Domande per Italo Calvino

Intorno a Se una notte d‘inverno un viaggiatore

Mario Mancini
12 min readApr 10, 2022

di Angelo Guglielmi

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Conoscevo un amico

Conoscevo un amico che amava una donna, ma disperando di poterla avere, non si decideva a dichiararsi. Finché gli venne in mente di scriverle una lettera che ne conteneva altre tre: nella prima lettera (o lettera-cornice o d’accompagno) la pregava di scegliere una delle tre lettere che seguivano e, senza altre operazioni intermedie di spedirgliela.

Le tre lettere erano altrettanto risposte di lei (ma scritte da lui) alla domanda d’amore di lui. Nella prima gli diceva che accettava il suo amore, rimproverandogli di avere atteso tanto a dichiararsi; nella seconda gli diceva che rifiutava il suo amore, lamentando che la sua inopinata dichiarazione aveva compromesso anche la loro amicizia; nella terza gli parlava d’altro, facendo finta di niente.

Naturalmente il mio amico non ricevette nessuna delle tre lettere di risposta come con certezza sapeva (e aveva dato per scontato) nel momento in cui le aveva scritte (e spedite). Anzi le aveva scritte proprio per prendere atto dell’impossibilità di quell’amore, che quella donna non la avrebbe mai avuta, che forse non esisteva (non esisteva in lui) neppure come attesa. Se fosse stato capace di “sognarla” non gli sarebbe stata così insopportabile l’impossibilità di averla. No, proprio non esisteva. Era solo un elemento disturbante, causa per lui di una sterile inquietudine. Tanto valeva sbarazzarsene. Allora scrisse quelle lettere e tutto tornò come prima.

Perché mi è venuto in mente questo ricordo leggendo il nuovo romanzo di Calvino e perché ho pensato di raccontarlo (il ricordo) nel momento in cui mi accingo a recensirlo (il romanzo) non l’ho ben chiaro, ma sento che me ne farò una ragione via via che mi addentrerò nell’analisi.

Liquidità trasparente del linguaggio

Intanto comincio col dire che Se una notte d’inverno un viaggiatore è un romanzo che mostra una straordinaria spesa di intelligenza e di talento da parte dell’autore nonché una tecnica di scrittura di cui oggi in Italia non vi è certo l’uguale.

Calvino scrive bene, e questa volta l’espressione non l’adoperiamo per indicare una qualità superflua o, comunque, per marcare la mancanza di altre qualità più importanti: ma per prendere (e rendere) atto di una condizione felice che si manifesta in un agio espressivo, in una capacità fabulatoria che non conosce difficoltà o ostacoli capaci di intorbidirla.

Il tratto essenziale della lingua di Calvino è una sorta di liquidità trasparente che aggredisce superfici oscure e compatte e le disintegra ricomponendole in figure ordinate in forme chiare, dove, se sopravvivono grumi indissolubili è perché sono gemme, il cui valore sta nell’essere inattaccabili.

E di questo linguaggio, della sua capacità di dire tutto, di scoprire tutto, di vedere tutto Calvino ne aveva proprio bisogno in questo suo ultimo romanzo, dove si impegna in un intreccio impossibile, che si snoda attraverso continue interruzioni, ritorni e riprese, in un vortice inesauribile, che se a un certo punto si interrompe è per motivi estranei quasi per interventi di qualcuno che dal di fuori ha abbassato la manetta della corrente. (A dire il vero non è proprio così: l’intervento esterno è proprio quello di Calvino che conclude il romanzo — inconcludibile — portando al matrimonio i due protagonisti. Che si tratti di una disattenzione del Nostro?)

Ma intanto ci conviene appressarci più da vicino al romanzo, e svelare il piano che è alle sue spalle. Basterà riferire i propositi che Calvino attribuisce a un vecchio scrittore che fa parlare proprio dalle pagine del romanzo. Afferma il vecchio scrittore:

m’è venuta l’idea di scrivere un romanzo fatto di soli inizi di romanzo. Il protagonista potrebbe essere un lettore che viene continuamente interrotto. Il lettore acquista il nuovo romanzo A dell’autore Z. Ma è una copia difettosa e non riesce a andare oltre l’inizio… Torna in libreria per farsi cambiare il volume…

Potrei scriverlo tutto in seconda persona; “tu Lettore […] potrei anche farci entrare una lettrice, un traduttore falsario, un vecchio scrittore che tiene un diario come questo diario In realtà questa è l’idea da cui nasce Se una notte d’inverno un viaggiatore.

Uscire fuori di sé

Sembra chiaro che il progetto si fonda sulla possibilità di un atto di spaesamento dell’io: l’autore decide di uscire fuori di sé, rompendo la propria identità, ritenuta troppo mortificante e limitata di fronte al grande impegno dello scrivere.

