Proust: il lavoro del lutto
I ricordi della nonna ne “Le intermittenze del cuore”
Un gesto quotidiano
In questo lungo passo dal titolo “Le intermittenza del cuore” nel libro Sodoma e Gommora della Recherche Proust descrive la manifestazione del lutto tardivo del Narratore per la nonna, morta all’incirca un anno prima.
Il dolore gli si desta nel compiere un piccolo gesto quotidiano che accade in un ambiente però molto evocativo. È come se, fino a quel momento, la lunga e dolorosa malattia della nonna avesse ibernato il dolore e prevenuto ogni qualsivoglia manifestazione. Quel che avviene con quel semplice gesto di chinarsi sulle scarpe avvia il disgelo della emotività legato a quell’evento tragico dal quale il Narratore si era fino ad allora distanziato ed estraniato.
È indubbiamente l’ambiente di Balbec, nel quale torna dopo un anno senza più la nonna che lo accompagnava per le vacanze estive, a mettere davanti al Narratore il fatto della scomparsa definitiva della persona cara. È la prima tappa del lavoro del lutto: l’accertamento della perdita.
L’accertamento della perdita
Il riconoscimento di questo evento, specialmente se avvenuto dopo una lunga malattia, non è immediato. Avviene in ritardo e anche con connotati forti e ben delineati come possono essere quelli collegati del venir meno di ogni interesse per il mondo esterno in tutte le sue manifestazioni.
Tutto il mondo di Balbec e delle felici vacanze estive che ha stimolato i sensi e la fantasia del Narratore perde senso, interesse. Gli diventa alieno, addirittura fastidioso. La stessa vista dell’amato mare gli risulta insopportabile.
Ogni dettaglio dell’ambiente di Balbec (la stanza d’albergo, lo stesso Grand Hotel, le persone ecc.) gli rimembrano l’oggetto perduto e gli portano sofferenza.
Nella sofferenza, però, può sciogliere il dolore, forse può anche liberarsene. E questo può avvenire per via del ricordo che veicola l’afflizione della perdita.
Il rimorso e il senso di colpa
È come “un vento contro cui non si può lottare”, impedisce di “procedere oltre”. “Abbassavo gli occhi per non vedere”, scrive Proust, per non vedere i “luoghi” della nonna.
Il lavoro del ricordo è lento e graduale, parcellizzato, frammentato e intermittente; recupera gli episodi del dolore non espresso e speso nel corso della malattia verso il quale si ha rimorso, raccapriccio.
Riporta a galla il non-detto, il non-fatto, il non spiegato o il mal-spiegato, il senso di colpa e anche la condizione di impotenza che si manifesta anche in un sogno del Narratore.
Sappiamo che il sogno svolge un ruolo centrale nel lavoro del lutto.
Poi arriva la madre del Narratore e il dolore duraturo della mamma guarisce quello temporaneo del figlio.
Riportiamo di seguito il lungo passo della Recherche nel quale Proust narra da par suo tutto questo.
Buona lettura
Il volto della nonna
[…] Fin dalla prima notte, siccome soffrivo di una crisi di stanchezza cardiaca, nel tentativo di dominare la sofferenza, mi abbassai con prudente lentezza per togliermi le scarpe. Ma appena ebbi toccato il primo bottone dello stivaletto, il mio petto si gonfiò, ricolmo di una presenza sconosciuta, divina, fui scosso da singhiozzi e le lacrime sgorgarono dai miei occhi.
L’essere che veniva in mio aiuto, che mi salvava dall’aridità dell’anima, era lo stesso che parecchi anni prima, in un momento di identica angoscia e solitudine, in un momento in cui io non ero più niente, era entrato e mi aveva restituito a me stesso perché era me e più di me (il contenente che è più del contenuto e me lo recava).
