Se una notte d’inverno un narratore

Risposta a Angelo Guglielmi

Mario Mancini
11 min readApr 10, 2022

di Italo Calvino

Vai agli altri titoli della serie “Gli autori bestseller italiani … e non solo italiani”
Vai alle domande di Angelo Guglielmi a Calvino intorno a “Se una notte d’inverno un viaggiatore”

Caro Angelo Guglielmi, “a questo punto farei a Calvino due domande”, tu scrivi, ma in realtà sono parecchi gli interrogativi, espliciti o impliciti, che tu poni a proposito del mio Viaggiatore, nel tuo articolo su “Alfabeta” n. 6, intitolato appunto Domande per Italo Calvino. Cercherò, per quanto posso, di risponderti.

Comincerò dalla parte del tuo articolo che non pone interrogativi, cioè in cui il tuo discorso coincide col mio, per poi individuare i punti in cui i nostri sentieri si biforcano e cominciano ad allontanarsi. Tu descrivi molto fedelmente il mio libro e soprattutto definisci con precisione i dieci tipi di romanzo che vengono successivamente proposti al lettore:

«… In un romanzo la realtà è imprendibile come la nebbia; in un altro gli oggetti si presentano con caratteri fin troppo corposi e sensuali; in un terzo è vincente l’approccio introspettivo; in un altro agisce una forte tensione esistenziale proiettata verso la storia, la politica e l’azione: in un altro ancora esplode la violenza più brutale; e poi in un altro cresce un sentimento insostenibile di disagio e di angoscia. E poi c’è il romanzo erotico-perverso, quello tellurico-primordiale e infine il romanzo apocalittico.»

Mentre la maggior parte dei critici per definire questi dieci incipit ne ha cercato dei possibili modelli o fonti (e spesso da questi elenchi di autori saltano fuori nomi a cui io non avevo mai pensato, cosa che richiama l’attenzione su un campo finora poco esplorato: come funzionano le associazioni mentali tra testi diversi, per quali vie un testo nella nostra mente viene assimilato o affiancato a un altro) tu segui quello che è stato il mio procedimento, cioè di propormi ogni volta un’impostazione stilistica e di rapporto col mondo (attorno alla quale poi lascio che naturalmente s’addensino echi di memoria di tanti libri letti), impostazione che tu definisci perfettamente in tutti e dieci i casi.

In tutti e dieci i casi? Guardando meglio, m’accorgo che gli esempi che dai sono solo nove. C’è una lacuna, marcata dal punto fermo e dall’«E poi…» che corrisponde al racconto degli specchi (In una rete di linee che s’intersecano), cioè a un esempio di narrazione che tende a costruirsi come un’operazione logica o una figura geometrica o una partita a scacchi. Se vogliamo anche noi tentare l’approssimazione dei nomi propri, potremmo rintracciare il padre più illustre di questo modo di raccontare in Poe e il punto d’arrivo più compiuto e attuale in Borges. Tra questi due nomi pur distanti possiamo situare quanti autori tendono a filtrare le emozioni più romanzesche in un clima mentale di rarefatta astrazione, guarnito spesso di qualche preziosismo erudito.

In una rete di linee che s’intersecano è stato da altri critici messo molto in rilievo (forse troppo?) mentre è l’unico che tu dimentichi. Perché? Perché, dico io, se tu l’avessi tenuto presente, avresti dovuto tener conto che tra le forme letterarie che caratterizzano la nostra epoca c’è anche l’opera chiusa e calcolata in cui chiusura e calcolo sono scommesse paradossali che non fanno che indicare la verità opposta a quella rassicurante (di completezza e di tenuta) che la propria forma sembra significare, cioè comunicano il senso d’un mondo precario, in bilico, in frantumi.

Ma se tu ammetti questo, dovresti riconoscere che il libro del Viaggiatore tutt’intero risponde in qualche misura a questo modello (a cominciare dall’utilizzazione — caratteristica di questo genere — del vecchio topos romanzesco d’una cospirazione universale dagli incontrollabili poteri, — in chiave comico-allegorica, almeno da Chesterton in poi — retta da un proteiforme deus-ex- machina; il personaggio del Gran Mistificatore che tu mi rimproveri come una trovata troppo semplice è in questo contesto un ingrediente quasi direi d’obbligo), modello in cui la prima regola del gioco è «far tornare i conti» (o meglio: far sembrare che i conti tornino mentre sappiamo che non tornano affatto). Il «far tornare i conti» per te è soltanto una soluzione di comodo, mentre può ben essere vista come un esercizio acrobatico per sfidare — e indicare — il vuoto sottostante.

