Proust: discorso sulla malattia e sui dottori
I malesseri della zia Léonie
di Marcel Proust
Il nostro corpo
Salii in casa e trovai la nonna più sofferente. Da qualche tempo, senza saper bene che cosa avesse, si lamentava della sua salute. Soltanto nella malattia ci rendiamo conto che non viviamo soli ma incatenati a un altro essere di una specie differente dal quale ci separano degli abissi, un essere che non ci conosce, e dal quale è impossibile farci capire: il nostro corpo.
Forse potremmo riuscire a rendere sensibile al proprio interesse personale, se non alla nostra sventura, qualche malvivente che incontrassimo per strada. Ma chiedere pietà al nostro corpo è come parlare a una piovra, per la quale le nostre parole non possono aver più senso del rumore dell’acqua, e con la quale saremmo terrorizzati di essere condannati a vivere.
I malesseri della nonna sfuggivano spesso alla sua attenzione sempre rivolta a noi. Quando la facevano soffrire troppo, allora, per arrivare a guarirli, si sforzava invano di comprenderli. Se i fenomeni morbosi di cui era teatro il suo corpo restavano oscuri e inafferrabili alla sua mente, erano chiari e intelligibili a esseri appartenenti al loro stesso regno fisico, a coloro cui lo spirito umano ha finito per rivolgersi per capire ciò che gli dice il suo corpo, come dinanzi alle risposte di uno straniero cerchiamo qualcuno del suo stesso paese che possa farci da interprete. Essi possono parlare con il nostro corpo, dirci se la sua collera è grave o se si calmerà presto.
La medicina, un compendio di errori
Cottard che era stato chiamato per visitare la nonna e ci aveva irritato chiedendoci con un sorriso sottile appena gli avevamo detto che era ammalata: «Malata? Non sarà per caso una malattia diplomatica?, tentò, per calmarle l’agitazione, il regime latteo. Ma le continue minestre di latte non fecero effetto perché la nonna ci metteva molto sale, di cui, a quei tempi, si ignoravano gli inconvenienti (Widal non aveva ancora fatto le sue scoperte).
Infatti la medicina non è che un compendio degli errori successivi e contraddittori dei medici, interpellando i migliori di loro abbiamo molta probabilità di richiedere una verità che sarà riconosciuta falsa fra qualche anno. Di modo che credere alla medicina sarebbe una suprema follia, se il non crederci non fosse una follia ancora maggiore, perché, tutto sommato, da quell’accumulo di errori sono emerse alla fine alcune verità. Cottard aveva raccomandato che le prendessimo la temperatura.
La misurazione della temperatura
Si mandò a cercare un termometro. Il tubicino per quasi tutta la sua lunghezza era privo di mercurio. A malapena si distingueva, in agguato in fondo al suo minuscolo serbatoio, la salamandra d’argento. Sembrava morta. Il cannello di vetro venne introdotto tra le labbra della nonna. Non ci fu bisogno di lasciarvelo molto tempo; la piccola strega non ci mise tanto a emettere il suo oroscopo.
La vedemmo fissa, ferma a metà della sua torretta, immobile, mostrando con precisione la cifra che le avevamo chiesto e che tutte le riflessioni che l’anima della nonna avrebbe potuto fare su se stessa non sarebbero state in grado di fornirle: 38°3.
Per la prima volta ci sentimmo un po’ inquieti. Scuotemmo con forza il termometro per cancellare quella fatidica indicazione, come se con questo fosse stato possibile abbassare la febbre oltreché la temperatura segnata.
Ahimè! Fu molto chiaro che la piccola e irrazionale Sibilla non aveva dato arbitrariamente la sua risposta, infatti, l’indomani, non appena il termometro fu di nuovo introdotto tra le labbra della nonna, quasi subito, come in un sol balzo, bella nella sua sicurezza e intuizione di un fatto per noi invisibile, la piccola profetessa era andata ad arrestarsi al medesimo punto, in un’immobilità implacabile e la sua verga scintillante ci mostrava ancora la cifra 38°3. Non diceva niente altro, ma noi avevamo un bel desiderare, volere, pregare: sorda, sembrava fosse l’ultima parola premonitrice, minacciosa.
Il febbrifugo
Allora, per tentare di costringerla a modificare la sua risposta ci rivolgemmo a un’altra creatura dello stesso regno, ma più potente, che non si contenta di interrogare il corpo ma può comandarlo, un febbrifugo dello stesso genere dell’aspirina, non ancora in uso a quel tempo. Non avevamo abbassato il termometro al di sotto dei 37°5 nella speranza che così la febbre non sarebbe risalita.
