Riflessioni sulla guerra

di Simone Weil (1933)

Mario Mancini
20 min readApr 25, 2022

Vai al libro Mosaico “Simone Weil, Scritti sulla guerra 1933–1943”

Aldo Carpi, “Il deportato”, 1951

Commento di Geraldo di Nola

In questo articolo del 1933, la Weil non presenta la guerra come «un episodio di politica estera», al contrario, la mostra come il più atroce dei fatti di politica interna. Nella sua visione non solo il sistema produttivo, ma anche quello di combattimento deve essere radicalmente mutato, perché in esso vi è prevalenza degli apparati sulle masse. Non considera la guerra come rimedio ai mali, perché essa «non fa che riprodurre i rapporti sociali che costituiscono la struttura stessa del regime ad un grado più acuto».

Nei combattimenti Simone vede riprodursi sotto un’altra forma l’oppressione che si vuole lottare; osserva la ripetizione del meccanismo del potere della funzione dominante, che non si esercita mai per il bene di chi è subordinato e perciò lo subisce. Anzi, nel pericolo della guerra, l’organizzazione della difesa delle istituzioni rafforza il potere centrale a spese del popolo.

La guerra tra stati, nel pensiero della Weil, si trasforma cosi in guerra dell’apparato militare composto da coloro che decidono e dirigono le manovre strategiche contro masse di soldati che, subordinali ad esso e agli strumenti di combattimento, devono soltanto eseguire le operazioni.

C’è di più: Simone considera la costrizione subita dal soldato ancora più dolorosa di quella dell’operaio. Ha capito che la guerra moderna si distingue dalle precedenti forme di lotta militare a causa del «miscuglio inestricabile del militare e del l’economico»» che in essa si verifica. Il sistema produttivo moderno è di fatto orientato alla preparazione della guerra futura.

Ai marxisti e ai teorici del socialismo, che hanno consacrato la guerra rivoluzionaria come non solo legittima ma come una delle più gloriose forme di lotta delle masse contro gli oppressori, Simone risponde che la guerra che affianca una rivoluzione è un fattore di reazione, che diviene la «tomba della rivoluzione».

Da Geraldo di Nola, Simone Weil. Una voce profetica per i nostri tempi, PDUL Edizioni studio domenicano, Bologna, 1993, pp-59–60

Articolo di Simone Weil

La rivoluzione francese e la guerra

La situazione attuale e lo stato d’animo che essa suscita riportano ancora una volta all’ordine del giorno il problema della guerra. Si vive attualmente nella continua attesa di una guerra; il pericolo è forse immaginario, ma il sentimento del pericolo esiste, e ne costituisce un fattore non trascurabile. Ora, si può constatare una sola reazione, il panico; ed è più il panico delle menti di fronte ai problemi posti dalla guerra, che il venir meno del coraggio di fronte alla minaccia del massacro.

Da nessun’altra parte lo smarrimento è più percepibile che nel movimento operaio. Se non facciamo uno sforzo serio di analisi, rischiamo, in un giorno prossimo o lontano, di farci cogliere dalla guerra impotenti non solo ad agire, ma anche a giudicare. Ed è necessario, innanzitutto, fare il bilancio delle tradizioni sulle quali, più o meno consciamente, abbiamo vissuto fino a ora.

Fino al periodo successivo all’ultima guerra, il movimento rivoluzionario, nelle sue diverse forme, non aveva nulla in comune con il pacifismo. Le idee rivoluzionarie sulla guerra e la pace si sono sempre ispirate ai ricordi degli anni 1792–1794, di quegli anni che sono stati la culla di tutto il movimento rivoluzionario del XIX secolo.

La guerra del 1792 sembrava, in contrasto assoluto con la verità storica, uno slancio vittorioso che, facendo insorgere il popolo francese contro i tiranni stranieri, avrebbe al tempo stesso spezzato il dominio della Corte e della grande borghesia per portare al potere i rappresentanti delle masse lavoratrici. Da questo ricordo leggendario, perpetuato dal canto della Marsigliese, nacque la concezione della guerra rivoluzionaria, difensiva e offensiva, di una guerra che era non solo una forma legittima, ma una delle forme più gloriose della lotta delle masse lavoratrici insorte contro gli oppressori.