Scorgevo, nella mia memoria, chino sulla mia stanchezza, il viso intenerito, preoccupato e deluso della nonna, così come mi era apparso quella prima sera del mio arrivo, non di colei che mi ero rimproverato e stupito di rimpiangere tanto poco e che di lei non aveva che il nome, ma il viso della nonna vera di cui, per la prima volta, dal giorno degli Champs-Elysées, quando aveva avuto l’attacco, ritrovavo in un ricordo involontario e totale la realtà viva.
Questa realtà non esiste per noi fintanto che non è stata ricreata dalla nostra mente (se così non fosse, gli uomini che hanno preso parte a una gigantesca battaglia sarebbero tutti grandi poeti epici); e così, in un folle desiderio di precipitarmi tra le sue braccia, soltanto in quel momento — a più di un anno di distanza dal giorno del suo funerale, a causa di quell’anacronismo che impedisce tanto spesso al calendario dei fatti di coincidere con quello dei sentimenti — avevo appreso che era morta.
Avevo spesso parlato di lei, dopo quel giorno, e anche pensato a lei, ma dietro le mie parole, dietro i miei pensieri di giovane ingrato, egoista e crudele non c’era mai stato niente che assomigliasse alla nonna, perché, nella mia leggerezza, nel mio amore per il piacere, nell’abitudine a vederla ammalata, non richiudevo in me che allo stadio virtuale il ricordo di ciò che era stata.
Turbamenti della memoria
In qualsiasi momento la consideriamo, la nostra anima nella sua totalità ha un valore quasi soltanto fittizio, nonostante il cospicuo bilancio delle sue ricchezze, poiché ora le une ora le altre sono indisponibili, sia che si tratti di ricchezze effettive o immaginarie, e nel mio caso, per esempio, quella dell’antico nome di Guermantes o quelle, tanto più gravi, del vero ricordo della nonna.
Perché ai turbamenti della memoria sono legate le intermittenze del cuore. È probabile sia l’esistenza del nostro corpo, simile per noi a un vaso in cui sarebbe rinchiusa la nostra spiritualità, a farci supporre che tutti i nostri beni interiori, le nostre gioie passate, tutti i nostri dolori siano perennemente in nostro possesso. Forse è altrettanto inesatto credere che essi svaniscano o ritornino.
In tutti i casi, se restano in noi, la maggior parte del tempo risiedono in una zona sconosciuta dove non ci sono di alcuna utilità, e dove anche i più usuali sono soffocati da ricordi di altro ordine e che escludono ogni simultaneità con essi nella nostra coscienza.
Ma se riusciamo a riafferrare l’insieme di sensazioni in cui sono custoditi, essi hanno, a loro volta, il medesimo potere di espellere tutto ciò che è incompatibile con essi, di installare in noi soltanto l’io che li ha vissuti.
Ora, poiché l’io che ero improvvisamente ridiventato non era più esistito da quella lontana sera in cui la nonna mi aveva spogliato al mio arrivo a Balbec, del tutto naturalmente, non dopo l’attuale giornata, che quell’io ignorava, ma — come se esistessero nel tempo sequenze diverse e parallele — senza soluzione di continuità, subito dopo quella prima sera di un tempo aderii al momento in cui la nonna si era chinata su di me.
Come in un sogno
L’io che ero allora, scomparso da così lungo tempo, era di nuovo tanto vicino a me che mi sembrava di udire ancora le parole che avevano preceduto quell’attimo e che non erano ormai più che un sogno, come un uomo non del tutto sveglio crede di percepire vicinissimo a sé i rumori del sogno che svanisce.
Ora io non ero altro che quell’essere che cercava di rifugiarsi tra le braccia della nonna, che cercava di cancellare le tracce delle sue pene dandole dei baci, quell’essere che, quando ero il tale o tal altro di quelli che si erano succeduti in me da qualche tempo, avrei avuto tanta difficoltà a rappresentarmi quanto ora mi sarebbero occorsi sforzi, sterili d’altronde, per risentire i desideri e le gioie di uno di quelli che, momentaneamente almeno, non ero più.
