Simone Weil e la guerra

Introduzione agli scritti 1933–1943

Mario Mancini
25 min readApr 24, 2022

di Donatella Zazzi

Vai al libro Mosaico “Simone Weil, Scritti sulla guerra 1933–1943”

Salvador Dalì, “Il volto della guerra”, 1940, Museum Boijmans Van Beuningen, Rotterdam.

Un difficile passaggio

Gli articoli, le lettere, i frammenti di Simone Weil qui raccolti riguardano tutti il problema della guerra, che costituisce uno dei centri della sua riflessione. Sono stati scritti tra il 1933 e il 1943, anno della sua morte, e delineano il difficile passaggio da un iniziale pacifismo alla partecipazione attiva, anche se non priva di contrasti, alla Resistenza contro il nazismo. Un passaggio non raro in quegli anni, ma che in Simone Weil implica una complessità e un rigore di pensiero singolari, la ricerca appassionata di una possibile via d’uscita alla tragica minaccia che incombe sull’Europa alla fine degli anni trenta.

Lo stile di Simone Weil è conciso, essenziale; il suo impegno è tutto rivolto ai nodi teorici ed etici da sciogliere. I riferimenti alla realtà storica e politica sono solo a volte presenti, più spesso sono impliciti; quelli alla sua vita personale quasi sempre assenti. I testi qui proposti, inoltre, evidenziano un’evoluzione di pensiero tesa, drammatica; ognuno sembra scritto per fare il punto su un problema, e andare oltre. Per questo, accennare brevemente ad alcune linee generali di riferimento può forse essere di qualche utilità.

Ritengo siano rintracciabili in questi testi — certo schematizzando — tre momenti fondamentali: nel primo il pacifismo della Weil è ancora fortemente ancorato alla storia e alle prospettive del movimento operaio; in un secondo momento questo riferimento si allenta, e la sua attenzione, negli anni immediatamente precedenti la Seconda guerra mondiale, è soprattutto rivolta a indicare mediazioni, compromessi che possano evitare l’esplosione della tensione internazionale; il terzo momento testimonia una trasformazione di pensiero e di scelte. Simone Weil scrive gli ultimi articoli a Londra, dove è attiva — almeno sino a poco prima della sua morte — nelle fila di France combattente.

L‘iniziale pacifismo

Il primo articolo che presentiamo, Riflessioni sulla guerra, è ricco di riferimenti e costituisce quasi un bilancio e un punto di svolta rispetto ai primi anni di impegno.

Giovane allieva di Alain[1] all’Henri IV di Parigi, e poi studentessa all’École Normale Supérieure, Simone Weil si dichiarava pacifista.

Parlare di pacifismo negli anni venti in Francia significa ricordare la tragica crisi di valori determinata dalla Prima guerra mondiale e il profondo disagio avvertito, almeno da una élite di giovani, rispetto al nazionalismo e alla volontà di umiliare la Germania vinta, che si erano diffusi durante la ni Repubblica. Scriverà, molti anni dopo, la stessa Weil nella sua lettera a Bernanos: «All’epoca del trattato di Versailles avevo dieci anni. Fino ad allora ero stata patriota con tutta l’esaltazione dei bambini in un periodo di guerra. La volontà di umiliare il nemico vinto, che dilagò dappertutto in modo così disgustoso in quel momento (e negli anni successivi), mi ha guarito una volta per tutte da quell’ingenuo patriottismo».[2]

«Come numerosi suoi coetanei e compagni di studio, Simone Weil manifesta un atteggiamento di opposizione: è contro la borghesia e i suoi valori, contro la sua morale, contro i poteri e il modo con cui è gestita la politica della in Repubblica, contro i suoi grandi scandali e le sue piccole miserie, contro la Francia “patriottarda” del dopoguerra, che celebra i suoi morti e inaugura in ogni più piccolo villaggio monumenti ai caduti.» [3]

Questo disagio diffuso portò molti giovani intellettuali a costituire piccoli gruppi, a pubblicare riviste più o meno durature, a denunciare con proteste, petizioni, manifestazioni, il riarmo crescente, l’oppressione delle gerarchie militari, i rischi della situazione tedesca. Un momento importante fu la firma del patto Briand-Kellog nell’estate del 1928, volto a ristabilire un clima di distensione internazionale, a rinunciare alla guerra come strumento per risolvere le controversie, a sostenere il disarmo. Molti, pur dubitando dell’efficacia di questo patto, si impegnarono a sostenerlo. Tra questi, Simone Weil, che nel 1927 aveva aderito al piccolo gruppo La Volonté de Paix, e che in seguito appoggerà anche una corrente di opposizione interna alla Ligue des droits de l’homme, per rendere più decisa la lotta di questa organizzazione a favore della pace.

Ottenuta l’agrégation, Simone Weil comincia a insegnare filosofia, nel 1931, a Le Puy. Qui si lega alle organizzazioni sindacali della scuola e a quelle operaie; insegna — continuando una forma di impegno cui si era già dedicata a Parigi — nei corsi serali per i minatori della vicina cittadina di Saint-Étienne. Stringe amicizie durature con lavoratori, disoccupati, sindacalisti. Dà scandalo per il suo comportamento volto a sostenere le loro lotte, rinuncia a parte dello stipendio e limita al minimo le proprie esigenze per poterli aiutare.

È questo un tratto fondamentale della sua personalità. Nata in una colta e agiata famiglia ebraica, Simone Weil aveva sempre manifestato una «spontanea simpatia per i deboli, i poveri, i vinti, gli oppressi».[4] E proprio la scelta di stare dalla loro parte rimarrà un orientamento costante in tutta la sua vita. Ciò la porta anche a voler capire soprattutto le loro condizioni materiali di lavoro sperimentandole in modo diretto, appena ne ha la possibilità, in prima persona.

