Razionalismo, empirismo e sensismo
Di qua o di là dal muro?
di Emanuele Severino
Il problema comune al razionalismo e all’empirismo può essere illustrato con una metafora. Supponiamo di voler sapere che cosa ci sia al di là di un muro. Possiamo allora seguire due vie.
La prima è quella di tentare di scavalcare il muro. Chi tenta di scavalcarlo dimostra con questo suo atto che per lui l’ispezione della superficie visibile del muro non ha alcuna utilità ai fini della conoscenza di ciò che sta al di là di esso: per conoscere quello che sta al di là è inutile essere informati del colore, grado di rugosità, umidità, pendenza del muro.
Per conoscere quello che sta al di là ci si dovrà mettere in una prospettiva diversa da quella di chi, stando al di qua del muro, si limita a prendere atto della sua conformazione visibile.
La seconda via consiste nel raggiungere la conoscenza di ciò che sta al di là del muro, basandosi (magari dopo aver visto che è difficile scavalcarlo) proprio sull’ispezione della sua superficie visibile. Chi sceglie questa seconda via procede sulla scorta della convinzione che al di là del muro deve in qualche modo rivelarsi nell’al di qua.
Ogni elemento che emerge dall’ispezione della superficie visibile è allora un sintomo, un effetto sintomatico, rivelativo di ciò che accade al di là del muro.
La prima è la via del razionalismo, la seconda è quella dell’empirismo. La superficie visibile del muro è l’insieme delle nostre rappresentazioni sensibili. Ciò che sta al di là del muro è la realtà vera e propria che esiste al di là e indipendentemente dalle nostre rappresentazioni. Lo scavalcamento del muro è la parabola metafisica che porta al di là delle nostre rappresentazioni sensibili, partendo da principi non desunti da esse.
Il porsi, scavalcando il muro, in una prospettiva diversa da quella di chi si limita a guardarne la superficie visibile è appunto l’appoggiarsi su elementi o principi non desunti dalla sensibilità, e quindi “a priori” o “innati” rispetto a questa.
Chi tenta di scavalcare il muro ritiene che la sua superficie visibile nasconda ciò che sta al di là di esso; chi invece si propone di desumere la conformazione dell’al di là sulla base della conformazione visibile del muro, ritiene che quest’ultima sia rivelativa dell’al di là.
È, questo secondo — si è detto –, l’atteggiamento empiristico, che nella sensibilità vede l’unico reale rapporto, l’unico reale legame tra il mondo delle nostre rappresentazioni e il mondo della realtà in sé stessa:
le nostre sensazioni sono l’unico elemento, interrogando il quale possiamo sapere qualcosa intorno alla realtà esterna.
È quindi chiaro che l’empirismo si presenta sostanzialmente come una critica alla metafisica razionalistica, e che tale critica viene a coincidere con il rifiuto dell’“innatismo” e dell’“apriorismo” razionalistico.
La parabola metafisica che scavalca la sensibilità si appoggia e parte da conoscenze innate, non attinte dall’esperienza sensibile. Sul valore di queste conoscenze si addenseranno sospetti sempre più gravi.
D’altra parte, quel che le sensazioni ci dicono intorno alla realtà esterna (e, se ce ne fosse ancora bisogno, si ribadisca che tale realtà non è quella sensibilmente percepita, ma è quella che si trova al di là delle percezioni e delle sensazioni umane) è ben poco e incerto: l’empirismo stesso andrà progressivamente rendendosi conto dei limiti della rivelatività delle sensazioni.
Ma mentre per il razionalismo la coscienza di tali limiti sarà accompagnata dalla convinzione di poter oltrepassare la soggettività sensibile (la sensibilità soggettiva) mediante la ragione, per l’empirismo la coscienza di tali limiti sarà invece accompagnata dal rifiuto sempre più radicale della “ragione” in quanto facoltà di conoscere la realtà in sé stessa.