È stata, questa, una concezione comune a tutti i marxisti e a quasi tutti i rivoluzionari fino a questi ultimi quindici anni. In compenso, sulla valutazione delle altre guerre, la tradizione socialista ci fornisce non una, ma diverse concezioni contraddittorie, che, tuttavia, non sono mai state chiaramente contrapposte le une alle altre.

Nella prima metà del XIX secolo, la guerra sembra aver avuto di per sé un certo prestigio agli occhi dei rivoluzionari, che, per esempio in Francia, rimproveravano vivamente a Luigi Filippo la sua politica di pace. Proudhon scrisse allora un elogio eloquente della guerra, e si sognavano sia guerre liberatrici sia insurrezioni per i popoli oppressi.

Il movimento operaio e la guerra

Il conflitto del 1870 costrinse per la prima volta le organizzazioni proletarie, cioè, in questo caso, l’Internazionale, a prendere concretamente posizione sul problema della guerra. E l’Internazionale, con la firma di Marx, invitò gli operai dei due paesi in lotta a opporsi a ogni tentativo di conquista, ma a prendere parte con decisione alla difesa del loro paese contro l’attacco dell’avversario.

Engels,[1] nel 1892, in nome di un’altra concezione, evocando con eloquenza i ricordi della guerra scoppiata cent’anni prima, invitò i socialdemocratici tedeschi a partecipare con tutte le loro forze, se ce ne fosse stato bisogno, a una guerra che la Francia, alleata della Russia, avesse scatenato contro la Germania.

Non si trattava più di difesa o di attacco, ma di preservare con un’azione offensiva o difensiva il paese in cui il movimento operaio era quello più forte e di schiacciare il paese più reazionario. In altri termini, secondo questa concezione, che è stata anche quella di Plekhanov, [2] di Mehring[3] e di altri, per giudicare un conflitto bisogna individuare quale potrebbe essere il risultato più favorevole al proletariato internazionale e schierarsi di conseguenza.

A questa concezione se ne oppone diametralmente un’altra, che è stata quella dei bolscevichi e degli spartachisti, secondo la quale, in ogni guerra (fatta eccezione per le guerre nazionali o rivoluzionarie, secondo Lenin, e fatta eccezione solo per le guerre rivoluzionarie, secondo Rosa Luxemburg) il proletariato deve desiderare che il proprio paese venga sconfitto e deve sabotarne la lotta.

Questa concezione, fondata sulla nozione del carattere intrinseco dell’imperialismo, secondo cui ogni guerra, salvo le eccezioni ricordate prima, può essere paragonata a una zuffa tra briganti che si disputano un bottino, presenta serie difficoltà. Essa infatti sembra spezzare l’unità d’azione del proletariato internazionale, impegnando gli operai di ogni paese, che devono agire per la sconfitta del proprio, a favorire di conseguenza la vittoria dell’imperialismo nemico, vittoria che altri operai devono cercare d’impedire.

La celebre frase di Liebknecht «Il nostro principale nemico è all’interno del nostro paese», fa emergere con chiarezza questa difficoltà, assegnando alle diverse suddivisioni nazionali del proletariato un nemico diverso, opponendole così, almeno apparentemente, le une alle altre.

È chiaro che la tradizione marxista non presenta, per quanto concerne la guerra, né unità, né chiarezza. Un punto almeno era comune a tutte le teorie, cioè il rifiuto categorico di condannare la guerra come tale.

I marxisti, in particolare Kautsky[4] e Lenin, parafrasavano volentieri l’affermazione di Clausewitz, secondo cui la guerra non farebbe che continuare la politica del tempo di pace, ma con altri mezzi. La conclusione era che bisogna giudicare una guerra non per la violenza dei mezzi impiegati, ma per gli obiettivi perseguiti attraverso questi mezzi.

Dopo il 1918

Il dopoguerra ha introdotto nel movimento operaio non un’altra concezione — non si potrebbero infatti accusare le organizzazioni operaie o sedicenti tali del nostro tempo di avere teorie su un qualsivoglia argomento — ma un’altra atmosfera morale.

Già nel 1918, il partito bolscevico, che desiderava ardentemente la guerra rivoluzionaria, dovette rassegnarsi alla pace, non per ragioni dottrinali, ma sotto la diretta pressione dei soldati russi, ai quali l’esempio del 1793 non ispirava un’emulazione maggiore se questa veniva evocata dai bolscevichi anziché da Kerenskij.

