Teorema di Pier Paolo Pasolini nella critica del tempo

Mario Mancini
26 min readFeb 6, 2021

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L’urlo di Paolo il padre famiglia (Massimo Girotti), scena finale di Teorema. Ancora l’Etna, una vera e propria ossessione per Pasolini. In quelle terre arse, desertiche e fumanti c’è davvero l’inferno.

«Com’è brutto e inutile il significato di ogni parabola, senza la parabola!»

Pier Paolo Pasolini

«Dio fece quindi piegare il popolo per la via del deserto.»

Esodo, 13, 18 (esergo del libro Teorema di Pier Paolo Pasolini)

Teorema ebbe due versioni: quella cinematografica, portata a termine nel 1968; e questa, in forma di romanzo, scritta da Pasolini nel corso della lavorazione del film e pubblicata nel 1969. Il testo, inframmezzato da interventi poetici, è l’impietosa descrizione dei comportamenti e dei conflitti in un interno borghese durante un momento di crisi, e insieme una parabola sull’irruzione del religioso nell’ordine famigliare e sulle sue dirompenti conseguenze. Provocatorio e profetico, Teorema segna una svolta nell’opera di Pier Paolo Pasolini, con l’approdo a una visione sacrale, vivacemente simbolica della realtà.

Da Pier Paolo Pasolini, Teorema, Garzanti, Milano, 1969.

Pier Paolo Pasolini

«I primi dati di questa nostra storia consistono, molto modestamente, nella descrizione di una vita famigliare…»; «Crediamo… che non sia neanche difficile (consentendoci quindi di evitare certi non nuovi particolari di costume) immaginare a una a una queste persone…»; «Come il lettore si è già certamente accorto, il nostro più che un racconto, è quello che nelle scienze si chiama “referto”: esso è dunque molto informativo; perciò, tecnicamente, il suo aspetto, più che quello del messaggio è quello del codice…»;

Questi sono alcuni interventi personali dell’autore nel corso della storia, o, meglio, della parabola: una prosa leggermente «d’arte» provvede a far sì che si tratti, appunto, di una parabola, anziché di un puro e semplice studio sulla «crisi del comportamento» (è questa la formula con cui vorrei definire il presente volumetto). Teorema è nato, come su fondo oro, dipinto con la mano destra, mentre con la mano sinistra lavoravo ad affrescare una grande parete (il film omonimo). In tale natura anfibologica, non so sinceramente dire quale sia prevalente: se quella letteraria o quella filmica. Per la verità, Teorema era nato come pièce in versi, circa tre anni fa; poi si è tramutato in film, e, contemporaneamente, nel racconto da cui il film è stato tratto e che dal film è stato corretto. Tutto questo fa sì che il modo migliore per leggere questo manualetto laico, a canone sospeso, su una irruzione religiosa nell’ordine di una famiglia milanese, sia quello di seguire i «fatti», la «trama», trattenendosi sulla pagina il meno possibile. Almeno così credo. Quanto al resto, il «discorso libero indiretto» borghese, che volendo o non volendo, ho dovuto distendere sotto il tessuto della prosa poetizzante, ha finito col contagiare anche me, fino a dotarmi di un leggero senso dell’umorismo, del distacco, della misura (e rendendomi forse, con grande mia rabbia, meno scandaloso di quanto il tema avrebbe richiesto): tutto comunque, credo, resta sostanzialmente osservato e descritto da un angolo visuale estremistico, forse un po’ dolce (me ne rendo conto), ma, in compenso, senza alternative.

Risvolto del libro Teorema, Garzanti, Milano 1968

Attilio Bertolucci

Pasolini, che è anche, seppure quasi in disarmo perché occupato in lavori diversi, il miglior critico italiano della sua generazione, ha scritto per il risvolto di Teorema (Garzanti) una breve scheda di una precisione e acutezza tali da scoraggiare in partenza ogni tentativo del recensore di dire di più e meglio «…tecnicamente il suo aspetto, più che quello del “messaggio” è quello del “codice”… il nostro, più che un racconto, è quello che nelle scienze si chiama “referto”… parabola, anziché puro e semplice studio sulla “crisi del comportamento”… manualetto laico, a canone sospeso…». Va bene. Ma proviamo a contraddire Pasolini su un punto.

«Più che un racconto…» egli scrive, quasi a mettere le mani avanti, aggiungendo subito quelle indicazioni, «referto» ecc., che non ci sentiamo di toccare. Non un racconto, Teorema, anche se in forma di referto, parabola, manualetto laico?

Ma, si potrebbe suggerire «conte philosophique»: dimostrativo e stringato, e «non privo di un leggero senso dell’umorismo», come il genere comporta; a tratti lirico, in maniera straziante, come la natura dell’autore, all’origine e sempre poeta lirico, vuole.

Racconto, ad ogni modo, avvincente racconto, per nostra fortuna. Tanto è vero che Pasolini della storia ha fatto insieme un film. «Teorema è nato, come su fondo oro, dipinto con la mano destra, mentre con la mano sinistra lavoravo ad affrescare una grande parete (il film omonimo).»