Somministrammo il febbrifugo alla nonna e rimettemmo il termometro. Come un guardiano implacabile a cui si mostri l’ordine di un’autorità superiore dalla quale è stato possibile ottenere una raccomandazione e che trovandolo in regola risponda: «Va bene, non ho niente da dire, dal momento che le cose stanno così, passate pure», la vigile custode questa volta non si mosse.
Ma ingrugnita sembrava dire: «A che vi servirà tutto questo? Dato che conoscete il chinino, lui mi ordinerà di non muovermi, una volta, dieci volte, venti volte, e poi si stancherà, lo conosco, non potrà durare sempre, e così che cosa ci avrete guadagnato?».
Allora la nonna sperimentò la presenza in sé di una creatura che conosceva il corpo umano meglio di lei; la presenza di un contemporaneo di razze scomparse, la presenza di uno dei primi occupanti — molto anteriore alla creazione dell’uomo dotato di pensiero — sentì quell’alleato millenario tastarle, anche un po’ duramente, la testa, il cuore, i gomiti, riconosceva i luoghi, organizzava tutto per il combattimento preistorico che ebbe luogo subito dopo.
In un attimo, la febbre, Pitone schiacciato, fu vinta da quel potente elemento chimico che la nonna, passando al disopra di tutti gli animali e i vegetali, avrebbe voluto poter ringraziare. Era ancora sconvolta da quell’incontro avuto, attraverso tanti secoli, con un elemento anteriore alla creazione stessa delle piante. Dal canto suo il termometro, come una Parca momentaneamente vinta da un dio più antico, manteneva immobile il suo fuso d’argento.
Ahimè! Altre creature inferiori che l’uomo ha allenato alla caccia di quella misteriosa selvaggina che egli non può raggiungere al fondo di se stesso, ci informavano crudelmente della presenza di una quantità debole ma costante di albumina, tale almeno da apparirci in rapporto con un qualche stato persistente che non individuavamo.
Il ricorso allo specialista
Bergotte aveva scosso in me quell’istinto scrupoloso che mi induceva a subordinare la mia intelligenza, quando mi aveva parlato del dottor du Boulbon come di un medico che non mi avrebbe scocciato ma avrebbe trovato trattamenti, magari a prima vista bizzarri, ma adatti alla particolarità della mia intelligenza.
Ma le idee si trasformano in noi, hanno la meglio sulle resistenze che opponiamo ad esse all’inizio, e si nutrono di ricche riserve intellettuali già pronte che non sapevamo ad esse destinate. Ora, come succede ogni volta che certe voci sul conto di qualcuno che non conosciamo, hanno avuto il potere di risvegliare in noi l’idea di un grande talento, di una specie di genio, dentro di me davo al dottor du Boulbon quella fiducia senza limiti che ci ispira colui che, con un occhio più acuto degli altri, percepisce la verità.
Certo sapevo che più che altro era uno specialista di malattie nervose, colui al quale Charcot prima di morire aveva predetto che avrebbe regnato sulla neurologia e sulla psichiatria. «Ah! non so, può ben darsi» disse Françoise che era presente e sentiva per la prima volta il nome di Charcot come quello di du Boulbon.
Ma questo non le impediva affatto di dire: «Può ben darsi». Quei suoi «può darsi», «forse», «non so» erano esasperanti in un simile caso. Veniva voglia di risponderle: «Non c’è da meravigliarsi che non lo sappiate, non sapete neanche di cosa stiamo parlando; come potete dire che è possibile o no, se non ne sapete niente?
In ogni caso adesso non potete dire che non sapete che Charcot ha detto a du Boulbon ecc. ecc. Adesso lo sapete perché ve lo abbiamo detto, e i vostri «forse», «può darsi» sono fuori luogo perché è sicuro».
Malgrado la sua più specifica competenza in materia cerebrale e nervosa, siccome sapevo che du Boulbon era un grande medico, un uomo superiore, di un’intelligenza intuitiva e profonda, supplicai mia madre di farlo venire, e la speranza che, attraverso una visione giusta del male, l’avrebbe forse guarito, finì per prevalere sul timore di impressionare la nonna se avessimo convocato un consulto.