[…] Vorrei cancellare me stesso e trovare per ogni libro un altro io, un’altra voce, un altro nome, rinascere […] il mio scopo è catturare nel libro il mondo illeggibile, senza centro, senza io.

Così annota il vecchio scrittore che Calvino, deciso a tenersi da parte, delega a rappresentarlo. E ancora:

Allo scrittore che vuol annullare se stesso per dare voce a ciò che è fuori di lui s’aprono due strade; o scrivere un libro che possa essere il libro unico, tale da esaurire il tutto nelle sue pagine; o scrivere tutti i libri, in modo da inseguire il tutto attraverso le sue immagini parziali. Il libro unico, che contiene il tutto, non potrebbe essere altro che il testo sacro, la parola totale rivelata. Ma io non credo che la totalità sia contenibile nel linguaggio; il mio problema è ciò che resta fuori, il non scritto, il non scrivibile. Non mi rimane altra via che quella di scrivere tutti i libri, scrivere i libri di tutti gli autori possibili.

E Calvino sceglie di scrivere tutti i libri, anzi ne scrive uno che contiene tutti gli altri, o meglio, come egli stesso confessa, sceglie di scrivere i libri di tutti gli autori possibili. Più precisamente ne scrive dieci, quanti appunto ne raccoglie (e ne cataloga) Se una notte d’inverno un viaggiatore.

Si tratta di dieci inizi di romanzo, ognuno diverso dall’altro in quanto, afferma Calvino, “ciascuno portatore di una diversa concezione del mondo”. Così in un romanzo la realtà è imprendibile come la nebbia; in un altro gli oggetti si presentano con caratteri fin troppo corposi e sensuali; in un terzo è vincente l’approccio introspettivo; in un altro agisce una forte tensione esistenziale proiettata verso la storia, la politica e l’azione; in un altro ancora esplode la violenza più brutale; e poi in un altro cresce un sentimento insostenibile di disagio e di angoscia. E poi ce il romanzo erotico-perverso, quello tellurico-primordiale e infine il romanzo apocalittico.

Come si vede Se una notte d’inverno un viaggiatore contiene un vasto campionario di possibilità romanzesche, che copre la quasi totalità delle sfere d’interesse in cui s’incentra e si sviluppa la narrativa contemporanea. Ma a questo punto farei a Calvino due domande.

Prima domanda

La prima. Avendo giustamente impostato il suo progetto di scrittura sul superamento dell’io, cioè sulla negazione dello scrittore onnisciente che tende a ridurre il mondo a se stesso anziché portare se stesso al mondo, dove può ritrovarsi soltanto perdendosi, crede proprio Calvino che questo superamento si può realizzare rinunciando al proprio io per entrare (e identificarsi) nei tanti altri io, per diversi che siano a quello esterni? O non crede che per questa strada si finisca per dare vita a un io ancora più grande e imperativo che mentre sembra abbracciare una parte più ampia del mondo in effetti ne esalta i limiti di incomunicabilità e di vuoto?

Il superamento dell’io non può risolversi nel suo allargamento; non si rinuncia a se stessi divenendo un altro o tanti altri. La rinuncia a se stessi è la rinuncia a fissarsi in una identità qualunque essa sia, o quella in cui ci siamo finora riconosciuti o anche un’altra o altre di cui trovassimo i modelli fuori di noi. La rinuncia alla propria identità è l’acquisizione di uno stato di disponibilità grazie al quale il rapporto col mondo possa svilupparsi non nei termini del riconoscimento ma nella forma della ricerca.

Seconda domanda

La seconda. Avendo deciso di scrivere i libri di tutti gli autori possibili, crede proprio Calvino che questi possano essere ridotti a dieci o, meno semplicisticamente, che il possibile coincida con l’esistente? O non crede che il possibile non si può numerare, che non è mai il risultato di una somma e che piuttosto si caratterizza come una sorta di linea a perdersi in cui ogni punto tuttavia partecipa del carattere infinito dell’insieme? Così il possibile non lo si coglie scrivendo dieci libri o cento ma scrivendone uno che tuttavia si ponga non come una delle tante immagini del mondo (“una sua immagine parziale”) ma come un organismo capace di produrre quell’immagine come tutte le altre infinite possibili.

Non è questo il tratto caratterizzante dei grandi libri della nostra epoca? Come anche di quelli più significativi dello stesso Calvino? Il Barone rampante o Le città invisibili sono due libri inesistenti nel senso che in tanto riescono a consonarsi con il mondo in quanto s’ingegnano a dimenticarlo, sapendo che il mondo non può essere testimoniato (o predicato) ma solo disconosciuto, sganciato da ogni sorta di tutela, individuale e collettiva, e restituito alla sua irriducibilità. Prendere le distanze dal mondo “l’unico modo per avvicinarsi ad esso”.

