Scritture politiche

di Roland Barthes

Mario Mancini
8 min readNov 9, 2020

Da: Il grado zero della scrittura, Parte prima

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I ritagli di Matisse: Les codomas, da “Jazz”, 1943.

Tutte le scritture presentano un carattere di chiusura, estraneo al linguaggio parlato. La scrittura non è affatto uno strumento di comunicazione, non è una via aperta attraverso cui passi soltanto un’intenzione di linguaggio. Tutto un disordine fluisce nel discorso e gli dà quel movimento divorante che lo mantiene in stato di eterna dilazione.

Inversamente, la scrittura è un linguaggio consolidato che vive in se stesso e non ha affatto il compito di affidare alla propria durata un seguito mobile di approssimazioni, ma al contrario di imporre, mediante l’unità e l’ombra dei suoi segni, l’immagine di una parola costruita assai prima che inventata.

Ciò che contrappone la scrittura al discorso è che la prima appare sempre simbolica, introversa, volta apertamente a un versante segreto del linguaggio, mentre il secondo non è che una durata di segni vuoti il cui solo movimento è significativo.

Tutto il linguaggio parlato consiste in questa usura delle espressioni, in questa schiuma portata sempre più lontano, e c’è parola solo là dove il linguaggio funziona con evidenza come una forza che elimini solo la punta mobile delle espressioni, mentre la scrittura è sempre radicata in un aldilà del linguaggio, si sviluppa come un germe e non come una linea, manifesta un’essenza e minaccia un segreto, è il contrario della comunicazione, intimorisce.

Si troverà dunque in ogni scrittura l’ambiguità di un oggetto che è insieme linguaggio e coercizione: nel fondo della scrittura c’è una «circostanza» estranea al linguaggio, c’è come lo sguardo di un’intenzione che non è già più quella del linguaggio.

Questo sguardo può benissimo essere una passione del linguaggio, come nella scrittura letteraria; può essere anche la minaccia di una penalità, come nelle scritture politiche; la scrittura ha in tal caso il compito di congiungere in un sol tratto la realtà degli atti e l’idealità dei fini.

È per questo che il potere o l’ombra del potere finiscono sempre per istituire una scrittura assiologica, in cui il percorso che separa ordinariamente il fatto dal valore è soppresso nello spazio stesso del termine, dato contemporaneamente come descrizione e come giudizio. La parola diventa un alibi (cioè un «altrove» e una giustificazione).

Ciò è vero delle scritture letterarie dove l’unità dei segni è attratta contemporaneamente da zone di infra o di ultra-linguaggio; e lo è ancor più delle scritture politiche, dove l’alibi del linguaggio è nello stesso tempo glorificazione e intimidazione: in effetti sono il potere o la lotta che producono i tipi più puri di scrittura.

Vedremo più avanti come la scrittura classica manifestasse in forma di cerimoniale l’inserimento dello scrittore in una società politica particolare; e parlare come Vaugelas, volle dire prima di tutto rifarsi all’esercizio del potere.

Se la Rivoluzione non ha modificato le norme di questa scrittura, in quanto l’elemento pensante restava tutto sommato lo stesso e passava soltanto dal potere intellettuale a quello politico, le condizioni eccezionali della lotta hanno però prodotto proprio in seno alla grande Forma classica una scrittura prettamente rivoluzionaria, non nella sua struttura, più accademica che mai, ma nella sua chiusura e nelle sue corrispondenze, l’esercizio del linguaggio essendo allora legato, come non si era ancora mai dato nella Storia, allo spargimento di sangue.

I rivoluzionari non avevano alcuna ragione di voler modificare la scrittura classica: essi non pensavano affatto a mettere in causa la natura dell’uomo, ancor meno il suo linguaggio, e uno «strumento» ereditato da Voltaire, da Rousseau o da Vauvenargues, non poteva ai loro occhi risultare compromesso.

Ciò che ha formato l’identità delle scritture rivoluzionarie è la singolarità delle situazioni storiche. Baudelaire da qualche parte ha parlato della «verità enfatica del gesto nelle grandi circostanze della vita». La Rivoluzione fu per eccellenza una di quelle grandi circostanze in cui la verità, per il sangue che costa, diventa così grave che richiede, per esprimersi, le forme proprie dell’amplificazione teatrale.

La scrittura rivoluzionaria fu quel gesto enfatico che solo poteva far seguito alla forca quotidiana. Ciò che oggi sembra gonfiezza era allora la misura della realtà. Quella scrittura, con tutti i segni dell’inflazione, fu una scrittura esatta: non c’è mai stato un linguaggio più inverosimile e meno impostore.

