Sopravvivere
di Bruno Bettelheim
Non sono stato indotto a parlare diffusamente del film Pasqualino settebellezze dall’opera in sé, quanto dal favore quasi universale con cui fu accolto in questo paese e da ciò che questo può dirci sulle nostre reazioni, oggi, di fronte al problema della sopravvivenza ai campi di concentramento. Nello stesso senso mi era parso importante, diciotto anni fa, analizzare Il diario di Anna Frank per quello che, il modo come fu accolto, rivelava allora sulle reazioni del pubblico allo sterminio degli ebrei d’Europa.
“Sopravvivere! Non importa come. Sopravvivere è quello che conta!” oppure “Che senso ha sopravvivere?” Quale dei due è il messaggio, vitalistico o nichilista, del film di Lina Wertmüller Pasqualino settebellezze? O viene data pari importanza a entrambi? Se è giusta la seconda ipotesi, allora il film ci vuole prendere in giro, noi, il pubblico, che veniamo tirati prima in una direzione e poi nell’altra, mentre il ridicolo si trasforma in orrore, e l’atroce diventa una farsa.
Nell’assistere a quest’opera contraddittoria, grottescamente violenta, profondamente inquietante, ci si sente presi dalle sue scene terrificanti come da quelle di una comicità morbosa, ma soprattutto da quelle che sono l’una e l’altra cosa contemporaneamente. È un film che fa trattenere il fiato; non ultimo perché tratta del problema della sopravvivenza. E mentre i sopravvissuti dei campi di concentramento e di sterminio della Germania di Hitler vanno via via morendo, tutti noi viviamo ancora sotto lo spettro di Auschwitz e di Hiroshima, di bombe atomiche e genocidi, di campi di concentramento nelle versioni tedesche e sovietiche.
Pasqualino, un piccolo truffatore, è l’antieroe del film. È talmente privo di qualunque consapevolezza di sé e dell’epoca in cui vive che, come non capisce come venga spinto al delitto per i più risibili motivi personali, così in seguito gli mancherà qualunque comprensione dei motivi politici per cui diventa a sua volta vittima inerme di altri assassini. Si illude di sapere perché ha ucciso: per difendere il suo onore e quello della sua famiglia; anche se in realtà non gliene importa nulla dei suoi familiari e quelli sarebbero felicissimi, in realtà più felici, senza questo cosiddetto “onore”. Pasqualino fa lo spaccone, è prepotente e senza scrupoli quando pensa di avere la meglio, ma diventa un vigliacco quando è il più debole.
Uccide per tenere alto quel poco di credito che si attribuisce nella sua qualità di piccolo mafioso; ma quando uccide viola persino il codice d’onore della mafia, che richiede di concedere al rivale la possibilità simbolica di difendersi prima di essere ammazzato. Non si fa scrupolo di violentare una donna assolutamente inerme quando è sicuro di farla franca, e non esita a offrirsi sessualmente se pensa che questo lo aiuterà a salvargli la pelle. Ed è un individuo del genere che ci viene proposto come l’archetipo della capacità di sopravvivenza, come immagine di tutti noi.
Quale significato possiamo trovare in questo film e nell’accoglienza che ha ricevuto? Ogni generazione deve fare i conti con la sua storia. La parte più difficile consiste nel venire a patti con gli eventi traumatici di tale storia, che per la generazione attuale sono rappresentati dalla guerra del Vietnam e dalle sue conseguenze. In qualche modo, però, ciascuna generazione deve anche padroneggiare i problemi fondamentali della vita dei padri; e per la generazione dei padri gli eventi traumatici furono la seconda guerra mondiale e la dimensione dei campi di concentramento. (Non che questa manchi nel mondo di oggi.)
Anche se il metodo non funziona mai, il modo più facile per affrontare il mondo dei nostri genitori consiste nel non affrontarlo affatto, per esempio abituandosi all’indifferenza nei suoi confronti, adottando l’atteggiamento che bisogna vivere la propria vita senza occuparsi di quello che sconvolse la vita dei nostri genitori. Perciò i giovani di Israele non vogliono sentire parlare dell’olocausto; non trovano giusto dover portare il fardello dei padri oltre che il proprio.
Trent’anni sono molti, è vero, ma dobbiamo concludere per questo che l’abominio di ieri, l’indicibile orrore di ieri, sia diventato oggi argomento idoneo a farne una farsa? E se così è, che cosa dice questo fatto, a noi, che oggi osserviamo e ieri eravamo partecipi, a noi che lo accettiamo?
Una cosa è non voler sentire parlare dei campi di concentramento; ma è ben diverso usarne uno per ambientarvi una sorta di “commedia da camera della morte” (secondo l’appropriata definizione di Time). Proprio per il fatto di essere una commedia macabra, una grottesca commedia nera, Pasqualino settebellezze riesce a neutralizzare l’orrore, che viene strumentalizzato allora, pur essendo chiaramente descritto, per contrapposizione, come il frisson che fa scattare la comicità.
Un sopravvissuto ai campi di concentramento non è certo la persona più adatta per apprezzare “l’acre umorismo” (come ha definito un critico lo stato d’animo del film) che ci fa vedere prigionieri che vengono impiccati o si impiccano per disperazione, che soffocano nella melma di feci di una latrina scoperta, che vengono in vari modi massacrati; o l’“accattivante… scalcagnato, trasparente fascino” (stesso critico) dello stupratore che, fingendosi innamorato del feroce comandante del campo, una donna, viene promosso a Kapo, caposquadra dei prigionieri, e che, dopo un solo attimo di esitazione, sceglie sei compagni a caso da far uccidere in adempimento ai termini del patto stretto con la donna.
I vecchi non hanno certo il diritto di richiamarsi ai loro ormai antiquati principi e di imporli a quanti della nuova generazione ritengono di dovere interpretare il passato non con i criteri del passato bensì con i propri. E poi, perché rovinare tutto il divertimento a coloro per i quali le camere a gas sono una favola lontana, che si ricorda vagamente ed è meglio dimenticare?
Queste considerazioni mi avrebbero spinto a tacere, se non fossi stato convinto che questo film, e, quel che più conta, le reazioni di massima del pubblico, danno dell’esperienza dei sopravvissuti un’interpretazione falsa, dal punto di vista del passato come del presente.
A suo modo Pasqualino settebellezze è un’opera d’arte, e l’artista ha tutto il diritto (anzi, il dovere in quanto artista) di dare corpo alla sua visione del mondo. Questo ci dà modo di rispondere, positivamente o negativamente, alla sua visione e quindi di arricchire la nostra comprensione e affinare la nostra consapevolezza della condizione umana, che è poi la condizione di ciascuno di noi.
Se per raggiungere il suo scopo espressivo l’artista usa l’ironia, ci presenta la sua visione come in uno specchio deformante, e questo ci fa vedere cose che altrimenti ci sarebbero sfuggite, e ci obbliga a reagire a cose che avremmo preferito ignorare.
Il film della Wertmüller è dunque un film che usa un’ironia beffarda per arricchire la nostra consapevolezza? O è un film d’evasione, che usa uno scenario orripilante per coinvolgerci in una corsa mozzafiato e farci credere, alla fine, proprio per l’intensità delle emozioni provate, di avere aumentato la nostra consapevolezza?
Se il film va inteso come puro divertimento, devo dichiarare il mio disgusto a vedere usate le atrocità del genocidio, delle torture e della degradazione dei campi di concentramento come una forma particolare e particolarmente macabra di titillamento. Ma io credo che la regista, Lina Wertmüller, volesse dire ben di più, anche se in certi momenti si è lasciata prendere la mano dalle occasioni di macabra comicità che la storia offriva.
In base a questo come agli altri suoi film, credo che il suo atteggiamento verso l’arte e verso le sue idee circa la vita, la politica, gli esseri umani e il rapporto tra sesso e politica sia serio.
Credo anche che Pasqualino settebellezze voglia rappresentare una giustificazione, alquanto imbarazzata, indiretta, camuffata (e perciò più pericolosa perché più facilmente accolta e quindi più efficace), per avere accettato e continuare ad accettare il mondo che ha prodotto i campi di concentramento; e offra quindi un’autogiustificazione a coloro che con maggiore o minore prontezza accettarono il mondo dei campi di concentramento e ne trassero vantaggi.
Ma costituisce anche un’autogiustificazione per coloro che oggi non intendono prendere in considerazione i problemi che quel mondo ha proposto e si accontentano invece della facile soluzione di una sopravvivenza totalmente vuota; un’autogiustificazione per coloro che cercano di evadere i problemi del mondo presente, di cui i campi di concentramento nella versione sovietica sono ancora parte integrante, e che non hanno voglia di affrontare il difficile problema di trovare alternative a un mondo del genere.
Ci sono stati giudizi negativi, come quelli di Pauline Kael, sul New Yorker, e di Russell Baker, sul New York Times; ma, come rileva giustamente Baker, il film “è stato recensito estaticamente dai critici cinematografici di New York” (compreso Vincent Camby, del Times). John Simon, in una lunga recensione su New York, lo ha definito “un capolavoro”, e Time e Newsweek gli hanno dedicato recensioni entusiastiche.
Hanno avuto questa reazione non soltanto i critici, ma anche, a quanto mi consta, la grande maggioranza degli spettatori. E, soprattutto, il film ha contribuito a plasmare le opinioni della gente su questioni di cui prima non sapeva molto, compreso il problema importantissimo del significato della sopravvivenza.
Questo è da solo un motivo sufficiente per prendere in seria considerazione il film, indipendentemente dai motivi che può avere avuto la Wertmüller nel farlo (offrire un discutibile divertimento, giustificare l’accettazione del fascismo, o stimolare una più profonda riflessione sul mondo in cui viviamo).
L’accoglienza sostanzialmente positiva che ha ricevuto questo film mi fa pensare che, una generazione dopo i processi di Norimberga, qualunque maniera di accettare il fascismo e di sopravvivere sotto un regime fascista sia divenuta accettabile, e non solo in Italia (dove i motivi di tale accettazione sono facilmente comprensibili), ma anche negli Stati Uniti.
Personalmente, tuttavia, sono preoccupato in pari misura sia dalle accoglienze acriticamente entusiastiche, che sono la stragrande maggioranza, sia dalle rare stroncature, che tendono tutte, a mio avviso, a liquidare con pericolosa leggerezza il film e quindi le reazioni che ha suscitato.
Recensendo sulla New York Review of Books gli ultimi film della Wertmüller in un articolo intitolato “Una gran confusione”, Michael Wood le attribuisce “un’eccezionale intelligenza visiva accompagnata da una grande confusione di idee”. E indubbiamente Pasqualino settebellezze è un film confuso, o comunque che confonde. Ma allora, come spiegare l’accoglienza dei critici, e le reazioni del pubblico? Dobbiamo supporre che quelli a cui è piaciuto soffrono di un’analoga confusione mentale? Non è escluso.
È azzardato inferire le condizioni mentali della regista dai suoi film e quelle degli spettatori dalle loro reazioni, ma la mia impressione è che tale confusione possa essere la conseguenza del fatto che la Wertmüller, mentre vuole esprimere certi valori, idee e atteggiamenti che consciamente professa, contemporaneamente ne esprime degli altri, che sono precisamente l’opposto, perché il suo inconscio ha preso il sopravvento.
Per esempio, sono sicuro che a livello di coscienza la Wertmüller rifiuta il fascismo, il maschilismo, e il mondo dei campi di concentramento, ma a livello inconscio è affascinata dal potere che detengono, dalla loro brutalità e amoralità: dallo stupro che fanno dell’uomo.
In Pasqualino settebellezze gli orrori del campo di concentramento, e tutto quello che rappresentano, sono chiaramente parte di quel fascino. Consciamente la Wertmüller vorrebbe credere nella bontà dell’uomo, simboleggiata dall’anarchico Pedro, dall’apolitico Francesco, e dal socialista che vediamo avviarsi a scontare ventotto anni di carcere per aver creduto nella libertà e nella dignità dell’uomo, ma inconsciamente li mette in ridicolo tutti e tre per la loro inefficienza. La bontà è debole, non ha successo; solo il male trionfa.
Il fascino che la violazione dell’essere umano esercita sulla regista si esprime con particolare chiarezza nelle due scene che sono essenzialmente scene di stupro, lo stupro da parte del protagonista, in manicomio, nei confronti di una povera pazza legata, e quello da parte dell’odiosa comandante del campo, che impone una prestazione sessuale a Pasqualino pena la morte.
Nessuno che non sia ossessionato dallo stupro si dilungherebbe su scene del genere o ne farebbe addirittura il pezzo forte del film. La violenza agita e poi subita da Pasqualino ci dà l’impressione che quello sia l’unico modo per sopravvivere. Se la sopravvivenza giustifica lo stupro in entrambe le sue forme, attiva e passiva, allora giustifica praticamente qualunque tipo di malvagità.
Quello che mi preoccupa non è tanto l’attrazione del film per il mondo dei campi di concentramento, quanto il fatto che quel film affascina tanti membri dell’élite culturale americana. Un fascino che si esprime anche nel fatto che i memoriali scritti da uno dei criminali nazisti processati a Norimberga, Albert Speer, siano dei bestseller non solo in Germania ma anche negli Stati Uniti, come pure le varie biografie che mettono Hitler in una luce favorevole.
Nulla potrebbe essere più pericoloso dell’eventualità che la delusione per le evidenti carenze del mondo libero e della vita democratica investa di fascino il mondo del totalitarismo: da un simile fascino all’accettazione cosciente il passo è purtroppo breve.