Il fondo oro e l’affresco suggeriscono il carattere religioso della storia, che comporta accadimenti miracolosi di ogni sorta, volta a volta inquietanti se non terribili, o consolatori. Il primo di questi accadimenti, ormai noto perché con pazienza e riluttanza enunciato già molte volte da Pasolini durante le riprese del film, è l’arrivo di un ospite, un giovane straniero, nella villa di una famiglia altoborghese di Milano in una stagione incerta, forse la primavera, forse l’autunno.

Dopo il suo passaggio, che occupa la prima parte dell’opera, dittico di proporzioni non grandi secondo la misura dei fondi oro, i quattro componenti la famiglia e la domestica, gratificati dalla sua stretta dolce autorevole e sconvolgente, non sono e non saranno mai più quali erano.

I borghesi entrano in una crisi profonda, irrimediabile, la domestica, contadina, diventa santa. Questa crisi, questa santità occupano la metà del secondo portello del dittico, aperto e chiuso, lampante ed enigmatico, di una singolarità assoluta, se pure di una estrema coerenza col Pasolini di sempre.

C’era chi si chiedeva, ai tempi dei romanzi sulle borgate e sul sottoproletariato, dove si sarebbe rivolto il loro poeta con l’evolversi della società italiana verso il benessere e l’«affluenza», per dirla con Galbraith, ed ecco dopo aver visitato le baracche romane, Pasolini visita i suburbia ricchi di Milano e ne scopre l’intima disperazione, la luce dolce e spettrale.

La domestica Emilia, alla pari dei suoi signori folgorata perché toccata dall’ospite, mentre questi perdono Dio, ritorna alle bergamine e alle marcite natie, e trova la santità, ancora possibile nel mondo agricolo sopravvivente ai margini dell’industriale, che lo lambisce ed erode di continuo senza riuscire a vincerlo.

Emilia, il miracolo lo viene a compiere alla periferia della metropoli, portando le sue ossa a consacrare la terra desolata delle ruspe e dei cantieri. Ecco dove, mentre altrove si esprime in codice, Pasolini arriva al messaggio più esplicito e (possiamo dirlo?) positivo.

Mentre troppi si affannano, suscitando in chi li guardi una certa pena, a diligentemente e pedantemente eseguire operazioni pseudo sperimentali sempre arretrate e timide al confronto di quelle risalenti ormai a mezzo secolo addietro, Pasolini ha disteso questo racconto «forse un po’ dolce» (lo dice lui) «ma, in compenso, senza alternative», sia sotto l’aspetto formale che sotto quello, di grandissimo momento, delle interrogazioni che pone sul destino individuale e collettivo della gente d’oggi.

Da Il Giorno, 12 giugno 1968

Alberto Moravia

Un giovane misterioso quanto avvenente, annunziato con capriole e danze da un lieto postino, “visita” una famiglia borghese in una città della Lombardia. La famiglia “visitata” è quella che si chiama di solito una famiglia “normale”, intendendo per normalità il modo di intendere la vita proprio della classe media.

La visita del giovane sconvolge questa “normalità” o meglio ne rivela il carattere fittizio. Il giovane, pieno di compassione e di leggerezza, fa l’amore con tutti i membri della famiglia: con la domestica, con il figlio, con la figlia, con la madre, con il padre.

Fa l’amore cioè soddisfa la finora ignorata sete d’amore dei cinque personaggi. Ma, ecco, torna il postino saltabeccante e caprioleggiante. Un telegramma fa partire il giovane. La sua partenza provoca il crollo della famiglia.

La domestica, avvertendo, con sicuro istinto contadino, il carattere sovrumano del visitatore, se ne torna al paese, diventa una specie di santa, fa dei miracoli, finisce per immolarsi a favore dell’umanità industriale, lasciandosi seppellire nella voragine di uno sterro da una scavatrice.

Il ragazzo, che è pittore, deraglia completamente in direzione della più velleitaria sterilità mascherata da arte di avanguardia.

La figlia piomba in una irrigidita immobilità catatonica e viene trasportata in una clinica per malattie mentali.

La madre si scopre ninfomane e va a caccia di uomini.

Infine il padre, dopo essersi spogliato della propria fabbrica a favore degli operai, si spoglia letteralmente e corre ignudo, urlando il suo dolore, per le lave atrocemente buie e morte di un pendio vulcanico.

Pier Paolo Pasolini, come già in Edipo Re, ha voluto raccontarci la fiaba del miracolo che si verifica nel dissacrato mondo moderno. Il giovane misterioso è un dio; e il film racconta il miracolo dell’apparizione di un dio nella vita dei mortali.

Ma che dio è il dio di Pasolini? A prima vista si penserebbe a una resurrezione decadentistica del pagano dio Amore; ma gli effetti della “visita” smentiscono questa ipotesi. Il sesso in Teorema è un mezzo, non un fine. In altri termini in Teorema il sesso è un modo di rapporto con la realtà; tanto è vero che l’effetto della scomparsa del dio è di fare impazzire i membri della famiglia, di far loro smarrire il rapporto con il reale.

Si dovrebbe dunque arguire che il dio di Pasolini è un dio psicanalitico-marxista la cui partenza scatena, infatti, le furie dell’alienazione sociale e della derealizzazione psicotica. D’altra parte, egli ha fatto una curiosa e significativa operazione: ci ha presentato, condensata nello spazio di pochi giorni, una vicenda che, storicamente, si è svolta per l’arco di parecchi secoli.