La visita del neurologo
Ciò che convinse mia madre fu il fatto che la nonna, incoraggiata, senza volerlo, da Cottard, non usciva più e non si alzava quasi dal letto. Aveva un bel risponderci con la lettera di Madame de Sévigné riguardante Madame de Lafayette: «Dicevano che era pazza a non voler più uscire, io rispondevo a quelle persone così precipitose nel loro giudizio: “Madame de Lafayette non è pazza” e non aggiungevo altro. Bisognò che morisse per dimostrare che aveva ragione a non voler uscire».
Du Boulbon, chiamato, diede torto, se non a Madame de Sévigné, che non venne citata davanti a lui, almeno alla nonna. Invece di auscultarla, fissando su di lei il suo penetrante sguardo in cui forse c’era l’illusione di scrutare a fondo la malata o il desiderio di darle quell’illusione, che sembrava spontanea ma doveva esser diventata meccanica, oppure di non farle capire che pensava a tutt’altro, o di riuscire a prevalere, cominciò a parlare di Bergotte.
«Ah! certo, Madame, è straordinario. Avete perfettamente ragione ad amarlo! Ma quale dei suoi libri preferite? Ah! veramente! Eh, sì, effettivamente, forse, è il migliore. In ogni caso è il suo romanzo meglio costruito. Claire è proprio affascinante. Qual è il personaggio maschile che vi è più simpatico?»
Credetti dapprima che la facesse parlare così di letteratura perché la medicina lo annoiasse o forse per far mostra della sua larghezza di vedute, e anche, a scopo terapeutico, per dar fiducia alla malata, farle vedere che non era inquieto, distrarla dal suo stato.
Ma, in seguito ho capito che, famoso soprattutto come alienista e per i suoi studi sul cervello, aveva voluto con quelle domande rendersi conto se la memoria della nonna non presentasse lacune. Quasi contro voglia la interrogò un po’ sulla sua vita, l’occhio scuro ed attento.
Poi d’un tratto, come scorgendo all’improvviso la verità, e deciso a raggiungerla a qualsiasi costo, con un gesto preliminare che sembrava liberarsi con sforzo, sbarazzandosi delle esitazioni che ancora potessero renderlo incerto, e di tutte le obiezioni che avremmo potuto fare noi, guardando la nonna con occhio lucido, liberamente, e come se fosse finalmente approdato sulla terra ferma, puntualizzando le parole con tono dolce e cattivante, di cui l’intelligenza sfumava ogni inflessione (la sua voce del resto, per tutto il corso della visita rimase carezzevole come era naturalmente e, sotto le sopracciglia corrugate, gli occhi ironici erano pieni di bontà): «Starete bene, Madame, il giorno, lontano o vicino, questo dipenderà da voi, potrebbe anche essere oggi stesso, in cui capirete di non aver niente e avrete ripreso la vostra solita vita. Mi avete detto che non mangiate, che non uscite?».
L’idea di essere malati
«Ma, Monsieur, ho un po’ di febbre.»
Lui le tastò il polso.
«Non in questo momento, comunque. E poi che bella scusa! Non sapete che noi lasciamo all’aria aperta, che sovralimentiamo dei tubercolotici con febbre a 39°?»
«Ma io ho anche un po’ d’albumina.»
«Non dovreste saperlo. Voi avete ciò che ho descritto sotto il nome di albumina mentale. Tutti noi abbiamo avuto, durante qualche indisposizione, la nostra piccola crisi di albumina, che il nostro medico si è fatto premura di rendere durevole segnalandocela.
Per un’affezione che i medici guariscono con i loro farmaci (mi assicurano almeno che capita qualche volta) ne provocano altre dieci in soggetti in perfetta salute, inoculando in loro quell’agente patogeno mille volte più virulento di tutti i microbi, che è l’idea di essere malati.
Una simile convinzione, che influisce inesorabilmente sul temperamento di tutti, agisce con efficacia particolare nelle persone nervose. Basta dire loro che c’è una finestra aperta alle loro spalle, e cominciano a starnutire; fategli credere che avete messo della magnesia nella loro minestra, saranno in preda a coliche, che il loro caffè era più forte del solito, non chiuderanno occhio tutta la notte. Credete, Madame, che non mi sia bastato vedere il vostro sguardo, sentire il modo che avete di esprimervi, che dico? vedere vostra figlia e vostro nipote che vi assomigliano tanto, per capire con chi ho a che fare?»