La guerra come male assoluto e mezzo di dominio

Questa scelta è in stretto rapporto con il suo pacifismo per due motivi: da un lato infatti Simone Weil considera la guerra un male assoluto, perché colpisce e coinvolge più duramente le classi più sfruttate che hanno minori possibilità di difesa, e dall’altro proprio il lavoro, riscattato e trasformato in termini tali da salvaguardare la dignità umana, avrebbe dovuto costituire a suo parere il fondamento della pace.

A questo proposito vale la pena ricordare che Simone Weil si era interessata nel 1928 a un progetto del servizio civile, volto a sostituire il servizio di leva con il lavoro manuale, da svolgere in situazioni di particolare difficoltà e bisogno. Alcune frasi scritte in questa occasione sono indicative: «… il lavoratore riconosce il proprio simile e ne è riconosciuto. Solo i lavoratori formano una repubblica. Per questo è il lavoro, e non la religione o l’amore, che fonda e fonderà la pace».[5]

Così, coerentemente, l’impegno, la vera e propria militanza combattiva e appassionata di Simone Weil nei primi anni trenta è sindacale, e tutta la sua concezione può essere definita in questa fase operaista, «sia perché prospetta una cultura interamente basata sul lavoro, sia, soprattutto, perché sostiene che la democrazia che gli operai dovrebbero instaurare nelle fabbriche è destinata a informare, fino a trasformarla, l’intera società».[6]

Politicamente è vicina alla corrente del sindacalismo rivoluzionario, raggruppato attorno alla rivista La Révolution prolétarienne, fondata a Parigi nel 1925. A darle vita era stato un gruppo di dissidenti comunisti, espulsi dal PCF, che avevano immediatamente colto con grande preoccupazione l’evolversi della situazione politica in Russia dopo la morte di Lenin. La lotta per la successione al potere, la concezione staliniana della costruzione del socialismo in un unico paese, l’isolamento e la repressione contro le opposizioni interne, a partire da quella di Trockij, il ruolo dominante esercitato dal Partito comunista sovietico su tutta la politica della Terza Internazionale, avevano suscitato le critiche di questi primi dissidenti “di sinistra”.

Misurando il tragico peso che questo nuovo corso della rivoluzione sovietica avrebbe potuto avere sul movimento comunista dei diversi paesi, essi, senza staccarsi dal movimento operaio e dall’impegno politico, decisero di reagire cercando soprattutto di mantenere viva l’informazione e la discussione sulla realtà dell’URSS e del movimento operaio internazionale.

Proprio su La Révolution prolétarienne, e poi su La Critique sociale, fondata nel 1931 dal più noto di questi dissidenti, Boris Souvarine, [7] Simone Weil scrisse alcuni dei suoi primi, più importanti articoli. Riflessioni sulla guerra presuppone tutto questo intreccio di esperienze, ne costituisce non solo un punto d’arrivo, ma indica già un mutamento di prospettiva.

Siamo nel 1933: in Germania, all’inizio dell’anno, Hitler è salito al potere, e già il timore di un nuovo conflitto internazionale comincia a profilarsi. Per la Weil, è urgente fare chiarezza sulle confuse e contraddittorie concezioni esistenti sulla guerra all’interno del movimento operaio. La sua scelta pacifista è riaffermata con forza, sia rispetto alla guerra tra Stati sia rispetto alla guerra rivoluzionaria. La prima, secondo la Weil, prolunga l’intreccio inestricabile esistente nel mondo moderno, in tempo di pace, fra struttura economica e militare, per cui è possibile affermare che «le armi sono messe al servizio della concorrenza e la produzione al servizio della guerra».[8]

Questa inoltre «non fa che riprodurre i rapporti sociali che costituiscono la struttura stessa del regime, ma a un livello molto più elevato»,[9] e si configura come «la forma più radicale dell’oppressione».[10] È dunque un meccanismo atroce che stritola innanzitutto i lavoratori, gli oppressi, di cui viene calpestata senza pudore, come riaffermerà anche in Risposta a una domanda di Alain, la dignità e la vita. Non solo. La guerra implica l’inevitabile rafforzamento dell’apparato militare, della burocrazia, della polizia; è quindi un meccanismo che, quand’anche non fosse provocato da un regime autoritario, tende ineluttabilmente a produrlo.

La critica alla guerra rivoluzionaria e all’URSS

Questo ci introduce all’altro tema fondamentale del suo articolo: la critica alla concezione, presente nella tradizione marxista e proletaria, di “guerra rivoluzionaria”. La Weil definisce questo tipo di guerra, sorta per la prima volta in Francia nel 1792, e ripresentatasi in modo assai simile in Russia per difendere le conquiste rivoluzionarie dai nemici interni ed esterni, la “tomba della rivoluzione”, [11] perché anch’essa implica una militarizzazione dello Stato e della vita civile, e quindi il rischio di un’involuzione totalitaria. Ciò è testimoniato non solo dalla «deriva montagnarda del 1793 risoltasi in bonapartismo, ma anche dall’evolversi della rivoluzione sovietica, che ha determinato la formazione di un apparato “militare, burocratico e poliziesco”». [12] D’altro canto una rivoluzione che non si organizzi militarmente per la propria difesa sembra destinata alla sconfitta, com’è avvenuto per la Comune di Parigi.

Da un lato, dunque, la tragedia che la guerra tra Stati implica, dall’altro il pericolo di una guerra rivoluzionaria che si traduce o in un’involuzione totalitaria o nella sconfitta.