Dio se n’è andato via da un pezzo; la famiglia di Pasolini è stata abbandonata da Dio già da alcune centinaia di anni. Ma Pasolini si è messo fuori della storia, nel clima, come abbiamo già accennato, della favola.

Con Teorema, Pier Paolo Pasolini ha fatto il suo film se non più impetuoso, certo più rigoroso, più essenziale, più coerente e più spoglio. Sono stati fatti i nomi di Antonioni, di Bresson, di Bergman; ma sono indicazioni di comodo per definire uno sviluppo assolutamente originale dell’autore di Accattone.

Teorema è un film del tutto pasoliniano così nello stile raffinatamente e giustamente manieristico come nel tema ambiguamente oscillante tra il tremore religioso e quello sessuale.

Si potrebbe dire, a questo punto, che la visita del dio nasconde più che non spiega le determinazioni oggettive del crollo della famiglia. In altri termini, se è vero, come crediamo che sia vero, che la visione del mondo nell’opera d’arte è un prestito che la società fa alla sensibilità dell’artista, si potrebbe dire che Pasolini, in questo film, ha espresso l’aspirazione oggi diffusa a una proiezione della crisi storica sul piano religioso.

Ma sarebbe, crediamo, poco illuminante: un artista va giudicato sui risultati. I quali, come abbiamo detto, sono ampiamente positivi. Oltre agli sfondi della campagna lombarda, tutti bellissimi, bisogna soprattutto ricordare le sequenze, nella prima parte, degli incontri del dio con la domestica e poi con la figlia; nella seconda, la disperazione dell’artista e quella della madre. Il motivo della lava dell’Etna che si alterna agli episodi, conferma il carattere poetico del film. Pasolini, come non ha voluto essere narratore naturalistico nel romanzo, così ha saputo non esserlo nel film.

L’interpretazione, molto difficile in un simile film privo di motivazioni psicologiche, è ottima. Terence Stamp è un giovane dio dai felici atteggiamenti rinascimentali; Laura Betti ci dà con notevole efficacia il senso della religiosità rustica; Anne Wiazemsky sembra uscita da un quadro di Vermeer; Andrés José Cruz è un artista velleitario molto convincente; Silvana Mangano e Massimo Girotti formano una coppia neocapitalista piena di verità.

Da Al cinema, Bompiani, Milano, 1975

Tullio Kezich

Con una sola idea di racconto Pier Paolo Pasolini è riuscito a trasformare l’estate culturale italiana, dal Premio Strega alla Mostra di Venezia, in uno show personale che sui quotidiani ha conteso lo spazio ai fatti di Praga.

Teorema film ci sembra meno pasoliniano del libro parallelo, che nell’alternanza di poesia e di capitoli in prosa presenta un coacervo strutturale più insolito.

Sullo schermo la stessa vicenda si atteggia nelle forme gelide e sofisticate di Il deserto rosso. Si direbbe anzi che il film nasce come una riflessione sull’opera prima di Antonioni, Cronaca di un amore (1950): siamo a Milano, in un’aura da vent’anni dopo, la protagonista di chiama Lucia (la Bosè doveva interpretare la parte della Mangano) e al suo fianco c’è Girotti.

Il titolo è spiegato dal geometrico rigore con cui Pasolini vuol dimostrare che una famiglia altoborghese, sconvolta dall’elemento vivificatore di un’emozione sessuale, prende coscienza della propria inutilità e si autodistrugge.

La figlia finisce al manicomio, il figlio diventa un pessimo pittore, la madre si dà ad avventure stradali, il padre dona la fabbrica agli operai e si spoglia nudo in piena stazione centrale. Solo la serva contadina scopre, nell’identico frangente, una forma primitiva e innocente di santità, cioè in qualche modo un futuro.

L’ipotesi, tuttavia, appare ingiustificata: questa famiglia non arriviamo a conoscerla, non individuiamo che sommariamente i rapporti esistenti fra i personaggi. L’erotico messia che capita a sconvolgere la vita dei borghesi ha un aspetto malizioso piuttosto che angelico; e il pubblico può benissimo fraintendere il discorso dell’autore, rovesciando il teorema: se la famiglia fosse per bene, cioè più attenta conservatrice dei valori tradizionali, non accadrebbe niente.

È l’eros, per quanta positività voglia mettere Pasolini nei suoi interventi, produce guasti così irreparabili da rientrare nella sfera della sessualità intesa come peccato e produttrice del senso di colpa.

Da Tullio Kezich, Il Mille film. Dieci anni al cinema 1967–1977, Edizioni Il Formichiere

Giovanni Grazzini

Come già per gli antichi, anche per Pasolini Eros è un dio. Egli si manifesta, e tutto il mondo n’è percosso. Travolti dalla passione uomini e donne perdono il controllo d sé, un gorgo di sacra follia li inghiotte.

Prendiamo, dice Teorema, una ricca famiglia borghese della Milano industriale, solidamente installata in una villa nei pressi di San Siro. Il padre possiede una fabbrica, la madre fa la signora il figlio e la figlia frequentano licei di buona fama.

Arriva annunziato da un telegramma, uno studente di università. È bello, di sguardo dolce. La prima a cadere folgorata è la serva Emilia, una semplice venuta dalla Bassa; dopo aver tentato il suicidio, gli si offre fra le lacrime.