Allo stesso modo, negli altri paesi, le masse martoriate dalla guerra costrinsero i partiti che si richiamavano al proletariato ad adottare, al semplice livello propagandistico, un linguaggio nettamente pacifista, linguaggio che d’altra parte non impediva agli uni di celebrare l’Armata rossa, agli altri di votare i crediti di guerra del proprio paese. Mai, beninteso, questo nuovo linguaggio è stato motivato da analisi teoriche, e mai, addirittura, qualcuno ha mostrato di rilevare che fosse nuovo.

Ma, di fatto, invece di condannare la guerra in quanto imperialista, ci si è messi a condannare l’imperialismo in quanto fomentatore di guerre. Il cosiddetto movimento di Amsterdam, teoricamente rivolto contro la guerra imperialista, ha dovuto, per farsi ascoltare, presentarsi come se volesse rivolgersi contro la guerra in generale.

Gli orientamenti pacifici dell’URSS sono stati messi in risalto nella propaganda, ancor più del suo carattere proletario o sedicente tale. Quanto alle frasi dei grandi teorici del socialismo sull’impossibilità di condannare la guerra come tale, sono state nel frattempo completamente dimenticate.

Fascismo e nazismo

Il trionfo di Hitler in Germania ha in un certo senso riportato in superficie tutte le vecchie concezioni inestricabilmente intrecciate. La pace sembra meno preziosa, dal momento che può comportare gli indicibili orrori, sotto il cui peso languono migliaia di lavoratori nei campi di concentramento tedeschi. La teoria espressa da Engels nel suo articolo del 1892 ricompare. Il nemico principale del proletariato internazionale non è forse il fascismo tedesco, come lo era stato allora lo zarismo russo? Questo fascismo, che si espande a macchia d’olio, non può essere schiacciato che con la forza; e, poiché il proletariato tedesco è disarmato, sembra che solo le nazioni ancora democratiche possano assumersi questo compito.

Poco importa, del resto, che si tratti di una guerra di difesa o di una “guerra preventiva”; sarebbe persino meglio una guerra preventiva. Marx ed Engels non hanno forse cercato, a un certo punto, di spingere l’Inghilterra ad attaccare la Russia? Una guerra simile non sembrerebbe più, si pensa, una lotta fra due imperialismi concorrenti, ma una lotta fra due regimi politici.

E, proprio come faceva il vecchio Engels nel 1892 ricordandosi di ciò che era accaduto cent’anni prima, ci si convince che una guerra costringerebbe lo Stato a fare serie concessioni al proletariato. Ciò sarebbe tanto più vero in quanto nella guerra che incombe, verrebbe a crearsi necessariamente un conflitto tra lo Stato e la classe capitalista, e verrebbero certo prese misure di socializzazione abbastanza accentuate. E la guerra così non potrebbe forse portare automaticamente i rappresentanti del proletariato al potere? Tutte queste considerazioni creano fin da ora, negli ambienti politici che si richiamano al proletariato, una corrente d’opinione più o meno esplicita a favore di una partecipazione attiva del proletariato a una guerra contro la Germania.

È una corrente ancora debole, ma che può estendersi con facilità. Alcuni poi rimangono fermi alla distinzione fra aggressione e difesa nazionale; altri alla concezione di Lenin; altri infine, ancora numerosi, restano pacifisti, anche se, nella maggior parte dei casi, più per forza d’abitudine che per qualunque altra ragione. Non si potrebbe immaginare confusione peggiore.

Approcciare nel modo giusto la questione della guerra

Tanta incertezza e oscurità può sorprendere e deve far vergognare: si tratta infatti di un fenomeno che, con il suo corteo di preparativi, di riparazioni, di nuovi preparativi, e a causa di tutte le conseguenze morali e materiali che porta con sé, sembra dominare la nostra epoca e costituirne l’elemento caratteristico.

Tuttavia, il fatto sorprendente sarebbe che si fosse arrivati a qualcosa di meglio, partendo da una tradizione assolutamente leggendaria e illusoria — quella del 1793 — e utilizzando il metodo più difettoso possibile, quello cioè che pretende di valutare ogni guerra dai fini perseguiti e non dal carattere dei mezzi impiegati.

