Porcile di Pier Paolo Pasolini nella critica del tempo
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Il contenuto politico implicito del film è una disperata sfiducia in tutte le società storiche. Dunque anarchia apocalittica. Essendo così atroce e terribile il «senso» del film, non potevo che trattarlo: a) con distacco, quasi contemplativo; b) con umorismo”.
Pier Paolo Pasolini
Ida: “Cos’è stato, Julian, a bloccarti in questa villa italianizzante?”
Julian: “Probabilmente un nulla, una foglia sperduta, un cigolio di una porta, un grugnito”.
“Ho ucciso mio padre, ho mangiato carne umana, tremo di gioia”
Le uniche parole pronunciate a Pierre Clementi durante il film
Crudele favola allegorica; il film racconta due storie parallele: quella di un giovane selvaggio divenuto cannibale che vive solitario sull’Etna e quella contemporanea dell’erede di un impero industriale che alla compagnia delle donne preferisce quella dei maiali.
Pier Paolo Pasolini
Ci sono certe occasioni in cui le cose hanno una forza invincibile (per chi non è santo). Una di queste occasioni sono i Festival (parlo di occasioni, naturalmente, che io conosco). Le «cose» dei Festival sono i loro «riti» o «cerimoniali», con lo stato d’animo che comportano. Prima che il Festival di Venezia «aprisse i battenti», i suoi «riti» erano già cominciati.
Come? Creando schemi e partiti presi nei cervelli dei critici, mettiamo. Ecco per esempio Pietro Bianchi: egli fa un articolo di «anticipazioni» sul Festival, e subito, come dicono i veneziani (e perché non avere il coraggio di dirlo anche per iscritto), «va a cagàr nel mucio», come il diavolo. Parla del Satyricon di Fellini come dell’indiscusso e unico possibile Leone d’oro, che non c’è. Il film di Fellini sarà sicuramente una meraviglia: ma Pietro Bianchi lo umilia dandolo con tanta leggerezza e spensieratezza — meccaniche e aprioristiche — come cavallo vincente (di un premio che non c’è).
Umilia il Satyricon e umilia tutti gli altri film: perché, insieme al Satyricon, li impacchetta tutti dentro una convenzione giornalistica, dentro l’apriorismo dell’opinione pubblica, che non vuole sorprese: che vuole ordine.
Questo lo dico oggettivamente. Soggettivamente, ecco, su di me, la triste forza delle cose. Sono cioè costretto a pensieri e dispiaceri meschini: per cinque minuti sia pure. So io quello che ho dato di me per fare Porcile: un film povero, girato in un mese, con una cifra irrisoria. È stato meraviglioso, si capisce. Perché l’esprimersi — anche attraverso i disagi più angosciosi • è sempre meraviglioso.
E poi, ci sono le avventure umane della lavorazione, il cui valore nulla poi può togliere: come amori di un giorno, subito lontani ma indelebili, ci sono i rapporti degli attori — il disperato Pierre Clementi, l’angosciato Jean-Pierre Léaud — per cui il lavorare era come per dei bambini sperduti l’essere accarezzati dalla madre; lo smarrito Lionello, che con una volontà struggente ha vinto le impossibilità del suo ruolo, riuscendo gioiosamente vittorioso; l’adorabile Anne Wiazemsky, sempre perfetta e invulnerabile, lei, come una preziosa bestia di razza (o come Marco Ferreri); Ninetto — Ninetto Davoli — che per la prima volta, nella sua esperienza un po’ comica di «attore per forza», ha avuto coscienza di quello che faceva, e ha recitato l’ultima scena con le lacrime agli occhi; e Tognazzi, infine, uno degli uomini più buoni e intelligenti che io abbia conosciuto. E poi le avventure naturali. Credo che nessuno abbia mai patito tanto freddo come noi, prima sull’Etna, con vento, nebbia, neve, pioggia, e poi in gennaio in una villa veneta neoclassica vicino a Padova, che deve essere gelida anche d’estate…
Lì la forza delle cose era una forza interiore: eravamo dominatori della tanto difficile e imprendibile realtà, che recalcitrava maledettamente, ma solo sul suo livello pragmatico! Come era dolce possederla, cioè essere fusi con essa!
Ecco, ora il film è finito, è alle mie spalle. Lo considero il più riuscito dei miei film, almeno esteriormente, se il mio atteggiamento verso cose e casi tanto brucianti non aveva potuto essere che contemplativo.