Poi tocca a Pietro, il padroncino: l’incontro avviene di notte, fra il ragazzo sconvolto dalla vergogna e l’Ospite sereno, quasi nunzio di pietà. È la volta di Lucia, la madre: si denuda nel parco, e l’invito è subito raccolto. Ecco Odette, il fiore di casa, sinora legata al culto della famiglia: un tremito, ed è fatta donna. Infine il padre: lungo il fiume, nella bruma, l’Ospite lo esaudisce.

Il mito continua. L’alato Mercurio torna con un altro telegramma. L’Ospite deve partire, e prima di lasciare la famiglia raccoglie una per una le confidenze degli amici “Mi hai reso diverso — dice Pietro — mi hai rivelato la mia vera natura”. “Il mio mondo era vuoto — dice la madre, — hai riempito la mia vita”. “Mi hai fatto diventare una ragazza normale — dice Odette –, la tua partenza mi precipita all’indietro”. “Hai distrutto — dice il padre -l’idea che avevo di me; senza di te non saprò più chi sono”.

E son come versetti della Bibbia. Ma Emilia, la serva, non può dirgli niente: gli bacia le mani, e appena l’Ospite è scomparso torna al paese natale. Siede sull’aia della cascina in muta solitudine.

Data l’ipotesi che Eros, incarnatosi nello studente, sia sceso in terra a innamorare di sé un’intera famiglia, segue la dimostrazione di cosa accade quando improvvisamente la abbandona.

Odette, la più fragile, torna nel nulla: col corpo intirizzito, viene portata via dall’ambulanza. Pietro, in una soffitta, traccia fregacci su vetro, irridendo all’arte astratta e a se stesso. La madre raccatta bei ragazzi dalla strada, si lascia condurre nei prati della periferia, e se trova una chiesa s’inginocchia. Il padre si spoglia di tutto, degli abiti, alla stazione, e della fabbrica, donata agli operai.

La famiglia, dunque, è distrutta mentre la serva è venerata come santa dai contadini. Cibandosi d’ortiche, compie infatti miracoli: guarisce gli infermi e s’alza in cielo. Infine viene in città: fattasi seppellire in una buca, promette che le sue lacrime daranno una sorgente di letizia.

È da qui, dalla fine del film, che bisogna prender le mosse per capire bene la parabola. Più passa il tempo, più delusioni riceve dai compagni di strada, e più Pasolini sposa il suo misticismo alla polemica classista.

Teorema si può leggere in molti modi (poiché il film vuol essere autonomo, non andremo a cercar chiavi nell’omonimo racconto), ma una cosa è palmate: che le simpatie dell’autore vanno tutte alla figura della serva.

Uscita da un sottoproletariato che conserva ancora il senso del sacro, Emilia è l’unica innocente, e perciò l’unica che non vada perduta, anzi rimanga a testimoniare, dopo la scomparsa dell’Ospite, i suoi poteri taumaturgici.

Sepolta nelle viscere della civiltà industriale, la fede religiosa annuncia i trionfi dell’amore. Perché tutti gli altri, infami borghesi, cadono in rovina? Perché hanno la forza di reggere lo scandalo soltanto finché la divinità li aiuta ad ascoltare la propria autentica natura; quando l’amore li abbandona, il trauma è così violento che non possono più accettare la realtà: o la fuggono con la pazzia o la attristano nel vizio.

Proprio il padre che ha regalato la fabbrica agli operai ha infatti la sorte più angosciosa: nell’ultima scena del film corre nudo, gridando, sui monti, alla vana ricerca d’un segno di quella suprema volontà che come, secondo la Bibbia, fece piegare il popolo per la via del deserto, così, nel nuovo deserto delle ciminiere, trae a salvamento soltanto gli umili che a lei si consegnano.

Per comodo dei lettori, abbiamo fatto la parabola più aperta di quanto non sia. Infatti Pasolini l’ha raccontata in modo da lasciarci dubbiosi. Intanto il suo mitizzare il sesso, quell’affidare all’amplesso, anche contro la norma, il valore sacrale d’una restaurazione del vero, riflette una visione panerotica dell’esistenza, e quasi retrocede l’umanità su posizioni arcaiche che comportano una organizzazione sociale ben diversa da quella forse vagheggiata da Pasolini. In odio alla civiltà moderna, Pasolini ne aggredisce le impalcature in cui natura e ragione hanno trovato un sia pure malcerto equilibrio. Il pudore, il ribrezzo per l’incesto, l’amore per il padre devono essere condannati come inibizioni borghesi? Carezzare i primitivi comporta il rischio di una morale costruita a proprio uso e consumo.

È vero però che il film ha una sigla enigmatica. Ribaltata, la parabola potrebbe anche essere la storia d’un angelo perverso che agisce da detonatore e fa scoppiare i vizi latenti sia nei corrotti borghesi sia nella plebe fanatica.

Anche in tal caso, tuttavia, il sesso acquista una funzione rivoluzionaria, nei confronti delle menzogne convenzionali della società, che non conduce alla liberazione purificatrice, bensì alla solitudine dell’uomo. Ambedue le chiavi, insomma, sacrificano al misticismo erotico la speranza di chi, per modificare le cose, magari muore sulle barricate.

