Sul doppiaggio

di Pier Paolo Pasolini

Mario Mancini
6 min readFeb 22, 2021

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Pasolini e Maria Callas sul seto di “Medea”

Aver doppiato la Callas in tre giorni, significa doversi preferire sempre e comunque la falsa estetica del doppiaggio?
Non l’ho doppiata in tre giorni. Ci ho lavorato molto di più… ma questo l’ho fatto per ragioni puramente pratiche… Cioè ho tutti e due i doppiaggi, li ho mantenuti tutti e due. In Francia, all’estero va col doppiaggio della Callas stessa, e in Italia invece tengo il doppiaggio, lo tengo semplicemente per evitare cose sgradevoli al film.
Perché in una platea… purtroppo il circuito non è quello delle cinemateche o dei cinema d’essai, il circuito è quello dei film commerciali, normali… Sarebbe arrivato alle seconde visioni a Roma, Napoli, Torino e il pubblico avrebbe protestato di fronte all’accento non italiano della Callas. Avrebbe distratto dal film, il sentire parlare la Callas con un accento… Ha recitato straordinariamente, però con degli accenti tra veneti e balcanici, di fronte a un pubblico italiano… Il pubblico italiano sarebbe stato distratto e non avrebbe più seguito il film, dunque tra i due mali ho scelto il minore.

Se il suono in presa diretta contribuisce a fare film attuali, film sul presente… col doppiaggio si rischia anche…
Non vedo la connessione tra l’inattualità e l’uso del suono…

Per esempio La Marseillaise di Renoir, film fatto nel ’38, riesce ad essere più un documento sull’epoca in cui è stato fatto piuttosto che sulla Rivoluzione Francese…
Non riesco a capire come si dia più storicità ad un film, facendolo in presa diretta. Che cosa vuol dire… poi se il suono diretto rende attuale una certa realtà, la rende attuale in un senso puramente fisiologico, cioè si cade nel naturalismo, dicendo questo. Ora io, come dicevo, detesto il naturalismo. Non considero la natura naturale, la natura non è naturale. Il film è una ricostruzione completa del mondo e quindi non è naturalistico. Mi si pone un’esigenza naturalistica, di fronte a cui io alzo proprio le barriere del mio modo di avere un rapporto con il mondo. Cioè quando, mettiamo, Proust pensa un personaggio, non pensa mai ad un personaggio reale; se Proust, prendendo un personaggio, lo descrivesse, un personaggio reale tale e quale, farebbe un tentativo di naturalismo, che tra l’altro non sarebbe neanche realizzabile. I personaggi sono sempre composti. Quando uno scrittore fa un personaggio, compone sempre il ricordo di vari personaggi; è una sintesi di esperienze umane, che lui fa.
E così anche il cinema. Quando io faccio un personaggio, non lo voglio catalogare, incollare in un momento naturalistico di questo personaggio, lo costruisco attraverso il montaggio, attraverso tutti gli strumenti stilistici che io ho a mia disposizione. Inoltre poi ci sono dei fatti pratici, per cui bisogna avere delle prospettive storiche, se si vuole pretendere del cinema che sia attuale. Storici dovremmo essere prima di tutto noi… allora bisogna storicizzare i vari momenti in cui uno gira un film…
Renoir, a Parigi, può benissimo fare un film in presa diretta, ma un autore italiano, oggi a Roma, non può fare un film in presa diretta. Perché in Francia c’è l’unità linguistica, dovuta a ragioni politiche, nate dalle centralizzazioni burocratiche, politiche della Francia, da quattro, cinque secoli a questa parte. In Italia questa non c’è, ora in Italia, a livello naturalistico, va benissimo; siamo qui che parliamo ognuno con un accento, venissero qui venti italiani, ognuno di questi italiani parlerebbe con un suo accento, uno siciliano, uno veneto, uno non so che cosa. Ora a questo livello naturalistico, va bene, ma lei non può portare questa realtà fisiologica a livello dell’opera d’arte, a meno che lei non lo faccia con una volontà di farlo, ma allora sarebbe un film particolare.

Io personalmente, ammesso che la presa diretta sia un operazione naturalistica, preferisco questa… al doppiaggio ad ogni livello…
Ma… secondo me, questo è retorico, cioè è retorico nel senso che si pone come principio. Se lei si apre, se lei non si formalizza, lei ha ragione; nel momento in cui si formalizza, fa della retorica. Perché ci sono dei casi completamente diversi… Perché c’è un attore che ha una presenza fisica straordinaria ed è un cane come attore, cosa che succede spessissimo in Italia, appunto per le ragioni storiche che le dicevo… Non essendoci una lingua nazionale, avendo tutti imparato la lingua a scuola o nelle accademie, cosa orribile a sentirsi, nel momento in cui un attore italiano umano nei lineamenti del viso o negli occhi, nel naso o nei capelli, nel modo di gestire, diventa improvvisamente un cadavere parlante quando parla, perché parla una lingua morta, una lingua imparata alla accademia, con tutto il «birignao» che c’è in questa lingua. Allora a questo punto, io preferisco mettere un’altra voce, vera. Ha capito? Quindi non esiste una legge…