Questo il vicolo cieco, la difficoltà drammatica che Simone Weil individua agli inizi degli anni trenta e che la conferma nella sua scelta pacifista.

Questo articolo dimostra inoltre che era giunta a esprimere un giudizio definitivamente negativo sull’Unione Sovietica. Non solo non la considerava la patria internazionale dei lavoratori, ma nemmeno, come Trockij, una deformazione burocratica della dittatura del proletariato. L’Unione Sovietica era invece l’esempio di una forma nuova di potere totalitario, in cui il passaggio di proprietà delle fabbriche dalle mani degli imprenditori a quelle di questo nuovo Stato non aveva determinato l’affrancamento dei lavoratori, ma una nuova forma di oppressione che presentava caratteristiche simili a quelle degli stessi Stati fascisti.

Ciò che era stato realizzato era quasi esattamente l’opposto della democrazia operaia immaginata da Marx e, almeno agli inizi, dallo stesso Lenin: invece «dei Soviet, dei sindacati e delle cooperative in grado di funzionare democraticamente e di dirigere la vita economica e politica»[13] c’erano semplici organismi ridotti ad apparati amministrativi; invece della libertà di espressione, l’impossibilità di esprimere un giudizio senza rischiare la deportazione, invece del gioco dei partiti, un sistema di partito unico, invece del popolo armato per difendere direttamente le sue conquiste, un esercito stabile, una polizia efficiente e «una burocrazia permanente, irresponsabile, reclutata per cooptazione, e in possesso, grazie all’accentramento nelle sue mani di tutti i poteri economici e politici, di un potere finora sconosciuto nella storia».[14] Ciò implicava per la Weil una sfiducia radicale nella politica interna ed estera dell’Unione Sovietica, e anche un confronto serrato con lo stesso marxismo, presente effettivamente in molti suoi scritti di questi anni.

Questi elementi di riflessione, insieme alla pesante delusione per la sconfitta del movimento operaio tedesco di fronte all’avanzata nazista, sconfitta cui non era certo estranea, secondo la Weil, la politica settaria della Terza Internazionale, determinano una svolta nel suo impegno. La fiducia in una trasformazione rivoluzionaria della società, almeno sulla base delle concezioni esistenti, viene meno. In una lettera del 1934 all’amica Simone Pétrement scrive con risolutezza:

«Ho deciso di ritirarmi completamente da ogni attività politica, fatta salva la ricerca teorica. Ciò non esclude affatto l’eventuale mia partecipazione a un movimento spontaneo delle masse (nei ranghi, però, da semplice soldato) ma non voglio nessuna responsabilità, anche minima e indiretta, perché sono sicura che tutto il sangue che sarà versato sarà invano, e che siamo sconfitti in partenza».[15]

Simone Weil prende così le distanze dallo stesso impegno sindacale, anche se il problema del lavoro, in particolare del lavoro operaio e del suo riscatto, rimarrà una delle sue preoccupazioni fondamentali, come dimostra la scelta di andare a lavorare come semplice e sconosciuta operaia per quasi un anno, e la sua successiva e gioiosa partecipazione all’occupazione delle fabbriche, verificatasi in Francia nel 1936, parallelamente alla vittoria elettorale del Fronte popolare.

La breve partecipazione alla Guerra di Spagna

Ma proprio da quest’anno, con l’inizio della guerra civile spagnola, sarà soprattutto la situazione internazionale, il tragico profilarsi di una nuova guerra mondiale a prendere il sopravvento nella sua riflessione.

Il Fronte popolare spagnolo aveva vinto le elezioni del febbraio 1936. Il 17 e 18 luglio il generale Franco aveva dato inizio alla rivolta dell’esercito contro il governo repubblicano.

L’8 agosto Simone Weil varca la frontiera spagnola con l’intenzione di arruolarsi. Prima della sua adesione alla Resistenza, è questo l’unico episodio in cui partecipa attivamente a una lotta armata.

Ciò contraddice le sue convinzioni sui rischi di una guerra rivoluzionaria e anche il pessimismo cui abbiamo appena accennato, ma solo in parte, perché la sua è appunto una partecipazione “nei ranghi”, “da soldato”. È un momento di slancio, che sarà peraltro di brevissima durata.

Si unisce a un piccolo gruppo internazionale che operava a fianco della colonna anarchica, guidata da Buenaventura Durruti, in Aragona, sulla riva sinistra dell’Ebro. Ma il 20 agosto, ustionatasi con dell’olio bollente, è costretta a farsi ricoverare in ospedale. Inizialmente decisa a riprendere il suo posto appena guarita, sceglierà invece successivamente di non tornare più a combattere. È lei stessa a chiarirne il motivo:

«Non sentivo più alcuna necessità interiore di partecipare a una guerra, che non era più, come mi era sembrata all’inizio, una guerra di contadini affamati contro i proprietari terrieri e un clero complice dei proprietari, ma una guerra tra la Russia, la Germania e l’Italia».[16]

Simone Weil ha certo vissuto questa esperienza con un’emozione particolare: «Non si dirà che qualcosa al mondo ci sia più caro della vita del popolo spagnolo».[17] Tutta la lettera a Bernanos è intensa e singolarmente ricca di riferimenti personali: lo scrittore francese la porterà sempre con sé, nel suo portafoglio, fino alla morte.

Rientrata in Francia poi, come sempre, Simone Weil non farà mancare il suo aiuto ai repubblicani, e, dopo il 1939, ai profughi e ai rifugiati. Nonostante tutto ciò, anche questa esperienza conferma, anzi, rende più radicale il suo pacifismo.

