Platone, il mito dell’androgino
Uomo-uomo; uomo-donna; donna-donna
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Il concetto di anima gemella
In origine, gli esseri umani erano androgini (lett. «uomo-donna»), assai diversi da quelli attuali.
Avevano forma rotonda perché erano doppi, con quattro braccia, quattro gambe e due teste, ed erano di tre tipi: uomo-uomo; uomo-donna; donna-donna.
Ma gli androgini si inorgoglirono per la loro forza e il loro potere, macchiandosi di hýbris (tracotanza); tentarono perfino di scalare l’Olimpo, e Zeus, a quel punto, avrebbe voluto annientarli, sennonché preferì un’altra soluzione: prese una scure e li tagliò a metà, in modo da dimezzare la loro forza e il loro orgoglio.
Da quel momento — tragico e rovinoso per la nostra felicità — ogni uomo ricerca la metà perduta, senza la quale non sa vivere, ma la metà perduta è una e una sola.
Da qui il concetto di “anima gemella”, l’anima che, unica e sola, combacia perfettamente con la nostra, perché in origine eravamo «di due, uno».
Allorché ci accade di imbatterci nella nostra metà, scrive poeticamente Platone, sentiamo nascere in noi un tale travolgente sentimento che non accettiamo di restarne separati neanche per un attimo.
L’amore viene dunque spiegato come il desiderio di qualcosa che manca, qualcosa che abbiamo perduto e che perciò consideriamo “nostro”, come il desiderio di recuperare l’antica unità.
Da: Simonetta Tassinari, Instant filosofia, Milano, Gribaudo. Edizione del Kindle, p. 86
Da Il Simposio (Sull’amore)
L’originaria natura degli uomini
XIV. […]Bisogna anzitutto che voi impariate a conoscere la natura umana e i suoi casi, perché anticamente la nostra natura non era quella di oggi, ma diversa.
In primo luogo i sessi umani erano tre e non due come ora, maschio e femmina, ma ce n’era in più anche un terzo che partecipava di entrambi e di cui ora è rimasto solo il nome, mentre esso è scomparso: esisteva allora unico l’androgino, partecipe di entrambi, maschio e femmina, sia nella forma sia nel nome, mentre oggi non esiste che il nome attribuito per oltraggiare.
In secondo luogo, la forma di ogni uomo era un insieme rotondo, con schiena e fianchi a cerchio, quattro mani e altrettante gambe e due facce simili in tutto su un collo cilindrico, e un’unica testa sulle due facce disposte in senso contrario, e quattro orecchie e due genitali e tutto il resto come ci si può figurare in base a questo.
Camminava anche eretto come adesso, in quale delle due direzioni voleva; e quando balzava a correre velocemente, come i saltimbanchi che fanno capriole a cerchio facendo volteggiare in alto le gambe, così essi appoggiandosi sugli otto arti che allora avevano, avanzavano velocemente ruotando.
I sessi, dunque, erano tre e di tale forma perché il maschile era nato in origine dal sole, il femminile dalla terra e quello che partecipava di entrambi dalla luna, dato che anche la luna partecipa degli altri due.
Ed erano appunto circolari sia loro stessi sia la loro natura, in quanto somigliavano ai loro genitori. Erano terribili per forza e per vigore, nutrivano pensieri superbi e perciò attaccarono gli dèi e quanto Omero racconta di Efialte e di Oto, è detto di loro, cioè il tentativo di scalare il cielo per assalire gli dèi..
L’ira di Zeus
XV. — Zeus e gli altri dèi, allora, dibattevano su che cosa si dovesse fare ed erano in difficoltà, perché né potevano ucciderli e annientarne la specie fulminandoli come i giganti — in tal caso sarebbero scomparsi gli onori e i sacrifici resi loro dagli uomini — né potevano lasciarli insolentire.
Dopo faticosa riflessione Zeus allora disse:
«Mi pare di avere un espediente per far sì che continuino ad esistere uomini e, al tempo stesso, indeboliti cessino dalla loro tracotanza. Ora, continuò, li taglierò ciascuno in due e così saranno, al tempo stesso, più deboli e più utili a noi, essendosi accresciuti di numero. E cammineranno eretti su due gambe. Ma se sembreranno ancora insolenti e non vorranno starsene tranquilli, li taglierò nuovamente in due, disse, di modo che cammineranno su una sola gamba a saltelloni».
