Scrittura e rivoluzione

di Roland Barthes

Mario Mancini
6 min readNov 21, 2020

Da: Il grado zero della scrittura, Parte seconda

Vai all’indice le libro mosaico “Il grado zero della scrittura” di Roland Barthes

I ritagli di Matisse: “La gerbe”

L’artigianato dello stile ha prodotto una sotto-scrittura, derivata da Flaubert, ma adattata ai fini della scuola naturalista. La scrittura di Maupassant, Zola e Daudet, che si potrebbe chiamare scrittura realista, è una combinazione di segni formali della Letteratura (passato remoto, stile indiretto, ritmo scritto) e dei segni non meno formali del realismo (brani riportati dal linguaggio popolare, parole forti, dialettali, ecc.).

Cosi nessuna scrittura è più artificiale di quella che ha preteso rappresentare più da vicino la Natura. Senza dubbio lo scacco non è solo al livello della forma ma anche della teoria: nell’estetica naturalista esiste una convenzione del reale non meno che una prefabbricazione della scrittura.

Il paradosso è che l’umiliazione degli argomenti non ha del tutto portato con sé una fuga della forma. La scrittura neutra è un fatto più recente, sarà inventata molto tempo dopo il realismo, da autori come Camus, meno per l’effetto di un’estetica del rifugio che attraverso la ricerca di una scrittura puramente innocente. La scrittura realista è lontana dall’essere neutra, è, al contrario, carica dei segni più spettacolari della fabbricazione.

Cosi degradandosi, abbandonando l’esigenza di una Natura verbale francamente estranea al reale, senza per questo pretendere di ritrovare il linguaggio della Natura sociale — come farà Queneau — la scuola naturalista ha paradossalmente prodotto un’arte meccanica che ha additato la convenzione letteraria con una ostentazione fino allora ignota.

La scrittura flaubertiana creava a poco a poco un incantesimo, è ancora possibile perdersi in una lettura di Flaubert come in una natura piena di seconde voci dove i segni persuadono assai più che esprimere; ma la scrittura realista non può mai convincere: essa è condannata a rappresentare soltanto in virtù del dogma dualista che vuole che ci sia una sola forma ottima per «esprimere» una realtà inerte come un oggetto, realtà su cui lo scrittore può qualcosa solo con la sua arte di disporre segni.

Questi autori senza stile (Maupassant, Zola, Daudet e i loro epigoni) hanno elaborato una scrittura, la quale fu per essi il rifugio e l’esposizione delle operazioni artigianali che credevano di aver eliminato da un’estetica puramente passiva.

Sono note le dichiarazioni di Maupassant sul lavoro della forma, e tutti i procedimenti ingenui della Scuola, grazie ai quali la frase naturale è trasformata in una frase artificiale destinata a testimoniare della sua finalità puramente letteraria; cioè del lavoro che è costata.

Si sa che nella stilistica di Maupassant, l’intenzione artistica è riservata alla sintassi, il lessico deve restare al di qua della letteratura. Scriver bene — unico segno ormai del fatto letterario — corrisponde ingenuamente a cambiar di posto a un complemento, a mettere una parola «in risalto» credendo di ricavarne un ritmo «espressivo».

Ora, l’espressività è un mito: è semplicemente la convenzione dell’espressività.

Questa scrittura convenzionale è sempre stata oggetto di predilezione per la critica accademica che misura il pregio di un testo dall’evidenza del lavoro che è costato. Ora, niente è più spettacolare di una combinazione sperimentale dei complementi, come nel caso di un operaio che ripari un pezzo delicato.

Ciò che la scuola ammira nella scrittura di un Maupassant o di un Daudet, è un segno letterario isolato dal suo contenuto; ciò che pone inequivocabilmente la Letteratura come una categoria senza rapporti con altre forme di espressione, e istituisce di conseguenza una intelligibilità tutta ideale delle cose.

Tra un proletariato escluso da ogni forma di cultura e una intellighenzia che ha già cominciato a mettere in questione la stessa Letteratura, la clientela media delle scuole primarie, e cioè all’ingrosso la piccola borghesia, è destinata a trovare nella scrittura artistico-realista — a cui si devono molti romanzi commerciali — l’immagine privilegiata di una Letteratura che ha tutti i segni smaglianti e intelligibili della sua identità. Qui la funzione dello scrittore non è tanto di creare un’opera quanto di fornire una Letteratura riconoscibile da lontano.