Mentre riflettevo sul film della Wertmüller, mi sono tornate in mente le reazioni del pubblico all’opera di Rolf Hochhuth, II vicario, che affronta con serietà il mondo dei campi di concentramento e i problemi morali che esso pone, gli stessi che Pasqualino mette in caricatura.
Vidi II vicario sia negli Stati Uniti sia in Germania. Negli Stati Uniti il pubblico rimase molto colpito dal dramma di Hochhuth, e usci dal teatro con la convinzione che l’unica presa di posizione moralmente ammissibile fosse quella del protagonista: opporsi fermamente al male, anche a rischio della vita, anche se poi nella realtà ci si lascia prendere dall’angoscia e non si riesce a comportarsi secondo una morale così rigorosa.
Di fronte al Papa, che si sottrae alla sua responsabilità di condannare pubblicamente il genocidio, il pubblico americano ebbe una reazione di disgusto, di tristezza o di scoramento. Le reazioni che osservai in Germania nei confronti di questa commedia furono completamente diverse: il pubblico accolse con un senso di sollievo quello che considerava il suo messaggio. Tutti si sentirono completa mente assolti.
Perché dimostrava, secondo loro, che chi aveva cercato di combattere il male trovava la morte, e che persino il Pontefice era consenziente; quindi loro avevano fatto bene a ignorare i campi di concentramento che pure avevano davanti agli occhi. Era facile rilevare queste reazioni dai commenti degli spettatori, che venivano fatti ad alta voce, per rassicurarsi a vicenda, tanto era importante per ciascuno confermarsi questa interpretazione.
Quello che dicevano in sostanza era questo: “La commedia dimostra che sarebbe stato inutile preoccuparsi dei campi di concentramento, perché non sarebbe comunque servito a niente; neppure il Papa poté fare nulla. Si sarebbe rischiato la vita stupidamente.” E questo benché il messaggio della commedia fosse in realtà che il Papa, e altri, avrebbero dovuto e potuto fare qualcosa per arrestare l’avanzata del male.
Trovo profondamente preoccupante che le reazioni del pubblico americano a un film come Pasqualino settebellezze siano tanto simili a quelle degli spettatori tedeschi de II vicario. Che sia stato accettato con tanta prontezza l’assunto, falso, che per sopravvivere nei campi di concentramento bisognasse comportarsi come dei vermi, come fa Pasqualino nel film, quando in realtà era vero il contrario: anche se la fedeltà a principi morali non garantiva la sopravvivenza (ma non c’era nulla che la potesse garantire, e la maggior parte dei prigionieri morì, pure essa costituiva uno strumento importante per sopravvivere.
Perciò l’aspetto preoccupante di questo film non riguarda le intenzioni della Wertmüller nel farlo (e neppure la dimostrazione, rassicurante per i suoi connazionali, che l’opposizione al fascismo, anche se nobile, sarebbe stata stupida perché non sarebbe servita a nulla), bensì il fatto che esso giustifica il male insinuando la comoda convinzione che nulla avrebbe cambiato le cose allora, e quindi, implicitamente, che nulla potrebbe cambiarle oggi.
Soprattutto preoccupanti sono le reazioni degli spettatori: come la loro visione del mondo dei campi di concentramento, del fascismo, e dei sopravvissuti all’olocausto, sia influenzata, formata, da questo film.
Come exprigioniero dei campi di concentramento, e come uno dei pochissimi fortunati che si salvarono, non posso certo dichiarare un atteggiamento di disinteressata obiettività di fronte agli interrogativi che il film solleva. Avendo dovuto lottare con il problema della sopravvivenza, non posso rimanere indifferente alle idee che il film rappresenta, tanto più che le rappresenta con tanta efficacia.
Quali che siano state le intenzioni della Wertmüller, il suo film tratta dei problemi più importanti del nostro tempo, di tutti i tempi: la sopravvivenza; il bene e il male; l’atteggiamento dell’uomo nei confronti di una vita dove bene e male coesistono fianco a fianco, e dove la religione non costituisce più una guida per risolvere questo dualismo.
La scomparsa Hannah Arendt, nel suo libro sul processo Eichmann e sui campi di concentramento, mise in rilievo la assoluta banalità del male. Io condivido la sua idea. Ma quello che dobbiamo ricordare è che il male è male, e non dobbiamo permettere che la sua banalità oscuri questo dato di fatto, come fa il film della Wertmüller, il cui personaggio principale è la banalità fatta persona.
Non che nel film il male sia ignorato; anzi. Non sarebbe stato possibile ignorarlo nelle scene sul campo di concentramento: ne saremmo rimasti disgustati, e il film avrebbe perduto la sua efficacia. Piuttosto, del male ci viene presentato l’aspetto di insensata banalità, con grande efficacia, e sempre inestricabilmente mescolato con l’elemento comico, sicché di fatto il male finisce per perdere quasi tutta la sua capacità di impressionare lo spettatore.
Mentre ci vengono rappresentati in modo apparentemente esplicito gli orrori della guerra, del fascismo e del campo di concentramento, sotto sotto essi vengono abilmente negati, perché quella a cui assistiamo è una farsa recitata in un obitorio, e inoltre, perché alla fine l’unica cosa che conta è la sopravvivenza nonostante l’esistenza del male e attraverso il male che viene commesso, indipendentemente dalla forma che il male o la sopravvivenza assumono.
In Pasqualino settebellezze, tutti i personaggi che sono buoni, che hanno una dignità umana, muoiono. Questo fatto in sé non invaliderebbe l’immagine del mondo che il film ci presenta. Sappiamo tutti che nella vita vera spesso hanno la meglio i tipi come Pasqualino, che non esitano ad approfittarsi degli altri, che si preoccupano esclusivamente dei loro meschini interessi, e rimangono indifferenti al problema del bene e del male.
Sappiamo bene che spesso i buoni falliscono, vengono sfruttati, muoiono. Ma in questo film ci viene data l’impressione che la dignità umana sia una ciarlataneria, perché quando la incontriamo nel film, e ne siamo presi, ecco che subito ci viene dato a intendere che sia insensata. E non perché i personaggi che agiscono in modo dignitoso vengono uccisi o si uccidono, ma perché la loro morte è contornata di ridicolo
Fin dalle prime inquadrature il film ci mette davanti il bene e il male, ma in un modo che ci rende impossibile sia l’identificazione con il bene, sia il rifiuto del male. Il racconto è preceduto da una serie di spezzoni documentari dell’epoca: adunate, marce, Mussolini che esorta le masse, Mussolini che stringe la mano a Hitler; la guerra, i bombardamenti, città rase al suolo, gente che rimane uccisa o mutilata.
Queste immagini orripilanti sono però accompagnate da un divertente motivetto da cabaret. Mussolini e Hitler sono a loro volta presentati come personaggi vagamente comici, grazie all’accompagnamento musicale, in cui vengono accettate nello stesso tempo tutte le contraddizioni della vita.
La canzone dice “Oh, yes!” a chi “non ha mai avuto un incidente mortale” come a chi “ce l’ha avuto”. E benché le parole della canzone di solito esprimano un mordace rifiuto del mondo fascista che vediamo sullo schermo, sono anche divertenti, e questa qualità si sovrappone all’altra e la smorza e la cancella.
Ci viene mostrato Mussolini in tutta la sua pomposità, e Hitler coi suoi ridicoli baffetti, mentre la canzone annuncia: “Quelli che bisognava fucilare nella culla, pum! Oh yes.” E poi: “Quelli che dicono seguimi fino alla vittoria, ma se perdo uccidimi, si fa per dire, oh yes… Quelli che dicono noi italiani siamo gli uomini più virili del mondo, oh yes.” L’effetto è comico più che drammatico, e le scene di guerra e di distruzione perdono gran parte della loro forza. E Mussolini e Hitler sono così pomposi che non si riesce a prenderli sul serio.
Hitler ci viene presentato come l’omino dai ridicoli baffetti, come nel Grande Dittatore, di Chaplin. Ma il film di Chaplin venne prima di Auschwitz e di Treblinka, Chaplin ci fece ridere di quello che avremmo dovuto prendere estremamente sul serio; ridere di Hitler era un modo di convivere con lui, ma il più pericoloso, il più distruttivo.
Proprio perché tanti pensarono che le idee esposte nei suoi discorsi da megalomane non meritavano di essere prese sul serio, gli riuscì di mandare in pezzi il nostro mondo.
Proprio perché ridevamo di quel ridicolo omino con i suoi ridicoli baffetti, fummo colti impreparati; se l’avessimo preso sul serio, forse molti si sarebbero potuti salvare. Il riso può essere liberatorio, ma quando si versa in grave pericolo può anche indurre un falso senso di sicurezza.
I documentari di Pasqualino settebellezze con la colonna musicale che li accompagna ci riportano all’epoca in cui credevamo non fosse necessario prendere sul serio Hitler e Mussolini, mentre, nello stesso tempo, le scene di guerra ci mostrano che cosa è successo per il fatto di non averli presi seriamente.
La stessa contraddizione pervade tutto il film. Viviamo dunque in un’epoca in cui ci possiamo permettere di ridere degli individui che furono responsabili della morte di milioni di esseri umani?
L’ironia del film, le sue scene farsesche, le sue contraddizioni ci impediscono di prendere sul serio il mondo dei campi di concentramento che ci viene presentato con particolari così orripilanti.
Time afferma che il film è “liberatorio”. In effetti, facendoci ridere davanti alla rappresentazione del fascismo, dei campi di concentramento, dell’olocausto, ci indica un modo possibile di liberarci di questo fardello, che è qualcosa che molti desiderano, soprattutto quelli che stavano bene sotto il fascismo, e quelli che non hanno voglia di ricordare.
Ma si tratta di una liberazione che arricchisce la vita o che la degrada? Il film della Wertmüller sembra propendere per la seconda ipotesi: alla fine il protagonista, il sopravvissuto per eccellenza, rimane come un guscio vuoto. Pasqualino non è una persona a cui le esperienze hanno dato spessore; la comprensione, la pietà, la capacità di provare rimorso, tutte qualità che gli mancavano prima, continuano a essergli estranee anche dopo, nonostante le esperienze che hanno sconvolto il mondo e che ci si attende dovessero cambiarlo radicalmente. È questo modo di dipingere chi è sopravvissuto che toglie ogni significato alla sopravvivenza. Che fa sembrare un’esperienza degradante assistere a questo film.
La storia ha inizio con due disertori italiani, Pasqualino e Francesco, che si incontrano per caso in una foresta della Germania. Pasqualino, che ha a cuore soltanto il proprio vantaggio personale, si è messo indosso le bende strappate a un soldato morto, e così, fingendosi gravemente ferito, è riuscito a scappare.
Anche Francesco, che ha salvato i suoi uomini dall’essere spediti a Stalingrado procurando loro degli autocarri su cui fuggire, deve nascondersi per evitare la corte marziale. I due assistono di lontano alla fucilazione di un gruppo di ebrei da parte di soldati tedeschi. A questa vista Francesco si mette a parlare dei suoi sensi di colpa per essersi reso complice del fascismo invece di combatterlo.
Pasqualino ribatte che opporsi sarebbe stato un inutile suicidio. Francesco insiste che non sarebbe stato inutile, e che egli avrebbe dovuto assumersene tutti i rischi. Si accusa di avere ucciso senza motivo durante la guerra uomini innocenti che neppure conosceva. A questo Pasqualino risponde confidando al compagno di avere a sua volta ucciso, ma con un motivo.
La scena si sposta nella Napoli anteguerra, dove assistiamo all’omicidio. Vediamo Concettina, la sorella di Pasqualino, una ragazza incredibilmente grassa, coprirsi di ridicolo come sciantosa in un locale dei più squallidi, e vedremo presto Pasqualino stesso coprirsi di ridicolo nell’esecuzione dell’assassinio di Totonno, e quindi nell’occultamento del cadavere. Totonno è il protettore di Concettina, che l’ha spinta alla prostituzione con la promessa di sposarla (così almeno sostiene la ragazza per placare l’iirato fratello: in realtà era stata ben felice di scambiare lo squallore della sua vita in fabbrica con la carriera di puttana).
Pasqualino insulta la sorella, poi spara a Totonno mezzo addormentato. Commette l’omicidio ostensibilmente per vendicare l’onore della famiglia, in realtà per mettersi in buona luce agli occhi di Don Raffaele, il suo capo mafioso, che però lo disprezza. Don Raffaele ordina a Pasqualino di occultare il cadavere, cosa che il nostro fa nel modo più maldestro.
Tutto questo allo scopo di conservarsi la protezione del capomafia e poter continuare la sua comoda vita, basata sullo sfruttamento della madre, una donna che ha passato la vita lavorando, e che lo adora, perché è l’unico figlio maschio, e delle sue sette grasse e brutte sorelle, le “sette bellezze” del titolo.
Nelle figure di Francesco e di Pasqualino si contrappongono non solo il bene e il male, ma anche il senso di colpa derivante dall’incapacità di fare le proprie scelte, e l’assenza di rimorso persino di fronte alla brutalità dell’assassinio. Il senso di colpa di Francesco per essere stato consenziente di fronte al fascismo viene contrapposto nettamente alla noncurante accettazione di Pasqualino.
Sostenendo pomposamente, come faceva Mussolini, che è giusto uccidere per farsi rispettare, Pasqualino nega qualunque ragione per sentirsi in colpa. Ma essere capaci di preferire il bene al male e di provare rimorso per non avere attuato questa scelta è indispensabile sia per conservare intatta la nostra umanità sia per dare un senso alla sopravvivenza, e nel film il problema della scelta e della colpa viene riproposto più volte, soprattutto nella contrapposizione tra Francesco e Pasqualino.
