Smith, Ricardo, Marx: il lavoro come realizzazione o maledizione?
di Emanuele Severino
La concezione dell’economia politica classica
Lasciato a sé stesso (è il principio del laisser-faire, laisser-passer dei fisiocratici e in genere di tutto il liberalismo economico), il movimento del mercato riduce gli squilibri e armonizza gli interessi contrastanti.
In questo modo, il liberalismo economico distrugge certamente le misure rigide del protezionismo economico ed i privilegi che gli sono connessi — distrugge il modo in cui l’epistéme si rispecchia nelle strutture immutabili dell’economia premercantile.
E tuttavia, nonostante questa distruzione, il liberalismo economico, a partire da Smith, continua a concepire il processo economico come un processo naturale, universale e necessario, e cioè, sia pure a un livello diverso e più profondo, come un processo che conserva quell’atteggiamento epistemico dal quale vorrebbe liberarsi.
Che la società mercantile costituisca un ordine naturale immodificabile — che le leggi da cui è guidata e che la scienza economica ha il compito di scoprire siano leggi “naturali” — è il principio fondamentale di tutta la prima fase di sviluppo dell’economia — la fase che precede o che non discute la critica marxiana dell’economia politica.
Concependosi come espressione di “leggi naturali” e universali e come conoscenza della società razionale, l’economia politica attribuisce a sé stessa il ruolo di epistéme. Intende avere valore universale e necessario anche la concezione smithiana del lavoro come attività la cui esplicazione implica il sacrificio, «in ogni tempo e in ogni luogo», di riposo, libertà, felicità, in una quantità proporzionale alla quantità di lavoro compiuto.
La “maledizione” del lavoro
Si tratta del lavoro, considerato biblicamente come “maledizione”, come osserva Marx. E sarà appunto Marx a mostrare che questo concetto del lavoro non ha un valore universale e necessario, cioè che la separazione di lavoro e felicità non è naturale, ma esprime la forma che il lavoro ha assunto in una certa epoca storica, che va dalla schiavitù antica, alla schiavitù feudale, al lavoro dell’operaio salariato (ma che è assente nelle comunità primitive e può tornare ad essere assente nella futura società comunista).
È appunto questo tipo di critica, sviluppato da Marx, a determinare l’episodio centrale del tramonto dell’epistéme nell’ambito dell’economia politica: il mercato e le sue leggi, e la società razionale che su di esso si fonda e in esso si esprime, non costituiscono un ordinamento naturale, universale e necessario, ma una formazione storica, che come è incominciata nel tempo così può finire (e anzi, per Marx, è destinata a finire per la contraddizione da cui è attraversata).
Il fine del processo economico e del lavoro
Nelle società pre-mercantili
Nelle forme sociali che precedono la società mercantile, lo scopo del lavoro del servo è il consumo dei beni da parte del signore. (Anche il servo consuma — soprattutto cibo –, ma questo non è propriamente consumo, bensì reintegrazione delle possibilità operative di quel mezzo di produzione che è il servo o lo schiavo.)
Il consumo vero e proprio — cioè quello del signore — ha come scopo l’esercizio dell’attività libera, che per Aristotele coincide con il sapere filosofico, ma che nelle società pre-mercantili si esprime anche nelle attività guerresche e nella cultura in senso lato.
In questo tipo di economia, dunque, la produzione (il lavoro) ha come scopo il consumo. Ma il consumo ha come scopo un’attività extraeconomica.
Nell’economia mercantile, invece, tutti i membri della classe borghese partecipano al consumo della ricchezza prodotta e vengono meno i privilegi del signore, sì che lo scopo del processo economico non è più qualcosa di esterno a tale processo.
Il processo economico diventa una dimensione autonoma (cioè non finalizzata all’attività libera del signore, di natura politico-morale-culturale), che può essere autonomamente studiata da una scienza specifica — l’economia politica, appunto –, la quale non deve più dar conto di sé a un sapere di tipo filosofico-metafisico-teologico.
Nelle società mercantili
Per Smith, dire che lo scopo del processo economico è interno a tale processo significa che tale scopo è “l’accumulazione” indefinita del “capitale”, ossia della ricchezza che, comperando il lavoro dell’operaio, è in grado di produrre una ricchezza maggiore di quella inizialmente impiegata.