Detto questo, tagliò gli uomini in due, come quelli che tagliano le sorbe per conservarle o quelli che tagliano le uova con un capello. E ognuno che tagliava, ordinava ad Apollo di voltargli la faccia e la metà del collo dalla parte del taglio, affinché l’uomo, vedendo il proprio sezionamento, fosse più regolato, e analogamente di curargli il resto.
Ed egli voltava la faccia e, tirando da ogni parte la pelle sul punto che ora si chiama ventre, come le sacche a nodo scorsoio, facendovi un’unica apertura la legava nel mezzo del ventre, il che appunto chiamano ombelico.
E spianava le numerose altre grinze e articolava il petto, usando uno strumento simile a quello con cui i calzolai spianano sulla forma le grinze del cuoio, ma ne lasciava alcune intorno al ventre stesso e all’ombelico, a ricordo dell’antico patimento.
Dopo che la natura umana, dunque, fu tagliata in due, ciascuna metà, anelando all’altra metà, le andava incontro e, gettandosi le braccia intorno e avvinghiandosi l’una all’altra per il desiderio di conaturarsi, morivano di fame e in generale d’inerzia, per il fatto di non voler fare nulla l’una separata dall’altra.
E quando una delle metà moriva e l’altra sopravviveva, quella sopravvissuta ne cercava un’altra e le si avvinghiava, sia che s’imbattesse nella metà di una donna intera — quella appunto che oggi chiamiamo donna — sia nella metà di un uomo. E così morivano.
La compassione di Zeus
Ma Zeus impietositosi ricorse a un altro espediente e trasferisce i loro genitali sul davanti — fino allora, infatti, avevano anche questi verso l’esterno e generavano e partorivano non tra loro, ma in terra, come le cicale — li trasferì, dunque, così sul loro davanti e per mezzo di essi rese possibile la generazione tra loro, per mezzo del maschio nella femmina, allo scopo che nell’amplesso, nel caso in cui un uomo s’incontrasse con una donna, si generasse e si riproducesse la specie e, nel caso in cui invece un maschio s’incontrasse con un maschio, ne derivasse almeno la sazietà del congiungimento, smettessero e si volgessero alle loro opere e si occupassero delle altre cose della vita.
Da tanto tempo, dunque, è connaturato negli uomini l’amore reciproco, che ricongiunge la nostra antica natura, tentando di fare di due esseri uno solo e di risanare così la natura umana. […]
L’aspirazione all’intero dell’antica natura
La nostra antica natura era tale e noi eravamo interi: è al desiderio e al perseguimento dell’intero, dunque, che si dà nome amore. Prima di allora, ripeto, eravamo uno, mentre ora per la nostra ingiustizia siamo stati dispersi dal dio, come gli Arcadi dai Lacedemoni.
È da temere, dunque, che se non siamo deferenti verso gli dèi, non siamo nuovamente spaccati in due e ce ne andiamo in giro nella condizione di quelli scolpiti in bassorilievo sulle stele, segati in due lungo il naso, ridotti come tessere.
Per questo motivo bisogna esortare ogni uomo a onorare gli dèi, al fine di evitare queste cose e conseguire invece le altre, dal momento che Amore ci è guida e capo.
E nessuno lo contrasti — lo contrasta chi è odioso agli dèi — perché, diventati amici e consultatici con il dio, troveremo e incontreremo proprio i nostri amati, il che tra quelli di ora capita a pochi.
[…] Mi riferisco a tutti, uomini e donne, e dico che così il nostro genere diventerebbe felice, se portassimo a compimento il nostro amore e ciascuno s’imbattesse nel proprio amato, ritornando all’antica natura.
Se questo è l’ottimo, è necessario che anche tra le cose oggi presenti la migliore sia quella che più gli si avvicina, cioè l’imbattersi in un amato che per natura corrisponda al proprio intendimento.
E se inneggiamo a un dio come causa di questo, giustamente inneggeremmo ad Amore, che nel presente ci fornisce grandissimo profitto conducendoci a ciò che ci è proprio e per il futuro ci dà grandissime speranze che, se saremo pii verso gli dèi, egli, ristabilendoci nella nostra antica natura e risanandoci, ci renderà beati e felici.
Da: Platone. Il simposio, Torino, UTET. Edizione del Kindle, pp. pp. 91–92