Pier Paolo Pasolini su Salò o le 120 giornate di Sodoma

Mario Mancini
43 min readFeb 19, 2021

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Pasolini con Paolo Bonacelli che interpreta il “Duca”.

“Tutto è bene quando è eccessivo.”

Il vescovo in apertura del film

Questo è veramente il film che volevo fare.
Ed è la cosa più perfetta che ho fatto.

Io penso che, prima, non si debba mai, in nessun caso, temere la strumentalizzazione da parte del potere e della sua cultura. Bisogna comportarsi come se questa eventualità pericolosa non esistesse. Ciò che conta è anzitutto la sincerità e la necessità di ciò che si deve dire. Non bisogna tradirla in nessun modo, e tanto meno tacendo diplomaticamente, per partito preso.

Ma penso anche che, dopo, bisogna saper rendersi conto di quanto si è stati strumentalizzati, eventualmente, dal potere integrante. E allora se la propria sincerità o necessità sono state asservite e manipolate, io penso che si debba avere addirittura il coraggio di abiurarvi.

Io abiuro dalla Trilogia della vita, benché non mi penta di averla fatta. Non posso infatti negare la sincerità e la necessità che mi hanno spinto alla rappresentazione dei corpi e del loro simbolo culminante, il sesso.

Però, a coloro che criticavano, dispiaciuti o sprezzanti, la Trilogia della vita, non venga in mente di pensare che la mia abiura conduca ai loro «doveri».

Insomma, è ora di affrontare il problema: a cosa mi conduce l’abiura dalla Trilogia?

Mi conduce all’adattamento.

Dunque io mi sto adattando alla degradazione e sto accettando l’inaccettabile. Manovro per risistemare la mia vita. Sto dimenticando com’erano prima le cose. Le amate facce di ieri cominciano a ingiallire. Mi è davanti — pian piano senza più alternative — il presente. Riadatto il mio impegno ad una maggiore leggibilità (Salò?). (1)

Qui tutto è più accurato: i movimenti, le composizioni, i trucchi, tutto questo una volta lo facevo con più disinvoltura, con meno attenzione, con più realismo ma perché con gli altri film me lo potevo permettere essendo film più spontanei, più realistici e disinvolti e magmatici! Qui per Salò invece, deve essere tutto molto curato nei particolari e perciò, se uno deve cader morto, lo faccio ripetere molte volte finché non sembri davvero un corpo che cade morto, e la scena non la spezzetto, deve essere un tutt’uno formale che mi serve per chiudere come in una specie di involucro le cose terribili di De Sade e del fascismo.

Per ottenere questo ho bisogno di una struttura che mantenga un ritmo ben preciso, ben determinato e perciò senz’altro meno realistico appunto proprio perché più perfetto. La conferma poi viene dal carattere dantesco che ho dato alla struttura del film, che poi secondo me era già nelle intenzioni di De Sade, dividendolo in giorni proprio come il verticalismo teologico nell’inferno di Dante.

Ma soprattutto gli altri film erano congegnati in modo che io dovessi raccogliere materiale per poi montarlo, e quindi dovevo raccoglierne tanto tanto, da tornarmene a casa col sacco pieno, per poi riguardarlo, sceglierlo, montarlo; questa volta non devo raccogliere magmaticamente del materiale, devo già organizzarlo mentre giro, e quindi la mia fretta è calcolata, perché qui girando soprattutto in interni, deve riuscire un film perfetto, anche nel senso convenzionale della parola.

E un nuovo registro, in cui affronto il mondo moderno: in realtà è la prima volta che lo faccio veramente, l’ho fatto sì, in parte in Teorema, ma in questo momento lo affronto in tutto il suo orrore, e, ci sarà un periodo in cui farò i film più o meno così; quello che è certo è che non potrò farlo realisticamente, non potrei, non reggerei fisicamente nel rappresentare questo potere che sto subendo, lo potrei fare come faccio sempre, con l’uso della metafora.

Quando un film è una metafora, deve essere per forza fatto in altro modo, perché ogni immagine che giri è significativa di qualcos’altro, e quindi deve essere precisamente quella e non un’altra. Non puoi aggiungere dei dettagli, per esempio, se non sono significativi e necessari! Non c’è, in questi film, il minimo spazio per l’immagine gratuita, non funzionale! Perciò anche qui in Salò, non posso in una scena correre il rischio di perdermi a seguire un particolare che in quel momento mi diverte o innamorarmi di un paesaggio e allungare il tempo di durata più del previsto!