Insomma, se tu non avessi saltato (o cancellato?) il «romanzo geometrico» dalla lista, una parte delle tue domande e obiezioni sarebbe venuta a cadere, a cominciare da quella sull’«inconcludibilità». (Ti scandalizzi perché io «concludo» e ti chiedi: «Che si tratti d’una disattenzione del Nostro?» No, ci ho fatto molta attenzione, invece, calcolando tutto in modo che il «lieto fine» più tradizionale — le nozze dell’eroe e dell’eroina — venisse a sigillare la cornice che abbraccia lo sconquasso generale.)

Quanto alla discussione sul «non finito» — tema sul quale dici cose molto giuste in un senso letterario generale — vorrei per prima cosa sgombrare il terreno da possibili equivoci. Due punti soprattutto vorrei fossero più chiari:

1) L’oggetto della lettura che è al centro del mio libro non è tanto «il letterario» quanto «il romanzesco», cioè una procedura letteraria determinata — propria della narrativa popolare e di consumo ma variamente adottata dalla letteratura colta — che si basa in primo luogo sulla capacità di costringere l’attenzione su un intreccio nella continua attesa di quel che sta per avvenire. Nel romanzo «romanzesco» l’interruzione è un trauma, ma può essere anche istituzionalizzata (l’interruzione delle puntate dei romanzi d’appendice al momento culminante; il taglio dei capitoli; il «facciamo un passo indietro»). L’aver fatto dell’interruzione dell’intreccio un motivo strutturale del mio libro ha questo senso preciso e circoscritto e non tocca la problematica del «non finito» in arte e in letteratura che è un’altra cosa. Meglio dire che qui non si tratta del «non finito» ma del «finito interrotto», del «finito la cui fine è occultata o illeggibile», sia in senso letterale che in senso metaforico. (Mi pare che da qualche parte dico qualcosa come: «viviamo in un mondo di storie che cominciano e non finiscono».)

2) Sarà proprio vero che i miei incipit s’interrompono? Qualche critico (vedi Luce d’Eramo, «il manifesto», 16 settembre) e qualche lettore di palato fino sostengono di no: trovano che sono dei racconti compiuti, che dicono tutto quello che dovevano dire e a cui non c’è nulla da aggiungere. Su questo punto io non mi pronuncio. Posso solo dire che in partenza volevo fare dei romanzi interrotti, o meglio: rappresentare la lettura di romanzi che s’interrompono; poi in prevalenza mi sono venuti dei testi che avrei potuto anche pubblicare indipendentemente come racconti. (Cosa abbastanza naturale, dato che sono sempre stato più un autore di racconti che un romanziere.)

Il naturale destinatario e fruitore del «romanzesco» è il «lettore medio» che per questo ho voluto fosse il protagonista del Viaggiatore. Protagonista doppio, perché si scinde in un Lettore e in una Lettrice. Al primo non ho dato una caratterizzazione né dei gusti precisi: potrebb’essere un lettore occasionale ed eclettico. La seconda è una lettrice di vocazione, che sa spiegare le sue attese e i suoi rifiuti (formulati in termini il meno intellettualistici possibile, anche se — anzi, proprio perché — il linguaggio intellettuale va stingendo irreparabilmente sul parlato quotidiano), sublimazione della «lettrice media» ma ben fiera del suo ruolo sociale di lettrice per passione disinteressata. È un ruolo sociale cui credo, e che è il presupposto del mio lavoro, non solo di questo libro.

È su questa destinazione al «lettore medio» che tu appunti il tuo a-fondo più categorico, quando chiedi: «Non è che con Ludmilla Calvino, se pure inconsapevolmente, conduce un’opera di seduzione (di adulazione) verso il lettore medio, che poi è il vero lettore (e acquirente) del suo libro, prestandogli alcune delle straordinarie qualità della insuperabile Ludmilla?»

Di questo discorso la cosa che non mi va giù è il se pure inconsapevolmente. Come: inconsapevolmente? Se ho messo Lettore e Lettrice al centro del libro, sapevo quel che facevo. Né mi dimentico neanche per un minuto (dato che vivo di diritti d’autore) che il lettore è acquirente, che il libro è un oggetto che si vende sul mercato. Chi crede di poter prescindere dall’economicità dell’esistenza e da tutto ciò che essa comporta, non ha mai avuto il mio rispetto.

