Pier Paolo Pasolini su Teorema

Mario Mancini
7 min readMar 3, 2021

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Pasolini con i protagonisti di Teorema. Da sinistra a destra: Laura Betti, Massimo Girotti, Silvana Mangano e Terence Stamp.

Mi hai sedotto, Dio, e io mi sono lasciato sedurre, mi hai violentato e hai prevalso. Sono diventato oggetto di scherno ogni giorno, ognuno si fa beffe di me… (1)

Solo la poesia mi attira ancora come espressione, e la favola mi appare tanto più poetica quanto più il suo significato è complesso. Scopro una realtà che non ha nulla a che vedere col realismo. È proprio perché questa realtà è la mia sola grande preoccupazione che sono sempre più attratto dal cinema: esso cattura la realtà al di là della stessa volontà dell’autore e degli attori. Il cinema, che lo si voglia o no, è la vita. (2)

Il nostro, più che un racconto, è quello che nelle scienze si chiama «referto»: esso è dunque molto informativo […] Inoltre non è realistico, ma è al contrario, emblematico… enigmatico… (3)

Teorema è una parabola pura. Il giovane ospite non è semplicemente un giovane ospite venuto a soggiornare presso una famiglia di amici milanese, è l’allegoria di Dio. (4)

La storia dell’idea di Teorema è molto curiosa e significativa. Circa tre anni fa ho cominciato a scrivere, per la prima volta in vita mia, delle cose di teatro; ho scritto quasi contemporaneamente sei tragedie in versi e Teorema era, come prima idea, una tragedia in versi, la settima. Avevo già cominciato a elaborarla come tragedia, come dramma in versi; poi ho sentito che l’amore tra questo visitatore divino e questi personaggi borghesi era molto più bello se silenzioso. Questa idea mi ha fatto pensare che allora forse era meglio farne un film, ma mi sembrava che come film fosse irrealizzabile e, in un primo momento, ho buttato giù un racconto che è rimasto molto schematico e, nella prima stesura, molto rozzo; poi l’ho elaborato come sceneggiatura e contemporaneamente ho anche modificato questo primo canovaccio di appunti che è diventato un’opera letteraria abbastanza autonoma. (5)

Teorema-libro è nato, come su fondo oro, dipinto con la mano destra, mentre con la mano sinistra lavoravo ad affrescare una grande parete (il film omonimo). In tale natura anfibologica, non so sinceramente dire quale sia prevalente: se quella letteraria o quella filmica. (6)

Se attualmente io sembro ricercare un linguaggio ermetico e prezioso, apparentemente «aristocratico», è perché considero la tirannia dei mass-media come una forma di dittatura alla quale mi rifiuto di fare la benché minima concessione.

C’è prima di tutto la forma che è molto sperimentale e che ha potuto sviare, disorientare, in rapporto alla forma dei film precedenti, al tipo di racconto… Quanto allo scandalo, esso deriva dal fatto che io sono sempre più scandalizzato dall’assenza del senso del sacro nei miei contemporanei.

Io difendo il sacro perché è la parte dell’uomo che resiste meno alla profanazione del potere, che è la più minacciata dalle istituzioni delle Chiese. (7)

Teorema, come dice il nome, si fonda su un’ipotesi che si dimostra matematicamente per assurdo. Ecco ciò che pongo: se una famiglia borghese ricevesse la visita di un giovane dio, che sia Dioniso o Jehovah, cosa succederebbe? Comincio dunque con una pura ipotesi. (8)

Tale visitazione butta all’aria tutto quello che i borghesi sapevano di se stessi; quell’ospite è venuto per distruggere. L’autenticità, per usare una vecchia parola, distrugge l’inautenticità. Però quando egli se ne va, ognuno si ritrova con la coscienza della propria inautenticità e, in più, l’incapacità di essere autentico: per l’impossibilità classista e storica di esserlo.

Ma questa condanna della borghesia, mentre prima (prima, fino al 1967: è un dato autobiografico) era precisa, era ovvia, qui rimane «sospesa», perché la borghesia in realtà sta cambiando. L’indignazione e la rabbia contro la borghesia classica, come la si è sempre intesa, non ha più ragione di essere dal momento in cui la borghesia sta cambiando rivoluzionariamente se stessa, cioè sta identificando tutto l’uomo al piccolo-borghese. Ormai è tutta l’umanità che sta diventando piccolo-borghese. (9)

La permanenza dei grandi miti nel contesto della vita moderna mi ha sempre colpito, ma più ancora l’incessante ingerenza del sacro nella nostra vita quotidiana. È questa presenza, al tempo stesso indiscutibile e che sfugge all’analisi razionale, che io cerco di individuare nella mia opera scritta o cinematografica. (10)

Non è vero che il sottoproletariato scompaia in Teorema. Al contrario, si insinua in questo ambiente borghese e poco a poco diventa l’unico elemento positivo del film — sebbene sia considerato da un punto di vista critico, un po’ come una sopravvivenza di un’antica religione contadina. Fra i cinque personaggi, il personaggio «positivo» (per dirla in un modo convenzionale) è quello della serva, che appartiene al sottoproletariato. (11)

La serva in effetti è la sola capace di miracolo, perché, essendo il popolo, non è completamente tagliata fuori dalla realtà. È la vendetta del sacro che travolge una società borghese che l’ha rifiutato a beneficio di una religione del conforto e della sicurezza. (12)

Tu sarai l’unica a sapere, quando sarò partito, che non tornerò mai più, e mi cercherai dove dovrai cercarmi. (13)