Mi ricordavo come, un’ora prima dell’attimo in cui la nonna si era chinata così, nella sua veste da camera, sui miei stivaletti, avevo creduto, vagando nel caldo soffocante della strada, davanti alla pasticceria, di non farcela ad attendere l’ora che dovevo ancora trascorrere senza di lei, tale era il bisogno che sentivo di stringerla fra le braccia.
E adesso, che questo stesso bisogno rinasceva, sapevo che avrei potuto aspettare ore e ore ma lei non sarebbe stata più accanto a me. Lo scoprivo semplicemente perché, sentendola per la prima volta viva e vera, gonfiandomi il cuore da spezzarlo, e alla fine ritrovandola, avevo appreso d’averla perduta per sempre.
La perdita irrimediabile
Perduta per sempre; non riuscivo a capire e mi esercitavo a subire la sofferenza di questa contraddizione: da un lato, un’esistenza, una tenerezza che sopravvivevano in me così come le avevo conosciute, vale a dire fatte per me, un amore in cui tutto trovava in me talmente il suo complemento, il suo scopo, la sua costante direzione, che il genio di grandi uomini, tutti i genii che avevano potuto esistere dall’inizio del mondo, non sarebbero valsi, per la nonna, uno solo dei miei difetti; d’altro lato, non appena avevo rivissuto, come presente, questa felicità, sentirla trafitta dalla certezza, lancinante come un dolore fisico ricorrente, di un nulla che aveva cancellato l’immagine che mi ero fatto di quella tenerezza, che aveva distrutto quell’esistenza, abolito retrospettivamente la nostra mutua predestinazione, ridotto la nonna, nel momento in cui la ritrovavo come in uno specchio, a una semplice estranea che il caso aveva voluto farle trascorrere qualche anno accanto a me, come avrebbe potuto trascorrerlo accanto a qualsiasi altro, ma per la quale, prima e dopo, non ero niente, non sarei stato niente.
L’amarezza di certi ricordi
Al posto dei piaceri che avevo avuto da qualche tempo, il solo che mi sarebbe stato possibile gustare in quel momento sarebbe stato, modificando il passato, diminuire i dolori che la nonna aveva un tempo patito. Ora, io non la ricordavo soltanto in quella sua veste da camera, indumento appropriato al punto da divenire quasi simbolico delle fatiche, malsane forse, ma anche dolci, che lei si sobbarcava per me; a poco a poco, ecco che mi tornavano in mente tutte le occasioni in cui non avevo mancato, lasciandole vedere, esagerandole all’occorrenza, le mie sofferenze, di recarle un dolore che mi immaginavo poi cancellato dai miei baci, come se la mia tenerezza fosse stata capace, così come la mia felicità, di fare la sua; e peggio ancora, io che ora non concepivo altra felicità che di poterne ritrovare, nel mio ricordo, una identica, sparsa sulle superfici di quel viso modellate e piegate dalla tenerezza, avevo cercato, un tempo, con insensato accanimento di estirparne anche i minimi piaceri, per esempio quel giorno in cui Saint-Loup aveva fatto alla nonna la fotografia, e in cui, non riuscendo a nasconderle la puerilità quasi ridicola della sua civetteria a voler posare con quel cappello dall’ampia ala, in una penombra che esteticamente la favoriva, mi ero lasciato andare a mormorare parole spazientite e offensive che, mi ero accorto da una contrazione del suo viso, avevano colpito nel segno, l’avevano ferita; ero io, ora, a esserne lacerato, ora che la consolazione di mille baci era per sempre impossibile.
Il ricordo attraverso il dolore
Ma ormai non avrei più potuto cancellare quella contrazione dal suo viso e quella sofferenza dal suo cuore, o piuttosto dal mio, perché siccome i morti non esistono che in noi, siamo noi che ci trafiggiamo senza requie quando ci ostiniamo a ricordarci le ferite che abbiamo loro inferto. A quei dolori, per quanto crudeli, mi aggrappavo con tutte le mie forze, perché sentivo che erano la conseguenza del ricordo della nonna, la prova che quel ricordo era ben presente in me.