Se l’ambiguità del contenuto lascia perplessi (ma nel prologo, intervistando degli operai, Pasolini ne accentua l’interpretazione socio-politica), l’ambiguità della forma è il fascino del film. Che non è alto come in altri film di Pasolini, e infatti lo spettatore ne esce un po’ freddo, ma deriva dalla qualità dello stile un timbro tanto più insinuante quanto più l’atmosfera sembra rarefatta.

Mettendo a frutto le lezioni di Blow up e di Bresson, Pasolini sviluppa il suo tema con snella semplicità (il vento e la nebbia sul deserto biblico fanno da cerniera fra i vari momenti della storia di oggi, per dirne appunto l’eternità), ma le situazioni sono così cariche di interna vibrazione da far scaturire il dramma delle coscienze col solo calibrare i trepidi gesti e le espressioni di figure costantemente tenute sotto controllo dall’occhio armonico dell’attento orchestratore.

Inceppa nella letteratura quando fa parlar troppa i personaggi, ad esempio nelle confessioni all’Ospite in partenza, e rivela la programmaticità dell’impianto nella struttura geometrica del racconto, ma dove la sua vena lirica emerge liberamente per esprimere senza dialogo l’incognita sottesa al visibile, allora ci dà pagine di grande finezza che ricevono dalla Messa da requiem di Mozart toni di tragica malinconia.

È quanto accade in tutta la prima parte, a cominciare dall’incontro fra l’Ospite e l’Emilia (forse in assoluto una delle cose più belle di Pasolini) e poi nell’evocazione della campagna lombarda, nel profilo inquieto della madre, nel casto e pietoso guardare Odette.

Sicché anche quanti non afferrino o non condividano il senso della parabola, sono in qualche misura colpiti dalla grazia stilistica della pronunzia, dalla soavità dei pastelli, da una gentilezza di modi in cui finalmente si attenua il manierismo estetizzante di Pasolini, senza peraltro si spengano quei torbidi accenti che incrociati alle estasi fanno il suo drammatico stemma. «Dolcezza e orrore in una sola musica» è un verso di Montale che si applica bene a Teorema.

A tenere il film in una zona sensibile e precisa giova molto l’interpretazione. Terence Stamp, l’Ospite, è debitamente bello, con una piega ironica. Silvana Mangano molto brava nel dare ombre oblique al difficile personaggio della madre, e Anne Wiazemsky, la figlia, nell’incarnare la grazia tradita.

Un po’ meno intensi, ma sempre all’altezza, il cileno Andres José Cruz, il figlio, e Massimo Girotti, il padre. Laura Betti, nei panni rozzi della serva, merita ogni lode: è anche per merito di lei se la sua figura sgraziata è al centro del film. In particine di fianco, Adele Cambria, Alfonso Gatto, Carlo De Mejo, Ninetto Davoli grullerello.

Da Corriere della Sera, 6 settembre 1968

Vincent Canby

PIER PAOLO PASOLINI’S “Teorema,” which opened yesterday at the Coronet, is the kind of movie that should be seen at least twice, but I’m afraid that a lot of people will have difficulty sitting through it even once. At least there were some who had that problem Friday night when the film was given an unannounced preview at the Coronet, supplementing the regular program, headed by “The Prime of Miss Jean Brodie.

“It was a disastrous combination. “Baby Love” is a straightforward, skin-deep narrative movie that elicits conventional responses to familiar stimuli. “Teorema” (theorem) is a parable, a movie of realistic images photographed and arranged with a mathematical precision that drains them of comforting emotional meaning. For the moviegoer whose sensibilities have been preset to receive “Baby Love” — or just about any other movie now in first run here — “Teorema” is likely to be a calamitous and ridiculous experience.

The laughter the other night didn’t really bother me — although that sort of laughter always surprises me, the way I’m surprised by audiences who go to all the trouble of getting into a Museum of Modern Art screening of, say, “As You Desire Me,” and then giggle at some perfectly respectable but archaic 1932 movie convention.

“Teorema” is a cranky and difficult film made fascinating by the fact that Pasolini has quite consciously risked just the sort of response he was given by the Coronet patrons.

To the extent that it has a coherent narrative, “Teorema” is the story of an upper middle-class Milanese family that is suddenly visited by a beautiful young man (Terence Stamp) who systematically proceeds to make love to everyone in the family — father (Massimo Girotti), mother (Silvana Mangano), daughter (Anna Wiazemsky), son (Andres José Cruz Soublette) and even the maid (Laura Betti), in roughly the reverse of that order.

Having provided each member of the household with an apparently transcendental experience, the young man departs, leaving each to collapse in his own way. Because they are materialistic, rich bourgeoisie, their collapses are elegant and terrifying. The daughter withdraws into a catatonic state; the son withdraws into his painting, determined to set up his own rules of esthetics that are so mysterious he cannot be judged; the mother and father seek to repeat their experiences with counterfeits of the young man. However, the maid, the good, decent, believing peasant woman, becomes sanctified.

“Teorema” is not my favorite kind of film. It is open to too many whimsical interpretations grounded in Pasolini’s acknowledged Marxism and atheism, which, like Bunuel’s anticlericism, serve so well to affirm what he denies. Pasolini has stated that the young man is not meant to represent Jesus in a Second Coming. Rather, he says, the young man is god, any god, but the fact remains that he is God in a Roman Catholic land.