Nell’atmosfera «di guerra civile, di sangue e di terrore»[18] in cui era venuta a trovarsi, un aspetto l’aveva separata dai suoi compagni di lotta:

«… non ho mai visto nessuno, nemmeno in confidenza, esprimere repulsione, disgusto o solo disapprovazione per il sangue inutilmente versato»[19]

Alcune osservazioni fatte in questa occasione verranno riprese e contribuiranno a dare un nuovo orientamento alla sua riflessione. Scrive, per esempio:

«… ho avuto la sensazione che quando le autorità temporali e spirituali hanno separato una categoria di esseri umani da coloro per i quali la vita umana ha un prezzo, non c’è niente di più naturale per l’uomo che uccidere. Quando si sa che è possibile uccidere senza rischiare né castigo né biasimo, si uccide; o perlomeno si circondano di sorrisi incoraggianti coloro che uccidono».[20]

A poco a poco, le notizie che le arriveranno in seguito dalla Spagna la convinceranno, anche in questo caso, del fatto che «le necessità belliche fanno dimenticare molto presto lo scopo iniziale; esse costringono a trascurare il desiderio di giustizia, di libertà e d’umanità che ha fatto intraprendere quella stessa guerra».[21]

Per questi motivi si impegnerà a sostenere tutte le iniziative volte a ristabilire la pace in Spagna. Non solo. Sin dall’inizio aveva appoggiato la politica di non-intervento di Léon Blum, così impopolare nell’ambito della sinistra francese. «Perché? Perché l’intervento, invece di ristabilire l’ordine in Spagna, avrebbe messo a ferro e fuoco tutta l’Europa.» [22] Il pesante senso di responsabilità per questa scelta le fa però anche aggiungere:

«Se noi abbiamo accettato di sacrificare i minatori delle Asturie, i contadini affamati di Aragona e di Castiglia, gli operai libertari di Barcellona piuttosto che scatenare una guerra mondiale, nient’altro al mondo deve portarci a scatenare la guerra. Niente, né l’Alsazia-Lorena, né le colonie, né i trattati».[23]

Ritorno al pacifismo

Sarà la sua posizione costante negli anni immediatamente successivi. Vicina ora ai gruppi pacifisti che si esprimono attraverso riviste come Vigilance, Feuilles libres de la Quinzaine, La Flèche, Syndicats, contribuisce attivamente all’elaborazione di una nuova rivista Nouveaux Cahiers, cui partecipano personalità provenienti da esperienze politiche e culturali diverse.

Tra questi, Auguste Detoeuf, intelligente e lungimirante dirigente industriale, il cattolico Jacques Maritain, lo studioso Denis de Rougemont, Boris Souvarine, e molti altri. L’obiettivo comune è quello di affrontare i problemi politici ed economici della società francese, senza partire da modelli ideologici precostituiti.

Sui Nouveaux Cahiers, nell’aprile del 1937, Simone Weil pubblica un importante articolo: Non ricominciamo la guerra di Troia, in cui prende in esame alcuni dei grandi ideali in nome dei quali i popoli si preparano ancora una volta a sterminarsi a vicenda: «nazione, sicurezza, capitalismo, comunismo, fascismo, ordine, autorità, proprietà, democrazia».[24] Questi ideali le sembrano ormai parole altisonanti e confuse, «parole omicide», che non indicano affatto obiettivi reali da raggiungere (sui quali un accordo, un compromesso sarebbe sempre possibile) ma coprono il vuoto effettivo per cui ci si uccide.

Nessuna di queste parole viene infatti mai analizzata per ciò che concretamente rappresenta, e l’uso di espressioni «c’è democrazia (dittatura, capitalismo) nella misura in cui.. .» [25] sembra superare la nostra capacità intellettuale. Così, nel mondo moderno (privo di religiosità) queste parole dell’ideologia e della politica giocano il ruolo che un tempo spettava agli dèi e assumono proporzioni assolute e mostruose.

Presentandosi per coppie di opposti (dittatura/democrazia, fascismo/comunismo) determinano schieramenti contrapposti che tendono alla reciproca eliminazione. E gli uomini, che sembrano aver perduto il senso del limite e della misura, ciechi di fronte alle affinità che comunque condividono con i loro nemici, di fronte a diversità nazionali e ideologiche che dovrebbero e potrebbero comportare un reciproco sforzo di tolleranza e comprensione, si dispongono sempre di nuovo a iniziare conflitti di cui non riescono a vedere le reali e terrificanti conseguenze.

Una volta iniziata, poi, la guerra va avanti da sé, in una spirale perversa di ritorsioni sanguinose: mentre i massacri si moltiplicano, si allontana sempre più ogni tregua, ogni accordo possibile. Se gli ideali per cui si combatte sono infatti per la Weil irreali, reali sono invece le strutture organizzative nazionali, di partito, che tendono inesorabilmente, per difendere la propria esistenza, a eliminare quella del nemico. Il suo pacifismo ha dunque assunto contorni diversi: non più e non solo la denuncia della guerra perché costituisce un male in sé, soprattutto per le classi sociali più indifese, ma la denuncia (il livellamento) del valore degli ideali per cui si combatte; tutto viene messo sullo stesso piano.

In questo stesso periodo però la Weil riprende in mano lo studio della cultura greca, in particolare di Omero, Eschilo, Sofocle, Platone e dello stoicismo. Un concetto fondamentale di questo pensiero ritorna infatti spesso nel suo articolo, ed è quello di “misura”. Vedremo quanta importanza assumerà per Simone Weil questa rivisitazione del mondo greco (e poi del cristianesimo e delle religioni orientali).