Nell’ultima decisiva scena tra i due, nel campo di concentramento, Francesco biasima il comportamento dell’amico, che manda a morte gli altri per salvare se stesso, e alla fine Pasqualino gli spara. In Francesco viene rappresentata la problematica fondamentale del sopravvissuto: il senso di colpa, che deriva dalla consapevolezza che non bisogna accettare supinamente i mali di un mondo di campi di concentramento, che non bisogna comperarsi la vita a prezzo di quella degli altri, anche se la paura può indurre ad agire in contrasto con tale consapevolezza.
Pasqualino non è toccato dai sensi di colpa, e uccide per accrescere il proprio prestigio, manda altri a morire, si lascia violentare per salvare la pelle. Ed è in questo modo che riesce a sopravvivere. O, almeno, così siamo indotti a credere.
Il fascino pericoloso di questo film risiede appunto nel fatto che, mentre presenta chiaramente la problematica del sopravvissuto, nello stesso tempo ne nega la validità. Grazie all’abilità con cui è costruito il film, tale problematica viene fatta apparire insensata, perché quello che conta è sopravvivere, e niente altro.
Non si tratta solo del fatto che Pasqualino settebellezze nega l’importanza decisiva che ha per la sopravvivenza risolvere il problema della colpa, quanto del fatto che sostiene una falsità quando afferma che sopravvivere è l’unica cosa che conti, a qualunque prezzo, come se colpa e sopravvivenza non fossero inestricabilmente legate.
Quando uscì Pasqualino settebellezze a New York, raccogliendo un così vasto successo, venivano pubblicati su riviste dal più diverso orientamento, come Harper’s, Dissent e Moment, lunghi brani di un nuovo libro sui campi di concentramento, The Survivor, scritto da Terrence Des Pres, docente di letteratura inglese alla Colgate University.
Questa è un’altra indicazione di come esista oggi tutta una nuova generazione di persone che cerca di assimilare su basi sue proprie quello che veniva definito il mondo dei campi di concentramento.
L’interesse per i milioni di esseri umani sterminati sotto il nazismo è oggi scaduto; sono stati dimenticati, non contano più. E forse è un atteggiamento inevitabile; dopotutto, abbiamo a che fare con i vivi, non con i morti. Ma le cose sono diverse, a mio avviso, quando le atrocità dei campi di concentramento vengono strumentalizzate e la loro storia viene mistificata allo scopo di diffondere un discutibile messaggio: che quello che conta è la sopravvivenza, non importa come, perché, a quale scopo.
Il corollario implicito è che sia sbagliato e sciocco sentirsi in colpa per quello che abbiamo potuto fare per sopravvivere a una simile esperienza. Per vie completamente diverse, Des Pres e la Wertmüller arrivano a conclusioni parallele circa i requisiti necessari per sopravvivere in un mondo dominato dai campi di concentramento o minacciato dal loro spettro.
Secondo lo scrittore come secondo la regista, la lezione da imparare per sopravvivere è che l’unica cosa che conta è la vita nella sua forma più cruda, puramente biologica.
Presentare un piccolo segmento di verità sostenendo che sia tutta la verità può costituire una distorsione molto più grave di una esplicita menzogna. È molto più facile riconoscere la distorsione della menzogna, perché le nostre facoltà critiche non sono messe in condizioni di credulità dall’aver ricevuto una piccola dose di verità.
Per rendere ben accette le loro interpretazioni distorte di ciò che comporta la sopravvivenza, la regista e lo scrittore intessono miti ingannevoli intorno all’assioma che bisogna continuare a vivere. Ma dire quello che tutti sanno e nessuno si è mai sognato di mettere in dubbio non è una giustificazione sufficiente per fare un film o scrivere un libro sulla sopravvivenza nel mondo dei campi di concentramento. Non basta limitarsi a dire che per sopravvivere bisogna rimanere in vita.
Bisogna indicare che cosa occorre ancora: che cosa bisogna essere, che cosa bisogna fare; quali sentimenti e quali atteggiamenti costituiscono le condizioni necessarie per riuscire a sopravvivere in una situazione come quella del campo di concentramento.
Il frammento di verità significativa contenuto nell’assioma che la sopravvivenza consiste nel continuare a vivere è che per continuare a vivere in un campo di concentramento occorre avere una grande forza di volontà. Chi si abbandonava alla disperazione sempre in agguato e lasciava spegnere la voglia di vivere, era perduto.
Ma Terrence Des Pres e Lina Wertmüller vanno ben oltre questa formulazione. Des Pres afferma che la lezione da imparare da questa esperienza è che sia nostro dovere di uomini “abbracciare la vita senza riserve”, il che comporta, per definizione, di abbandonare qualunque riserva, anche quelle che fino a quel momento avevano dato senso alla vita stessa.
Des Pres ci porta a questa conclusione categorica dicendo che dobbiamo “vivere al di là delle coazioni della cultura” e secondo “le primordiali esigenze del corpo”. Il film della. Wertmüller presta forma visiva ed espressione simbolica a questi principi. Pasqualino è un individuo che abbraccia la vita .senza riserve; infatti accetta senza scomporsi il fascismo, l’assassinio, lo stupro.
Che vive al di là delle coazioni della cultura; infatti violenta una paziente psichiatrica che non può difendersi perché è legata, e per salvarsi la vita consegna alla morte i compagni di prigionia. E che vive secondo le più primordiali esigenze del corpo, tant’è vero che riesce ad avere un’erezione durante il rapporto con una spietata assassina.
La lezione è resa più efficace dal collegamento diretto e immediato con la vicenda di Pedro e di Francesco, che muoiono proprio perché trascendono la primordiale esigenza del corpo di continuare a vivere non importa a quale prezzo; proprio perché si mantengono fedeli a principi morali fondamentali, che, se si vuole negare l’importanza della coscienza morale, possono effettivamente essere considerati “coazioni della cultura”.
La realtà del campo di concentramento è esattamente il contrario di quella descritta nel libro e nel film che stiamo analizzando. Quelli che nei campi di concentramento avevano le maggiori (se pur minime) probabilità di sopravvivenza erano gli individui come Pedro e come Francesco: le persone che cercavano per quanto possibile di continuare a vivere in base alle coazioni della cultura, come le definisce Terrence Des Pres, e che, nonostante le schiaccianti primordiali esigenze del corpo, in una situazione di sfinimento e di denutrizione, cercarono tuttavia di imporre qualche limitazione, in nome dei loro principi etici, a tali primitive esigenze.
Quelli che, al pari di Pasqualino, fecero causa comune con il nemico, con la direzione del campo, sacrificando la vita di altri per ottenere miserabili vantaggi, non ebbero molte probabilità di sopravvivere.
Per sopravvivere, i prigionieri dovevano aiutarsi l’un l’altro. Nel film della Wertmüller questo non si vede, eppure si trattava di una realtà così evidente, che Des Pres ne cita parecchi esempi: prigionieri che dividevano con i compagni qualche tozzo di pane, che eseguivano lavori pesanti che altri non erano più in grado di svolgere, che proteggevano un compagno a rischio della propria vita.
Ma poi stravolge le motivazioni di questi gesti. È vero che taluni prigionieri vivevano in base ai principi formulati da Des Pres, ed espressi visivamente dal film della Wertmüller. Ad essi si riferisce una delle massime diffuse nei campi di concentramento: “Il peggior nemico di un prigioniero sono gli altri prigionieri.” Ma non nel senso che quei prigionieri fossero più crudeli e malvagi delle SS (anche se alcuni, pochi, lo erano, per mettersi in buona luce presso i loro aguzzini), bensì nel senso che solo con l’aiuto dei compagni si aveva qualche probabilità di sopravvivere.
Perciò i compagni o i capisquadra che non ci aiutavano ove possibile erano i nostri peggiori nemici, perché da loro si aveva il diritto di aspettarsi qualche solidarietà.
Pertanto, anche se non è conforme alla realtà più diffusa del campo di concentramento, il suicidio di Pedro come diretta conseguenza del tradimento di Pasqualino possiede una sua verità psicologica. Lo stesso vale per la reazione di Francesco, che provoca le SS invitando i compagni a ribellarsi. A livello emotivo, la delusione provocata dai compagni di prigionia era molto difficile da sopportare, perché dai compagni ci si aspettava di più e di meglio che non dalle guardie, la cui bassezza si imparava a dare per scontata, per quanto intenso fosse l’odio che sempre suscitava.
Di fatto, quasi tutti i prigionieri, in quasi tutte le occasioni, facevano causa comune contro le SS. In molte occasioni, i prigionieri si aiutavano l’un l’altro in tante piccole cose, che, data la situazione disperata, assumevano un’importanza enorme. Aiutandosi reciprocamente, i prigionieri non vivevano secondo “le primordiali esigenze del corpo”, né “al di là delle coazioni della cultura”, e tanto meno “abbracciavano la vita senza riserve”. Al contrario, questo modo d’agire, lungi dal rendere più facile la vita, di fatto la metteva a repentaglio.
Le idee che la Wertmüller e Des Pres ci propongono come principi guida della sopravvivenza erano semmai quelle a cui si informava la vita dei nazisti, e in particolare delle SS. Erano i nazisti che sottoscrivevano al principio che bisogna “vivere al di là delle coazioni della cultura”, prova ne sia la famosa e infamante dichiarazione, “Quando sento la parola ‘cultura’, tiro fuori la pistola,” rilasciata per primo nientemeno che dal presidente dell’accademia tedesca di poesia, Hanns Johst, e poi ripresa da capi nazisti come Goebbels.
Con le loro dottrine razziste, che sottolineavano il primato del “puro sangue ariano”, i nazisti esaltavano appunto una vita “secondo le primordiali esigenze del corpo”.
In teoria si potrebbe anche affermare che la capacità di sopravvivenza dimostra appunto la validità dell’ideologia nazista: moltissimi nazisti e fascisti, infatti, sono sopravvissuti benissimo alla guerra. Ma è mia ferma convinzione che la sopravvivenza, se deve dimostrare qualcosa, non dimostri affatto la validità del fascismo.
E quando un così largo e significativo segmento della cultura ufficiale americana sembra tanto pronto ad accettare i principi fondamentali dell’ideologia nazista e a credere all’idea, suggerita in forma abilmente camuffata ma molto convincente nel film della Wertmüller e nel libro di Des Pres, che la realtà della sopravvivenza confermi la validità di tali principi, allora è necessario che un sopravvissuto prenda la parola per denunciare questa oltraggiosa distorsione dei fatti.
Il dato di fatto più duro da accettare riguardo ai campi di concentramento è che la sopravvivenza in essi ha ben poco a che vedere con quello che il prigioniero fa o evita di fare. Per la stragrande maggioranza delle vittime, la sopravvivenza dipende dall’eventualità di essere liberati o dalle autorità che governano i campi o, cosa molto più sicura e desiderabile, da forze esterne che eliminano il mondo dei campi di concentramento sconfiggendo il potere che li regge.
Neppure Solzenicyn, che dimostrò il più alto coraggio morale, la più eccezionale capacità di sopravvivere in condizioni indicibilmente atroci, al punto da diventare il simbolo di tutti i sopravvissuti, neppure lui sarebbe vivo se non fosse stato rilasciato dalle autorità del Gulag. Non avrebbe potuto parlare se non ci fosse stato, fuori, un mondo diverso da quello dei campi di concentramento, a fare pressioni perché gli fosse concessa la parola.
L’elemento che in Pasqualino settebellezze e nei brani citati del libro di Des Pres più distorce la realtà e induce in errore è la finzione che furono le azioni dei sopravvissuti a renderne possibile la sopravvivenza. Per il protagonista del film come per i prigionieri reali di cui parla Des Pres nel suo libro, fu la vittoria degli alleati (o, in certi casi, la sua imminenza) a salvargli la vita.
Finché la macchina statale e bellica dei nazisti non fu quasi completamente arrestata dai bombardamenti alleati e dalla sconfitta sul campo (soprattutto dopo Stalingrado), solo una dozzina dei molti milioni di prigionieri dei campi di concentramento erano riusciti a sopravvivere grazie al proprio coraggio, e per sopravvivere intendo fuggire dai campi senza farsi riprendere. Tutti gli altri, me compreso, sopravvissero perché la Gestapo decise di rilasciarli, solo per quello.
Se si vuole fare un discorso razionale sul problema della sopravvivenza, bisogna scinderlo in due componenti che hanno ben poco a che fare l’una con l’altra. La prima è la liberazione, e questa non dipende affatto dal prigioniero, bensì dall’arbitraria decisione dei suoi carcerieri, o da quella che a loro giudizio è una mossa politicamente vantaggiosa, o dalla loro sconfitta da parte di forze esterne.
La seconda consiste in quello che il prigioniero può fare per mantenersi in vita fino al momento in cui, per caso o per fortuna, viene liberato. Ma qualunque cosa faccia non serve a nulla se non verrà rimesso in libertà.
Il problema di quello che un uomo può fare in una situazione così oppressiva come quella del campo di concentramento è indubbiamente importante e affascinante e ci può insegnare molte cose sulla condizione umana; tuttavia non è molto pertinente al problema della sopravvivenza, se non teniamo sempre presente che la sopravvivenza richiede prima di tutto e soprattutto la distruzione del mondo dei campi di concentramento e una riorganizzazione della società che non permetta mai più il risorgere di un mondo del genere.
Anzi, qualunque discorso sulla sopravvivenza sarà sempre pericolosamente equivoco, se darà l’impressione che il problema principale sia quello che può fare il prigioniero, perché quello che ciascuno può fare è assolutamente insignificante a paragone della necessità di sconfiggere politicamente o militarmente le forze che mantegono in piedi i campi di concentramento.