«La nonna potrebbe forse, se il dottore lo ritiene opportuno, andare a sedersi in qualche viale tranquillo degli Champs-Elysées, vicino a quel cespuglio di alloro davanti al quale giocavi una volta» mi disse mia madre consultando indirettamente il dottor du Boulbon, per cui la sua voce assumeva qualcosa di timido e di ossequioso che non avrebbe avuto se si fosse rivolta direttamente a me. Il dottore si volse verso la nonna e, siccome non era meno letterato che scienziato:
«Andate agli Champs-Elysées, Madame, accanto al cespuglio di alloro che piace a vostro nipote. L’alloro vi farà bene. Purifica. Dopo aver sterminato il serpente Pitone, Apollo fece il suo ingresso in Delfo con in mano un ramo di lauro. Voleva così preservarsi dai germi mortali di quella bestia velenosa. Vedete che il lauro è il più antico, il più sacro, e aggiungerò — ciò che ha certo il suo valore in terapia come in profilassi — il più bello degli antisettici».
Il paziente sapiente
Siccome gran parte di ciò che i medici sanno è stato loro insegnato dai malati, sono facilmente portati a credere che questo sapere dei pazienti sia identico in tutti e si illudono di stupire colui che hanno davanti con qualche osservazione appresa da coloro che hanno curato in precedenza. Così, con il fine sorriso di un parigino che, chiacchierando con un contadino, spera di stupirlo con qualche espressione dialettale, il dottor du Boulbon disse alla nonna: «Probabilmente quando c’è vento riuscite a dormire come non riuscireste con gli ipnotici più potenti».
«Al contrario, Monsieur, il vento mi impedisce assolutamente di dormire.»
Ma i medici sono suscettibili: «Però!» mormorò du Boulbon aggrottando le sopracciglia come se gli avessero pestato un piede e le insonnie della nonna nelle notti di tempesta fossero per lui un insulto personale.
Non aveva comunque troppo amor proprio e, ritenendo suo dovere in quanto «spirito superiore» non dar troppa fiducia alla medicina, ritrovò quasi subito la sua filosofica serenità. Mia madre, desiderando appassionatamente venir rassicurata dall’amico di Bergotte, aggiunse per convalidare la sua tesi, che una prima cugina della nonna affetta da una malattia nervosa era rimasta sette anni chiusa in camera sua, a Combray, alzandosi soltanto una o due volte la settimana.
«Vedete, Madame, non lo sapevo, ma avrei potuto dirvelo io.»
«Ma, Monsieur, io non sono affatto come lei, al contrario, il mio medico non riesce mai a farmi stare a letto» disse la nonna lievemente irritata dalle teorie del dottore o forse desiderosa di sottoporgli tutte le obiezioni possibili nella speranza di vedersele confutare in modo da non avere più dubbi sulla sua fausta diagnosi quando lui se ne sarebbe andato.
«Ma, naturalmente, Madame, non si possono avere, perdonatemi la parola, tutte le psicosi, voi ne avete altre, non avete quella. Ieri ho visitato una casa di salute per nevrastenici. In giardino c’era un uomo in piedi su una panchina, immobile come un fachiro, il collo inclinato in una posizione che doveva essergli estremamente penosa. Quando gli chiesi che cosa facesse, mi rispose senza fare un movimento né girare la testa:
«Dottore io sono un tipo soggetto ai raffreddori e ai reumatismi. Ho fatto troppa ginnastica e, mentre ero in un bagno di sudore, non ho fatto caso al mio collo avvolto completamente in sciarpe di lana. Se ora le tirassi via, prima di aver fatto evaporare tutto il caldo, sono sicuro che prenderei un torcicollo e forse una bronchite».
E l’avrebbe presa effettivamente. «Siete un bel nevrastenico, ecco che cosa siete» gli dissi. Sapete quale ragione mi ha dato per provarmi che non lo era? Che, mentre tutti della casa avevano la mania di controllare il proprio peso al punto che si era dovuto mettere un lucchetto alla bilancia perché non passassero tutta la giornata a pesarsi, lui erano costretti a farvelo salire a forza tanto non ne voleva sapere. Provava una sensazione di trionfo a non avere la mania degli altri senza pensare che aveva la sua e questa lo preservava da un’altra. Non sentitevi offesa per il paragone, Madame, perché quell’uomo che non osava girare il collo per paura di prendersi il raffreddore è il più grande poeta del nostro tempo. Questo povero maniaco è l’uomo più intelligente che io conosca. Sopportate di essere definita nervosa.