D’accordo non esiste una legge… ma a me interessava sapere perché lei doppia i suoi film.
Li doppio sempre per ragioni pratiche da una parte. Perché in certi casi se prendo un attore straniero (a meno che non voglio fare un film sperimentale, quindi… fare di queste necessità un canone stilistico e potrei anche farlo, perché no… a meno che non voglia fare questo…) non posso mettere un attore straniero che parla con un accento straniero in mezzo ad attori italiani. Diventerebbe un’assurdità fuori dal mio sistema di segni stilistico.

Lei ha detto di aver fatto due versioni della Medea, una italiana l’altra francese, in cui è la Callas stessa che si doppia…
Sì, sì. No, voglio dire, ho fatto il doppiaggio della Callas che per me è quello bello, perché recita straordinariamente bene: molto strano, un po’ assurdo, un po’ fuori dalla regola, però molto bello. Però con degli accenti che il pubblico italiano non avrebbe accettato, il pubblico avrebbe detto: “aoh, che fai, che fai…”. Avrebbe fatto così, capito? Distraendo il pubblico, creando, all’interno del film, degli scompensi, falsificando il film.

Questo è dunque un problema che lei si pone in Italia, per gli italiani.
Sì, sì, sì, però per esempio per Porcile ho fatto la cosa inversa, non ho voluto che uscisse in Francia con i sottotitoli. Perché? Ecco qui un’altra cosa che contraddice il principio, perché Porcile è parlato in poesia. Ora la poesia si può tradurre, idealmente, non sempre perfettamente bene, ma ci si può sempre approssimare ad una traduzione fedele della poesia. Una traduzione, ma non un riassunto che tradirebbe, non dico la bellezza estetica della poesia, ma il senso del dialogo. Perché dire: “Sempre caro mi fu quest’ermo colle” oppure “questo colle mi piace”… Nelle didascalie dovrei riassumere così. E allora, in francese, ho voluto che Porcile fosse doppiato in francese, facendo la traduzione dei versi in francese.

Léaud, Clementi… si doppiano loro stessi?
In questo caso… vede le disgraziate condizioni del cinema… Jean-Pierre Léaud, in quel momento, era partito per paesi ignoti. È stato irreperibile, quando è stato reperito, era malato, in stato da non potersi doppiare. Il film doveva essere pronto perché aveva la data d’uscita, così ho dovuto prendere un altro che l’ha doppiato benissimo. Cioè ha aggiunto al personaggio, quel tanto di inesplicabile, di ambiguo, di misterioso, che attraverso la verità non avrei potuto raggiungere, in questo caso, in altri casi no. Se io faccio un film d’interviste, in questo caso sarebbe proprio una follia doppiare. In questo caso, allora la realtà coincide con lo stile, in altri casi la realtà non coincide con lo stile.

Non so, come arrivano a doppiare i film di Godard, per esempio?
In questo caso… Lei mi fa il caso che dà ragione alla sua regola. Sì, ma infatti Godard parte con l’idea di fare un film in presa diretta, cioè fa parte della sua estetica, della sua poetica, questo. Allora lui tradirebbe la sua poetica se non facesse questo. Capito? Ma non è la mia. Per esempio ho visto dei film giapponesi, il cui doppiaggio era orrido, per esempio mi ricordo (ma si tratta di orrendi doppiaggi) I racconti della luna pallida d’agosto, era una cosa inaudita, ma perché erano orribili doppiaggi. Si sarebbe potuto fare dei doppiaggi dignitosi.

Ma non la disturba vedere un giapponese e sentir parlare in italiano?
Tra i due disturbi, sono meno disturbato a sentire un buon doppiaggio. Intendiamo, un cattivo doppiaggio mi disturba sì, ma insomma… Un buon doppiaggio mi disturba meno che i sottotitoli, perché i sottotitoli deturpano l’immagine. Ora io, quando concepisco un’immagine, scelgo una inquadratura, sto lì mezz’ora a tormentare l’operatore di macchina, mi raccomando: “Tenga l’immagine a quel punto là, la metta a posto, così”. Poi mi vedo un sottotitolo che me la copre tutta. E una cosa orribile, insopportabile, non li sopporto i sottotitoli, io. Tra i due mali preferisco dire: va be’, questo doppiaggio non corrisponde alla realtà… mi rendo conto di questo, e supero. Invece il sottotitolo deturpa l’immagine, non c’è niente da fare, cambia il senso dell’immagine.

(1970)

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.