Questa scrittura piccolo-borghese è stata ripresa dagli scrittori comunisti, perché, per il momento, le norme artistiche del proletariato non possono essere diverse da quelle della piccola borghesia (fatto del resto conforme alla dottrina), e perché il dogma stesso del realismo socialista obbliga fatalmente a una scrittura convenzionale, mirante a segnalare ben visibilmente un contenuto incapace di imporsi senza una forma che lo identifichi.

Si capisce quindi il paradosso secondo cui la scrittura comunista moltiplica i segni più grossolani della Letteratura, e lungi dal rompere con una forma, tutto sommato tipicamente borghese — almeno in passato — continua senza riserva a far suoi gli scrupoli formali dello stile piccolo-borghese (accreditato del resto presso il pubblico comunista dai componenti della scuola elementare).

Il realismo socialista francese si è dunque rifatto alla scrittura del realismo borghese, meccanizzando senza ritegno tutti i segni intenzionali dell’arte. Ecco, per esempio, alcune righe di un romanzo di Garaudy:

«…il busto ricurvo, buttato a corpo morto sulla tastiera della linotype… la gioia cantava nei suoi muscoli, danzavano le sue dita leggere e potenti… il vapore avvelenato dell’antimonio faceva battere le sue tempie e cozzare le arterie, rendendo più ardenti la sua forza, la sua collera e la sua esaltazione.»

Qui niente è dato senza metafora, è chiaro, perché bisogna segnalare pesantemente al lettore che «è scritto bene» (cioè che si sta consumando della Letteratura). Queste metafore, che si impadroniscono del minimo verbo, non sono affatto l’intenzione di un Umore che cerchi di trasmettere la singolarità di una sensazione, ma solo un marchio letterario che determina un linguaggio, come un’etichetta ci informa di un prezzo.

«Battere a macchina», «pulsare» (parlando del sangue), o «essere felici per la prima volta», è del linguaggio reale, ma non di quello realista; perché ci sia letteratura bisogna scrivere: «strimpellare la linotype», «le arterie cozzavano», oppure «stringeva il primo minuto felice della sua vita».

La scrittura realista può dunque soltanto sfociare nella Preziosità.

Sempre Garaudy scrive:

«Dopo ogni linea, il braccio gracile della linotype sollevava la sua presa di matrici danzanti», o ancora: «ogni carezza delle sue dita sveglia e fa fremere il gioioso carillon delle matrici di ottone che cadono nelle scanalature con una pioggia di note acute».

Questo è anche il gergo di Cathos e di Magdelon.

Evidentemente bisogna calcolare la mediocrità; immensa nel caso di Garaudy. In André Stil, si troveranno procedimenti assai più discreti, seppure anch’essi non sfuggano alle regole della scrittura artistico-realista.

Qui la metafora si limita a esigere un cliché quasi completamente integrato nel linguaggio reale e che segnali la Letteratura senza grande sfarzo: «chiaro come l’acqua di roccia», «mani in- cartapecorite dal freddo», ecc.; dal lessico la preziosità è respinta nella sintassi, ed è allora il taglio artificiale dei complementi a imporre la Letteratura («con una mano, ella solleva le ginocchia, piegata in due»).

Questo linguaggio saturo di convenzioni offre il reale solo tra virgolette: si adoperano termini populisti, circonvoluzioni trascurate, nel bel mezzo di una sintassi puramente letteraria:«È vero, fa un piacevole baccano, il vento» — o meglio ancora: «In pieno vento, baschi e berretti sbattenti sopra gli occhi, essi si guardano con un bel po’ di curiosità» (il familiare «un bel po’» segue a un participio assoluto, figura del tutto sconosciuta al linguaggio parlato).

Beninteso, bisogna escludere il caso di Aragon, la cui derivazione letteraria è completamente diversa, e che ha preferito colorare la scrittura realista di un leggero colore settecentesco, mescolando un po’ Laclos a Zola.

Forse in questa saggia scrittura di rivoluzionari c’è il sentimento di una impotenza a creare sin d’ora una scrittura libera. Forse c’è anche il fatto che solo scrittori borghesi possono sentire il carattere di compromesso della scrittura borghese: l’esplosione del fatto letterario è stato un fenomeno di coscienza non di rivoluzione.

Senza dubbio l’ideologia staliniana impone il terrore di ogni problematica, anche e soprattutto rivoluzionaria: la scrittura borghese è giudicata, tutto sommato, meno pericolosa di quanto lo sarebbe il suo processo.

Cosi gli scrittori comunisti sono i soli a sostenere imperturbabilmente una scrittura borghese che gli stessi scrittori borghesi hanno condannato da tempo, dal giorno stesso in cui l’hanno sentita compromessa nelle imposture della loro ideologia, cioè dal giorno stesso in cui il marxismo ha trovato la sua giustificazione.

--

--

Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.