Sentivo di ricordarla veramente soltanto attraverso il dolore, e avrei voluto che quei chiodi che fissavano la sua memoria si infiggessero ancora più profondamente in me.
Non cercavo di mitigare la sofferenza, di abbellirla, di fingere che la nonna fosse soltanto assente e momentaneamente invisibile, rivolgendo alla sua fotografia (quella che Saint-Loup aveva fatto e che avevo con me) parole e preghiere come a un essere separato da noi ma che, rimasto individuale, ci conosce e resta legato a noi da un’armonia indissolubile.
La genuinità del dolore
Non lo feci mai perché ci tenevo, non soltanto a soffrire, ma a rispettare la genuinità della mia sofferenza, così come l’avevo subita d’un tratto, senza volerlo, e volevo continuare a subirla, ubbidendo alle sue leggi, ogni volta che fosse tornata quella strana contraddizione della sopravvivenza e del nulla che si scontravano in me.
Non sapevo, certo, se da quell’impressione così dolorosa, e al momento incomprensibile, avrei tratto un giorno un po’ di verità, ma se mai ci fossi riuscito quel poco di verità non sarebbe scaturito che da quella impressione così particolare, così spontanea che non era stata tracciata dalla mia intelligenza né attenuata dalla mia viltà, ma che la morte stessa, la brusca rivelazione della morte aveva scavato in me seguendo un grafico soprannaturale e inumano, come un doppio e misterioso solco.
(Quanto all’oblio della nonna in cui avevo finora vissuto, non potevo nemmeno pensare di aggrapparmi ad esso per trarne qualche verità, poiché non era, in se stesso, altro che negazione, indebolimento del pensiero incapace di ricreare un momento reale della vita e costretto a sostituirgli immagini convenzionali e indifferenti.)
La dolcezza del ricordo
Può darsi tuttavia che, poiché l’istinto di conservazione, l’ingegnosità dell’intelligenza a preservarci dal dolore cominciava a porre su rovine ancora fumanti le prime basi della sua opera utile e nefasta, io gustassi forse troppo la dolcezza di ricordare questo o quel giudizio dell’essere amato, di ricordarli come se quell’essere avesse potuto formularli ancora, come se ancora esistesse, come se io continuassi a esistere per lui.
Ma non appena riuscii ad addormentarmi, in quell’ora più veritiera in cui i miei occhi si chiusero alle cose del mondo esterno, il mondo del sonno (sulla soglia del quale l’intelligenza e la volontà, momentaneamente paralizzate, non potevano più contendermi alla crudeltà delle mie vere impressioni) riflesse, rifranse la dolorosa sintesi, alla fine riformatasi, della sopravvivenza e del nulla, nella profondità organica e divenuta translucida delle viscere misteriosamente illuminate.
Mondo del sonno
Mondo del sonno, dove la conoscenza interiore, posta alle dipendenze dei disturbi dei nostri organi, accelera il ritmo del cuore o del respiro, perché una stessa dose di paura, di tristezza e di rimorsi agisce con una violenza centuplicata se è iniettata così nelle nostre vene; da quando, per percorrere le arterie della città sotterranea, ci siamo imbarcati sui neri flutti del nostro sangue come su un Lete interiore dalle mille sinuosità, grandi e solenni figure ci appaiono, ci abbordano e ci abbandonano, lasciandoci in lacrime.
Cercai invano quella della nonna non appena ebbi varcato le volte tenebrose; sapevo, pertanto, che lei esisteva ancora, ma di una vita diminuita, pallida come quella del ricordo; l’oscurità aumentava, e così il vento; mio padre, che doveva condurmi da lei, non arrivava.
D’un tratto mi mancò il respiro, sentii il mio cuore indurirsi, mi ero ricordato che da tante settimane avevo dimenticato di scrivere alla nonna; che cosa doveva pensare di me?