Questa ingrata verità sull’impotenza dei prigionieri a sopravvivere se non vengono rilasciati viene completamente ignorata dal film e dal libro, che cercano di sostituirla con la comoda convinzione che essi riuscirono a sopravvivere grazie alle proprie azioni. Ed è questo che la gente vuole credere oggi, trent’anni dopo i campi di concentramento nazisti, a giudicare almeno dalle reazioni al film e al libro.
Questa convinzione è tanto più comoda in quanto ci permette di dimenticarci dell’esistenza dei campi di concentramento, oggi, nell’Unione Sovietica e in altri paesi; forse, anzi, il desiderio di dimenticare questa realtà che ci riguarda da vicino è stato all’origine del film come del libro, e potrebbe spiegarne l’immediato successo.
Il film lascia intravedere allo spettatore attento se non altro uno spiraglio di verità, in quanto Pasqualino ricompare libero solo dopo l’occupazione di Napoli da parte degli alleati. Nello stesso tempo però nega la verità circa le cause della sua liberazione, perché quello che viene sottolineato è che a garantirgli la sopravvivenza furono la sua prestazione sessuale e l’uccisione di altri prigionieri, tra i quali il suo amico Francesco.
La realtà viene ulteriormente negata insinuando che non vi sia una differenza significativa tra il mondo dei campi di concentramento e quello che attende Pasqualino dopo la liberazione. La sopravvivenza nel campo di concentramento, ci viene detto, era dipesa dalla sua disponibilità a prostituirsi, e la Napoli di dopo la liberazione non è che un grande bordello gestito dai soldati americani.
Che questa sia l’impressione che il film della Wertmüller dà è confermato da quanto ne scrive John Simon. Per sfuggire alla condanna per l’uccisione di Totonno, Pasqualino adduce l’infermità mentale, ed è rinchiuso in un manicomio, dove commette lo stupro. Riesce poi a farsi rilasciare dal manicomio arruolandosi come volontario nell’esercito italiano.
A questo proposito Simon scrive che da questo “manicomio, dopo una serie di avventure tragicomiche (evidentemente l’episodio dello stupro), si può uscire solo trasferendosi in un altro manicomio ancora peggiore: l’esercito.”
Si direbbe che l’esercito come gabbia di matti sia diventato un cliché di moda. Ma di fronte a un film che parla della vita sotto il fascismo, dei campi di concentramento, di come sopravvivere, è legittimo chiedersi: quale esercito? L’efficientissimo esercito nazista, che abbiamo visto torturare i prigionieri, sterminare gli ebrei, fare da supporto a un mondo di campi di concentramento? O l’esercito la cui vittoria i prigionieri sognavano, per la quale pregavano, sapendo che rappresentava la loro unica speranza di salvezza?
Questo esercito, senza il quale oggi Hitler e Mussolini sarebbero i padroni di mezzo mondo, senza il quale i campi di concentramento nazisti farebbero parte del nostro presente, questo esercito può essere chiamato un manicomio ancora peggiore?
Eppure, dentro la logica di Pasqualino settebellezze, l’osservazione di Simon non è troppo lontana dal vero. Nel film ci viene dato a intendere che al tempo di Mussolini a Napoli solo poche ragazze facevano le prostitute: di qui l’indignazione di Pasqualino quando scopre il mestiere di sua sorella Concettina.
Ma con l’occupazione dell’esercito americano, vediamo che tutte le sue sorelle fanno le prostitute. Il fascismo dunque è un male, ma nel film la vittoria degli alleati non è vista come il fattore che ha portato alla liberazione dai campi di concentramento che ne erano uno dei cardini; vediamo invece come abbia trasformato il mondo intero in un grande bordello.
Mentre non è difficile capire come questa interpretazione della Seconda guerra mondiale possa andare a genio ai molti milioni di italiani a cui il fascismo andava benissimo, non si può fare a meno di domandarsi per quali strani motivi la stessa interpretazione sia stata fatta propria dagli intellettuali americani.
Terrence Des Pres, in quanto americano che si rivolge a un pubblico americano, usa metodi di altro genere per mistificare la realtà, e cioè il fatto che solo la vittoria degli alleati consenti la liberazione e quindi la sopravvivenza dei prigioneri dei campi di concentramento, sia pure, sfortunatamente, in numero troppo limitalo. È, lo fa, innanzitutto, evitando ogni riferimento a questo dato fondamentale, e, in secondo luogo, dando l’impressione che i prigionieri fossero in grado da soli di sconfiggere i responsabili della loro condizione.
La realtà storicopolitica sembra avere un ruolo stranamente marginale in quella che vorrebbe essere un’analisi erudita del problema della sopravvivenza. A sostegno delle sue teorie, l’autore afferma inoltre che le vittime sono accusate di essersi lasciate mandare “incontro alla loro morte come pecore”, mentre quelle che sono sopravvissute sono accusate di essere “affette da un morbo chiamato ‘senso di colpa da sopravvivenza’.”
Trascura però di dimostrare che si sia mai trattato di accuse documentate. A mio avviso Des Pres si costruisce i suoi uomini di paglia per poi poterli abbattere facilmente e convincerci così della validità delle sue illegittime conclusioni.
Dire che le vittime delle camere a gas “andarono incontro alla loro morte come pecore” significa usare in modo scandaloso un cliché che è non solo crudele ma anche completamente falso. Nessuno che abbia conosciuto i campi di concentramento e abbia riflettuto su di essi potrebbe dare credito a un’idea del genere.
Nel 1943, molto prima della liberazione, molto prima che la loro esistenza fosse riconosciuta ufficialmente in questo paese, prima, anzi, che fosse di dominio pubblico, scrissi un articolo sui cambiamenti di personalità che avevano luogo nei prigionieri e sui massicci adattamenti che venivano messi in atto. Le pecore non possono modificare la personalità; solo esseri umani dotati di intelletto e di emotività possono farlo, e l’adattamento può essere di così vasta portata solo nella misura in cui le emozioni sono così intense.
È falso inoltre che le SS mandassero i prigionieri incontro alla loro morte come se si trattasse di un branco di pecore. L’analogia non regge innanzitutto perché i prigionieri non avevano alcun valore agli occhi delle SS, mentre le pecore rappresentano un notevole investimento economico per chi le possiede. Inoltre le pecore non sanno che vengono mandate al macello.
I prigionieri invece, dopo la deportazione, dopo essersi visti separare i genitori dai figli, i mariti dalle mogli, sapevano quanto fosse disperata la loro situazione (tranne forse quelli che venivano inviati immediatamente nelle camere a gas, perché le SS, desiderando di tenerli all’oscuro su ciò che li aspettava, davano loro a intendere che le camere a gas fossero delle docce comuni).
È tuttavia vero che la grande maggioranza dei prigionieri si incamminò passivamente verso la morte, ubbidendo agli ordini ricevuti, pur sapendo di che cosa si trattava; e questo solleva il problema ben più grave del comportamento umano quando la volontà di opporsi è stata completamente spezzata. Ma questo è un problema che Des Pres non affronta.
Può permettersi di trascurarlo perché tutta la sua attenzione è rivolta esclusivamente ai sopravvissuti. A mio avviso tuttavia i problemi dei sopravvissuti e i problemi di coloro che non sopravvissero sono strettamente legati e non possono essere scissi. Lo stesso vale per il problema di quei prigionieri che, pur sapendo che i nuovi arrivati venivano avviati alla morte, non li avvisarono né li incitarono a opporre resistenza. D’altro canto, chi avesse cercato di dare quell’avvertimento, e chi lo avesse seguito, sarebbe stato immediatamente fucilato.
Nel film della Wertmüller vediamo Pedro e Francesco che incitano i compagni a opporsi, e li vediamo morire per questo. Fa parte delle numerose contraddizioni del film farci vedere da un lato i prigionieri che si avviano con la più assoluta passività all’appello della morte (l’impressione è rinforzata dall’uso di cani da pastore da parte delle guardie), e dall’altro Pedro e Francesco che resistono eroicamente a una simile degradazione e cercano di incitare i compagni a fare altrettanto.
Il quadro che il film ci dà è falso perché ci mostra soltanto o un’eroica resistenza che è destinata a fallire, o la passività più totale, o, nella figura di Pasqualino, la capacità di salvarsi la vita passando dalla parte del nemico.
La realtà dei campi di concentramento era completamente diversa. Mantenersi in vita richiedeva da parte dei prigionieri uno sforzo e un impegno continui, e Des Pres giustamente lo sottolinea; anzi è questa la tesi centrale del suo libro.
In Pasqualino setlebellezze vediamo i prigionieri che, nelle baracche o durante l’appello, se ne stanno passivi e impotenti in attesa della morte, mentre in realtà, persino quando rimanevano apparentemente passivi sull’attenti, per resistere dovevano mettere in atto dei comportamenti autoprotettivi. Quei lunghissimi appelli erano così micidiali fisicamente e moralmente che si riusciva a superarli vivi solo reagendo con decisione alla loro forza distruttiva, con l’azione concreta quando possibile, oppure almeno a livello psicologico, e questo valeva per qualunque altro momento della vita nel campo.
Al pari di migliaia di altri che uscirono vivi da quell’esperienza, ricordo vividamente una rigida notte d’inverno a Buchenwald, quando per punizione per il tentativo di fuga di alcuni compagni, ci minacciarono di farci restare sull’attenti per tutta la notte.
L’appello veniva fatto con i prigionieri disposti su dieci file; quelli in prima fila erano esposti a un duplice tormento, il vento gelido e i maltrattamenti delle guardie, mentre nelle altre file si era più protetti. Ben presto, con l’aiuto o comunque la connivenza dei capisquadra, imparammo a fare i turni nello stare in prima fila, in modo che i particolari disagi di quella posizione fossero divisi tra tutti, tranne quelli estremamente deboli o vecchi, che ne erano esentati.
Le SS non tardarono ad accorgersene, ma, a parte alcune più spietate delle altre, fingevano di non vedere, purché i prigionieri si scambiassero di posto quando le guardie guardavano da un’altra parte. Infatti, lo spirito di corpo, se non la solidarietà, era un valore apprezzato tra le SS, almeno fino a quando la sconfitta tedesca non fu palese.
Anche se manifestamente cercavano in tutti modi di spezzare nei prigionieri tale spirito, intimamente provavano una certa riluttante ammirazione, e disprezzavano violentemente i prigionieri che ne erano privi. Perciò l’assoluta passività dei prigionieri nel film non è che tin modo per sottolineare la sua tesi che per sopravvivere fosse indispensabile piegarsi completamente all’oppressore, quando in realtà era vero il contrario.
Per sopravvivere bisognava avere uno scopo per continuare ad aver voglia di vivere. Una delle idee più primitive a cui i prigionieri si aggrappavano, perché ne traevano la forza per sopportare quella vita, era l’idea della vendetta.
A Pasqualino questo sentimento era negato, perché un piccolo assassino come lui non poteva pensare di potersi un giorno vendicare di quegli assassini su larga scala. Un altro pensiero che riusciva di sostegno a molti, persino nei momenti peggiori, era la possibilità di portare testimonianza, di raccontare al mondo quelle atrocità, per impedire che accadessero di nuovo.
Alcuni volevano rimanere in vita per le persone amate. Altri trovavano la forza nella speranza di poter costruire un mondo nuovo e migliore, ora che le atroci esperienze subite gli avevano fatto capire che cosa realmente fosse importante per la vita umana. Soltanto il pensiero, un progetto, poteva impedire a un prigioniero di diventare un cadavere ambulante (Muselmänner) come tanti suoi compagni che avevano rinunciato a ogni speranza.
Facendoci vedere come Pedro, il prigioniero che ha un progetto per un mondo migliore, finisca per suicidarsi, mentre Pasqualino, che non ha ideali di nessun genere, si salva, la Wertmüller capovolge il significato della sopravvivenza.
Des Pres invece, per dare maggiore forza alla sua tesi che i prigionieri avrebbero potuto avere la meglio sui loro carcerieri, si richiama a fantomatici testi che avrebbero paragonato le vittime dei campi di concentramento non solo a pecore ma anche a mostri, una definizione che non esiste nella vasta letteratura sui campi di concentramento.
A questa obiezione da lui stesso inventata può quindi ribattere che “non erano né pecore né mostri quelli che incendiarono Treblinka e Sobibor, che fecero saltare il crematorio di Auschwitz, che negli ultimi giorni della guerra assunsero il comando di Buchenwald.”
Viene così creata l’impressione che i prigionieri, da soli, riuscirono a garantirsi la sopravvivenza, e questo è falso. Del commando di 853 prigionieri che fece saltare uno dei quattro forni crematori di Auschwitz, non uno si salvò; alcuni morirono nell’esplosione, gli altri furono immediatamente fucilati.
Qualunque opposizione aperta portò alla sopravvivenza solo nell’imminenza dell’arrivo dell’esercito alleato; in tutti gli altri casi il risultato fu la morte. I rari episodi di resistenza attiva (incredibilmente rari, dato il numero dei prigionieri, che erano milioni) non hanno quindi rilevanza per il problema della sopravvivenza; prova ne sia l’assenza di opposizione armata tra i milioni di deportati in Russia.
L’affermazione che “negli ultimi giorni della guerra i prigionieri assunsero il comando di Buchenwald” è parzialmente vera, in quanto l’episodio ebbe effettivamente luogo il 1 aprile 1945, uno degli ultimi giorni di guerra nel territorio tedesco. La presa del potere da parte dei prigionieri, tuttavia, fu un nonevento che Des Pres fa apparire come un evento di grande rilievo.