Inesistenza e mistificazione

Ma Calvino afferma che anche Se una notte d’inverno un viaggiatore è un libro inesistente, anzi è il più inesistente dei suoi libri. Infatti è vero che è costituito da dieci romanzi diversi (da dieci inizi di romanzi diversi), ma si tratta di dieci falsi frutto degli oscuri intrighi di un mistificatore. Sicché nel romanzo più che il catalogo delle dieci possibilità romanzesche, che pure è un dato incontestabile, vale la pena di cogliere la presenza di una macchina, riproduttrice, che se ha dato vita solo a dieci esemplari è perché si doveva pur fissare un limite convenzionale che tuttavia, fuor di convenzione, è illimitatamente superabile.

Ma è proprio così? Calvino individua con troppa sapienza le dieci possibilità per non scoprire i suoi intenti totalizzanti e la sua sostanziale indisponibilità a una partita più incerta. Né il concetto di “mistificazione” lo aiuta a tenere aperto il gioco. Anzi Calvino se ne serve (di questo concetto) esclusivamente (e troppo semplicisticamente) per procurarsi lo strumento che gli consenta di far tornare i conti, cioè di far camminare il meccanismo narrativo.

Ben altro invece è il valore dell’affermazione che “la letteratura vale per il suo potere di mistificazione, ha nella mistificazione la sua verità”. È troppo semplice cavar fuori dal cappello di questa affermazione la trovata dello scrittore mistificatore intento a produrre facsimili dal vero; è troppo semplice e troppo riduttivo rispetto al reale significato di quella affermazione dietro la quale si nasconde l’intuizione che per lo scrittore, di tutti gli esseri di natura il più intimamente autentico, non vi è altra strada per raggiungere un testo di verità che affidarlo a un dettato falso.

Inoltre Calvino, a difesa dell’unitarietà del suo romanzo che solo convenzionalmente si articola in dieci incipit, ci tiene a sottolineare che “nel proporsi, sì, di fare un campionario di possibilità narrative diverse” aveva consapevolmente escluso (e la decisione era stata laboriosa) di dar vita a dei “pastiches, delle parodie, vuoi parodie di autori determinati, vuoi parodie di generi di romanzi” e aveva puntato sul livellamento della voce narrante, che allora si ripropone quasi identica per ognuno dei dieci incipit.

Questa voce, ovviamente non poteva essere quella dell’autore, pena la perdita di credibilità dell’operazione che, appunto, prevedeva di offrire dieci possibilità diverse. E allora non rimaneva che una sola uscita: che fosse la voce del lettore.

Volevo rendere il libro, afferma Calvino, “non nella sua testualità ma come arriva all’occhio del lettore. Dò la lettura del libro e non delle pagine tali e quali.

La riunione nella lettura

Dunque il libro, costituito da dieci inizi di romanzi, si riunisce nella lettura. È una sorta di enciclopedia o, perfino, di biblioteca offerta al piacere del lettore; e dunque non vive tanto in sé e per sé quanto in chi lo legge. Il lettore domina il processo dello scrivere e, in quanto tale, di un libro come quello di Calvino, che ha per oggetto la descrizione di quel processo, ne è l’inevitabile protagonista.

Ma di che lettore si tratta? In realtà, come oramai ognuno sa, nel romanzo di Calvino il lettore è costituito da una coppia di lettori, lui e lei — lui indicato con il nome della sua condizione, lei con il nome di Ludmilla — l’uno e l’altro impegnati nella lettura del romanzo che allora fa da galeotto al loro incontro che sfocia al termine della lettura nel matrimonio.

Rispettando il criterio che convenzionalmente regola il rapporto di coppia e che assegna alla donna la parte più direttamente legata all’esercizio della fantasia e della sensibilità, Calvino individua in Ludmilla l’espressione massima del ruolo del lettore. Ludmilla è “lo spirito stesso della lettura”.

Di lei è inutile conoscere i tratti del volto e le fattezze della figura. Non è questo che serve per riconoscerla e Calvino trascura di spenderci del tempo. Ludmilla vive esclusivamente della sua passione (la lettura) e tutta in essa si risolve e allora solo su di essa Calvino indugia con ogni sorta di estatica informazione (cioè fornita con ammirata partecipazione).

E scrive, servendosi ovviamente del suo portaparole, che per Ludmilla leggere

vuol dire spogliarsi d’ogni intenzione, d’ogni partito preso, per essere pronta a cogliere una voce che si fa sentire quando meno ci si aspetta, una voce che viene chi sa da dove, da qualche parte al di là del libro, al di là dell’autore, al di là delle convenzioni della scrittura: dal non detto, da quello che il mondo non ha ancora detto di sé e non ha ancora le parole per dire.