Unlike Tennessee Williams, who toyed with a variation on this theme in much more simplistic terms in “The Milk Train Doesn’t Stop Here Anymore” (“Boom” went the movie), Pasolini doesn’t load this film with little capsulated messages of purple prose. There is very little dialogue in the movie — 923 words, say the ads (but I’m not sure whether this refers to the Italian dialogue or the English subtitles). Even though Pasolini is a talented novelist and poet, the film is almost completely visual. The actors don’t act, but simply exist to be photographed. The movie itself is the message, a series of cool, beautiful, often enigmatic scenes that flow one into another with the rhythm of blank verse.

This rhythm — one of the legacies of the silent film, especially of silent film comedy — was impossible for the Coronet audience to accept. The seductions are ticked off one after the other with absolutely no thought of emotional continuity. So are the individual defeats, which are punctuated by recurring shots of a desolate, volcanic landscape swept by sulphurous mists.

There is also a kind of rhythm within the images. Someone seen in right profile is immediately repeated in left profile. An action that proceeds to the left across the screen may be switched 90 degrees, directly away from the camera, or into the camera. Early scenes are in black and white. Later scenes are so muted they almost look like the old Cinecolor process, only to go monochromatic again at the end.

“Teorema” is a highly personal, open-ended movie, and one that is much more interesting to me than Pasolini’s earlier “Accatone” and “The Gospel According to St. Matthew.” Not the least mysterious thing about it is why the Roman Catholic Church’s film reviewing body, the Office Catholique International du Cinéma, originally saw fit to give it a prize, which it later regretted. “Teorema” is a religious film, but I think it would take a very hip Jesuit to convert it into a testament to contemporary Roman Catholic dogma.

Da The New York Times, 22 aprile 1969

Filippo Sacchi

Ho l’impressione che Teorema sia il primo film nel quale il poeta di parole abbia tratto fuor di strada il poeta di immagini: per dirla in soldoni, che lo scrittore abbia fatto un brutto scherzo al regista.

Non c’è dubbio che uno dei fenomeni più appariscenti del nostro tempo è l’avanzata del sesso: il posto sempre più assorbente che i valori afrodisiaci prendono, nella scala dei rapporti umani, come fattore di costume e paradigma di vita. Lo è tanto che, a giudicare dalle sue estrinsecazioni pubbliche (narrativa, teatro, cinema), si ha in certi momenti quasi l’impressione che ci si avvicini a un punto di normalizzazione, e quindi di indifferenza.

Questo crescente prevaricare del fatto sessuale ha naturalmente colpito Pasolini. Ed essendo inclinato, come poeta, a pensare per miti, è comprensibile che il fenomeno gli si sia presentato sotto forma emblematica, come espressione non tanto di una evoluzione passeggera del costume, di una moda imputabile a un momentaneo rilassamento e che un po’ di censura e qualche sberla basterebbero a correggere, ma come la spinta profonda di una forza immanente nel mondo che, per una rotazione di atavici cicli, ritorna alla superficie.

È la stessa forza che è all’origine degli antichissimi culti ispirati alla generazione, esistenti ancora alle radici della nostra stessa civiltà, in quei miti orgiastici e dionisiaci, rituali nel mondo greco-romano, che il cristianesimo, coi suoi ideali di purezza, aveva seppelliti.

Cancellati, o non soltanto sopiti? Ed ecco il mito. Quelle deità del sesso, per secoli cancellate e maledette, confinate nel limbo dei piaceri inconfessabili, si prendono adesso la rivincita. Esse trovano nel clima della nostra civiltà, il loro virulento terreno di germinazione. Il mondo si riempie di sesso.

Sinché un giorno scende sulla terra la loro incarnazione visibile, il loro errante messia che viene a prendere possesso dei corpi e delle anime. Scende il misterioso pellegrino e nulla gli resiste. Al suo apparire, ogni creatura, uomo o donna, vacilla, si abbandona sensi ed anima, vinta, al suo angelico miasma.

Questa è l’invenzione. A raccontarla può essere molto bella. Perché la parola, permettendo al poeta una immateriale possibilità di evocazione, gli concede di dare alla raffigurazione del mitico messaggero tutta la sua sfuggente indeterminatezza di favola.

Ma che avverrà quando non il fluido plasma della parola, ma il meccanico, brutale occhio della macchina da presa si spalancherà sul simbolico semidio? Si è detto e ripetuto che questo personaggio vuole essere Eros in persona, Eros che torna a prendere possesso dell’umanità.

Però l’Eros pasoliniano non è l’Eros amorino, l’Eros alato putto, che scende tra metastasiane nuvolette a scagliare le sue frecce piumate sui seni andanti delle dame in pouf à sentiment. L’Eros pasoliniano è un terribile dio. E un dio che spinge alla disperazione e alla morte: un dio che arriva portato sul vento dei cori delle Baccanti.

E nella scena finale, nell’urlo disumano del povero demente errante nel deserto, c’è già la disumana follia di Attis, l’Eros che si autodistrugge, per cui ancora nei secoli rombano nel verso di Catullo i tremendi tam-tam di Cibele: “O dea immensa, dea Cibele, sovrana dei Dindimo, tieni lontano dalle mie case il tuo furore, o divina: altri invasa della tua demenza, altri forsennati incalza”.