Quello che accadde in realtà è stato correttamente descritto da numerose fonti, anche se più frequentemente è stato trasformato in mito, tramandato ai posteri nel monumento di Buchenwald, le cui leggende celebrano nel capo dei comunisti tedeschi Ernst Thälmann l’iniziatore della vittoriosa rivolta.
La realtà fu che quando arrivarono a pochi chilometri da Buchenwald due colonne di carri armati americani, il comandante del campo, per salvarsi la vita, passò le consegne al capo dei prigionieri, una carica assegnata dalle SS, e si diede alla fuga con tutti i suoi. Fu allora che i prigionieri “assunsero il comando”. Di li a tre ore dalla fuga delle SS, fecero il loro ingresso nel campo le prime truppe motorizzate americane.
Dell’episodio ci ha dato un resoconto assolutamente degno di fede Christopher Burney nel suo libro The Dungeon Democracy. Il professor Des Pres dovrebbe esserne a conoscenza, se è vero che, come ci viene detto in una nota introduttiva al brano pubblicato su Harper’s, “ha studiato tutta la documentazione compilata dai prigionieri che sopravvissero ai campi di concentramento”, un’impresa davvero memorabile, se si pensa a quanto sia vasta la letteratura sull’argomento e a come sia scritta in molte lingue e perlopiù non sia stata tradotta e in gran parte neppure pubblicata e sia quindi accessibile solo in forma manoscritta o in microfilm.
The Dungeon Democracy, comunque, è scritto in inglese e fu pubblicato nel 1945, subito dopo la liberazione. Scrive Burney, prigioniero inglese nel campo di Buchenwald:
“11 aprile. Pister [il comandante del campo] convocò il Lagerälteste [capo dei prigionieri, scelto dalle SS] e Fritz Edelmann e disse loro: “Me ne vado. Sarete voi i comandanti del campo e lo consegnerete nelle mani degli americani al posto mio.” […] Durante tutta la mattina si senti un fuoco continuo di mitragliatrici e di artiglierie molto vicino a noi, e vedemmo ritirarsi per la pianura gruppi dell’artiglieria e della fanteria tedesca. Verso mezzogiorno le sentinelle delle SS abbandonarono i loro posti e scomparvero. Due ore dopo, quando il terreno era ormai sgombro, un gruppetto di valorosi prigionieri issò la bandiera bianca… e… li vedemmo prendere le armi nascoste nel nascondiglio “segreto”. Erano molto infantili a vedersi, suddivisi in squadre a seconda della nazionalità, che marciavano per il campo con l’aria di avere sconfitto l’intera Wehrmacht”.
L’episodio fu trasformato, anni dopo, nel mito dei prigionieri che sbaragliando le SS avevano preso il comando del campo.
C’è poi il resoconto di C. J. Odic, un prigioniero che, come medico, ebbe la possibilità di osservare da vicino gli avvenimenti. Dopo aver sottolineato che tutti i piani e i preparativi concreti per l’azione di forza furono approntati solo dopo l’incursione aerea degli alleati del 24 agosto 1944, che gettò lo scompiglio tra le SS che dirigevano il campo, afferma che quei piani non vennero mai posti in atto. Il campo venne liberato da due colonne di mezzi blindati. Scrive Odic:
“E così fu vinta la Battaglia di Buchenwald. Eravamo liberi. Erano venuti d’oltreoceano a liberarci. Non restava che creare il mito. D’improvviso il campo brulicava di eroi di antica data. […] Che dimostrarono di non avere perduto il loro opportunismo: erano loro i conquistatori di Buchenwald. I giornali ci credettero. […] Il nostro destino meritava davvero un trattamento più dignitoso. C’è il mito degli ottocento fucili; c’è il mito del campo che si liberò da solo, e prima dell’arrivo degli americani. Alla testa marciava un eroe. […] A Parigi quell’eroe è francese, a Varsavia è polacco, in Germania un membro del futuro Reichstag. […]
A smentire il vanto [che furono i prigionieri a liberare il campo] è il fatto che non ci furono né morti né feriti. [Il dottor Odric lo sapeva bene, perché subito dopo la liberazione assunse la direzione dei servizi medici ] La folla che si diresse minacciosa verso la torre [da cui le SS controllavano il campo] prima dell’arrivo degli americani non ebbe bisogno di combattere; la torre era deserta, e così pure le altre postazioni delle SS. Le SS non subirono alcun attacco, né alla retroguardia né ai fianchi. […] Che bisogno c’era di attribuirci un ruolo che non abbiamo svolto? Non bastava la nostra esaltazione nell’essere liberati? […] L’esercito americano invade la Turingia, avanza, occupa Buchenwald, restituisce alle migliaia di prigionieri così liberati il diritto di tornare a essere uomini”.
Il problema della colpa è un problema etico. Ma in un mondo dove l’etica non trova posto, la colpa non esiste. Secondo Des Pres la “speciale importanza del sopravvissuto” risiede nel fatto che “è il primo tra gli uomini civili a vivere al di là delle coazioni della cultura” ed è quindi “la prova vivente che oggi uomini e donne sono abbastanza forti, abbastanza maturi, abbastanza consapevoli da affrontare la morte senza mediazioni, e quindi da abbracciare la vita senza riserve.”
Tuttavia è un dato di fatto che nei campi di concentramento le persone con forti convinzioni religiose e morali erano quelle che riuscivano a sopportare meglio quella vita. La loro fede, compresa la fede nell’aldilà, gli dava la forza di sopportare cose che stroncavano i più. I prigionieri con una profonda fede religiosa erano quelli che aiutavano gli altri, quelli che a volte si sacrificavano volontariamente per gli altri.
Il francescano Maximilian Kolbe, alla cui figura si ispira il protagonista de II vicario, chiese e ottenne di prendere il posto di un altro prigioniero che doveva essere ucciso. Padre Kolbe morì, l’altro si salvò.
Molti sopravvissuti si stupirebbero nel sentirsi dire che sono “abbastanza forti, abbastanza maturi, abbastanza consapevoli… da abbracciare la vita senza riserve”, visto che solo un numero miserevole tra tutti coloro che furono deportati nei campi di concentramento nazisti si è salvato.
E i molti milioni che persero la vita? Erano “abbastanza consapevoli… da abbracciare la vita senza riserve” mentre venivano avviati alle camere a gas? Non avrebbero forse preferito di gran lunga qualche mediazione tra sé e la morte, o almeno tra sé e l’orrore della loro agonia? E che dire dei tanti sopravvissuti che quell’esperienza distrusse completamente, che nemmeno dopo anni del migliore trattamento psichiatrico riescono a far fronte ai loro ricordi, che li continuano a perseguitare da dentro alla loro assoluta e spesso suicida depressione?
Possiamo affermare che essi “abbracciano la vita senza riserve”? E che dire dei terribili incubi sui campi di concentramento che continuano a svegliarmi, oggi, a trentacinque anni di distanza, nonostante la vita piena e soddisfacente che ho avuto, e che, come me, tormentano tutti i sopravvissuti con cui ho avuto modo di parlare?
Langbein, autore del libro a tutt’oggi più esauriente su Auschwitz, riassume bene la situazione quando dice:
“Anche quando durante il giorno le cose procedono normalmente, la vita di tanti exprigionieri di Auschwitz è diversa da quella degli altri uomini: ci sono le notti, i sogni.”
Langbein cita un esempio dopo l’altro di sopravvissuti che continuano a soffrire di gravi disturbi emotivi. Non si può non rimanere allibiti di fronte all’avventatezza con cui il professor Des Pres parla dei sopravvissuti che abbracciano la vita senza riserve quando si pensa a tutti coloro, e sono tanti, che, a causa di quello che venne fatto a loro, ai loro genitori, ai loro figli nei campi di concentramento, non sono più stati capaci di condurre una vita nemmeno lontanamente normale.
E che dire dei sopravvissuti che furono mutilati, castrati, sterilizzati? Di quelli che non appena si nominano i campi di concentramento si mettono a piangere come bambini? E di tutti i bambini che per aver trascorso qualche tempo nei campi ebbero bisogno di anni di trattamento psichiatrico prima di essere in grado, e non tutti, di cercare di affrontare di nuovo la vita?
Le conclusioni di Des Pres sulla capacità dei sopravvissuti di abbracciare la vita senza riserve e di vivere secondo le primordiali pretese del corpo riescono tanto più sorprendenti in quanto nel suo libro si dilunga a parlare di prigionieri che aiutarono i compagni, vale a dire che agirono secondo principi etici, anche a rischio della vita.
Tuttavia, nonostante l’insistenza su tali comportamenti altruistici, poi respinge l’idea del senso di colpa, i cui morsi sono una potente motivazione della condotta morale, ben più potente della disapprovazione degli altri.
Secondo Des Pres il sopravvissuto non dovrebbe provare, e di fatto non prova, sensi di colpa, perché i sensi di colpa rappresentano una delle più significative “coazioni della cultura”, di cui il sopravvissuto si sarebbe, a detta di Des Pres, liberato.
Affermando che i sopravvissuti non sono colpevoli (e nessuno che sia in possesso delle sue facoltà mentali ha mai detto che fossero colpevoli), Des Pres non fa che confondere il vero problema, che è l’irrisolvibile contraddizione della condizione esistenziale del sopravvissuto, per cui mentre, in quanto essere raziocinante, sa benissimo di non essere colpevole (io, per esempio, per quel che mi riguarda ne sono sicuro), la sua umanità gli impone, a livello emotivo, di sentirsi in colpa.
Non si può essere scampati ai campi di concentramento e non sentirsi in colpa per essere stati così incredibilmente fortunati quando milioni di altri come noi sono morti, e molti sotto i nostri occhi.Come ha dimostrato Lifton, il medesimo fenomeno si verifica tra i sopravvissuti di Hiroshima, e in quel caso la catastrofe, pur con effetti prolungati nel tempo, fu di breve durata.
Nei campi di concentramento si era obbligati a contemplare, giorno dopo giorno, anno dopo anno, la distruzione dei compagni, con la sensazione che si sarebbe dovuti intervenire, pur sapendo che sarebbe stato irragionevole, e quindi sentendosi in colpa per non averlo fatto, e sentendosi in colpa, soprattutto, per essere stati ogni volta contenti che la morte non fosse toccata a noi.
Langbein dimostra ampiamente l’entità del senso di colpa dei sopravvissuti, e qualunque psichiatra si sia trovato a contatto con qualcuno di essi per motivi professionali lo può confermare.
Elie Wiesel, che Des Pres cita in senso favorevole in altri contesti, scrisse: “Vivo, quindi sono colpevole. Sono qui perché un amico, un compagno, uno sconosciuto, è morto al mio posto”.. Perciò, facendoci vedere il suo protagonista, che rimorsi non ne provava neanche prima, completamente privo di sensi di colpa dopo la liberazione, la Wertmüller svuota di ogni significato la sua esperienza nel campo di concentramento e la sua sopravvivenza. E svuota anche di qualunque verità la sua immagine del sopravvissuto.
Des Pres dichiara esplicitamente che l’esperienza dei sopravvissuti ci insegna che bisogna vivere secondo le primordiali esigenze del corpo, al di là delle coazioni della cultura. E il film Pasqualino settebellezze, attraverso gli eventi che rappresenta, cerca implicitamente di convincerci della validità di questa affermazione.
Subito dopo l’incontro con Francesco, la vista del gruppo di ebrei che vengono uccisi offre lo spunto per la conversazione sul senso di colpa, e si ha il flashback sull’assassinio di Totonno da parte di Pasqualino. L’azione prosegue; vediamo Pasqualino in Germania, dove né lo sterminio degli ebrei né il ricordo di Totonno interferiranno più nel suo buon umore.
In una scena comicissima, lo vediamo entrare in una casupola nel bosco dove, raggirando una povera vecchia attonita, riesce a rubare del cibo. Ha fame, e non lascia che i ricordi possano sminuire il suo godimento, non soltanto del cibo, ma anche del fatto che ancora una volta è riuscito a gabbare il prossimo a proprio vantaggio.
Mentre porta a Francesco parte del cibo rubato, entrambi vengono catturati da una pattuglia tedesca. Seguono le immagini del campo di concentramento: prigionieri impiccati, mucchi di cadaveri, prigionieri trascinati a forza nelle camere a gas, le perverse guardie agli ordini dell’ancor più perversa comandante del campo.
Pasqualino e Francesco vengono presi in simpatia da Pedro, l’anarchico che ha fallito il tentato assassinio di Mussolini, Hitler e Salazar; si può supporre che non sia riuscito nel suo intento perché è negato a uccidere, in quanto ama l’umanità; infatti persino in campo di concentramento Pedro continua a credere nell’uomo, nell’uomo nuovo, che realizzerà l’armonia dentro di sé.
Alla vista dei maltrattamenti e delle stragi che hanno luogo intorno a lui, Pasqualino invece ha l’idea, palesemente ridicola, di salvarsi la vita seducendo la comandante del campo.
Nuovo flashback: dagli orrori del campo di concentramento alla Napoli anteguerra, dove il capomafia Don Raffaele ordina a Pasqualino di occultare il cadavere di Totonno. In una serie di macabre ma tuttavia comiche scene, vediamo Pasqualino tagliare a pezzi il corpo, chiuderlo in tre valigie e liberarsene. Da quel momento è un susseguirsi rapido di scene macabre e comiche, compreso uno spassoso processo in cui viene attribuita a Pasqualino l’infermità mentale e comminata la detenzione in manicomio. In manicomio violenta una donna che si trova legata al lettino, forse in attesa o dopo un elettroshock.