Quello che penso io del mio film, lo pensano certamente del loro tutti gli autori dei film presenti al Festival di Venezia; per la maggior parte appunto autori di film «poveri», come il mio. E tutti avranno passato i loro cinque minuti di meschinità, sproporzionati col loro lavoro, nel leggere che il film più ricco e più forte è dato, senza nemmeno l’ombra del dubbio, così brutalmente, come il migliore.
Da Tempo Illustrato, 13 settembre 1969
Un regista sovietico, S. Jutkevic, ha rilasciato delle orrende dichiarazioni a proposito del cinema italiano (ch’egli ha visto a Venezia). Di Porcile dice ch’è un esempio della nefandezza che può essere raggiunta da un «regista occidentale»; contro il Satyricon fa una vera filippica bacchettona in tutto degna dell’«ancien regime». Lo stalinismo evidentemente non si esauriva in Stalin. Il linguaggio da precettore servile e saccente degli intellettuali sovietici non è affatto cambiato dagli anni Cinquanta in poi.
Il nostro regista non conosce una parola d’italiano, vorrei sapere come può giudicare un’opera come Porcile per metà (la più importante) fondata unicamente sull’emissione orale di un testo in poesia. Ciò non solo è bacchettone ma disonesto. Quanto al Satyricon (devo dire tra parentesi che il doppiaggio di questo film — causa di una mia breve polemica con Moravia — è in realtà bellissimo: e devo aggiungere che il Satyricon, film certo molto fragile, non è stato amato dalla critica, che lo ha tanto insinceramente elogiato, per delle sciocche ragioni le solite di irrichiesta difesa d’ufficio dello spettatore) quanto al Satyricon, ripeto, allorché finalmente in URSS faranno un film simile, potremo restituire il saluto agli intellettuali sovietici — quelli del regime neostaliniano, s’intende: perché coloro che sono nei campi di lavoro, li avrebbero certamente amati, i film italiani.
E allora aggiungiamo che il Festival di Mosca è il più vergognoso di tutti i Festival. Neanche nella più retrograda parrocchia «occidentale» è concepibile una simile sciocca e beota esigenza di divertimento da ragazzini scappati da scuola. E pensare che avevano avuto il coraggio di invitarmi! Basta: il mito dell’URSS non solo è finito, ma ha finito col diventare un mito negativo e minacciosamente ridicolo. Parlo s’intende della classe dirigente, non della nazione russa.
Non potrà certo durare così. Ma cito dall’«Unità»: «Uno scritto contenente attacchi volgari ai comunisti italiani è apparso nella rivista moscovita «Oktjabr»:, sotto la firma di Vsevolod Kocetov, che è anche direttore della rivista. Il titolo dell’opera che viene definita ‘romanzo’ è ‘Ma che vuoi?’ Il numero di settembre della rivista ne pubblica la prima puntata. Kocetov è nell’URSS persona di una certa notorietà. I suoi scritti hanno sempre avuto ambizioni politiche. Uno dei suoi personaggi più positivi si distingueva per non voler togliere il ritratto di Stalin dal suo studio».
«L’Unità», naturalmente, polemizza contro le bestialità della rivista «Oktjabr»: ma non va certo a fondo — non sarà questa l’occasione per cui finalmente andrà a fondo. Ma che almeno dei servi sciocchi come Jutkevic e Kocetov siano considerati tali, e non passino per portavoce del popolo russo: chiuso in un inesplicabile e tragico silenzio.
Da Tempo Illustrato, 18 ottobre 1969
Mentre ero in un momento di disperazione al montaggio del mio ultimo film, mi arriva una telefonata di una ragazza da un giornale. Essa mi dice estasiata che il giornale sta facendo un’inchiesta sul successo di pubblico di due film italiani, La caduta degli dei e il Satyricon. Ora, quel giornale non aveva messo il mio film Porcile nemmeno nel suo largo e bonario elenco dei film consigliati, non contribuendo certo con questo al successo di pubblico del mio film (che comunque, sia chiaro, non avevo calcolato). La domanda rivoltami candidamente dalla collaboratrice di quel giornale mi ha offeso. E per la prima volta in vita mia ho risposto terroristicamente. Ho risposto: «Considero quei due film, mi sia concesso di dirlo, inferiori al mio Porcile. Il loro successo di pubblico è dovuto al fatto che sono due film commerciali».