Nel sogno
«Mio Dio» mi dicevo «come deve sentirsi infelice in quella cameretta che hanno preso in affitto per lei, piccola come quella di un’anziana domestica, dove se ne sta tutta sola con l’infermiera che le hanno messo a fianco per curarla e dove lei non può muoversi perché è sempre un po’ paralizzata, e non ha voluto alzarsi una sola volta! Certo crederà che io l’abbia dimenticata da quando è morta; e come deve sentirsi sola e abbandonata! Oh! Bisogna che corra a trovarla, non posso aspettare un minuto di più, non posso aspettare che mio padre arrivi; ma dov’è? Come ho potuto dimenticare l’indirizzo? Purché mi riconosca ancora! Come ho potuto dimenticarla per tanti mesi? Diventa buio, non troverò la strada, il vento mi impedisce di avanzare; ma ecco mio padre che cammina dinanzi a me; gli grido: «Dove è la nonna? Dammi l’indirizzo. Sta bene? Sei proprio sicuro che non le manchi nulla?». «Ma no» mi dice mio padre. «Stai tranquillo. La sua custode è una persona ordinata. Le mandiamo ogni tanto una piccola somma perché possa acquistarle il poco che le occorre. Qualche volta chiede che cosa sei diventato. Le abbiamo detto che stai scrivendo un libro. È parsa contenta. Si è asciugata una lacrima.»
Un ricongiungimento impossibile
Ora credetti di ricordarmi che, poco dopo la sua morte, la nonna mi aveva detto singhiozzando con aria umile, come una vecchia domestica licenziata, come un’estranea: «Mi permetterai di vederti qualche volta, non stare troppi anni senza farmi visita. Pensa che sei stato il mio nipotino e le nonne non dimenticano».
Rivedendo il suo volto così sottomesso, così infelice, così dolce, volevo correre immediatamente a dirle quello che avrei dovuto risponderle allora: «Ma nonna, tu mi potrai vedere quando vorrai, io non ho che te al mondo, non ti lascerò mai!».
Come il mio silenzio ha dovuto farla piangere dopo tanti mesi in cui mai mi sono recato là dove giace! Che cosa si sarà detta? E anch’io singhiozzando dissi a mio padre: «Presto, presto, il suo indirizzo. Portami da lei».
Ma lui: «Il fatto è… non so se potrai vederla. E poi sai, è molto debole, debolissima, non è più la stessa. Credo ti sarà piuttosto penoso. E poi non mi ricordo il numero esatto del viale». «Ma, dimmi, tu che lo sai, non è vero che i morti non vivono più, non è vero, malgrado quello che dicono, perché la nonna esiste ancora.» Mio padre sorrise tristemente: «Oh, ben poco, sai, ben poco! Credo faresti meglio a non andarci. Non le manca nulla; le mettono tutto in ordine». «Ma è spesso sola?» «Sì, ma è meglio per lei. È meglio che non pensi, non potrebbe che farla soffrire. Spesso pensare fa male. Del resto, sai, è molto apatica. Ti lascerò l’indicazione precisa perché tu possa andarci. Non vedo che cosa potresti fare e non credo che la custode te la lascerà vedere…» «Sai comunque che vivrò sempre accanto a lei, cervi, cervi, Francis Jammes, forchetta.»
Il risveglio negli stessi luoghi
Ma già avevo riattraversato il fiume dai tenebrosi meandri ed ero risalito alla superficie, dove si apre il mondo dei vivi; per cui, se ripetevo ancora «Francis Jammes, cervi, cervi», la successione di queste parole non mi offriva più il senso limpido e la logica che esprimevano tanto naturalmente per me solo un istante prima e che non riuscivo più a ricordare.
Non capivo nemmeno, poi, perché la parola Aias che mi aveva detto poco prima mio padre aveva significato senza alcun possibile dubbio: «Sta’ attento a non prendere freddo». Avevo dimenticato di chiudere le persiane, e forse la luce del mezzogiorno mi aveva svegliato.