Viene scoperto, legato, e sottoposto a sua volta a elettroshock. Poi gli viene offerta la possibilità di arruolarsi volontario nell’esercito. Pasqualino è ben contento di accettare. La scena si sposta nuovamente sul campo di concentramento e sull’episodio centrale del film, a cui tutto il resto ci ha preparato: il rapporto sessuale con la comandante del campo, dimostrazione convincente del punto a cui Pasqualino è disposto ad arrivare pur di salvare la pelle.
Il successivo suicidio di Pedro e l’uccisione di Francesco da parte di Pasqualino sono conseguenze dirette del rapporto tra quest’ultimo e la comandante del campo.
Il film, inoltre, è denso di vaghi riferimenti che ci stuzzicano perché suscitano la nostra curiosità sul loro significato: sono allusioni a personaggi e situazioni reali e inventate che sembrano promettere una spiegazione, dare spessore a quanto vediamo, e ci emozionano, senza mai, però, chiarire il proprio significato.
Per esempio, la comandante del campo sembra essere modellata su Use Koch, l’infame moglie dell’altrettanto infame comandante di Buchenwald, le cui nefandezze sembrarono eccessive persino ai nazisti, che li sottoposero a processo.
È evidente che in realtà non ci sarebbe mai potuta essere una donna a capo di un campo di concentramento, date le idee dei nazisti sul ruolo dell’uomo e della donna nella società; infatti la facoltà di fare del male di Use Koch si basava interamente sugli illimitati poteri del marito.
D’altro canto, però, la comandante del film sembra anche una donna interessante e infelice, una cultrice delle raffinatezze della vita: più volte ci viene mostrato che nella sua stanza occupa un posto di rilievo un famoso dipinto. A quale scopo ci viene presentata in questo modo? Per farci capire che persino una nazista abietta come lei, sotto la scorza della brutalità, poteva essere una brava persona, con un raffinato senso estetico, costretta suo malgrado a compiere un dovere che lei stessa trovava ripugnante, come avrebbe voluto farci credere di sé Rudolf Franz Hoess, il comandante di Auschwitz?
A quale scopo viene dato tanto rilievo al dipinto nella sua stanza? Per dimostrare che nel nazismo e nel fascismo ci sono tanti punti a favore quanti ce ne sono contro? O che nei nazisti, come in ciascuno di noi, bene e male sono mescolati e non c’è motivo di considerarli tanto peggiori delle loro vittime? Oppure per simboleggiare il fatto che i nazisti violarono l’arte come violarono l’uomo, svuotando i grandi musei del mondo delle loro opere d’arte?
Ma allora è sbagliata la scelta del quadro, Venere, Cupido, la Follia e il Tempo, del Bronzino, perché questo dipinto rimase in possesso della National Gallery di Londra per tutta la durata della guerra. Quel quadro è stato giustamente definito di una bellezza inquietante. Mostra Venere che seduce il figlio Cupido nella speranza che l’amore per lei possa annientare Psiche, l’anima (così come la comandante del campo distrugge l’anima di Pasqualino obbligandolo a uccidere a comando).
Viene dato tanto rilievo al quadro, dunque, per ricordarci che le gioie dell’amore sono effimere, mentre il male è reale, e insito in esso? Una delle figure del quadro è stata definita dallo storico dell’arte Panofsky “il più raffinato simbolo della più perversa doppiezza mai creato da un artista.”E sotto molti aspetti il quadro del Bronzino è una rappresentazione della doppiezza del tradimento, così come lo è il rapporto tra Pasqualino e la comandante del campo.
È questo il suo significato? Ma è chiaro che l’uno come l’altra agiscono con doppiezza, e non c’è bisogno che il quadro lo ribadisca. Il suo scopo allora sarà, più semplicemente, quello di sottolineare l’idea che la sopravvivenza richiede non solo di violentare, di prostituirsi, di uccidere, ma anche di agire con estrema doppiezza?
Si può cogliere un’altra allusione nel film quando la comandante del campo si atteggia in una posa resa famosa da Marlene Dietrich nel film L’angelo azzurro, che, uscito nel 1930, si può dire anticipasse il tema della dissoluzione della Germania. È a questo che vuole farci pensare questa citazione? O l’analogia sta nel fatto che anche nell’Angelo azzurro c’è una donna che rovina completamente un uomo che apparentemente crede nell’“onore” e nella “rispettabilità”, ma è un debole privo di principi etici?
Per quanto irrealistico, era necessario che nel film il comandante del campo fosse una donna, per dimostrare la sua tesi di fondo sulla sopravvivenza. È vero che non può esservi sopravvivenza della specie senza il rapporto sessuale. Ma se il rapporto ha luogo con un partner che ci ripugna e al solo scopo di salvarsi la vita, se rappresenta inoltre la massima degradazione della propria persona e la massima strumentalizzazione dell’altro, allora, a questo prezzo, non vale la pena di sopravvivere.
A questa concezione del sesso come strumentalizzazione e sfruttamento dell’altro siamo stati preparati da momenti precedenti del film, che ci hanno mostrato il sesso in questa sola e unica forma. La sorella di Pasqualino che viene sfruttata sessualmente dal suo protettore Totonno; Pasqualino che, del tutto indifferente ai sentimenti della sorella, sfrutta i suoi guai sessuali per consolidare la propria reputazione. La sorella che a sua volta sfrutta il sesso per guadagnare il denaro necessario a pagare l’avvocato di Pasqualino.
Pasqualino che strumentalizza la paziente psichiatrica impossibilitata a difendersi. Non ci stupisce che nel campo di concentramento gli venga in mente, in accordo con le sue precedenti esperienze, che la sua unica possibilità di salvezza gli debba venire dalla strumentalizzazione sessuale. Cosi finge di amare la comandante che teme e che odia.
Dal canto suo, la donna si rende conto che strumentalizzando sessualmente un uomo che disprezza profondamente lo potrà distruggere molto più efficacemente come uomo e come essere umano che non limitandosi a ucciderlo. Le SS erano dei vigliacchi, ma non degli stupidi. Sapevano che i prigionieri li odiavano e non avrebbero desiderato altro che di ucciderli; un ufficiale delle SS, e a maggior ragione il comandante del campo, non si sarebbe mai sognato di credere che un prigioniero potesse amarlo.
Infatti la comandante dice a Pasqualino: “La tua sete di vivere mi disgusta. Il tuo amore mi disgusta. A Parigi c’era un greco che faceva all’amore con un’oca. Lo faceva per mangiare, per vivere.” E poi: “Hai trovato la forza di avere l’erezione. Perciò sopravviverai, e alla fine sarai il vincitore.” L’erezione di Pasqualino, determinata unicamente dalla volontà di sopravvivere, diventa nel film della Wertmüller non soltanto lo strumento della sopravvivenza, ma anche il suo simbolo.
Vivere secondo le primordiali esigenze del corno è ciò che rende la vita degna di essere vissuta, ciò che rende possibile la sopravvivenza: è questa la lezione che la storia di Pasqualino ci insegna. Pasqualino sopravvive perché riesce ad avere un rapporto sessuale, e perché uccide, indirettamente, quando ubbidisce all’ordine di scegliere sei prigionieri da far morire, e direttamente, quando spara a Francesco.
È vero che sopravvive perché compie queste azioni, ma non sono le condizioni di vita del campo di concentramento che lo costringono a compierle, perché è sempre vissuto a questo livello: aveva ucciso Totonno per non perdere la protezione del capomafia, aveva violentato una malata di mente traendone piacere.
Non è dunque solo la paura per la sua vita che lo induce a compiere quelle azioni che il film ci presenta come necessarie per sopravvivere; tutta la sua vita si è sempre informata al principio che bisogna soddisfare le esigenze primordiali del corpo, a tutto scapito degli altri.
Sotto questo profilo il film rispecchia in un certo senso la realtà dai campi di concentramento: i prigionieri non si mettevano all’improvviso a comportarsi in modo radicalmente diverso da come si erano sempre comportati da liberi. Le condizioni esasperate del campo portavano alla superficie in forma spesso paradossale i valori su cui si fondava la vita di ciascuno, ben raramente li cambiavano. Anche se si era costretti a fare cose che normalmente non si sarebbero fatte, interiormente rimanevano le limitazioni imposte dai precedenti modelli di comportamento.
Le persone amorali agivano nella maggior parte dei casi con la stessa amoralità di prima. Le persone decenti si sforzavano, per quanto possibile, di mantenere la propria decenza. Infatti Pedro continua a battersi per la dignità e la libertà umane, anche a costo della vita, e Francesco continua a dire di no, come prima di essere deportato aveva dichiarato che l’uomo deve fare, e per questo viene ucciso da Pasqualino, che non dice mai di no, quali che siano le conseguenze.
Le vicende di Pasqualino sembrano insegnare che si vive soltanto grazie al sesso o per il sesso. Ma il sesso per il quale vive per tutto il film ci viene presentato come qualcosa di estremamente brutto, capace di dare, al massimo, le più primitive soddisfazioni fisiche. Non vediamo mai amore, rispetto, tenerezza per il partner.
Anzi. Concettina, che diventa una prostituta, è di una bruttezza repellente, e non c’è nulla di tenero nel suo amore per Totonno. Due volte vediamo Pasqualino usare una donna senza la minima considerazione per i suoi sentimenti, e vediamo la comandante del campo usare lui mentre lo disprezza nella maniera più assoluta.
Il film, dunque, lascia capire, e questo è vero, che la gente rimane uguale a se stessa anche in condizioni come quelle del campo di concentramento, e ci mostra inoltre la vita nel campo in tutta la sua raccapricciante brutalità, in tutta la sua violenza e atrocità; ma poi ci fa vedere che anche fuori dai campi di concentramento la vita è altrettanto raccapricciante, brutale e atroce.
Con ciò è come se dicesse che non vale la pena di agitarsi tanto a proposito del mondo dei campi di concentramento, del fascismo o del nazismo; dopotutto, non c’è molta differenza tra genocidio e vita quotidiana.
L’assassinio e lo stupro sono rappresentati come onnipresenti; se l’assassino viene processato, il processo non è che una farsa: così infatti viene rappresentato il processo di Pasqualino. Condannando il campo di concentramento e nello stesso tempo anche la vita fuori dal campo, il film sottintende che non c’è ragione di condannare il mondo dei campi di concentramento, il mondo dei totalitarismi: tanto varrebbe condannare la vita in genere.
Questa inquietante degradazione della vita, dentro e fuori il campo di concentramento, si realizza nel film giocando con grande intelligenza e abilità sulle emozioni degli spettatori. Dall’inizio del film, con i documentari del fascismo e della guerra, e la canzone che li accompagna, le scene si susseguono in rapida successione, senza momenti di transizione che ci permetterebbero di compiere un adattamento emotivo.
Ci vengono presentati nel modo più avvincente gli aspetti più atroci della realtà, seguiti subito dopo da una scena completamente diversa che, senza negare quanto abbiamo visto prima, allenta la tensione che ci aveva tenuti avvinti e senza soluzione di continuità suscita in noi una reazione emotiva opposta alla precedente.
Ne è un tipico esempio l’uso dei flashback. Ci viene fatto vivere l’orrore, poi il grottesco o il comico, poi scene di brutalità, poi di nuovo l’umorismo farsesco. Con questa tecnica l’orrore diventa lo sfondo del comico, e la scena comica spazza via non la realtà dell’orrore quanto la sua forza emotiva, col risultato che, per contrasto, l’orrore finisce per accentuare l’efficacia dell’esperienza del comico.
Una così vorticosa manipolazione delle nostre emozioni finisce per impedirci di prendere seriamente le nostre reazioni emotive a quello che vediamo sullo schermo, anche se continuiamo ovviamente ad averne. Il film, insomma, ci mette nello stato d’animo di non prendere nessun evento o nessuna situazione seriamente, neppure quelle che normalmente ci emozionerebbero o ci commuoverebbero profondamente.
Per esempio, Pasqualino ha il problema di come liberarsi del cadavere di Totonno. Don Raffaele gli dà vaghi indizi. Con sfoggio di retorica, gli dice, riecheggiando le parole di Mussolini sugli italiani, che Napoli è la patria della fantasia.
A sottolineare il richiamo a Mussolini, Don Raffaele viene presentato contro lo sfondo di una statua in posa vuotamente eroica. Con orgoglio caricaturale, il capomafia racconta a Pasqualino che furono i napoletani a inventare la bara formato famiglia, in modo che ai funerali non si può sapere quante salme vengono sotterrate. Poi vediamo la scena comica di un cadavere che viene messo in una bara già occupata.
Ancora, Don Raffaele racconta a Pasqualino che in un certo ossario una volta c’erano cento scheletri e ora ce ne sono oltre cinquemila, e sullo schermo si vedono i becchini che aggiungono scheletro su scheletro. Tutto questo è macabro ma anche molto spassoso, per il modo da fumetto con cui vengono visualizzate queste idee grottesche.
Il colloquio, comico, tra Don Raffaele e Pasqualino serve a stemperare le nostre reazioni di fronte alla scena del campo di concentramento in cui si vedono i cadaveri dei prigionieri che vengono impilati uno sopra l’altro con l’aggiunta di sempre nuove vittime, come gli scheletri nell’ossario. Una volta assimilata l’idea che si tratti di una farsa, non è facile liberarsi del divertimento vissuto assistendo alla scena dell’ossario, quando, subito dopo, assistiamo alle uccisioni dei prigionieri nel campo.
Ci rendiamo conto che il collegamento tra le due scene è una forzatura, ma una volta strutturato un atteggiamento da umorismo nero sugli scheletri dell’ossario, non è facile passare all’atteggiamento di assoluta repulsione che, senza quella preparazione attraverso il comico, la scena delle vittime nel campo di concentramento avrebbe normalmente suscitato in noi.
