiarezza è un attributo puramente retorico, non è una qualità generale del linguaggio, possibile in tutti i tempi e luoghi, ma solo l’appendice ideale di un certo tipo di discorso, proprio quello che è soggetto a un’intenzione permanente di persuasione.
Appunto perché la pre-borghesia della monarchia e la borghesia della post-rivoluzione, con una medesima scrittura, hanno sviluppato una mitologia essenzialista dell’uomo, la scrittura classica, una e universale, ha abbandonato ogni esitazione a favore di una continuità di cui ogni piccola parte era una scelta, cioè una radicale eliminazione di ogni possibilità del linguaggio.
L’autorità politica, il dogmatismo dello Spirito, e l’unità del linguaggio classico sono dunque le figure di uno stesso movimento storico. Cosi non c’è da meravigliarsi se la Rivoluzione non ha provocato alcun cambiamento nella scrittura borghese, e se c’è solo una differenza molto tenue tra la scrittura di un Fénelon e quella di Mérimée.
Perché l’ideologia borghese ha resistito, esente da incrinature, fino al 1848 senza vacillare minimamente al passaggio di una Rivoluzione che dava alla borghesia il potere politico e sociale, e non quello intellettuale che essa deteneva già da lungo tempo.
Da Laclos a Stendhal, la scrittura borghese ha dovuto solo riprendersi e proseguire oltre la breve vacanza dei turbamenti.
E la rivoluzione romantica, anche se normalmente diretta a sconvolgere la forma, ha conservato saggiamente la scrittura della propria ideologia. Un po’ di zavorra buttata via mescolando i generi e il lessico, le ha permesso di preservare l’essenza del linguaggio classico, la strumentalità: senza dubbio uno strumento che acquista sempre più «presenza» (specialmente in Chateaubriand), ma dopo tutto utilizzato senza altezze e inesperto di ogni solitudine del linguaggio.
Soltanto Hugo, traendo dalle dimensioni corporee della propria durata e del proprio spazio una particolare tematica verbale, che non si poteva più leggere nella prospettiva di una tradizione bensì in riferimento soltanto al rovescio formidabile della propria esistenza, soltanto Hugo, col peso del proprio stile, ha potuto far forza sulla scrittura classica e condurla al limite di una disintegrazione.
Cosi il disprezzo di Hugo dà ogni volta una garanzia alla stessa mitologia della forma, sotto le cui vesti si ritrova sempre la scrittura settecentesca, testimone dei fasti borghesi, e unica norma del francese di buona lega, di quel linguaggio chiuso, separato dalla società da tutto lo spessore del mito letterario, specie di scrittura sacra ripresa indifferentemente dagli scrittori più diversi in qualità di legge austera o di ghiotto piacere, tabernacolo di un mistero prestigioso: la Letteratura francese.
Ora, gli anni intorno al 1850 conducono alla congiunzione di tre grandi fatti storici nuovi: il capovolgimento della demografia europea, la sostituzione dell’industria metallurgica all’industria tessile, cioè la nascita del capitalismo moderno e la secessione (consumata nelle giornate del giugno 1848) della società francese in tre classi avverse, cioè la rovina definitiva delle illusioni del liberalismo.
Queste congiunture pongono la borghesia in una situazione storica nuova. Fino allora era l’ideologia borghese che dava da sé sola la misura dell’universale, definendolo senza possibili contestazioni; lo scrittore borghese, solo giudice dell’infelicità degli altri uomini, non avendo di fronte a sé alcun altro simile che potesse osservarlo, non era tormentato dal contrasto tra la sua posizione sociale e la vocazione intellettuale.
Da ora in poi, questa stessa ideologia si presenta solo come una ideologia tra le tante possibili; l’universale le sfugge, non può superarsi se non condannandosi; lo scrittore diventa preda di un’ambiguità, perché la sua coscienza non coincide più con la sua condizione.
Nasce così una tragicità della Letteratura.
A questo punto le scritture cominciano a moltiplicarsi.
Ormai ciascuna, l’elaborata e la populista, la neutra, la parlata, si propone come l’atto iniziale per cui lo scrittore accetta o rifiuta la propria condizione borghese.
Ciascuna è un tentativo di risposta a questa problematica orfeica della Forma moderna: scrittori senza Letteratura. Da cento anni, Flaubert, Mallarmé, Rimbaud, i Goncourt, i Surrealisti, Queneau, Sartre, Blanchot o Camus, hanno disegnato — disegnano ancora — certe vie di integrazione, di esplosione o di naturalizzazione del linguaggio letterario; ma la posta non è questa o quell’avventura della forma, questa o quella riuscita del lavoro retorico o audacia del vocabolario.
Ogni volta che lo scrittore traccia un complesso di parole è messa in questione l’esistenza stessa della Letteratura; e nella pluralità delle sue scritture la modernità fa appunto leggere le contraddizioni della propria Storia.
Fonte: Roland Barthes, Il grado zero della scrittura, Milano, Lerici editore, 1960, pp. 67–74