Questa enfasi non era soltanto la forma modellata sul dramma; ne era anche la coscienza. Senza tale paludamento stravagante proprio di tutti i grandi rivoluzionari, che permetteva al girondino Guadet, arrestato a Saint-Emilion, di dichiarare senz’ombra di ridicolo perché andava a morire: «Si, sono Guadet. Boia, fai il tuo servizio. Porta la mia testa ai tiranni della patria. Li ha fatti sempre impallidire: troncata, li farà impallidire ancor più», la rivoluzione non avrebbe potuto essere quell’avvenimento mitico che ha fecondato la Storia e ogni idea futura di rivoluzione.

La scrittura rivoluzionaria fu in qualche modo l’entelechia della leggenda rivoluzionaria: intimoriva e imponeva una consacrazione civica del Sangue.

La scrittura marxista è tutt’altra cosa. Qui la chiusura della forma non proviene da un’amplificazione né da un’enfasi nell’allocuzione, ma ha un lessico particolare e funzionale come un vocabolario tecnico; perfino le metafore vi sono severamente codificate.

La scrittura francese rivoluzionaria fondava sempre un diritto di sangue o una giustificazione morale; all’origine, la scrittura marxista è data come un linguaggio della conoscenza: è scrittura univoca perché destinata a mantenere la coesione di una Natura, giacché ciò che le permette di imporre una stabilità delle spiegazioni e una permanenza di metodo è proprio la sua identità lessicale.

Solo al termine del linguaggio il marxismo raggiunse comportamenti puramente politici. Quanto la scrittura francese rivoluzionaria è enfatica tanto la scrittura marxista è litotica, perché in essa ogni parola è ridotta a esiguo rimando all’insieme dei principi che la sostengono in maniera inconfessata.

Per esempio la parola «implicare», frequente nella scrittura marxista, non vi ha il senso neutro del dizionario, fa sempre allusione a un preciso processo storico, è come un segno algebrico che rappresenti tutta una parentesi di postulati precedenti.

Legata a un’azione, la scrittura marxista è diventata rapidamente, in effetti, un linguaggio del valore. Questo carattere già visibile in Marx, la cui scrittura resta però in generale esplicativa, ha invaso completamente la scrittura staliniana trionfante.

Certe nozioni formalmente identiche e che il vocabolario neutro non designerebbe neppure due volte, sono scisse dal valore e ogni versante raggiunge un termine diverso: per esempio «cosmopolitismo» è il nome negativo di «internazionalismo» (già in Marx).

Nell’universo staliniano, in cui la definizione, cioè la separazione del Bene e del Male occupa ormai tutto il linguaggio, non ci sono più parole senza valore e la funzione della scrittura finisce per essere l’economia di un processo: non c’è più alcun rimando tra la denominazione e il giudizio; la chiusura del linguaggio è perfetta, perché alla fine un valore è dato come spiegazione di un altro valore.

Per esempio si dirà che un criminale ha svolto un’attività nociva agli interessi dello Stato, come dire che chi commette un crimine è un criminale. Si tratta, è evidente, di una vera tautologia, procedimento costante della scrittura staliniana. Giacché non mira più a fondare una spiegazione marxista dei fatti, o una razionalità rivoluzionaria delle azioni, ma a dare il reale sotto la sua forma già giudicata, imponendo una lettura immediata delle condanne: il contenuto oggettivo del termine «deviazionista» è di ordine penale.

Se due deviazionisti si riuniscono diventano dei «frazionisti», e ciò non corrisponde a una colpa obiettivamente diversa, ma a un aggravamento della penalità.

Si può decifrare una scrittura propriamente marxista (quella di Marx e di Lenin) e una scrittura dello stalinismo trionfante (quella delle democrazie popolari); c’è anche certamente una scrittura trotskista e una scrittura tatticistica, come per esempio quella del comunismo francese (sostituzione di «popolo», poi di «brava gente» a «classe operaia»; voluta ambiguità dei termini tipo «democrazia», «libertà», «pace», ecc.).