Ma purtroppo siamo al cinema. Questo alato genio, questo soprannaturale latore di sesso dobbiamo vederlo in faccia. E allora troviamo soltanto Terence Stamp, un bel figliolo, anche simpatico, ma, diciamo la verità, un po’ modesto come incarnazione sacrale.

Per quanto Pasolini gli faccia baluginare intorno solari riflessi, non è che uno dei mille ragazzi che possiamo incontrare, quando vogliamo, nei bar di Via Veneto, o di Soho, o della Rive Gauche. E, malgrado ci siano presentati i suoi calzoni in funzione di feticci, all’atto pratico, nei momenti culminanti, le sue erotiche espansioni non hanno nulla che le distingua dalle infinite, stereotipate scene che ormai popolano il nostro cinema quotidiano.

Ecco perché, purtroppo, non riusciamo a credere alla funzione redentrice, taumaturgica (“Hai ucciso la mia reputazione di borghese casta, ma mi hai fatto diventare una persona normale…”) che i suoi amplessi, imparzialmente da lui distribuiti tra gli uffici manageriali e le cucine, dovrebbero esercitare sull’umanità.

Salvo in un caso, per il quale il mito funziona: il personaggio della povera fantesca Emilia, bellissimo personaggio di cui regista e interprete (Laura Betti) hanno fatto insieme una genuina creazione. E perché funziona? Ma perché, per il solo fatto della immensa distanza di classe, anzi quasi di razza, che Pasolini ha frapposto tra i due, diventa plausibile che, in lei, l’abbraccio di quell’essere meraviglioso possa produrre uno choc liberatore.

E che diventi una poetica verità quel processo per cui, attraverso quel magico contatto d’amore, l’umile creatura pervenga, per gradi successivi di illuminazione, a riassorbirsi nel mistero delle forze cosmiche.

Insomma, delle cinque operazioni del teorema, per me questa è l’unica che mi sembri risolta. È vero che sono sempre stato bocciato in matematica.

2 marzo 1969

Georges Sadoul

Una famiglia borghese di Milano, il padre (Massimo Girotti), la madre (Silvana Mangano), la figlia (Anne Wiazemsky), il figlio (Andrès José Cruz Soublette:), la cameriera (Laura Betti) e un «perturbatore » (Terence Stamp) della loro vita quotidiana che, dopo aver rivelato a tutti come realmente sono attraverso l’amore carnale che ha donato a ognuno, sparisce.

Più che la parabola cristiana sulla grazia, sottesa nel film, è importante il rapporto che ciascuno personaggio va a stabilire con un universo plastico, sino ad allora esistente ma sconosciuto e che porta a una autenticità, pur disperata, che rende soli e impotenti, evocata con molta sicurezza. «In una famiglia borghese — dice Pasolini — arriva un personaggio misterioso che è l’amore divino.

È l’intrusione del metafisico, dell’autentico che distrugge, sconvolge, una vita interamente falsa che se può fare pietà, può anche avere dei momenti di autenticità nei sentimenti, per esempio, come nelle sue componenti fisiche».

Da Dizionario dei film, Firenze, Sansoni, 1968

Claude Beylie

La pacifica vita di una famiglia borghese di Milano è sconvolta dall’arrivo di un misterioso visitatore, un giovane venticinquenne, silenzioso, segreto, affascinante. A contatto (sessuale e intellettuale) con lui, ognuno prende coscienza della vanità della propria esistenza e prende coscienza della propria vera natura.

Quando ripartirà, compiuta la propria missione, tutto sarà cambiato: la madre si da al primo venuto, la figlia diventa catatonica, il figlio abbandona la famiglia e dipinge orribili croste, il capofamiglia, un ricco industriale, abbandona la fabbrica agli operai, si denuda nella stazione di Milano e si perde nel deserto… La serva, una contadina, levita invece come una santa.

Teorema è opera di un poeta, saggista, romanziere, regista tra i più controversi della Intelligencija italiana degli anni Sessanta. Il film — come molte sue altre opere — fece scandalo. Il soggetto venne attaccato come osceno da una parte, la più retrograda, dell’autorità religiosa, mentre l’ala «progressista» lo portò alle stelle al punto da attribuirgli il premio dell’OCIC (Office catholique international du cinéma).

Un sacerdote canadese, Marc Gervais, ne fece un’analisi ampia ed elogiativa. Dopo tutto, il regista aveva dato prova di incontestabile fervore spirituale con Il Vangelo secondo Matteo (1964), dedicato a papa Giovanni XXIII. Il suo cristianesimo era certamente colorato di marxismo, o meglio, frammisto di influenze «ereticali» diverse che andavano da Freud a Gramsci.

Le carte si imbrogliavano ancora per la sua dichiarata omosessualità, avvertibile in altri film (per esempio in Accattone, 1961, film d’esordio, un’incursione negli ambienti della piccola malavita nelle borgate romane). Franco tiratore per eccellenza, che si muoveva agilmente tra i miti greci come tra le ideologie contemporanee, Pasolini non poteva lasciare indifferenti.