Mentre nell’economia premercantile il consumo è lo scopo della produzione (per poi diventare esso stesso mezzo per la realizzazione delle attività non economiche del signore), nell’economia mercantile il consumo è un momento interno al processo in cui la produzione ha come scopo l’aumento indefinito di sé stessa, e cioè in cui il capitale, che è il principio attivatore della produzione, ha di mira il proprio continuo accrescimento.
A questo autoaccrescimento del capitale, del capitale, in cui l’individuo persegue il proprio interesse puramente egoistico, corrisponde la massimizzazione dell’utilità e della ricchezza per tutti.
È lo stesso Smith (che chiama “mano invisibile” tale coincidenza tra interesse egoistico e interesse della comunità) a rappresentarsi in questi termini lo schema dello sviluppo economico.
Inoltre, è lo stesso Smith a rendersi conto che l’interesse di “tutti” non è altro che la crescita complessiva del capitale operante in una certa società, e che quindi l’interesse di “tutti” non include l’interesse dei “lavoratori produttivi”, i quali anzi, rileva Smith, col progredire della divisione del lavoro restringono la loro attività mentale all’espletamento di poche operazioni semplicissime, diventando «tanto stupidi e ignoranti quanto può diventarlo una creatura umana» (La ricchezza delle nazioni, cit., p. 949)
La logica di Smith, per la quale, in modo sostanzialmente contraddittorio, lo scopo della produzione è sia la massimizzazione del benessere comune, sia la massimizzazione della produzione e del capitale, esce da questa sua ambiguità nella concezione economica di David Ricardo (1772–1823).
David Ricardo
Egli emargina il principio che la produzione debba essere mezzo per la soddisfazione dei bisogni e pone il profitto (cioè l’incremento indefinito della produzione e del capitale) come unico scopo del processo economico.
Che in questo modo, tuttavia, resti invertito il rapporto tra produzione e consumo, e si ponga come scopo quello che è un mezzo, e come mezzo quel che è lo scopo della produzione (la soddisfazione dei bisogni, appunto) è rilevato sia da Sismondi (1773–1842), sia da John Stuart Mill. Per Sismondi quell’inversione implica che l’economia “industriale” si trova inevitabilmente in una situazione di crisi; per Stuart Mill “lo stato stazionario del capitale” (quello cioè in cui il capitale non mira al proprio incremento indefinito) è una situazione migliore, più umana di quella in cui si persegue il suo accrescimento indefinito, dove spietate sono la concorrenza e l’inimicizia tra gli uomini.
Marx sulla scia di Hegel
Ma è Marx a rendere esplicito il concetto — implicitamente presente in Smith, Sismondi, Stuart Mill, cioè negli stessi teorici del liberalismo economico — che il processo di produzione capitalistico è una “contraddizione”.
Già Hegel aveva scorto il carattere contraddittorio del lavoro, che da un lato, è instaurazione del rapporto razionale dell’uomo con la natura, ossia realizzazione dell’essenza dell’uomo, dall’altro è disumanizzazione, negazione di quell’essenza, perché la divisione del lavoro (richiesta dall’esigenza di renderlo massimamente produttivo) frantuma l’attività concreta dell’uomo, trasformando l’uomo in un’attività astratta (l’attività, appunto, che viene esplicata quando il lavoro, diviso, diventa la ripetizione meccanica di pochi movimenti elementari).
Su questa base (che Hegel deriva da Smith) Marx rileva che la società mercantile non può essere intesa come la società razionale e naturale (come invece Smith riteneva).
Infatti “naturale”, per Marx, è la relazione, l’unità (in senso hegeliano) sociale, non la separazione astratta (Hegel parla appunto di “intelletto astratto”).
Ma la società mercantile, nello scambio, mette in relazione individui che restano pur sempre separati gli uni dagli altri, “reciprocamente indifferenti”, appunto perché nel lavoro essi sono separati e indifferenti.
In quanto rapporto tra prodotti astratti (le merci) di un lavoro astratto, il mercato è un meccanismo impersonale che si contrappone all’individuo umano concreto e lo subordina a sé. E il lavoro, in quanto finalizzato al mercato, non è più in funzione dell’individuo, ma l’individuo è in funzione del lavoro.
Emanuele Severino, La filosofia contemporanea, Milano, RCS libri, 2010, pp. 314–316