Negli anni immediatamente successivi il pacifismo della Weil, come tutto il pacifismo francese, sarà messo a dura prova dall’incalzare sempre più drammatico degli avvenimenti. Il tono dei suoi articoli si farà sempre più teso, a volte perentorio, quasi in proporzione inversa ai margini sempre più ristretti che la realtà offre.

La ricerca della pace in Europa

Ben poco tempo separa infatti l’Europa dall’inizio della Seconda guerra mondiale. 1938: annessione dell’Austria, questione dei Sudeti, accordi di Monaco. La posizione della Weil non cambia. Pur di mantenere aperta anche la più piccola possibilità di pace, si dimostra sempre disposta alle mediazioni e ai compromessi più pesanti: al ridimensionamento del ruolo della Francia, la discriminazione nei confronti di comunisti ed ebrei, persino all’ipotesi di un’egemonia tedesca in Europa.

«Devo esprimere tutto il mio pensiero? Una guerra in Europa sarebbe una sventura certa, in tutti i casi, per tutti, da tutti i punti di vista. Un’egemonia della Germania in Europa, per quanto amara ne possa essere la prospettiva, potrebbe, in fin dei conti, non essere una sventura.» [26]

15 marzo 1939: invasione tedesca del territorio cecoslovacco. Simone Weil scrive un lungo articolo rimasto allora inedito: Riflessioni in vista di un bilancio. In esso cerca di conservare ancora qualche speranza, di indicare una via d’uscita che non sia lo scontro frontale. Poiché la guerra non è stata ancora dichiarata, è forse possibile negoziare, temporeggiare, scegliere una politica di lungo periodo che punti al logoramento interno del regime nazista, che, come tutti i regimi totalitari, le sembra avere una debolezza interna.

«Ciò che rende questi regimi terrificanti è anche ciò che li indebolisce con gli anni, e cioè il loro prodigioso dinamismo.» [27]

Mantenere un’intera popolazione in uno stato di continua mobilitazione, di fittizio entusiasmo è, tranne che per alcuni anni di giovinezza, innaturale.

«… l’entusiasmo si logora meccanicamente: allora viene avvertita la costrizione e il sentimento della costrizione è sufficiente per suscitare quell’insieme di docilità e di rancore che è lo stato d’animo proprio degli schiavi… La soffocante necessità di dissimulare porta alla fine a un odio sordo.» [28]

Ma, nonostante queste ultime cautele, si avverte una crisi ormai più radicale e profonda. Arriva infatti ad affermare: «Le tesi del pacifismo integrale possono essere eliminate da uno studio della società attuale».[29]

Dirà successivamente:

«Dal giorno in cui, dopo una dura lotta interiore, ho deciso in me stessa che, malgrado le mie inclinazioni pacifiste, il primo dei doveri diveniva ai miei occhi perseguire la distruzione di Hitler con o senza speranza di successo, da quel giorno non ho mai desistito; è stato il momento dell’entrata di Hitler a Praga… Forse ho assunto tale atteggiamento troppo tardi. Credo che sia così e me ne rimprovero amaramente».[30]

II 13 giugno 1940, Simone Weil con i suoi genitori lascia Parigi, dichiarata città aperta. La Seconda guerra mondiale è ormai cominciata da nove mesi, la Francia settentrionale invasa dagli eserciti tedeschi. Parigi sarà occupata il giorno dopo, il 14 giugno.

Una folla in preda al panico si riversa nelle strade, le stazioni ferroviarie sono prese d’assalto; un fiume umano si dirige verso il sud della Francia, verso la zona del paese non ancora occupata. Il nuovo governo, presieduto dal maresciallo Pétain, firma l’armistizio con la Germania e stabilisce la sede del governo a Vichy.

Qui passa anche Simone Weil nel corso del suo viaggio, incontra alcuni pacifisti che condividono le scelte del nuovo regime. La rottura con loro è netta: si rimprovererà poi severamente di non aver saputo cogliere in tempo «la loro inclinazione al tradimento»[31] e di aver compiuto una «negligenza criminale nei confronti della patria».[32]

L’abbandono del pacifismo

La Weil decide invece sin d’ora di raggiungere Londra, da dove De Gaulle aveva lanciato un appello ai francesi affinché continuassero a combattere a fianco degli Alleati. Ma era ormai impossibile raggiungere l’Inghilterra direttamente: era necessario passare attraverso un altro paese. Simone Weil stabilisce così di fermarsi a Marsiglia, il grande porto mediterraneo che in pochissimo tempo diventa il punto d’incontro per tutti coloro che intendono lasciare la Francia.

Ancor prima dell’occupazione di Parigi, aveva elaborato e sottoposto alle autorità un progetto per la costituzione di una formazione di donne, di infermiere che operassero direttamente e immediatamente sul campo di battaglia. Quanto era successivamente accaduto aveva messo fuori questione la possibilità di una sua realizzazione. Ma la volontà di proporre questo progetto, cui naturalmente intendeva partecipare, all’organizzazione France libre guidata da De Gaulle a Londra, o, in subordine, la speranza di essere utilizzata in una missione operativa, diventano d’ora in poi gli obiettivi che indirizzeranno tutte le sue scelte successive.

Il primo problema è quello di lasciare la Francia; ci vorrà più tempo del previsto. Nel marzo del 1941, il fratello, André Weil, riesce a raggiungere New York; molti dicono a Simone che è abbastanza facile passare dagli Stati Uniti all’Inghilterra. Si imbarca nel maggio del 1942 per Casablanca: da qui, con i genitori, raggiungerà New York il 6 luglio.