Proseguirà il suo lavoro di guastatore — articolato su un materiale filmico di grande bellezza, in particolare in Porcile (1969), Medea (1970), Salò o Le centoventi giornate di Sodoma (1975). Quest’ultimo film precedette di poco il suo omicidio, per mano di un giovane delinquente della periferia di Roma

Da I capolavori del cinema, Vallardi, Milano, 1990

Adelio Ferrero

Le lacerazioni e i fermenti che sconvolgono la società italiana e le istituzioni del potere, la classe dominante e i suoi antagonisti formali e potenziali, sembrano così diventare, nel cinema e non soltanto in questo, terreno di riserva per operazioni manipolatrici spesso scoperte al limite dell’impudenza, mentre d’altra parte i richiami, anche i meno prescrittivi e paternalistici, a una tensione critica e negatrice dell’arte contro l’esistente appaiono sospetti e fortemente contestati.

Si dovrà dunque convenire con Adorno quando afferma che «nella letteratura impegnata anche il genocidio diventa un bene culturale e quindi diventa più facile continuare insieme il gioco nella civiltà che lo ha prodotto»?

Alla «rozza esigenza dell’impegno» egli oppone la necessità di «salvare dal crollo, senza tante chiacchiere, quel che è inaccessibile per la politica». Ma, a parte le generalizzazioni “apocalittiche” e i discutibili entusiasmi per Beckett cui fanno riscontro gli irrigidimenti su Brecht, Adorno muove pur sempre dal presupposto che «non c’è nessun contenuto, nessuna categoria formale d’una poesia che, per quanto trasformati misteriosamente, per quanto nascosti a se stessi, non derivino dalla realtà empirica da cui si sono staccati con un’aspra lotta. In tal modo, come attraverso il riordinamento dei momenti attraverso la sua legge formale, la poesia si rapporta alla realtà».

Ma è proprio quel momento di “aspra lotta”, di lacerazione e rottura, che spesso si cerca invano nelle punte più risentite del nostro cinema e negli esordi dei giovani registi (nella maggior parte dei casi, almeno). Certo non si pretende una mobilitazione massiccia sul terreno di questa o quella forma di dissenso, ma si vuol verificare se e fino a che punto un dissenso sia presente e quale misura critica e negatrice assuma. Perché è proprio qui che la lettura dell’esistente e il rapporto con esso vanno spesso al di là del necessario approccio individuale per inglobare la realtà, tutta la realtà o quasi, in una affabulazione autobiografica estremamente riduttiva.

È il caso di Pasolini il quale, esaurita la stagione sottoproletaria come ricerca di un corrispettivo altro alla propria lacerazione personale e irregolarità ideologica, e scontata anche la falsa alternativa del “terzo mondo”, dai miserabili villaggi asiatici ai ghetti negri ribollenti di furore e di collera, come mitica proiezione di un nuovo sottoproletariato del mondo, torna a chiudersi in se stesso, ad ascoltare i richiami e le suggestioni della sua irriducibile “diversità” sentita, a un tempo, quale disperante esclusione e orgogliosa fedeltà al proprio destino di “reietto”.

Il sentimento di crisi da cui nascevano i versi più confessati e sconcertanti de Il glicine («qualcosa ha fatto allargare / l’abisso tra corpo e storia, m’ha indebolito, / inaridito, riaperto le ferite…») diventa in Teorema la nota dominante e incontrastata della poetica pasoliniana.

Ma quanto il discorso si fa immediato e personalissimo, tanto più l’autore avverte l’esigenza di una mediazione, costituita in questo caso da una improbabile borghesia e dalla sua crisi. La verità è che tutti i “personaggi” del film sono le provvisorie e trasparenti proiezioni di una metafora lirico-autobiografica di cui è protagonista assoluto l’autore stesso. Il quale però non avendo — o non avendo ancora — l’audacia di ambientare l’apologo, come sarebbe giusto, fuori di ogni spazio e tempo determinati, e di farlo recitare davanti a fondali neutri, si vale appunto del tramite di una situazione da “teatro della minaccia”, di un ambiente e di un “milieu” che rimandano all’Antonioni del Deserto rosso, di personaggi con una parvenza di psicologia. Ma bastano i pochi rapidi scorci di una quotidianità allontanata e sospesa su cui si apre il film, che figurativamente è forse il più composto e dominato di Pasolini, a far intendere allo spettatore che quella cui sta per assistere è una sorta di “allucinazione”, non meno di Edipo re.

Non a caso le alternative cui l’autore approda risultano più apparenti che reali: la “scandalosa” rottura col proprio mondo, il rifiuto del potere nella fabbrica e nella casa, l’esodo verso un deserto dove si ritrovano, sempre e soltanto, la solitudine e il nulla. Se Edipo concludeva il suo vagabondaggio con la sconsolata consapevolezza che «la vita finisce dove comincia», il protagonista di Teorema ritrova l’unica possibile autenticità nell’angoscia e nell’urlo, un urlo «dentro a cui risuona, pura, la disperazione». Dietro la compostezza delle immagini, più accorate che estetizzanti del resto, preme una carica di dolore, un senso di impotenza e di fine, — «scandalo per gli integrati, stoltezza per i dissenzienti» tale da escludere ogni indulgenza retorica e, se mai, fin troppo ripiegato e ossessivo.

Da Recensioni e saggi 1956–1977, Alessandria, Edizioni Falsopiano, 2005

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.