Tuttavia, la negazione empiristica della “ragione” non ha nulla a che vedere con l’antica concezione del sensismo materialistico, per la quale ogni nostra conoscenza altro non è che “sensazione”. L’empirismo si sviluppa infatti, come il razionalismo, all’interno della scoperta cartesiana dell’indubitabilità del pensiero.
Attorno al nucleo essenziale dell’empirismo si sono certamente aggiunti degli sviluppi sensistici (si pensi, ad esempio, al sensismo di E. Condillac, nel XVIII secolo); ma la differenza tra le due posizioni è netta. Il sensismo identifica la coscienza alla sensibilità: non si avvede che la sensibilità, di cui parla, è, appunto, contenuto della coscienza.
Colori, forme, suoni, sapori, ecc., sono appunto ciò di cui siamo consapevoli, ciò di cui abbiamo coscienza. Per questo, Cartesio può affermare che la sensazione è idea. Ma già nel pensiero antico, con Socrate e Platone, il sensismo è esplicitamente e definitivamente superato: se con la vista vediamo i colori di un frutto, con il tatto ne percepiamo la ruvidezza e con il gusto il sapore, con quale “organo di senso” percepiremo l’unità di questa molteplicità sensibile (colore, sapore, ruvidezza, ecc.), quella unità che noi indichiamo appunto col nome del frutto?
Platone chiamava “anima” la facoltà che percepisce tale unità, e con questa parola intendeva precisamente riferirsi alla coscienza che ha come contenuto la sensibilità e l’unità del sensibile. Ed è ancora la coscienza ciò per cui possiamo dire che altro è un colore e altro è la consapevolezza, da noi posseduta, che questo è un colore.
Ebbene, l’empirismo non nega la coscienza (cioè non è un sensismo), ma, nella sua forma più matura, quella assunta in David Hume, nega che la coscienza possa avere di per sé stessa un contenuto reale non sensibile. Quando l’empirismo nega la “ragione”, non intende cioè negare il nostro essere consapevoli, ma intende negare quella parabola metafisica, che appoggiandosi su conoscenze innate, “a priori”, non attinte dall’esperienza, ritiene di poter cogliere la realtà come essa è in sé stessa al di là della nostra sensibilità.
La “ragione” rifiutata dall’empirismo è cioè una coscienza che presume di potersi costituire indipendentemente dalla sensibilità. La “ragione” è cioè il sapere “metafisico”, in senso razionalistico. Pertanto, il fondamento del sapere è, per l’empirismo, la coscienza sensibile, ossia la coscienza che ha come contenuto la sensibilità. Tale coscienza è appunto l’esperienza.
La storia dell’empirismo è la vicenda del progressivo rifiuto della “ragione”, accompagnata dalla consapevolezza sempre più netta dei limiti della sensazione come strumento rivelativo della realtà esterna.
Sia il carattere rivelativo, sia quello occultante della rappresentazione sensibile poggiano infatti sulla convinzione, comune dunque al razionalismo e all’empirismo, che la sensazione sia l’effetto dell’azione esercitata dalla realtà esterna sulla nostra sensibilità: tale azione è un rapporto causale, dove la realtà esterna è la causa e la sensazione l’effetto. Ma Hume elabora una delle critiche più radicali del principio di causalità, portando così al massimo il processo di riduzione, cui si è accennato, del carattere rivelativo della sensazione.
Se infatti si deve rifiutare il principio di causalità, in base al quale è consentito di porre la sensazione come effetto della realtà esterna, allora il carattere rivelativo della sensazione nei confronti di tale realtà scende a zero, e la sensazione resta un puro fenomeno, sulla cui base non è più consentito affermare alcunché intorno alla realtà esterna. La stessa affermazione di tale realtà diventa per Hume una fede inerente alla “natura umana”.
Da: Emanuele Severino, La filosofia dai Greci al nostro tempo. La filosofia moderna, RCS Libri, Milano, 2004