Una sola incertezza interiore oscura questa scelta: il timore di allontanarsi dalla sofferenza e dai pericoli che incombono sulla Francia. Più volte, la stessa Weil accenna a questo aspetto della sua personalità. Capace di sopportare sofferenze e rischi se poteva condividerli con chi li subiva, veniva invasa dal dolore e dal rimorso quando invece se ne trovava lontana e quindi nell’impossibilità di fare qualcosa per gli altri. Come scrive lei stessa:

«La mia immaginazione funziona sempre in un modo per me molto penoso. Il pensiero delle sofferenze o dei pericoli cui non partecipo mi riempie di orrore, pietà, vergogna e rimorso, un miscuglio che mi toglie ogni libertà di spirito; solo la percezione della realtà mi libera da tutto ciò».[33]

Sarà proprio questa angoscia a dominare il suo ultimo anno di vita, un’angoscia che non poté mitigare con la realizzazione del suo Progetto di una formazione di infermiere di prima linea, perché De Gaulle non diede il suo consenso.

Ma prima di seguire le ultimissime vicende di Simone Weil, è necessario tornare indietro di qualche anno, perché la crisi del suo pacifismo, oltre ad avere le motivazioni storiche che abbiamo visto, implica anche un riesame complessivo dell’intera storia della cultura occidentale. Il bisogno di confrontarsi con questa esigenza fa di questi tragici anni il momento più altodella sua straordinaria riflessione.

Non è naturalmente possibile qui anche solo delineare la ricchezza dei temi da lei affrontati, e che sono consegnati in alcuni dei suoi saggi più significativi di questo periodo, come Riflessioni sull’origine dell’hitlerismo, L’Iliade o il poema della forza, e soprattutto nei suoi Quaderni.

La ricerca religiosa

Ma qualche brevissimo cenno è pur necessario affinché sia possibile cogliere, per esempio, la differenza esistente tra un articolo come Questa guerra è una guerra di religioni e quelli precedenti.

Abbiamo già accennato, parlando del suo scritto del 1937 Non ricominciamo la guerra di Troia, al fatto che Simone Weil aveva iniziato a riaccostarsi alla cultura antica, greca in particolare. La volontà di analizzare in profondità le origini dell’hitlerismo la portò inoltre non solo a studiare l’evoluzione dello Stato moderno, ma la spinse, attraverso la rilettura degli storici greci e latini, assai più indietro: alla trasformazione operata dalla Roma repubblicana e imperiale su tutto il Mediterraneo. Rivolse un’attenzione fondamentale infine ad alcuni fra i più grandi testi religiosi dell’umanità: il Libro dei morti egiziano, le Upanishad e la Bhagavadgita, la Bibbia.

Attraverso un confronto intenso, durato per tutti gli anni seguenti, Simone Weil arriverà a proporre una propria interpretazione delle affinità esistenti tra le antiche correnti religiose e filosofiche della Cina e dell’India, e quelle preromane, in particolare greche, cui collegherà le stesse origini del cristianesimo. Questa ricerca appassionata è vissuta come un’autentica trasformazione interiore. Il centro segreto che la unifica e ispira è del resto un’esperienza mistica, misteriosa e inattesa, che la Weil visse e della cui autenticità non dubiterà mai. Ne parlò con estremo pudore a due soli suoi interlocutori, al poeta Joë Bousquet e al padre domenicano Joseph-Marie Perrin.

Da Marsiglia, poco prima di abbandonare definitivamente la Francia, scrisse a quest’ultimo, ripercorrendo le tappe successive di quella rivelazione religiosa.

Nel 1935, dopo l’anno di lavoro in fabbrica che l’aveva prostrata, Simone Weil si era trovata in un paesino portoghese la sera in cui, in riva al mare, si svolgeva la festa del patrono. La tristezza straziante dei canti le aveva dato la certezza che «il cristianesimo è per eccellenza la religione degli schiavi»[34] e che lei non poteva quindi non aderirvi.

Nel 1937, incantata dalla bellezza di Assisi, e in particolare della cappella romanica di Santa Maria degli Angeli, aveva sentito che qualcosa più forte di lei la costringeva a inginocchiarsi. Nel 1938, infine, aveva deciso di passare il periodo di Pasqua nella abbazia benedettina di Solesmes. Qui era venuta a conoscenza dei poeti metafisici inglesi. Una poesia, soprattutto, l’aveva colpita: Love, di George Herbert. Aveva cominciato a recitarla, in particolare nei momenti culminanti di quelle crisi di emicrania che la torturavano da anni:

«Ponendovi la massima attenzione e aderendo con tutta l’anima alla tenerezza ch’essa racchiude. Credevo di recitarla soltanto come una bella poesia, mentre, a mia insaputa, quella recitazione aveva la virtù di una preghiera. Fu proprio mentre la stavo recitando che Cristo, come già vi dissi, è disceso e mi ha presa… Nei miei ragionamenti sull’insolubilità del problema di Dio, non avevo previsto questa possibilità, di un contatto reale, da persona a persona, quaggiù, tra un essere umano e Dio. Avevo vagamente sentito parlare di cose simili, ma non vi avevo mai creduto».[35]

A Joë Bousquet dirà anche:

«Da questo momento il nome di Dio e il nome di Cristo si sono sempre più irresistibilmente confusi con i miei pensieri».[36]

Una svolta definitiva si produce quindi in Simone Weil, determinando la comparsa «non immediatamente vistosa ma indubbiamente pervasiva, dell’elemento religioso o per meglio dire, il ricorso, nell’ordine delle argomentazioni, a un linguaggio e a una conoscenza riconducibili all’esperienza religiosa».[37]

Ciò traspare anche nella qualità della sua scrittura, che si trasforma divenendo talvolta intensamente poetica. Anche in un breve articolo come Questa guerra è una guerra di religioni è possibile cogliere l’infinita pietà e dolcezza con cui sembra sfiorare gli aspetti più atroci del mondo che la circonda.