Se invece proviamo repulsione di fronte a questa scena, rimaniamo ugualmente disorientati e finiamo per non fidarci comunque delle nostre sensazioni, perché ci rendiamo conto che l’atteggiamento divertito di prima era completamente fuori luogo. Ma allora, come possiamo fidarci del senso di repulsione che proviamo ora? Non potrebbe anche questo dimostrarsi sbagliato?
Questa tattica della confusione non funzionerebbe così bene se non fosse continuamente ripetuta per tutto il film (probabilmente si ripete più volte di quante non me ne sia accorto vedendo il film solo due volte). La tattica si ripete in tutti gli episodi decisivi, per esempio anche in quello dell’uccisione di Totonno.
Non abbiamo simpatia per Totonno, che aveva promesso a Concettina di farla diventare una cantante e di sposarla e invece le fa fare la prostituta. E i suoi modi arroganti e prepotenti non contribuiscono certo a rendercelo più simpatico.
Perciò il suo assassinio ci lascia indifferenti; quando viene tagliato a pezzi e chiuso in tre valigie, che il cane di un cieco annusa interessato e che vengono spedite per ferrovia come “partite di provolone”, ridiamo come ci viene richiesto dal taglio comico delle scene.
In questo modo abbiamo strutturato verso l’assassinio un atteggiamento che riconosciamo sbagliato quando assistiamo agli assassini nel campo di concentramento. Ma è difficile destrutturare il nostro atteggiamento così in fretta, e poi, qual è il modo di sentire valido?
Lo stesso vale anche per i personaggi del film. Nostro malgrado non possiamo fare a meno di trovare simpatico Pasqualino, di cui Giancarlo Giannini fa con tanta bravura il prototipo dell’“uomo della strada”, che sarà fascista sotto il fascismo, comunista in regime comunista, democratico se c’è la democrazia.
Ma il ritratto dell’uomo della strada in cui il film ci vuole fare credere è falso anch’esso. L’uomo della strada tipico non violenta una paziente psichiatrica né uccide il suo miglior amico, né sotto il fascismo, né in regime comunista né in regime democratico.
Al cittadino medio non verrebbe in mente di farsi venire, e tanto meno riuscirebbe ad avere, un’erezione in un rapporto sessuale con una donna assolutamente repellente, neppure se fosse in gioco la sua vita; per fare queste cose bisognerebbe che fosse, oltre che banale, anche un vero e proprio mascalzone, come Pasqualino. L’uomo qualunque tipicamente è banale, ma molto raramente è anche malvagio.
È vero che, contrariamente a certe concezioni popolari, il male non è né romantico né tragico: è più semplicemente banale. Ma benché il male sia banale e l’uomo della strada sia banale, la banalità dell’uomo della strada non lo rende necessariamente malvagio, come il film vorrebbe farci credere. La verità è che in questo film l’uomo medio viene visto con l’arroganza della superiorità intellettuale.
Se gli si toglie la persuasività dell’interpretazione di Giannini e l’abilissima regia della Wertmüller, Pasqualino rimane un personaggio spregevole, la cui spregevolezza non è minimamente mitigata dalla sua banalità e dal suo squallore. La sua insignificanza si nasconde appena dietro una verbosità suadente di napoletano; è un “dritto”, che parla solo per frasi fatte.
Non ha niente nella testa se non la preoccupazione di sfruttare gli altri e l’occasione del momento; le conseguenze ultime delle sue azioni sugli altri, e nemmeno su di lui, non lo riguardano. È incapace di amare alcuno tranne se stesso, anzi, in fondo, neppure se stesso. Non è neppure in grado di riconoscere il male di vaste proporzioni: perciò la comandante del campo gli appare una piccola criminale come lui, che può essere sedotta con i più elementari trucchi.
Un personaggio del genere viene proposto ora alla nostra simpatia e subito dopo al nostro disprezzo, col risultato che neppure in questo caso siamo più in grado di fidarci delle nostre sensazioni, e perciò finiamo per lasciarci trasportare dal film e per credere in quello che il film ci vuole far credere.
Alla sua prima apparizione sullo schermo, proviamo simpatia per Pasqualino, e solo in seguito scopriamo che mascalzone sia in realtà. Invece per la comandante del campo proviamo immediatamente repulsione, la vediamo come una criminale sadica e senza scrupoli, degno capo di un branco di aguzzini e dei loro cani divoratori di uomini. Ma Pasqualino diventa via via più svuotato di umanità, mentre la comandante del campo acquista sempre più spessore.
Quanto più si avvicina a essere una persona, tanto più grottesco appare l’ammasso di carne che è il suo corpo, ma anche più profonda e sofferta la sua umanità, grazie anche all’interpretazione di Shirley Stoler. La vediamo non solo prigioniera del suo corpo, ma anche consapevole e sofferente per questo.
Il suo disgusto per Pasqualino e per la menzogna del suo amore (a cui, ben conscia della propria mostruosità, non crede neppure per un attimo) non è che il riflesso del suo disgusto per se stessa. Si potrebbe pensare che tenga costantemente sotto gli occhi il dipinto del Bronzino, con quella Venere che è la bellezza personificata, per ricordare costantemente a se stessa la propria bruttezza.
Quando la vediamo bere champagne, abbiamo l’impressione che non lo faccia per dimenticare le torture a cui sottopone i prigionieri, bensì per indursi uno stato di stordimento che le permetta di dimenticare il proprio fallimento come donna. Quando paragona Pasqualino all’uomo che per guadagnarsi da vivere aveva rapporti sessuali con un’oca, è come se paragonasse se stessa a quello stupido bipede.
Quando afferma che Pasqualino, essendo riuscito ad avere l’erezione, riuscirà a sopravvivere e alla fine sarà il vincitore, sottintende che, poiché lei, a differenza di Pasqualino, è incapace di fare il sesso senza i sentimenti appropriati, e poiché sa bene che nessun uomo potrà provarli per lei, sa che il suo destino è segnato e che sarà due volte perdente.
Di conseguenza in certi momenti, pur rimanendo odiosa, la comandante ci muove a pietà, se non come persona, come essere umano infelice, tanto ci appare prigioniera di un io odiato, come della sua uniforme e del suo ruolo di assassina.
Siamo portati a credere che la sua insensibilità di fronte alle sofferenze dei prigionieri sia solo il riflesso della sua insensibilità verso la propria umanità, che si sia imposta di essere insensibile per non soffrire per la propria bruttezza e solitudine.
Ma questo ritratto di un comandante di campo di concentramento è una mistificazione tanto quanto quello di Pasqualino come un uomo a tratti accattivante e sempre assolutamente insignificante. Se c’era un tratto che caratterizzava i dirigenti dei campi di concentramento era proprio la loro incapacità a riflettere su di sé, a vedersi per quello che erano. Se fossero stati capaci di vedersi, come la comandante del film, non avrebbero potuto resistere un minuto di più.
Nella realtà, gli ufficiali al comando erano fermamente convinti dell’importanza del lavoro che svolgevano, per incredibile che possa sembrare data la natura del loro lavoro. E soprattutto non si sentivano affatto dei perdenti, almeno fino a quando le truppe alleate non arrivarono in vista dei campi. Anzi, ben lontani dal sentirsi destinati alla sconfitta, mostrarono una decisione e una intelligenza nel tentativo di salvarsi la vita molto maggiori di Pasqualino.
Come avrebbero fatto, altrimenti, a evitare la cattura in numero così notevole, e a stabilirsi tranquillamente in qualche lontano paese dell’America Latina, o addirittura in patria, in Germania o in Austria? Quando si tratta di sopravvivere a qualunque costo, non sono i Pasqualini di questo mondo a portarsi via il primo premio, bensì gli exSS.
Anche se sui campi di concentramento non sapessimo altro che quello che ci mostra il film, avremmo la sensazione che il ritratto della comandante del campo, pur così convincente, non possa essere vero.
Una persona con un così alto grado di autoconsapevolezza non potrebbe comportarsi con i prigionieri come si comporta lei. Anche nei confronti di questo personaggio, dunque, le nostre emozioni vengono confuse dal film.
In generale, se non si arriva a diffidare di tutta la storia narrata nel film (e, a giudicare dalle critiche, pochi ci arrivano),allora non resta che diffidare delle proprie emozioni e in questo modo ci si identifica nella versione della verità che il film ci impone.
Dopo aver visto il film è legittimo avere forti riserve circa il modo in cui vengono manipolate le nostre emozioni. Ma non si può fare a meno di ammirare la consumata abilità con cui la regista ci immette a velocità forsennata sulle montagne russe delle nostre emozioni ambivalenti, facendoci continuamente cambiare atteggiamento verso i personaggi principali e cavando effetti comici da situazioni atroci.
Lo stupro psicologico di Pasqualino da parte della comandante del campo, per esempio, fa da parallelo allo stupro fisico della paziente psichiatrica precedentemente consumato da Pasqualino; in entrambi i casi la vittima è in condizioni di assoluta impotenza rispetto allo stupratore.
Entrambe le scene sono raccapriccianti, ma entrambe hanno elementi decisamente comici, soprattutto accentuati nella prima scena, al punto che quando assistiamo alla seconda ancora sentiamo i riverberi della nostra reazione alla prima.
I due episodi di stupro, all’esterno e all’interno del campo di concentramento, servono a ribadire il concetto della Wertmüller dello stretto parallelismo esistente tra il mondo normale e la vita nei campi di concentramento, parallelismo che ci induce a pensare che i campi non fossero qualcosa di fuori dell’ordinario.
Non essendo nulla di straordinario, era legittimo convivere tranquillamente con l’idea dei campi allora, come è legittimo convivere ora con il loro ricordo, e questo significa che non c’èbisogno di correggere radicalmente la nostra immagine di noi stessi e del nostro mondo per il fatto che essi sono esistiti ed esistono oggi.
Le due scene di stupro, mentre ne viene sottolineata l’intrinseca identità, si negano anche a vicenda. Per esempio, prima di violentare la donna in manicomio, Pasqualino le solleva la camicia da notte e guarda i suoi genitali con eccitazione, un gesto raccapricciante ma anche comico, che esprime però la vitalità di Pasqualino, la forza dei suoi desideri sessuali.
Prima del rapporto tra la comandante del campo e Pasqualino, un rapporto, che, per la differenza di dimensioni fisiche e di potere, fa pensare all’accoppiamento tra la gigantesca femmina di qualche animale e il minuscolo maschio che poi verrà distrutto, la donna solleva la giacca di Pasqualino per guardargli i genitali, come aveva fatto lui con la sua vittima.
Ma il suo è uno sguardo di disgusto e di autodistruzione, esattamente l’opposto della vitalità e del desiderio. Il dettaglio del gesto identico collega le due scene e nello stesso tempo le contrappone; le due scene quindi si rafforzane a vicenda ma anche si cancellano a vicenda.
Quello che avevamo vissuto come comico, ora lo viviamo come deprimente. E una volta di più non possiamo dare credito alle nostre sensazioni, che ci hanno sviato.
Persino le morti di Pedro e di Francesco hanno i loro momenti comici. Pedro, incapace di tollerare oltre la degradazione della vita nel campo e il tradimento dei fratelli (da parte di Pasqualino), si getta nel buco della latrina mentre alcuni prigionieri vi stanno defecando.
La sua morte, per il modo in cui è rappresentata, possiede una qualità liberatoria, quasi gioiosa. E affermare la propria dignità di uomo con il grido, “Fratelli, mi butto nella merda!”, e annegando nelle feci è altrettanto comico che drammatico.
La sua comicità, tuttavia, non può raggiungere quelli che, come me, hanno visto nei campi di concentramento dei loro compagni morire in questo modo, non perché volevano suicidarsi, ma perché le SS li buttavano nelle latrine.
Quelli come me non possono che sentirsi disgustati nel vedere, a trenta e più anni di distanza, l’assassinio più orrendo e degradante fatto passare come un gesto liberatorio, la morte più abietta fatta passare come un episodio comico.
I suicidi nei campi di concentramento erano frequenti e facili. Bastava rinunciare a fare ogni sforzo per mantenersi in vita. Oppure si poteva correre contro il reticolato con la corrente elettrica; la morte era quasi sempre istantanea, e in caso contrario ci pensavano le guardie sulle torri a fucilare immediatamente chiunque desse l’impressione di stare tentando la fuga.
Anche Francesco, disgustato dal fatto che Pasqualino non esiti a sacrificare i compagni per comprarsi la sopravvivenza e la promozione a caposquadra, o Kapo, e stimolato inoltre dal gesto di Pedro, si ribella.
A Pasqualino viene data una pistola con l’ordine di uccidere Francesco. Sulle prime esita, ma poi esegue l’ordine, quando Francesco gli chiede di farlo perché, dice, altrimenti la paura lo farà defecare nei calzoni. La richiesta di essere ucciso per non sporcarsi i calzoni, pur con una sua verità psicologica, è nondimeno comica. Le più tragiche affermazioni della dignità umana vengono dunque ridotte a un tuffo nelle feci e alla paura di imbrattarsi i calzoni.
Anche queste scene, come quasi tutto il resto del film, mistificano completamente la realtà. Nessuna SS sarebbe stata così stupida da consegnare a un prigioniero una pistola carica; sarebbe stato come firmare la propria condanna a morte e forse quella di qualche altra guardia.
E un prigioniero che avesse preso dalle mani di un’SS un’arma per uccidere un compagno avrebbe saputo che il suo destino era segnato e, morire per morire, ne avrebbe dedotto che tanto valeva portarsi con sé qualcuna delle SS, e avrebbe usato l’arma contro di loro.