Insomma, se mi dai del seduttore, passi; dell’adulatore, passi; del mercante in fiera, passi anche quello; ma se mi dai dell’inconsapevole, allora mi offendo! Se nel Viaggiatore ho voluto rappresentare (e allegorizzare) il coinvolgimento del lettore (del lettore comune) in un libro che non è mai quello che lui s’aspetta, non ho fatto che esplicitare quello che è stato il mio intento cosciente e costante in tutti i miei libri precedenti. Qui si aprirebbe un discorso di sociologia della lettura (anzi, di politica della lettura) che ci porterebbe lontano dalla discussione sulla sostanza del libro in questione.

Meglio tornare alle due domande principali intorno alle quali prende corpo la tua discussione: 1) per il superamento dell’io si può puntare sulla moltiplicazione degli io?; 2) tutti gli autori possibili possono essere ridotti a dieci? (Sintetizzo così solo per promemoria, ma rispondendoti cerco di tener presente tutta l’argomentazione del tuo testo.)

Per il primo punto posso solo dire che l’inseguire la complessità attraverso un catalogo di possibilità linguistiche diverse è un procedimento che caratterizza tutta una fetta della letteratura di questo secolo, a cominciare dal romanzo che racconta una giornata qualsiasi d’un tizio di Dublino in diciotto capitoli ognuno con una diversa impostazione stilistica.

Questi illustri precedenti non escludono che mi piacerebbe raggiungere sempre quello «stato di disponibilità» di cui tu parli, «grazie al quale il rapporto col mondo possa svilupparsi non nei termini del riconoscimento ma nella forma della ricerca»; però, almeno per la durata di questo libro, «la forma della ricerca» è stata ancora per me quella — in qualche modo canonica — d’una molteplicità che converge su (o s’irradia da) un’unità tematica di fondo. Niente di particolarmente nuovo, in questo senso: già nel 1947 Raymond Queneau pubblicava Exercises de style in cui un aneddoto di poche righe è trattato in 99 redazioni differenti.

Io ho scelto, come situazione romanzesca tipica, uno schema che potrei enunciare così: un personaggio maschile che narra in prima persona si trova a assumere un ruolo che non è il suo, in una situazione in cui l’attrazione esercitata da un personaggio femminile e l’incombere dell’oscura minaccia d’una collettività di nemici lo coinvolgono senza scampo. Questo nucleo narrativo di base l’ho dichiarato in fondo al mio libro, sotto forma di storia apocrifa delle Mille e una notte, ma mi pare che nessun critico (per quanto molti abbiano sottolineato l’unità tematica del libro) l’abbia rilevata. Se vogliamo, la stessa situazione si può riconoscere nella cornice (in questo caso potremmo dire che la crisi d’identità del protagonista viene dal fatto di non avere identità, d’essere un «tu» in cui ognuno può identificare il suo «io»).

Questa non è che una delle contraintes o regole del gioco che mi sono imposto. Hai visto che in ogni capitolo della «cornice» il tipo di romanzo che seguirà viene enunciato sempre per bocca della Lettrice. Per di più ogni «romanzo» ha un titolo che risponde anche quello a una necessità, dato che tutti i titoli letti di seguito costituiranno anche loro un incipit. Essendo questo titolo sempre letteralmente pertinente al tema della narrazione, ogni «romanzo» risulterà dall’incontro del titolo con l’attesa della Lettrice, quale è stata formulata da lei nel corso del capitolo precedente. Tutto questo per dirti che se guardi bene, al posto della «identificazione in altri io» trovi una griglia di percorsi obbligati che è la vera macchina generativa del libro, sul tipo delle allitterazioni che Raymond Roussel si proponeva come punto di partenza e punto d’arrivo delle sue operazioni romanzesche.

Arriviamo così alla domanda n. 2: perché proprio dieci romanzi? La risposta è ovvia e la dai tu stesso qualche capoverso più avanti: «si doveva pur fissare un limite convenzionale»; potevo anche scegliere di scriverne dodici, o sette, o settantasette; quanto bastava per comunicare il senso della molteplicità. Ma tu subito scarti questa risposta: «Calvino individua con troppa sapienza le dieci possibilità per non scoprire i suoi intenti totalizzanti e la sua sostanziale indisponibilità a una partita più incerta».

Interrogando me stesso su questo punto, mi viene da chiedermi: «In che pasticcio mi sono cacciato?» Infatti, per l’idea di totalità ho sempre avuto una certa allergia; negli «intenti totalizzanti» non mi riconosco; eppure, carta canta: qui io parlo — o il mio personaggio Silas Flannery parla — proprio di «totalità», di «tutti i libri possibili». Il problema riguarda non solo i tutti, ma i possibili; ed è lì che batte la tua obiezione, dato che la domanda n. 2 viene subito da te riformulata così: «Crede proprio Calvino… che il possibile coincida con l’esistente?» E molto suggestivamente mi ammonisci «che il possibile non si può numerare, che non è mai il risultato di una somma e che piuttosto si caratterizza come una sorta di linea a perdersi in cui ogni punto tuttavia partecipa del carattere infinito dell’insieme».