Ciò non vuol dire che sia meglio condannare in generale l’uso della violenza, come fanno i pacifisti puri; la guerra costituisce in ogni epoca una specie ben determinata di violenza, di cui bisogna studiare il meccanismo prima di formulare un giudizio qualunque. Il metodo materialista consiste innanzitutto nell’esaminare qualunque fatto umano tenendo conto assai più delle conseguenze necessariamente implicite nel gioco dei mezzi adottati che dei fini perseguiti. Non si può risolvere, e nemmeno porre un problema relativo alla guerra senza avere, innanzitutto, smontato il meccanismo della lotta militare, e cioè senza avere analizzato i rapporti sociali che essa implica in determinate condizioni tecniche, economiche e sociali.

Il significato della guerra moderna

Si può parlare di guerra in generale solo per astrazione; la guerra moderna differisce assolutamente da tutto ciò che veniva indicato con questo nome sotto i precedenti regimi. Da un lato la guerra non fa che prolungare quell’altra guerra che si chiama concorrenza, e che rende la produzione stessa una semplice forma di lotta per il dominio; dall’altro, tutta la vita economica è attualmente orientata verso una guerra futura.

In questo intreccio inestricabile del fattore militare con quello economico, in cui le armi sono messe al servizio della concorrenza e la produzione al servizio della guerra, questa non fa che riprodurre i rapporti sociali che costituiscono la struttura stessa del regime, ma a un livello molto più elevato.

Marx ha mostrato con forza che il modo moderno della produzione si definisce attraverso la subordinazione dei lavoratori agli strumenti del lavoro, strumenti di cui dispongono coloro che non lavorano; e ha mostrato inoltre che la concorrenza, non conoscendo altra arma che lo sfruttamento degli operai, si trasforma nella lotta di ogni padrone contro i suoi stessi operai, e, in ultima analisi, nella lotta dell’insieme dei padroni contro l’insieme degli operai.

Allo stesso modo, la guerra, ai giorni nostri, si definisce attraverso la subordinazione dei combattenti ai mezzi di combattimento; e gli armamenti, autentici eroi della guerra moderna, sono, come gli uomini votati al loro servizio, diretti da coloro che non combattono. Poiché questo apparato direttivo non ha altro mezzo per sconfiggere il nemico che quello di mandare a morire i propri soldati con la forza, la guerra di uno Stato contro un altro Stato si trasforma immediatamente in una guerra dell’apparato statale e militare contro il proprio esercito.

E la guerra rivela d’essere in ultima analisi una guerra condotta dall’insieme degli apparati di Stato e degli Stati maggiori contro l’insieme degli uomini validi, in età da portare le armi. Solo che, mentre le macchine strappano ai lavoratori solo la forza lavoro, e i padroni non hanno altro mezzo di costrizione che il licenziamento — un mezzo limitato dalla possibilità che il lavoratore ha di scegliere tra diversi padroni — ogni soldato è invece costretto a sacrificare la sua stessa vita alle esigenze dell’apparato militare, e vi è costretto attraverso la minaccia di un’esecuzione senza processo che il potere dello Stato mantiene costantemente sospesa sul suo capo.

La guerra come politica interna

Di conseguenza, importa assai poco che la guerra sia difensiva o offensiva, imperialista o nazionale; ogni Stato in guerra è costretto a usare questo metodo dal momento che il nemico lo usa. Il grande errore di quasi tutti gli studi relativi ai conflitti armati, errore in cui sono caduti in particolare tutti i socialisti, è quello di considerare la guerra come un episodio di politica estera, mentre essa costituisce innanzitutto un fatto di politica interna, e il più atroce di tutti.

Non si tratta qui di considerazioni sentimentali o di un rispetto superstizioso della vita umana. Si tratta di una considerazione assai semplice: il massacro è la forma più radicale dell’oppressione; i soldati non si espongono alla morte, sono mandati al massacro. Poiché un apparato repressivo, una volta costituito, rimane tale finché non viene spezzato, ogni guerra che imponga un apparato, deputato a dirigere le manovre strategiche, su masse costrette a servire come masse di manovra, deve essere considerata, anche se condotta da rivoluzionari, come un fattore reazionario. Quanto alla sua portata esterna, essa è determinata dai rapporti politici istituiti all’interno; armi gestite da un apparato di Stato sovrano non possono portare la libertà a nessuno.