Ma una simile distorsione dei fatti è marginale a confronto di quella che ci fa vedere come Pasqualino debba la sua sopravvivenza al fatto di avere deliberatamente sacrificato altri prigionieri e di avere ucciso persino il suo migliore amico, e tanto meno al fatto di essere riuscito ad avere l’erezione al momento opportuno.
Al massimo questi gesti gli sarebbero valsi un breve rinvio della esecuzione, come avvenne per molti prigionieri dei Sonderkommandos, o Distaccamenti speciali, che accettarono di lavorare nelle camere a gas e nei forni crematori, e furono tutti uccisi dalle SS di lì a quattro mesi.
Pasqualino, dopo l’incontro con la comandante e la “promozione”, in un vero campo di concentramento sarebbe sopravvissuto a dir molto qualche giorno. Se non ci avessero pensato le SS, l’avrebbero fatto fuori i prigionieri: un Kapo privo di qualunque convinzione morale, umana o politica, che non avesse esitato a consegnare alla morte i compagni, che ne avesse ucciso uno personalmente, sarebbe stato troppo pericoloso per il gruppo perché gli venisse permesso di vivere.
Per non citare che una testimonianza: “Quando un prigioniero diventava un collaborazionista, doveva aspettarsi la spietata vendetta dei compagni” (Langbein). E nel film non c’è nessun indizio che ci faccia pensare che la comandante del campo avrebbe fatto di tutto per sottrarre Pasqualino, che considerava un “verme”, alla rabbia vendicativa dei suoi compagni.
Mentre era praticamente impossibile per i prigionieri proteggere la vita di un compagno, ucciderne uno era incredibilmente facile. C’erano moltissimi modi per eliminarlo, il più semplice dei quali era una denuncia alle SS.
Neppure i Kapo potevano sopravvivere senza disubbidire agli ordini, e se questo fosse stato denunciato alle SS, la fucilazione era più che probabile. Inoltre c’era molta rivalità tra le SS, e la predilezione di una di loro per un prigioniero provocava l’ostilità delle altre. Perciò, se un favorito veniva denunciato a una guardia che aveva antipatia per il suo protettore, quel prigioniero era, nel gergo del ‘campo, “fatto e finito”.
Oppure il traditore poteva essere ucciso di notte, quando si era in cento contro uno. Anche se si trattava del favorito di un’SS, l’uccisione veniva ignorata: un prigioniero in più o in meno non aveva importanza.
Ho accennato più sopra che le SS avevano un certo sia pur degenerato e pervertito esprit de corps, e che lo ammiravano negli altri. Quando ordinavano a un prigioniero di uccidere un compagno, per esempio sotterrandolo vivo, minacciavano sempre di ucciderlo se non eseguiva l’ordine, ma non sempre mettevano poi in atto la minaccia.
Invece ci furono casi in cui il prigioniero rifiutò di uccidere il compagno ed entrambi vennero lasciati stare per il momento. E casi in cui, quando il prigioniero si accinse ad eseguire l’ordine, le SS ordinarono ai due di scambiarsi le parti.
Se un prigioniero uccideva un altro prigioniero come gli era stato ordinato, le SS poi lo disprezzavano per il tradimento nei confronti del compagno, e di solito non aspettavano molto per “finirlo”. Se un tipo come Pasqualino fosse riuscito a sopravvivere, sarebbe stato soltanto per l’arrivo degli alleati poco dopo rincontro con la comandante.
In uno dei repentini cambiamenti di scena del film dal tragico al grottesco, veniamo trasportati dal campo di concentramento, dopo l’uccisione di Francesco, alla Napoli dopo la liberazione, distrutta dalla guerra ma brulicante di vita, come un gigantesco bordello. Ora non solo Concettina, ma tutte le sue sorelle, tutte le donne di Napoli, sono diventate delle puttane, e tutti i soldati americani fanno i protettori. Le sette sorelle prostitute vivono ora in un’agiatezza di dubbia rispettabilità, mentre prima erano povere, ma “oneste”.
Si sente gridare. “È tornato Pasqualino!” E la piccola cantastorie cui era legato da amicizia prima dell’assassinio di Totonno, e che è sempre stata innamorata di lui, gli corre incontro. Se fossimo di fronte a una rappresentazione allegorica medievale, la ragazzina avrebbe salvato l’anima di Pasqualino, perché l’amicizia per lei era stata l’unica cosa buona della sua vita.
Ma Pasqualino settebellezze non è una rappresentazione religiosa e non ha per tema la salvezza dell’uomo. Perciò Pasqualino prende nota senza emozionarsi particolarmente del fatto che anche lei è diventata una prostituta. La morale implicita è che chi ha sconfitto il fascismo, nel nostro caso gli Americani, è riuscito a degradare persino una persona buona come questa ragazza, esattamente come le SS facevano con i prigionieri nei campi di concentramento.
Ho chiesto a un piccolo campione di spettatori del film che ne erano rimasti colpiti a che cosa fosse dovuta secondo loro la sopravvivenza di Pasqualino. Erano tutte persone sotto i quarant’anni, intelligenti, con istruzione universitaria, e tutte risposero che a farlo sopravvivere era stata la sua voglia di vivere, la sua vitalità, che è esattamente quello che il film ci vuole far credere.
A nessuno venne in mente spontaneamente che era sopravvissuto perché le truppe alleate avevano liberato i campi di concentramento. In effetti è difficile, vedendo questo film, rendersi conto che questi soldati che vanno a puttane rischiarono la vita per liberare l’Europa.
Il messaggio che questo film, girato da una regista italiana che si definisce socialista, comunica, dunque, è che i fascisti non erano poi molto peggio di coloro che li sconfissero. E inoltre, ed è un messaggio di un maschilismo di stampo fascista, che farsi venire un’erezione garantisce la sopravvivenza, persino in un campo di concentramento.
Dobbiamo dunque concludere che in fondo il fascismo non era un gran male, perché durante il regime, come si vede all’inizio del film, soltanto poche donne facevano le prostitute, mentre dopo lo facevano tutte?
Prima Napoli era una città intatta, ora la vediamo distrutta, come le sue donne. Non sarebbe stato meglio, allora, che questi puttanieri di soldati fossero rimasti a casa loro, non avessero eliminato i campi di concentramento, alle cui atrocità abbiamo appena assistito? O forse la Wertmüller intende dire che, Hitler o la caduta di Hitler, campi di concentramento o la loro liberazione, le cose non cambiano?
Ha voluto sconvolgerci con gli orrori dei campi di concentramento solo per dirci che le cose non cambiano comunque? Oppure era tutto uno scherzo, un film fatto per divertirci? Che cattivo gusto usare il genocidio per divertire.
Forse la risposta possiamo trovarla nel finale del film. Pasqualino chiede alla ragazzina innamorata di lui: “Hai fatto un po’ di soldi?” Lei fa cenno di sì. “Benissimo. Adesso smetti e ci sposiamo. Non c’è tempo da perdere. Voglio dei bambini, tanti, venticinque, trenta.
Dobbiamo difenderci. La vedi tutta quella gente? Tra un po’ saremo li a scannarci per un pezzo di pane. Dovremo essere in tanti per difenderci. Capito?” Al che lei non può che rispondere disarmata: “Ti ho sempre voluto bene.”
Pasqualino, il sopravvissuto, è rimasto quell’egoista ignorante che era, non è toccato dall’esperienza nel campo di concentramento, è pronto a cercare il suo vantaggio contro tutti, si preoccupa solo di quello che vuole lui, senza chiedersi quali desideri o quali progetti abbia per sé o per la loro coppia la ragazza che l’ha atteso cost pazientemente.
L’ultimo tocco di scoperta ironia sta in quel “Capito?” dopo l’esposizione dei suoi piani per il futuro. Perché Pasqualino non ha mai capito nulla.
Mi sono chiesto se questo film ci inciti ad “abbracciare la vita” o non ci dica piuttosto che la vita non ha senso. L’idea di Pasqualino della vita come lotta di tutti contro tutti per la sopravvivenza del più forte è una visione fascista, che si oppone radicalmente al profondo monito di Pedro nel campo di concentramento. In quella scena, quando Pasqualino racconta che vorrebbe vivere e avere figli, Pedro gli ricorda i pericoli del sovrappopolamento, prevedendo che ben presto il mondo sarà sovraffollato come le baracche in cui sono alloggiati i prigionieri, e che la gente ucciderà per un tozzo di pane.
Forse lo spettatore poco informato rimarrà indifferente, ma per chiunque abbia avuto esperienza dei campi di concentramento, per il sopravvissuto, il monito di Pedro è pieno di significato e di speranza, perché l’anarchico aggiunge: “deve nascere… un uomo nuovo. Un uomo civilizzato. Un uomo nuovo che sappia riscoprire l’armonia dentro di sé.” Deve venire al mondo un uomo che sappia vivere in armonia con i suoi simili, se si vuole che ci vengano restituiti la giustizia e il bene.
I prigionieri, pigiati in uno spazio limitato oltre ogni immaginazione, non potevano neppure stendersi a terra senza portare via lo spazio al vicino; però riuscivano a sopportarlo. Anche se morivano di fame, non rubavano al compagno il tozzo di pane di cui avevano un disperato bisogno per non morire; alcuni anzi dividevano il proprio con gli altri.
Rubare un pezzo di pane a un compagno era il delitto più grave nei campi di concentramento, e meritava la punizione più severa, e giustamente, perché da questo dipendeva la vita di ciascuno. Ma non si verificava quasi mai.
Il messaggio di Pedro, dunque, esprime la vera lezione dei campi di concentramento; dal non avere neppure lo spazio per distendersi la notte, dal non avere abbastanza cibo per vivere, il sopravvissuto ha imparato che persino in simili condizioni, anzi proprio in simili condizioni, si può scoprire un’armonia segreta che permette di andare avanti, di vivere in pace con gli altri e con se stessi.
L’ultimo dialogo del film si svolge tra Pasqualino e sua madre che, felice del suo ritorno, gli dice di non pensare a quello che gli è successo: il passato è passato, e quello che conta è che sia vivo. “Sì,” risponde Pasqualino disinvolto. “Sono vivo.” E su questo si chiude il film.
Delle parole di Pedro viene ricordato soltanto, e preso come una previsione, l’ammonimento circa un mondo dove l’uomo divora l’uomo e solo il più forte e il più aggressivo sopravvive, la lezione del fascismo; le sue speranze per un futuro migliore e pienamente umano, per le quali era vissuto ed era morto, sono dimenticate.
Pasqualino sopravvive, ma non ha sentimenti né altro scopo che quello di riprodursi. Non si sente in colpa per la morte di Pedro, che pure ha causato; né avere detto sì al fascismo, per avere ucciso Francesco e scannato Totonno.
Quale più palese dimostrazione potremmo avere che solo la rapacità di provare sensi di colpa ci rende umani, soprattutto se, obiettivamente, colpevoli non siamo? È il senso di colpa del vero sopravvissuto che crea la distanza tra lui e coloro che applaudono questo film. Chi pensa che sopravvivere voglia dire semplicemente rimanere in vita non vuole saperne del vero sopravvissuto.
Dall’inizio dei tempi, coloro che portano testimonianza hanno sempre dato fastidio, sono imbarazzanti. A chi si è lasciato trascinare dal film della Wertmüller o dagli scritti di Des Pres, forse queste pagine danno fastidio, creano imbarazzo.
I sopravvissuti non saranno in vita ancora per molto, ma finché sono in vita non possono fare a meno di ribellarsi, non già al fatto di essere dimenticati, al fatto che il mondo vada avanti come sempre, bensì all’essere strumentalizzati per testimoniare il contrario della verità.
La nostra esperienza nei campi di concentramento non ci ha insegnato che la vita non ha senso, che il mondo dei vivi è un grande bordello, che bisognerebbe vivere secondo le primordiali esigenze del corpo, ignorando le coazioni della cultura.
La nostra esperienza ci ha insegnato che, per disgraziato che sia il mondo in cui viviamo, la differenza che esiste tra di esso e il mondo dei campi di concentramento è grande come quella tra la notte e il giorno, tra l’inferno e il paradiso, tra la morte e la vita.
Ci ha insegnato che la vita ha un senso, per quanto sia difficile trovarlo, e che il suo significato è molto più profondo di quanto pensassimo prima di essere sopravvissuti ai campi. E in tale significato ha una parte centrale il nostro senso di colpa per la fortuna che abbiamo avuto di sopravvivere a quell’inferno, testimonianza di un’umanità che neppure le atrocità dei campi di concentramento possono distruggere.
Tratto da: Bruno Bettelheim, Sopravvivere, Milano, Fentrinell, 1981, pp. 195–231
Bruno Bettelheim (Vienna, 1903 — Silver Spring, 1990) si laureò in psicologia a Vienna. Di origine ebraiche, nel 1938 fu deportato nei campi di concentramento inazisti, ma fu rilasciato l’anno seguente per intervento di Eleanor Roosevelt. Lui e la moglie si trasferirono negli Stati Uniti. Insegnò all’Università di Chicago e si interessò soprattutto di autismo, di tecniche nel trattamento dei bambini con disturbi emotivi e degli aspetti psicologici del pregiudizio razziale.
Tra i suoi libri si ricordano: La fortezza vuota. L’autismo infantile e la nascita del sé (Garzanti 1999); Dialogo con le madri (Pgreco 2010); Ferite simboliche (SE 2011); Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe (Feltrinelli 2013); Un genitore quasi perfetto (Feltrinelli 2013); Sopravvivere e altri saggi (SE 2014).