Sono pentito — passato il momento d’ira per l’ingiustizia subita, e soprattutto passato il momento d’angoscia per le difficoltà del lavoro a cui ero intento — della brutalità della mia frase, degna degli avanguardisti classici che dicevano simili cose per partito preso, con elegante leggerezza. Ma io non ho simili partiti presi, non ho simili leggerezze. Quindi in me una frase simile non può che suonare stonata e infelice. Tuttavia in quella frase malnata, ho detto quella che io credo la verità.
Da Tempo Illustrato, 22 novembre 1969
Alberto Moravia
L’Italia è un paese di moralisti, basta guardare le terze pagine dei giornali e le rubriche di critica dei rotocalchi per convincersene. Ma il moralismo che altrove è bigotteria, qui è spesso solo la maschera sufficiente di un buon senso incomprensivo e smarrito. La società italiana nel suo complesso è estranea alla cultura occidentale di cui, però, pretende di far parte. Refrattaria alla tematica moderna, nasconde il suo imbarazzo dietro il moralismo. Si veda, a questo proposito, l’accoglienza, in fondo moralistica, che è stata fatta a Porcile di Pier Paolo Pasolini, al festival di Venezia, da alcuni critici e da molti spettatori.
Porcile, manco a farlo apposta, è il miglior film di Pasolini dopo Accattone e La Ricotta. Ma ha il torto di affrontare un tema tra i più importanti del mondo moderno: l’impossibilità per l’individuo dissenziente o anche semplicemente “diverso” di esprimersi e di vivere in società corrotte (altri dicono alienate) che creano i tabù per difendere non già la cultura (come le società primitive) ma gli interessi. Col risultato, alla fine, di sopprimere la cultura.
In Porcile ci sono due storie alternate e complementari. Una delle storie si svolge nella Germania moderna; l’altra in un fiabesco paese meridionale respinto in un fiabesco Cinquecento cattolico e spagnolesco. Ovviamente quello che importa a Pasolini è il giudizio storico. Così l’astorico episodio criminale del Cinquecento illumina “astoricamente” lo storico episodio sociale del nazismo. A sua volta questo illumina “storicamente” l’astorico episodio cinquecentesco. La domanda di fondo, poi, è pur sempre la stessa: perché il nazismo? Pasolini risponde che il nazismo c’è stato perché si debbono salvare gli interessi. A costo di diventare cannibali.
Di che si tratta, insomma? Nella storia cinquecentesca, un giovane, dopo aver ucciso il proprio padre, cioè dopo essersi rivoltato contro un’istituzione fondamentale, si rifugia in desolate solitudini vulcaniche, simbolo di analoghe solitudini morali, e lì si nutre di carne umana, uccidendo dei passanti. Sarà catturato e condannato, secondo la legge del taglione, ad essere divorato a sua volta dai lupi.
Nella storia contemporanea, è la società ad essere cannibale, la società nazista nutrita dei cadaveri dei lager. Il protagonista si ribella ad una simile società che permane inalterata fino ad oggi, e preferisce all’amore umano il rapporto sessuale con gli animali. Amante di una scrofa, il giovane, alla fine, viene divorato dai maiali.
Il carattere unitario del film deriva soprattutto dall’incastro perfetto degli elementi che lo costituiscono. Da una parte una società tradizionale costringe il “diverso” al cannibalismo; dall’altra una società cannibalesca costringe il “diverso” alla zoofilia. In ambedue i casi quello che conta non è il carattere della società ma il fatto che ci sia una società. Quanto dire che tutte le società sono antropofaghe.
Porcile non ha gli sbalzi dannunziani tra mitologia e naturalismo di Edipo Re; né le compiacenze formali e le sforzature ideologiche di Teorema. È un film coerente, ispirato, realistico. La lezione di Mizoguchi è stata utile a Pasolini per l’episodio dell’Etna; quella di Jean-Marie Straub per l’episodio tedesco. Ma si veda com’è pasoliniano il film, e del migliore Pasolini, del più lucido e del più pietoso.
Il cannibalismo, qui è visto senz’ombra di morbosità, come una catastrofe morale e storica. Vien fatto di ricordare il passo di Schopenhauer: “L’ingiustizia si esprime in concreto nel modo più compiuto, più caratteristico e più tangibile col cannibalismo: questo è il suo tipo più chiaro ed evidente, l’orrenda immagine del massimo contrasto della volontà con se medesima, nel grado supremo della sua oggettivazione, che è l’uomo.”