L’approdo al cristianesimo

Eppure anche in questo caso Simone Weil mantiene la propria indipendenza intellettuale: la sua interpretazione del cristianesimo è estremamente complessa. Proponiamo due sole osservazioni, che possono darne un’idea.

Ebrea di nascita, avrebbe dovuto farsi battezzare, ma non volle, preferendo «restare sulla soglia», a testimoniare tutto ciò che dal cristianesimo rimane fuori:

«Tutta l’immensa distesa dei secoli passati, eccettuati gli ultimi venti; tutti i paesi abitati da razze di colore; tutta la vita profana nei paesi di razza bianca; nella storia di questi ultimi, tutte le tradizioni accusate di eresia, come la tradizione manichea e albigese; tutto ciò che è nato dal Rinascimento, troppo spesso degradato, ma non del tutto privo di valore».[38]

Nel 1942, scrivendo a Jean Wahl, esprimerà così le sue convinzioni sulla storia della filosofia e delle religioni:

«Credo che un identico pensiero si trovi espresso, in un modo molto preciso e con modalità appena diverse, nelle antiche mitologie; nella filosofia di Ferecide, Talete, Anassimandro, Eraclito, Pitagora, Platone e degli stoici greci; nella poesia greca dell’epoca aurea, nel folclore universale, nelle Upanishad e nella Bhagavadgita, negli scritti dei taoisti cinesi e in certe correnti buddhiste; in ciò che resta delle scritture sacre d’Egitto; nei dogmi della fede cristiana e negli scritti dei grandi mistici cristiani, soprattutto in san Giovanni della Croce; in certe eresie, particolarmente nella tradizione catara e manichea. Credo che questo pensiero sia la verità e che ha bisogno, oggi, di una espressione moderna e occidentale».[39]

Quale incidenza hanno avuto queste riflessioni sulla scelta di Simone Weil di prendere parte alla guerra contro il nazismo? Nell’articolo che abbiamo già citato, Questa guerra è una guerra di religioni vi sono alcune affermazioni riguardo a un concetto molto importante: quello di idolatria. Ciò, per la Weil, significa assumere persone, popoli e istituzioni storiche, e perciò intessuti di bene e di male, e farne degli idoli, delle entità a cui si sacrifica la propria vita e quella degli altri.

L’idolatria matrice della guerra

L’idolatria, che è per sua natura totalitaria, si è presentata in varie forme e a più riprese nella storia dell’umanità: è stata presente nella religione ebraica, quando è stato esaltato quel Dio che, privilegiando Israele, ne sosteneva le sanguinose vittorie sui popoli nemici; è stata dominante nella storia dell’espansione di Roma, perché tutto veniva compiuto in nome di quell’idolo che era lo Stato romano. Successivamente si è presentata nella storia della Chiesa cristiana, in particolare nei periodi tragici delle crociate e dell’Inquisizione. Nel mondo contemporaneo sono le nazioni a esercitare questa funzione «non direttamente, ma attraverso la mediazione di un partito di Stato e delle organizzazioni che lo circondano».[40]

Questa idolatria, questo surrogato distorto di un’autentica religiosità, ha pervaso tutta la storia del mondo occidentale, che ha bisogno ormai, per poterne uscire, di un radicale rinnovamento spirituale. Essa ha assunto — alla fine degli anni trenta — la sua espressione più estrema e mostruosa nel nazismo, che minaccia di sradicare, di annientare l’identità dei popoli e degli individui. La guerra è divenuta un male necessario: non parteciparvi significherebbe commettere un male ancora maggiore.

In questo mondo, dunque, retto dall’impero della forza e della necessità, in cui gli uomini sono in esilio, non è consentito loro di sottrarsi al male. È questa la radice della critica che la Weil rivolge al pacifismo. Ma come concepire, come misurare il male che si è costretti a compiere? È la «difficoltà terribile»[41] su cui Simone Weil continua a interrogarsi, la tragica impasse cui si trova di fronte.

Come Arjuna, l’eroe della Bhagavadgita, che la Weil legge con profonda partecipazione in questi anni, «combatterà perché non può arrestare questa guerra e perché se essa ha luogo non può non prendervi parte (essa è già cominciata)». [42] Ma «per quanto giusta sia la causa del vincitore, per quanto giusta la causa del vinto, il male prodotto dalla vittoria come dalla sconfitta non è meno inevitabile. Sperare di sfuggirvi è proibito».[43] «Tutto quel che si può dire è che l’intenzione, nel senso più forte, è di fare il minimo di male possibile, tutto considerato, e tenuto conto delle necessità.» [44]

«Il minimo di male possibile»: per Simone Weil finirà per coincidere con il proprio sacrificio.

La sua intenzione era stata fin dall’inizio quella di proporsi per azioni che la esponessero al più grande rischio personale. Quando dovrà constatare che ciò non le viene permesso, andrà incontro alla propria morte.

L’impegno con France Libre

Giunta dunque a New York nel luglio del 1942, Simone Weil cerca tutti i contatti possibili per potersi recare in Inghilterra. Ciò risulta assai più difficile di quanto avesse creduto, e la sensazione di aver abbandonato il suo paese in un momento di crescente difficoltà la porta alla disperazione. Trova infine un appoggio reale nel compagno di studi della sua giovinezza, Maurice Schumann, che riesce dopo qualche mese a farla arrivare a Londra, dove le viene assegnato l’incarico di lavorare nei servizi del Commissariato degli Interni di France libre.