È ciò che Robespierre aveva compreso ed è ciò che ha pienamente confermato lo scoppio di quella stessa guerra del 1792 che ha fatto nascere la nozione di guerra rivoluzionaria. La tecnica militare era allora ancora ben lontana dall’aver raggiunto lo stesso grado di centralizzazione odierna; tuttavia, dopo Federico il, la subordinazione dei soldati che dovevano eseguire le operazioni dell’Alto comando incaricato di coordinarle era molto rigida.

La guerra produce il dispostismo: caso della Francia rivoluzionaria

Al momento della Rivoluzione, una guerra doveva trasformare tutta la Francia, come dirà Barère, in un vasto campo di battaglia, e attribuire di conseguenza all’apparato di Stato quel potere incondizionato che è proprio dell’autorità militare.

Fu il calcolo che la Corte e i girondini fecero; questa guerra, infatti, che una leggenda troppo facilmente accettata dai socialisti ha fatto apparire come una lotta spontanea del popolo sollevatosi contro i propri oppressori e al tempo stesso contro i tiranni stranieri che lo minacciavano, fu in realtà una provocazione da parte della Corte e dell’alta borghesia che concertarono un complotto contro la libertà del popolo.

Apparentemente si sbagliarono, perché la guerra, invece di portare alla union sacrée[5] che speravano, esasperò tutti i conflitti, portò il re e poi i girondini al patibolo e mise nelle mani della Montagna un potere dittatoriale. Ma ciò non toglie il fatto che il 20 aprile 1792, giorno della dichiarazione di guerra, ogni speranza di democrazia sia affondata senza possibilità di ritorno; e che al 2 giugno abbia fatto seguito sin troppo rapidamente il 9 Termidoro, le cui conseguenze dovevano a loro volta portare al 18 Brumaio.

A che cosa servì, inoltre, a Robespierre e ai suoi amici il potere che essi esercitarono prima del 9 Termidoro? Lo scopo della loro esistenza non era quello di impadronirsi del potere, ma di stabilire una democrazia effettiva, che fosse al tempo stesso democratica e sociale; per una crudele ironia della storia, la guerra li costrinse a lasciare sulla carta la Costituzione del 1793, a istituire un potere centralizzato, a esercitare un terrore sanguinario che non poterono nemmeno rivolgere contro i ricchi, e costrinse anche ad annientare ogni libertà, a fare di se stessi insomma i precursori del dispotismo militare, burocratico e borghese di Napoleone. Nondimeno, rimasero sempre lucidi. Nell’antivigilia della sua morte, Saint-Just scrisse questa frase profonda: «Solo coloro che fanno le battaglie le vincono, e solo quelli che sono potenti ne traggon vantaggi».[6]

Robespierre, dal canto suo, fin dal primo momento in cui la questione si pose, comprese che una guerra non avrebbe potuto liberare alcun popolo straniero («non si porta la libertà sulla punta delle baionette»), che avrebbe consegnato il popolo francese alle catene del potere di Stato, un potere che non era più possibile cercare di indebolire dal momento che bisognava lottare contro il nemico esterno.

«La guerra va bene per gli ufficiali militari, per gli ambiziosi, per gli aggiotatori… per il potere esecutivo… Questa decisione scioglie da ogni altra preoccupazione, non si deve più nulla al popolo, quando gli si dà la guerra.» [7]

Sin da allora lui prevedeva il dispotismo militare, e in seguito non smise di pronosticarlo, nonostante gli apparenti successi della Rivoluzione; lo previde ancora l’antivigilia della sua morte, nell’ultimo discorso, e consegnò questa predizione come un testamento di cui non hanno purtroppo tenuto conto coloro che si sono in seguito richiamati a lui.

Il dispotismo bolscevico

La storia della Rivoluzione russa fornisce esattamente gli stessi insegnamenti, e con un’analogia che colpisce. La Costituzione sovietica ha avuto la stessa, identica sorte della Costituzione del 1793: proprio come Robespierre, Lenin ha abbandonato le sue dottrine democratiche per costituire il dispotismo di un apparato di Stato centralizzato, ed è stato di fatto il precursore di Stalin, come Robespierre lo fu di Bonaparte.

La differenza sta nel fatto che Lenin, il quale aveva, del resto, già da lungo tempo preparato questo dominio dell’apparato statale costituendo un partito fortemente centralizzato, deformò successivamente le proprie dottrine per adattarle alle necessità del momento. Così, non fu ghigliottinato, e funge ora da idolo per una nuova religione di Stato.