Non v’è dubbio che ogni regime possiede la sua scrittura, la cui storia è ancora da fare. Essendo la forma vistosamente impegnata del linguaggio, la scrittura contiene, in una preziosa ambiguità, sia l’essere che l’apparenza del potere, ciò che esso è e ciò che vorrebbe farsi credere: una storia delle scritture politiche potrebbe dunque costituire la migliore fenomenologia sociale. Per esempio la Restaurazione ha elaborato una scrittura di classe, grazie alla quale la repressione era immediatamente attuata come una condanna scaturita spontaneamente dalla «Natura» classica: gli operai impegnati in azioni rivendicative erano sempre degli «individui», quanti non aderivano agli scioperi, dei «tranquilli operai», e la servilità dei giudici diventava la «vigilanza paterna dei magistrati» (ai giorni nostri, mediante un procedimento analogo, il gollismo chiama «separatisti» i comunisti).

Da ciò è evidente che la scrittura funziona come una buona coscienza e che essa ha per missione di far coincidere in modo fraudolento l’origine del fatto e la sua più lontana incarnazione, dando alla giustificazione dell’azione la garanzia della sua realtà. Questo genere di scrittura è del resto proprio a tutti i regimi autoritari; si potrebbe chiamarla scrittura poliziesca: per esempio è noto il contenuto eternamente repressivo di un termine come «Ordine».

Lo sconfinare dei fatti politici e sociali nel campo di coscienza della Letteratura, ha prodotto un nuovo tipo, diciamo, di scrittore, situato a metà strada tra il militante e lo scrittore vero e proprio, che ha del primo l’immagine ideale dell’uomo impegnato e del secondo l’idea che l’opera scritta è un atto autonomo.

Nel momento in cui l’intellettuale si sostituisce allo scrittore, nelle riviste e nei saggi nasce una scrittura militante interamente liberata dallo stile e che è come un linguaggio professionale della «presenza». Di questa scrittura, le sfumature abbondano. Nessuno potrà negare per esempio che esiste una scrittura Esprit o una scrittura Temps modernes.

Carattere comune di queste scritture intellettuali è che il linguaggio tende a trasformarsi da luogo privilegiato a segno sufficiente dell’impegno ideologico. Raggiungere un linguaggio chiuso dalla spinta di tutti coloro che non lo parlano vuol dire ostentare il movimento stesso di una scelta, se non sostenerla; la scrittura diventa così come una firma che noi poniamo in calce a una dichiarazione collettiva (che del resto non siamo stati noi a redigere).

Cosi adottare una scrittura — si potrebbe dire meglio, assumere una scrittura — è fare la sintesi di tutte le premesse della scelta.

Ogni scrittura intellettuale è dunque il primo «salto dell’intelletto». Mentre il linguaggio idealmente libero non potrebbe mai descrivere la mia personalità e lascerebbe ignorare tutto della mia storia e della mia libertà, la scrittura a cui mi affido è già tutta istituzione: scopre il mio passato, e la mia scelta mi dà una storia, palesa la mia situazione, mi impegna senza che io lo debba dire.

La Forma diventa così più che mai un oggetto autonomo, destinato a indicare una proprietà collettiva e protetta, e questo oggetto, da valore di risparmio, funziona come segnale economico; grazie ad esso lo scrittore impone costantemente la sua conversione senza mai rintracciarne la storia.

Questa duplicità delle scritture intellettuali odierne è accentuata dal fatto che, malgrado gli sforzi dell’epoca, la Letteratura non ha potuto essere interamente liquidata: essa costituisce un orizzonte verbale tuttora prestigioso.

L’intellettuale è ancora soltanto uno scrittore mal trasformato, e a meno di silurarsi e diventare per sempre un militante che non scrive più (alcuni l’hanno fatto, dimenticati per definizione) non può non ritornare alla suggestione di scritture precedenti, trasmesse dall’inizio della Letteratura come strumento intatto e fuori moda. Dunque queste scritture intellettuali sono instabili, rimangono letterarie nella misura in cui sono impotenti e sono politiche solo nella loro volontà di un impegno.

In breve, si tratta ancora di scritture etiche, in cui la coscienza di chi scrive (non osiamo più dire dello «scrittore») trova l’immagine confortante di una salvezza collettiva.

Ma, come nello stato attuale della Storia ogni scrittura politica può solo confermare un mondo poliziesco, così ogni scrittura intellettuale può solo istituire una para-letteratura che non osa più dire il suo nome. La contraddizione di queste scritture è dunque insormontabile, esse rinviano necessariamente a una complicità o a un’impotenza, cioè, in ogni caso, a un’alienazione.

Fonte: Roland Barthes, Il grado zero della scrittura, Milano, Lerici editore, 1960, pp. 31-40

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Mario Mancini
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Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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