L’ideologia comincia con questa constatazione: la società industriale si è formata in totale contraddizione con la società precedente, la civiltà contadina (rappresentata nel film dalla serva) che possedeva il senso del sacro. In seguito, questo senso del sacro si è trovato legato alle istituzioni ecclesiastiche ed ha potuto degenerare fino alla ferocia, soprattutto quando è stato alienato dal potere. Ecco. Ad ogni modo, questo sentimento del sacro era al centro della vita umana. La civiltà borghese lo ha perso. Con che cosa ha riampiazzato questa perdita? Con l’ideologia materialista del benessere e del potere. Per ora, è un momento negativo di cui ancora ignoro l’esito. E dunque posso solo proporre ipotesi, e non soluzioni. (14)

Non c’è un tema ideologico diretto, esplicito. Il film è enigmatico, il tema ideologico è dissimulato in profondità nelle cose, nei sentimenti dei personaggi. In un certo senso, il film resta come sospeso, la fine non è una conclusione. Tutti i personaggi finiscono con un punto di domanda, con degli atti misteriosi che, più o meno, sono l’espressione della crisi che attraversano, della loro impotenza a risolverla.

È un teorema con dei corollari, ma senza soluzione. (15)

Dio è lo scandalo. Il Cristo, se tornasse, sarebbe lo scandalo; lo è stato ai suoi tempi e lo sarebbe oggi. Il mio sconosciuto — interpretato da Terence Stamp, esplicitato dalla presenza della sua bellezza — non è Gesù inserito in un contesto attuale, non è neppure Eros identificato con Gesù; è il messaggero del Dio impietoso, di Jehovah che attraverso un segno concreto, una presenza misteriosa, toglie i mortali dalla loro falsa sicurezza.

È il Dio che distrugge la buona coscienza, acquisita a poco prezzo, al riparo della quale vivono o piuttosto vegetano i benpensanti, i borghesi, in una falsa idea di se stessi. (16)

Tu sei dunque venuto in questa casa per distruggere.
Che cosa hai distrutto in me?
Hai distrutto, semplicemente,
— con tutta la mia vita passata —
l’idea che io ho sempre avuto di me stesso. (17)

Per me l’erotismo è un fatto culturale, e in Teorema lo esprimo come un sistema di segni. Voglio dire che l’erotismo del film si identifica col suo «linguaggio». Per esempio questo dio, quest’angelo che appare in questa storia comunica con gli altri tramite un sistema di segni specifici, diverso dal sistema linguistico. Del resto, è forse il solo di cui sia capace. Infatti, quale lingua umana potrebbe usare per evangelizzare? Del resto, non è venuto per evangelizzare, ma per testimoniare se stesso.

In tutto il film si limita a pronunciare qualche frase, a leggere dei versi di Rimbaud: il rapporto muto e questo sistema di segni erotici costituiscono il solo mezzo di comunicazione dei personaggi del film. E in effetti, il rapporto «semiologico-erotico» esiste solo nella prima parte del film. Nella seconda parte ciascuno ritrova la sua propria storia. Una storia tutta interiore: di qui il seguito del film interamente muto. (18)

Nel deserto io vedo l’abbandono della società e la solitudine interiore dell’individuo. Come è, per esempio, il caso del padre in Teorema che dopo aver donato la sua fabbrica trova attorno a sé il vuoto. In un certo senso il deserto è sì una forma preistorica, ma soprattutto poi questa forma è tale che ci si ritorna nel momento in cui si abbandona la società, e cioè si riconosce la solitudine interiore. (19)

Non propongo assolutamente alcuna soluzione. Per farlo, bisognerebbe che io stesso l’avessi trovata. Teorema e Porcile non propongono né uscita né soluzione. Sono dei «poemi in forma di grido di disperazione». (20)

È impossibile dire che razza di urlo sia il mio: è vero che è terribile — tanto da sfigurarmi i lineamenti rendendoli simili alle fauci di una bestia — ma è anche, in qualche modo, gioioso, tanto da ridurmi come un bambino.

È un urlo fatto per invocare l’attenzione di qualcuno o il suo aiuto; ma anche, forse, per bestemmiarlo.

È un urlo che vuol far sapere,
in questo luogo disabitato, che io esisto,
oppure, che non soltanto esisto,
ma che so. È un urlo
in cui in fondo all’ansia
si sente qualche vile accento di speranza;
oppure un urlo di certezza, assolutamente assurda,
dentro a cui risuona, pura, la disperazione.
Ad ogni modo questo è certo: che qualunque cosa
questo mio urlo voglia significare,
esso è destinato a durare oltre ogni possibile fine. (21)

Fonti:

(1) Dal «Libro di Geremia», citato in PPP, Teorema, Garzanti, 1974, p. 204.

(2) PPP, Sur Teorema, «Quinzaine litteraire» 1–3–1969.

(3) PPP, Teorema, p. 18.

(4) Duflot, p. 102.

(5) Incontro con PPP, di Lino Peroni, «Inquadrature», n. 15–16, autunno 1968.

(6) Risvolto di copertina di Teorema, 1968.

(7) Duflot, pp. 58, 85, 87.

(8) Duflot, p. 90.

(9) «Inquadrature», cit., p. 33.

(10) «Quinzaine lit.», cit.

(11) «Jeune cinéma», n. 33, ott. 1968.

(12) «Quinzaine lit.», cit.

(13) Teorema, p. 107.

(14) Duflot, 91.

(15) «Jeune cinéma», n. 33, cit.

(16) «Quinzaine lit», cit.

(17) Teorema, p. 104.

(18) Duflot, p. 89–90.

(19) G.P. Brunetta, Entretien avec P., «Cahiers du cinéma» n. 212, maggio 1969.

(20) Duflot, p. 83.

(21) Teorema, pp.. 199–200.

Da: Pier Paolo Pasolini, Il cinema in forma di poesia, a cura di Luciano De Giusti, Pordenone, Edizioni cinemazero, 1979, pp. 66–71

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.