Ma non riuscii a sopportare di avere davanti agli occhi quelle onde del mare che la nonna un tempo aveva contemplato per ore; l’immagine nuova della loro indifferente bellezza si completava all’istante con l’idea che a lei non era possibile vederle.
La parete docile come un violino
Avrei voluto tapparmi le orecchie al loro rumore, perché ora la luminosa pienezza della spiaggia scavava un vuoto nel mio cuore; tutto sembrava dirmi come quei viali e quei prati di un giardino pubblico in cui, una volta, quand’ero piccolo, l’avevo perduta: «No, non l’abbiamo vista», e sotto la rotondità del pallido e divino cielo mi sentivo oppresso come sotto un’immensa campana azzurrastra che chiudeva un orizzonte in cui la nonna non esisteva.
Per non veder più niente mi girai contro il muro, ma ahimè!, mi trovavo di fronte quella parete che fungeva per noi due da messaggero mattutino, quella parete che, docile come un violino nel rendere tutte le sfumature di un sentimento, diceva con tanta precisione alla nonna la mia paura di svegliarla, e, se lei era già sveglia, di non essere udito da lei e che lei non osasse muoversi, e poi, subito dopo, come la replica di un secondo strumento, mi annunciava la sua venuta e mi invitava alla calma. Non osavo avvicinarmi a quella parete più che a un pianoforte su cui la nonna avesse suonato e che vibrasse ancora del suo tocco.
… e muta
Sapevo che ora avrei potuto bussare anche più forte ma niente avrebbe potuto risvegliarla, che non avrei udito nessuna risposta, che la nonna non sarebbe più venuta. E non chiedevo nient’altro a Dio, se esiste un paradiso, che di poter bussare contro quella parete i tre piccoli colpi che la nonna avrebbe riconosciuto tra mille, e ai quali avrebbe risposto con quegli altri colpi che volevano dire: «Non agitarti, topino, capisco che sei impaziente, ma sto venendo» e che mi lasciasse restare con lei tutta l’eternità che, per noi due, non sarebbe stata troppo lunga.
[…]
Il dolore abissale della madre
Mia madre doveva arrivare l’indomani. Mi sembrava che sarei stato meno indegno di vivere accanto a lei, l’avrei meglio capita, ora che una vita estranea e degradante aveva lasciato posto al riaffiorare dei ricordi laceranti che cingevano e nobilitavano la mia anima come la sua, con la loro corona di spine. L
o credevo; in realtà c’era un’infinita distanza tra i veri dolori, come era quello della mamma — che ci tolgono letteralmente la vita per un tempo lunghissimo, a volte per sempre, quando si è perduto l’essere che si ama — e quegli altri dolori, passeggeri, malgrado tutto, come doveva essere il mio, che se ne vanno presto come sono venuti tardi, che si conoscono molto tempo dopo l’evento, perché, per provarli, abbiamo avuto bisogno di «capirli», dolori come tanta gente ne prova e dai quali quello che attualmente costituiva la mia tortura non si differenziava che per quella sua modalità di ricordo involontario.
Un dolore profondo come quello di mia madre dovevo conoscerlo un giorno, lo si vedrà nel seguito di questo racconto, ma non ora, e non così me lo immaginavo
[…]
Dolore di figlia
Forse il grande dolore che la morte della propria madre suscita in una figlia come era la mamma, non fa che schiudere più presto la crisalide, affrettare la metamorfosi e la comparsa di un essere che si porta dentro di sé e che, senza questa crisi che fa bruciare le tappe e saltare di colpo interi periodi, sarebbe sopraggiunta più lentamente.
Forse, nel rimpianto di colei che non è più, vi è una specie di suggestione che finisce per comporre sui nostri tratti una somiglianza che avevamo in noi potenzialmente, ma c’è soprattutto un arresto della nostra attività più specificatamente individuale (nella mamma, il buon senso, l’allegria ironica che le veniva da suo padre) che non esitavamo, finché era vivo l’essere amato, a mettere in pratica, magari a sue spese, e che bilanciava il carattere che ci veniva esclusivamente da lui. Morta la persona, avremmo scrupolo a essere diversi, non ammiriamo che l’essere che lei era, ciò che noi già eravamo ma insieme ad altre cose e che ora saremo esclusivamente.