La nevrosi è il sale della terra
[continua a parlare il dottore]
Appartenete a quella famiglia magnifica e infelice che costituisce il sale della terra. Tutto ciò che conosciamo di grande ci viene dai nervosi. Loro, e non altri, hanno fondato le religioni e fatto capolavori. Il mondo non saprà mai tutto ciò che gli deve e soprattutto ciò che essi hanno sofferto per poterglielo dare. Noi gustiamo belle musiche, bei quadri, mille raffinatezze ma non sappiamo quanto costarono a coloro che le crearono, di insonnia, di lacrime, di risa spasmodiche, di orticaria, asma, attacchi epilettici, e la paura di morire che è la peggiore di tutte queste, e che voi forse conoscete perché, Madame» aggiunse sorridendo «confessatelo, quando sono arrivato non eravate proprio del tutto tranquilla. Vi credevate malata, gravemente malata, forse; Dio sa di quale malattia credevate di scoprire in voi i sintomi.
E non vi ingannavate, li avevate. Il nervosismo è un geniale imitatore. Non c’è malattia che non riesca a contraffare a meraviglia. Imita, al punto da esserne ingannati, la dilatazione dei dispeptici, la nausea della gravidanza, l’aritmia del cardiaco, la febbriciattola dei tubercolotici. Se è capace di ingannare il medico come non ingannerebbe il malato? Ah! non crediate che io mi burli dei vostri mali, non mi assumerei la briga di curarli se non li sapessi capire. Sapete cosa vi dico: una sincera confessione non è tale se non è reciproca. Vi ho detto che senza malattia nervosa non esiste un grande artista, vi dirò di più» aggiunse alzando gravemente l’indice «non esiste neppure un grande scienziato.
Aggiungerò che se un medico non ha lui stesso qualche malattia nervosa, non può essere, non fatemi dire bravo, ma nemmeno un passabile medico di malattie nervose. Nella patologia nervosa, un medico che non dica troppe sciocchezze è un malato mezzo guarito, così come un critico è un poeta che non scrive più versi, un poliziotto un ladro che non esercita più.
Io, Madame, non mi credo come voi un soggetto affetto da albumina, non ho la paura nervosa della nutrizione, dell’aria aperta, ma non riesco ad addormentarmi senza essermi alzato almeno venti volte per vedere se la porta di casa mia è chiusa. E in quella clinica dove ieri ho incontrato un poeta che non muoveva il collo, io ci andavo a prenotare una stanza perché, detto tra noi, io ci vado a passare le vacanze per curarmi quando i miei mali peggiorano per la troppa stanchezza accumulata nel guarire quelli degli altri.»
Sano immaginario
«Ma, Monsieur, dovrei fare una cura simile?» chiese spaventata la nonna.
«È inutile, Madame, i sintomi che accusate scompariranno davanti a queste mie parole. E poi voi avete accanto qualcuno di assai valido che io eleggo a vostro medico: il vostro stesso male e la vostra sovvraeccitabilità nervosa.
Saprei come guarirvene, ma mi guardo bene dal farlo. Mi basta tenerli a bada. Vedo sul vostro tavolo un libro di Bergotte. Una volta guarita dal vostro nervosismo non vi piacerebbe più. Dovrei forse sentirmi in diritto di sottrarvi le gioie che esso vi procura per un’integrità nervosa che non sarebbe più in grado di darvele? Ma queste stesse gioie sono un potente rimedio, forse il più potente di tutti.
No, io non me la prendo con la vostra energia nervosa. Le chiedo soltanto di ascoltarmi: vi affido a lei. Che faccia macchina indietro. Lo sforzo che faceva per impedirvi di andare a passeggio, di nutrirvi a sufficienza lo faccia per obbligarvi obbligarvi a mangiare, a leggere, a uscire, a distrarvi in tutti i modi.
Non ditemi che siete stanca. La stanchezza è la realizzazione organica di un’idea preconcetta. Cominciate a non pensarci. E se mai vi verrà una piccola indisposizione, cosa che può succedere a tutti, sarà come se non l’aveste, perché avrà fatto di voi, secondo un detto profondo di M. de Talleyrand, un “sano immaginario”.
Ecco, con le mie parole ho già cominciato a guarirvi, è già una mezz’ora che mi state ascoltando diritta, senza esservi appoggiata una sola volta ai cuscini, l’occhio vivace, una buona cera, e non ve ne siete nemmeno accorta. Madame, ho l’onore di salutarvi.»
Da Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, Rizzoli Libri, Edizione del Kindle, pp.1593–1603.