La storia della Rivoluzione russa è tanto più sconvolgente in quanto la guerra vi costituisce costantemente il problema centrale. La rivoluzione fu compiuta contro la guerra, da parte di soldati che, sentendo l’apparato governativo e militare sfasciarsi sopra di loro, si affrettarono a scrollarsi di dosso un giogo intollerabile.

Kerenskij, invocando con una sincerità involontaria, dovuta alla sua ignoranza, i ricordi del 1792, chiamò alle armi esattamente per gli stessi motivi che erano stati un tempo dei girondini; Trockij ha mirabilmente dimostrato come la borghesia, contando sulla guerra per rimandare i problemi di politica interna e ricondurre il popolo sotto il giogo del potere di Stato, volesse trasformare «la guerra sino a esaurimento del nemico… in una guerra per l’esaurimento della Rivoluzione».[8] bolscevichi fecero allora appello alla lotta contro l’imperialismo; ma era la guerra stessa, e non l’imperialismo, a essere in questione, e loro per primi se ne accorsero quando, una volta al potere, si videro costretti a firmare la pace di Brest-Litovsk.

Il vecchio esercito era allora a pezzi e Lenin aveva ripetuto, con Marx, che la dittatura del proletariato non poteva comportare né esercito, né polizia, né burocrazia permanenti. Ma le armate bianche e il timore di interventi stranieri non tardarono a mettere la Russia intera in stato d’assedio. L’esercito fu allora ricostituito, venne soppressa l’elezione degli ufficiali, e trentamila ufficiali del vecchio regime furono reintegrati nei quadri; la pena di morte, la precedente disciplina, la centralizzazione furono ristabilite. Parallelamente, la burocrazia e la polizia vennero ricostituite. Si sa ormai abbastanza bene ciò che in seguito questo apparato militare, burocratico e poliziesco ha fatto del popolo russo.

Il caso della Comune di Parigi

La guerra rivoluzionaria è la tomba della rivoluzione e lo resterà finché non sarà data ai soldati stessi, o piuttosto ai cittadini armati, la possibilità di fare la guerra senza apparato dirigente, senza pressione poliziesca, senza giurisdizione speciale, senza pene per i disertori.

Una sola volta nella storia moderna la guerra è stata condotta così, e cioè sotto la Comune; e sappiamo bene come è finita. Sembra che per una rivoluzione impegnata in una guerra ci sia una sola scelta: soccombere sotto i colpi mortali della controrivoluzione, o trasformarsi essa stessa in controrivoluzione attraverso il meccanismo stesso della lotta militare.

Le prospettive rivoluzionarie sembrano dunque assai limitate; può infatti una rivoluzione evitare la guerra? E tuttavia è su questa fragile possibilità che bisogna puntare, o abbandonare ogni speranza. L’esempio russo è là per darci un insegnamento. Un paese avanzato, in caso di rivoluzione, non incontrerebbe le difficoltà che nella Russia arretrata rappresentano la base del barbaro regime di Stalin; ma una guerra di una certa ampiezza ne susciterebbe altre perlomeno equivalenti.

A maggior ragione, una guerra intrapresa da uno Stato borghese non può che trasformare il potere in dispotismo, e l’asservimento in assassinio. Se la guerra sembra talvolta un fattore rivoluzionario, ciò avviene solo perché costituisce un autentico banco di prova del funzionamento dell’apparato statale. Al suo contatto, un apparato male organizzato si sfascia.

La guerra rafforza gli apparati statali repressivi

Ma se la guerra non finisce subito e senza contraccolpi, o se il disfacimento non è stato troppo radicale, ne consegue solo una di quelle rivoluzioni che, secondo la formulazione di Marx, perfeziona l’apparato statale anziché abbatterlo. È quanto si è sempre verificato fino a ora. Ai giorni nostri, la guerra esaspera un solo ostacolo: il contrasto crescente tra l’apparato dello Stato e il sistema capitalistico.

L’affaire Briey, verificatosi nel corso dell’ultima guerra, ne costituisce un esempio rilevante. L’ultima guerra ha dato ai diversi apparati di Stato una certa autorità sull’economia; ciò ha fatto sorgere il termine del tutto errato di “socialismo di guerra”; successivamente, il sistema capitalista ha ripreso a funzionare in modo pressoché normale, a dispetto delle barriere doganali, del contingentamento e delle monete nazionali.