La continuità con la persona scomparsa
In questo senso (e non in quello così vago, così falso in cui la si considera generalmente) si può dire che la morte non è inutile, che il morto continua ad agire su di noi. Agisce anche più di un vivo, perché come la realtà non è rivelata che dalla mente, ed è l’oggetto di un’operazione mentale, così noi conosciamo veramente ciò che siamo costretti a ricreare con il pensiero, ciò che la vita di tutti i giorni ci nasconde…
Infine, in questo culto del rimpianto per i nostri morti, noi dedichiamo un’idolatria per ciò che essi hanno amato. Non soltanto mia madre non riusciva a separarsi dalla borsetta della nonna, divenuta più preziosa che se fosse stata di zaffiri o diamanti, dal suo manicotto, da tutti quegli accessori che accentuavano ancora di più le rassomiglianze tra loro due, ma anche dai volumi di Madame de Sévigné che la nonna aveva sempre con sé, esemplari che la mamma non avrebbe cambiato nemmeno con lo stesso manoscritto delle Lettere.
L’immedesimazione
Un tempo prendeva in giro la nonna perché non le scriveva mai senza citare una qualche frase di Madame de Sévigné o di Madame de Beausergent. In ognuna delle tre lettere che ricevetti da lei prima del suo arrivo a Balbec, mi citò Madame de Sévigné come se quelle tre lettere non fossero state scritte da lei a me ma dalla nonna a lei.
Volle scendere sulla diga, vedere quella spiaggia di cui la nonna le parlava tutti i giorni nelle lettere. Tenendo fra le mani il parasole di sua madre, la vidi dalla finestra avanzare tutta nera, a passi timidi, devoti, sulla sabbia che i piedi amati avevano calpestato prima di lei, e sembrava andare alla ricerca di una morta che le onde dovessero riportare a riva.
Per non lasciarla pranzare sola, dovetti scendere con lei. Il primo presidente e la vedova del presidente dell’Ordine degli avvocati le si fecero presentare. E la mamma era così sensibile per ogni cosa che si riferisse in qualche modo alla nonna che fu infinitamente commossa, serbò sempre il ricordo e la gratitudine per ciò che le disse il primo presidente, mentre reagì indignata perché la moglie del presidente dell’Ordine, invece, non ebbe una parola di ricordo per la morta.
L’indifferenza verso i morti
In realtà ad entrambi non importava nulla della nonna. Le parole commosse del primo e il silenzio dell’altra, benché mia madre ponesse tra esse una simile distanza, non erano che due modi diversi di esprimere l’indifferenza che ci ispirano i morti.
Ma credo che la mamma trovasse una certa dolcezza soprattutto nelle parole in cui, mio malgrado, lasciai trapelare un po’ della mia sofferenza. Essa non poteva che rendere felice la mamma (malgrado tutta la tenerezza che aveva per me), come tutto ciò che assicurava alla nonna una sopravvivenza nei cuori.
[…]
L’uscita
Infine mia madre volle che uscissi. Ma, ad ogni passo, qualche aspetto dimenticato del Casinò, della strada lungo la quale, aspettandola, la prima sera, ero andato fino al monumento Duguay-Trouin, mi impediva, come un vento contro il quale non si può lottare, di procedere oltre; abbassavo gli occhi per non vedere.
E, dopo aver ripreso un poco di forza, ritornavo verso l’albergo, verso l’albergo dove sapevo che era ormai impossibile, per quanto a lungo dovessi aspettare, ritrovare la nonna che avevo ritrovato un tempo, la prima sera dell’arrivo.
Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto. Sodoma e Gomorra, Rizzoli, edizioni del Kindle, pp. 2140–2163