È chiaro che dietro l’invenzione di Ludmilla vi è l’intuizione del lettore e autore, del lettore al quale — a fianco e indipendentemente dall’autore — è assegnato un ruolo (essenziale) nella costruzione dell’opera. Ma anche qui Calvino, esaltando con tanto trasporto la figura di Ludmilla, che dilatandosi finisce per occupare tutto il posto, non interpreta con troppa spensieratezza quell’intuizione? A parte che ogni processo di idealizzazione è sempre troppo sommario per essere convincente, e che di Beatrice ce ne è già una (e irripetibile) nella storia della nostra letteratura, non è che con Ludmilla Calvino, se pure inconsapevolmente, conduce un’opera di seduzione (di adulazione) verso il lettore medio, che poi è il vero lettore (e acquirente) del suo libro, prestandogli alcune delle straordinarie qualità della insuperabile Ludmilla?

Il vero è che Calvino persegue la doppia ambizione di scrivere un romanzo di grande facilità di lettura e, nel contempo, un’opera di una sfrenata modernità di struttura. Si tratta di propositi contraddittori, che non possono non ‘pagare’, anche pesantemente, il loro impossibile congiungimento.

Dall’idea di arte come opera aperta, a quella di letteratura come mistificazione, al ‘non finito’ come criterio caratterizzante dell’opera contemporanea, al carattere aleatorio del linguaggio poetico, all’indefinitezza dei significati che si pongono sempre al di là dei contenuti apparenti, tutto questo (e altro) è presente nel progetto di Calvino.

Cosa diventa nel corso della realizzazione?

L’idea di opera aperta si risolve nella costruzione di un romanzo che ne contiene dieci; l’intuizione del valore della mistificazione nella presenza di un falsario che cambia continuamente le carte in tavola; il ‘non finito’ dell’opera nella riduzione di ognuno dei dieci romanzi al primo capitolo (e dunque non in base al presupposto che l’opera d’arte contemporanea, in quanto tale, è inconcludente e inconcludibile, ma al criterio — anzi al convincimento suggerito dall’esperienza — che “la fascinazione romanzesca che si dà allo stato puro nelle prime frasi del primo capitolo di moltissimi romanzi non tarda a perdersi nel seguito della narrazione”); l’aleatorietà del linguaggio poetico nella sua relativa “incredibilità”; l’indefinitezza dei significati in una sorta di loro forzata sentimentalizzazione (liricizzazione):

“l libro che cerco è quello che dà il senso del mondo dopo la fine del mondo, il senso che il mondo è la fine di tutto ciò che c’è al mondo, che la sola cosa che ci sia al mondo è la fine del mondo.

È inutile ricordare a Calvino (che lo sa fin troppo) che il ricettario della narrativa contemporanea contiene un insieme di regole-concetti — quali “mistificazione”, “opera aperta”, “non finito”, “lettore-autore” ecc. — il cui valore è di indicare una verità non di esserla. Ma Calvino, inaspettatamente, cade nella trappola dei due fagiuoli: come quella moglie, ne cucina proprio due. È che era ossessionato da un amore-passione di cui comunque voleva venire a capo, magari liberandosene. Il suo desiderio era, lo abbiamo visto, di scrivere un libro in cui il fascino romanzesco fosse il dato prevalente.

Altri scrittori si erano impegnati nell’impresa non riuscendo a evitare il naufragio nelle secche della narrativa rotocalchesca e ‘fumettata’. Calvino è troppo accorto per mettersi al rischio di pericoli simili: la sua scommessa è scrivere quel romanzo sognato (troppo amato) utilizzando le indicazioni approntate dalle scuole critiche più avanzate (e che quelle scuole avevano approntato per giustificare la morte del romanzo in quanto puro piacere del narrare).

E si accinge al compito impossibile: e assistito dalla sua grande ‘maniera’, nascondendo l’insopportabile fatica, si sforza di comporre l’incomponibile, facendo ricorso ad un’opera di imbellettamento capace di coprire incastri irrisolti (perché irrisolubili) e di occultare incompatibilità invincibili. Il risultato è un vestito ben tagliato e lindo, anche compatto, che basta usare una volta, per vedere andare in pezzi.

A questo punto è così fuori luogo il richiamo del ricordo dell’amico che scrive una lettera alla donna che segretamente ama non con l’intento di dare realtà a un desiderio fin lì represso e nemmeno per confessare la disperazione di non poterlo raggiungere ma in fondo, se pure inconsapevolmente, col proposito di screditarlo, riducendolo a pretesto di un giuoco di abilità, e così liberarsene?

In “Alfabeta”, 6, ottobre 1979. Riprodotto in Alfabeta 1979–1988. Antologia della Rivista, Bompiani, Milano, 2012, pp. 123–134

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Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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