In una guerra futura, le cose andrebbero certo assai più in là, e si sa che la quantità è suscettibile di trasformarsi in qualità. In questo senso, la guerra può costituire nella nostra epoca un fattore rivoluzionario, ma solo se si vuol prendere il termine di rivoluzione nell’accezione in cui la usano i nazionalsocialisti; la guerra, come la crisi, provocherebbe una viva ostilità nei confronti dei capitalisti, e questa ostilità, col favore della union sacrée, andrebbe a profitto dell’apparato statale e non dei lavoratori.

Del resto, per riconoscere la profonda parentela che lega il fenomeno della guerra e quello del fascismo, basta far riferimento ai testi fascisti che evocano “lo spirito guerriero” e il “socialismo del fronte”. In entrambi i casi si tratta essenzialmente di una cancellazione totale dell’individuo, dovuta a un fanatismo esasperato, di fronte alla burocrazia di Stato.

Per quanto lontano possa forse spingersi in certi casi la demagogia, se il sistema capitalista risulta più o meno danneggiato in questa situazione, è forse solo a spese e non a profitto dei valori umani e del proletariato.

La guerra non è il mezzo per combattere il fascismo

L’assurdità di una lotta antifascista che assumesse la guerra come strumento d’azione si evidenzia così abbastanza chiaramente. Non soltanto ciò significherebbe combattere un’oppressione barbara schiacciando i popoli sotto il peso di un massacro ancora più barbaro, ma significherebbe anche estendere sotto un’altra forma il regime che si vuole abbattere.

È puerile supporre che un apparato statale, reso potente da una guerra vittoriosa, potrebbe arrivare ad alleggerire l’oppressione che l’apparato di Stato nemico esercita sul suo popolo; è ancora più puerile credere che potrebbe lasciar scoppiare in quel popolo, col favore della disfatta, una rivoluzione proletaria senza annegarla immediatamente nel sangue.

Per quanto riguarda poi la democrazia borghese annientata dal fascismo, una guerra non abolirebbe, ma rafforzerebbe ed estenderebbe le cause che la rendono attualmente impossibile. Nel complesso, sembra che la storia costringa sempre di più ogni azione politica a scegliere tra l’inasprimento dell’oppressione intollerabile esercitata dagli apparati statali e una lotta senza quartiere condotta direttamente contro di loro per abbatterli.

Certo, le difficoltà forse insolubili che si presentano ai giorni nostri possono forse rendere comprensibile l’abbandono puro e semplice della lotta. Ma se non si vuole rinunciare ad agire, bisogna capire che si può lottare contro un apparato statale solo dall’interno. E, in particolare, in caso di guerra bisogna scegliere: o ostacolare il funzionamento della macchina militare di cui ognuno in sé costituisce un ingranaggio, o aiutare questa macchina a stritolare ciecamente le vite umane.

Il nemico principale è dentro il paese

La celebre frase di Liebknecht «Il nemico principale è nel nostro stesso paese», acquista così interamente il suo senso, e si rivela applicabile a ogni guerra in cui i soldati vengano ridotti alla condizione di materia passiva nelle mani d’un apparato militare e burocratico. Ciò vuol dire che è applicabile, finché la tecnica attuale continuerà a esistere, a tutte le guerre, in assoluto. E, ai giorni nostri, non si può intravedere l’avvento di un’altra tecnica.

Il modo sempre più collettivo in cui si attua il dispendio di forze nella produzione così come nella guerra non ha modificato il carattere essenzialmente individuale delle funzioni di decisione e di direzione. Esso non ha fatto che mettere sempre di più le braccia o le vite delle masse a disposizione degli apparati di comando.

Ogni tentativo rivoluzionario avrà qualcosa di disperato finché non escogiteremo il modo di evitare, nell’atto stesso di produrre o di combattere, questa oppressione degli apparati sulle masse. Perché se conosciamo quale sistema di produzione e di guerra noi aspiriamo con tutta la nostra anima a distruggere, ignoriamo invece quale sistema accettabile potrebbe sostituirlo.

E, d’altronde, ogni tentativo di riforma sembra puerile rispetto alle cieche necessità determinate dal gioco di questo ingranaggio mostruoso. La società attuale è paragonabile a un’immensa macchina, che senza sosta ghermisce gli uomini, e di cui nessuno conosce i comandi; e coloro che si sacrificano per il progresso sociale sembrano persone che si aggrappano alle rotelle e alle cinghie di trasmissione per cercare di fermare la macchina, facendosi a loro volta stritolare.