Questo organo aveva il compito di raccogliere e analizzare progetti e proposte dei resistenti francesi che riguardavano il futuro assetto della Francia. Simone Weil cominciò a lavorare giorno e notte, senza risparmiarsi, vagliando i documenti che poteva raccogliere, e cominciando a elaborare le proprie personali proposte, di cui Riflessioni sulla rivolta è un esempio.

Ma dovette anche constatare che il suo Progetto di una formazione di infermiere di prima linea non veniva accolto, né quello di essere inviata in Francia per compiere missioni operative. Ciò incrinò il suo rapporto con France combattante (il nuovo nome assunto da France libre) e con lo stesso Schumann.

Per la Weil fu infatti una lacerazione irreparabile. Si rimproverava in modo sempre più angosciato di aver lasciato la Francia. «Rattristata, si nutriva sempre meno. Non voleva mangiare — è stato detto — più di quanto era consentito dal razionamento del cibo ai francesi rimasti in patria.» [45]

In aprile viene trovata svenuta in casa e ricoverata in ospedale. La diagnosi indica una forma di tubercolosi, ancora curabile.

In luglio dà le dimissioni dal suo incarico e si dissocia da France combattante.

Le sue condizioni, nonostante le positive previsioni dell’inizio, non migliorano: continua a nutrirsi troppo poco.

Il 17 agosto viene portata in ambulanza al Grosvenor Sanatorium di Ashford. Qui muore una settimana dopo, il 24 agosto 1943, a trentaquattro anni.

Note

[1] Pseudonimo del filosofo Émile Chartier (1868–1951), famoso insegnante, che con il suo metodo di ispirazione socratica ha formato diverse generazioni di intellettuali e politici di rilievo.

[2] Simone Weil, Lettre à Georges Bernanos, in Écrits historiques et politiques, Gallimard, Paris 1960, p. 224; d’ora in poi citato con la sigla EHP.

[3] Domenico Canciani, Il coraggio di pensare. Edizioni Lavoro, Roma 1996, p. 36.

[4] Simone Weil, Oeuvres complètes, 2 voll., vol.I, L’engagement syndical (1927- juillet 1934), Gallimard, Paris 1988, pp. 9–10; d’ora in poi citato con la sigla OC, II, 1. D. Canciani, ivi, p. 65.

[5] Ivi, p. 49.

[6] D. Canciani, ivi, p. 65.

[7] Pseudonimo di Boris Lifschitz (1895–1984), giornalista, militante rivoluzionario assai noto. Dirigente del Partito comunista francese, fu espulso nel 1924 per le critiche espresse nei confronti della politica staliniana che si stava affermando. Tra i fondatori del Cercle communiste Marx et Lénine divenuto poi Cercle communiste démocratique, direttore della rivista La critique sociale, è autore di una documentatissima ricostruzione storico-biografica della vita di Stalin intitolata Staline, aperçu historique du bolchevisme (trad. it. Stalin, Adelphi, Milano 1983).

[8] Simone Weil, Réflexions sur la guerre, OC, I, p. 292.

[9] Ivi, p. 292.

[10] Ivi, p. 293.

[11] Ivi, p. 296.

[12] Simone Weil, OC, II, I, p. 19.

[13] Simone Weil, Prospettive, in Sulla Germania totalitaria, Adelphi, Milano 1990, p. 167.

[14] Ivi, pp. 167–168.

[15] Simone Pétrement, La vie de Simone Weil, Fayard, Paris 1973, p. 401.

[16] Lettre à Georges Bernanos, cit., p. 221.

[17] Non-Intervention généralisée, in Oeuvres complètes, vol. in, Vers la guerre (1937–1940), Gallimard, Paris 1989, p. 46; d’ora in poi citato con la sigla OC, II, 3.

[18] Lettre à Georges Bernanos, cit., p. 221.

[19] Ivi, p. 223.

[20] Ivi, p. 223.

[21] Simone Pétrement, La vita di Simone Weil, Adelphi, Milano 1994, p. 373.

[22] Non-Intervention généralisée, cit., p. 45.

[23] Ivi, p. 46.

[24] Ne recommençons pas la guerre de Troie, OC, ii, 3, p. 52.

[25] Ivi, p. 52.

[26] Lettre à G. Bergery, EHP, p. 287.

[27] Réflexions en vue d’un bilan, OC, n, 3, p. 109.

[28] Ivi, p. 111.

[29] Ivi, p. 100.

[30] Simone Pétrement, cit. p. 612.v

[31] Simone Weil, Quaderni, IV, Adelphi, Milano 1993, p. 377.

[32] Ivi, p. 377.

[33] Simone Pétrement, cit., p. 497.

[34] Simone Weil, Attesa di Dio, Rusconi Editore, Milano 1972, p. 29.

[35] Ivi, pp. 29–30.

[36] Joë Bousquet e Simone Weil, Lettere della guerra, La Locusta, Vicenza, p. 43.

[37] Domenico Canciani, cit., p. 221.

[38] Simone Weil, Attesa di Dio, cit., p. 38.

[39] Simone Pétrement, cit., p. 613.

[40] Cette guerre est une guerre de religions, in Écrits de Londres et dernières lettres, Gallimard, Paris 1957, p. 101; d’ora in poi citato con la sigla el.

[41] Simone Weil, Quaderni, I, Adelphi, Milano 1994, p. 334.

[42] Ivi, p. 333.

[43] Ivi, p. 233.

[44] Ivi, p. 273.

[45] Simone Pétrement, cit., p. 643.

Da: Simone Weil, Sulla guerra. Scritti 1933–1943, Edizioni del Corriere della Sera, 2022, pp. 3–23

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Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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