Per cercare di venirne fuori, forse la domanda che mi devo porre è: perché quei dieci e non altri? È chiaro che se ho scelto quei dieci tipi di romanzo è perché mi pareva avessero più significato per me, perché mi venivano meglio, perché mi divertivano di più a scriverli. Continuamente mi si presentavano altri tipi di romanzi che avrei potuto aggiungere alla lista, ma o non ero sicuro di riuscirci, o non presentavano per me un interesse formale abbastanza forte, o comunque lo schema del libro era già abbastanza carico e non volevo allargarlo. (Per esempio, quante volte ho pensato: perché l’io narrante dev’essere sempre un uomo? E la scrittura «femminile»? Ma esiste una scrittura «femminile»? O non si potrebbero immaginare corrispettivi «femminili» per ogni esempio di romanzo «maschile»?).

Diciamo allora che nel mio libro il possibile non è il possibile in assoluto ma il possibile per me. E nemmeno tutto il possibile per me; per esempio, non m’interessava ripercorrere la mia autobiografia letteraria, rifare tipi di narrativa che avevo già fatto; dovevano essere dei possibili al margine di quel che io sono e faccio, raggiungibili con un salto fuori di me che restasse nei limiti d’un salto possibile.

Questa definizione limitativa del mio lavoro (che ho messo avanti per smentire gli «intenti totalizzanti» che mi attribuisci) finirebbe col dame un’immagine impoverita, se non tenesse conto d’una spinta in senso contrario che lo ha sempre accompagnato: cioè mi chiedevo sempre se il lavoro che io stavo facendo poteva avere un senso non solo per me ma anche per gli altri. Soprattutto nelle ultime fasi, quando il libro era praticamente compiuto e le sue molte giunture obbligate impedivano ulteriori spostamenti, mi è presa la smania di verificare se potevo giustificare concettualmente il suo intreccio, il suo percorso, il suo ordine. Ho tentato vari riassunti e schemi, per mio esclusivo chiarimento personale, ma non riuscivo mai a farli quadrare al cento per cento.

A quel punto ho fatto leggere il manoscritto al più sapiente dei miei amici per vedere se riusciva a spiegarmelo. Mi disse che secondo lui il libro procedeva per successive cancellazioni, fino alla cancellazione del mondo nel «romanzo apocalittico». Questa idea e, contemporaneamente, la rilettura del racconto di Borges L’accostamento ad Almotasim mi hanno portato a rileggere il mio libro (ormai finito) come quella che avrebbe potuto essere una ricerca del «vero romanzo» e insieme del giusto atteggiamento verso il mondo, dove ogni «romanzo» cominciato e interrotto corrispondeva a una via scartata. In questa ottica il libro veniva a rappresentare (per me) una specie d’autobiografia in negativo: i romanzi che avrei potuto scrivere e che avevo scartato, e insieme (per me e per gli altri) un catalogo indicativo d’atteggiamenti esistenziali che portano ad altrettante vie sbarrate.

L’amico sapiente ricordò lo schema d’alternative binarie che Platone usa nel Sofista per definire il pescatore alla lenza: ogni volta un’alternativa viene esclusa e l’altra si biforca in due alternative. Bastò questo richiamo perché mi buttassi a tracciare schemi che rendessero ragione secondo questo metodo dell’itinerario delineato nel libro. Te ne comunico uno, nel quale ritroverai, nelle mie definizioni dei dieci romanzi, quasi sempre le stesse parole che hai usato tu.

Lo schema potrebbe avere una circolarità, nel senso che l’ultimo segmento si può collegare col primo. Totalizzante, dunque? In questo senso, certo, mi piacerebbe che lo fosse. E che nei delusivi confini così tracciati riuscisse a circoscrivere una zona bianca dove situare l’atteggiamento «disconoscitivo» verso il mondo che tu proponi come il solo non mistificatorio, quando dichiari che «il mondo non può essere testimoniato (o predicato) ma solo disconosciuto, sganciato da ogni sorta di tutela, individuale o collettiva, e restituito alla sua irreducibilità».

In “Alfabeta”, 8, dicembre 1979. Riprodotto in Alfabeta 1979–1988. Antologia della Rivista, Bompiani, Milano, 2012, pp. 146–1157

--

--

Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

No responses yet