La stessa misura classica si nota nell’episodio nazista. Grandi ambienti storici, grande musica; ma, sotto, la orrenda antropofagia dei lager. Forse avremmo preferito che Pasolini ci raccontasse con le immagini la vita, gli amori e la morte del suo zoofilo, ricavato, se non erriamo, dalle pagine della Psychopathia Sexualis di Krafft-Ebing. Il cinema è audiovisivo, d’accordo. Ma a teatro il drammaturgo fa raccontare un avvenimento in quanto “non può” rappresentano in azione. Il cinema può.
Pasolini ha saputo stimolare gli interpreti a risultati espressivi notevoli. Ricordiamo anzi tutto Pierre Clementi, un Cristo cannibale indimenticabile, e accanto a lui Alberto Lionello, Jean-Pierre Leaud, Ugo Tognazzi, tutti molto bravi; autentica rivelazione, Marco Ferreri.
Da Al cinema, Bompiani, Milano, 1975
Tullio Kezich
Il dovere dell’artista è quello di aumentare la difficoltà della sua arte? La tesi di Alexander Kluge, esposta nel film Artisti sotto la cupola del circo: perplessi che vinse l’anno scorso il Leone d’oro a Venezia, ha fatto proseliti.
Più o meno negli stessi termini si esprime Pier Paolo Pasolini presentando Porcile come un’opera impegnata a far riflettere gli infelici pochi. Il porcile è la nostra società che soffoca la libera espressione dei giovani anticonformisti, ne devia gli istinti e alla fine li distrugge. Non importa se i figli sono ribelli o indifferenti, è sufficiente che siano diversi dai padri.
Nelle due storie intersecate del film l’autore presenta le gesta di un assassino cannibale (Pierre Clementi) che compie le sue efferatezze sui campi desolati di un vulcano (l’Etna); e prosegue, in alternanza, con le malinconie del delfino di una dinastia industriale tedesca Jean-Pierre Léaud), che ozia nella sontuosa residenza avita (la villa di Stra) accoppiandosi ai porci.
Se il primo è gettato in pasto alle fiere, il secondo a furia di andare per maiali ne è divorato. Non si può dire che la metafora sia lampante, ma una volta colto il senso dell’invettiva pasoliniana la decodificazione dei simboli minori non lascia tutto sommato aperti dei problemi abissali.
Esempio di un cinema crittografico, Porcile ricorda la suggestiva rarefazione del Vangelo nell’episodio arcaico; ma nella vicenda moderna, abbondante di citazioni estravaganti, ristagna in un umorismo velleitario. Tra tanto parlare di Brecht e di Grosz, è rimasto nella penna a Pasolini proprio il nome di Alexander Kluge, dal cui libro Biografie è desunta la figura del nazista incaricato di raccogliere crani di commissari sovietici ebrei. Se Ugo Tognazzi, con la birra in mano come nei caroselli, è un’immagine poco credibile di nazista rigenerato, Alberto Lionello riesce a mostrare il suo talento di attore di grande classe a dispetto di un’esecrabile truccatura hitleriana.
Da Tullio Kezich, I Mille film. Dieci anni al cinema 1967–1977, Edizioni Il Formichiere
Georges Sadoul
Costruendo su opposizioni costanti (Medioevo/Germania contemporanea e deserto selvaggio/interni in ambiente borghese) due storie parallele di giovani in ugual misura in stato di rivolta, Pasolini cuce una fiaba dalle sontuose bellezze plastiche sull’inerzia di questo mondo. «Gli eroi delle due storie — ha detto — sono giovani che finiscono per essere divorati dagli animali. Nella prima parte ci troviamo in presenza di un figlio “disubbidiente” (Pierre Clementi) e precisamente cannibale che vuole vivere al di fuori delle regole sociali. È per la sua antropofagia che sarà condannato a essere mangiato dalle belve. Nella seconda parte un giovane (Jean-Pierre Léaud) rifiuta di lasciarsi assorbire dal sistema ma non sa, né vuole passare all’azione. È dominato da un elemento misterioso più che mistico.
Da Dizionario dei film, Firenze, Sansoni, 1968