Ma l’impotenza in cui ci si trova a un certo momento, impotenza che non deve mai essere considerata definitiva, non può esentare dal rimanere fedeli a se stessi, né scusare la capitolazione davanti al nemico, qualunque maschera assuma. Il nemico capitale rimane l’apparato amministrativo, poliziesco e militare, qualunque sia il nome di cui si fregi: fascismo, democrazia o dittatura del proletariato.

E non è il nemico che abbiamo di fronte, perché lo è solo nella misura in cui è quello dei nostri fratelli, ma è il nemico che dice d’essere il nostro difensore e fa di noi degli schiavi. Il peggior tradimento possibile, in qualunque circostanza, consiste sempre nell’accettare di sottostare a questo apparato e di calpestare in se stessi e negli altri, per servirlo, tutti i valori umani.

Note

[1] Engels scrive in particolare: «Nell’interesse della rivoluzione europea, essi [i socialisti tedeschi] hanno il dovere di difendere tutte le posizioni acquistate, di non capitolare né innanzi al nemico esterno né innanzi al nemico interno, e non possono compiere cotesto dovere se non combattendo la Russia e i suoi alleati, quali che essi siano. Se la Repubblica francese si ponesse al servizio si S.M. lo Czar ed autocrate di tutte le Russie, i socialisti tedeschi lo combatterebbero con rammarico, ma lo combatterebbero pur sempre», «Der Sozialismus in Deutschland», in Die Neue Zeit (n. 19,1,1891–1892,); trad. it. Il socialismo in Germania, Critica sociale, Milano 1892, pp. 11–12.

[2] Gheorgi Valentinovich Plekhanov (1856–1918) introdusse il marxismo in Russia.

[3] Franz Mehring (1846–1919). Pubblicista socialdemocratico, si accosterà alla sinistra del partito al momento della guerra, e poi si unirà alla Lega spartachista.

[4] Karl Kautsky (1854–1938) si fece conoscere prima del 1914 come primo teorico della socialdemocrazia e come oppositore delle tesi revisioniste di Bernstein. Dopo la guerra si pronunciò nettamente contro il comunismo sovietico.

[5] Espressione usata nel 1914 da Raymond Poincaré, allora presidente della Francia, per indicare l’unione di tutti i cittadini francesi contro il nemico.

[6] Louis de Saint-Just (1767–1794) nel discorso che aveva cominciato il 9 Termidoro dell’Anno il (27 luglio 1794). Si veda L. Saint-Just, Discours et rapport, éditions Sociales, 1957; trad. it. Discorsi alla Convenzione, Universale Economica, Milano 1952, p. 122.

[7] Maximilien de Robespierre (1758–1794), Sur la guerre, discorsi del 2 e 11 gennaio 1792, in M. Robespierre, Textes choisis, éditions Sociales, 1.1, 1956, pp. 129, 136, 137.

[8] Lev Davidovich Trockij, Storia della Rivoluzione russa, Sugarco, Milano 1987, p. 203.

Da: Simone Weil, Sulla guerra. Scritti 1933–1943, Edizioni del Corriere della Sera, 2022, pp. 25–39

L’articolo fu pubblicato per la prima volta su La Critique sociale, n. 10, novembre 1933. È attualmente incluso in OC, n, 1, pp. 288–299.

Simone Weil (1909–1943) Filosofa e scrittrice di origini ebraiche, si formò all’École Normale Supérieure di Parigi e, dopo la laurea in Filosofia, insegnò in alcuni licei francesi, avvicinandosi ai movimenti dell’estrema sinistra e al sindacalismo rivoluzionario. Animata da un profondo desiderio di rinnovamento sociale, appoggiò le rivendicazioni degli operai e nel 1934, per dimostrare la sua partecipazione, scelse di abbandonare l’insegnamento e lavorare in fabbrica. Nel 1936, durante la guerra civile spagnola, si arruolò nelle file delle brigate rivoluzionarie contro le milizie di Franco. Dopo l’esperienza bellica si aprì per lei un periodo di crisi spirituale, che la portò ad avvicinarsi al cristianesimo. Durante il secondo conflitto mondiale si rifugiò prima negli Stati Uniti e poi in Inghilterra, dove militò a fianco delle autorità in esilio della Resistenza francese e dove morì di tubercolosi.

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.