Mentre cioè l’uso ossessivo del campo e del controcampo, del Primo Piano, opposto ad un altro Primo Piano, l’assenza di personaggi di quinta, l’assenza di personaggi che entrano in campo ed escono di campo, l’assenza soprattutto dei piani-sequenza sono cose tipiche di tutti i miei film, direi che in questo ultimo, tutto ciò è portato alla lucidità, alla assolutezza massima, direi quasi che le mie abitudini quasi ossessive, sono portate a tal punto di ossessività, da cambiarne forse qualità. (2)

La caratteristica del film è l’ossessione, portata al massimo grado di sopportabilità. (3)

Con questo film mi rivolgo in generale a tutti, ad un altro me stesso, a tutti quelli che come me detestano il Potere per quello che fa del corpo umano: la riduzione di questo a cosa, l’annullamento della personalità dell’uomo.

E quindi anche contro l’anarchia del potere, perché nulla è più anarchico del potere, il potere fa ciò che vuole, e in ciò è completamente arbitrario spinto da sue necessità economiche che sfuggono alla logica comune. Ognuno odia il potere che subisce, quindi io odio con particolare veemenza questo potere che subisco: questo del 1975. (4)

Curvai :

«La vostra idea è quella che si dice “un uovo di Colombo” e mi trova del tutto consenziente, quanto poi alle altre forme di potere, quelle così dette democratiche o tolleranti, non esiterei a rincarare la dose: infatti là dove tutto è proibito, in realtà si può fare tutto, mentre là dove si può fare qualche cosa, si può fare solo quel qualcosa».

È un potere che manipola i corpi in modo orribile e che non ha nulla da invidiare alla manipolazione fatta da Hitler: li manipola trasformando la coscienza, cioè nel modo peggiore; istituendo dei nuovi valori alienanti e falsi, che sono i valori del consumo; avviene quello che Marx definisce: il genocidio delle culture viventi, reali, precedenti.

Per esempio, questo potere ha distrutto Roma, non esistono più i romani, un giovane romano è il cadavere di se stesso, che vive ancora biologicamente ed è in uno stato di imponderabilità tra gli antichi valori della sua cultura popolare romana e i nuovi valori piccolo borghesi che gli sono stati imposti.

Sì, il potere è codificatore e rituale, e anche i gesti erotici lo sono, c siccome appunto la gesticolazione è sempre la stessa, e si ripete eternamente eguale, risulta che la gestualità sodomitica è la più tipica di tutte perché è la più inutile, quella che meglio riassume la ripetitività dell’atto, appunto perché è la più meccanica delle altre e su questo si inserisce la gesticolazione del carnefice che è anomala, perché il carnefice può ripetere il gesto una sola volta; qui ancora infatti si pone il problema di ammazzarne, anziché una di vittime, mille sempre per potersi ripetere. Oppure, e questa è una soluzione che ho aggiunto io nel film: fingere di ammazzare la vittima e in realtà non ammazzarla affatto: mettere la pistola sulla tempia, tirare il grilletto e sparare avendo la pistola caricata a salve; il ritorno alla vita diventerebbe una variante perversa, essendo ormai il rito della morte consumato.

Altra cosa importante che ho preso da Klossowski e che poi riprendo in Blanchot, è il modello di Dio: cioè, tutti questi super-uomini nicciani ante litteram, in realtà, nell’adoperare i corpi delle vittime come cose, altro non sono che degli dei in Terra, cioè il loro modello è sempre Dio; nel momento in cui lo negano con la passione, lo rendono reale e lo accettano come modello. (5)

Blangis :

«dopo aver meditato a lungo sono giunto ad una conclusione liberatrice: basta sostituire la parola DIO con la parola POTERE, così tutto rientra perfettamente nel programma che ci siamo prefissi».

Curvai :

«Ma scusi, noi, non siamo forse la dimostrazione vivente di ciò che è realmente il Potere? L’unica vera, grande, assoluta Anarchia, è quella del Potere.

Il sesso è oggi la soddisfazione di un obbligo sociale, non un piacere contro gli obblighi sociali. Da ciò deriva un comportamento sessuale appunto radicalmente diverso da quello a cui io ero abituato. Per me dunque il trauma è stato (ed è) quasi intollerabile. Il sesso in Œ è una rappresentazione o metafora di questa situazione: questa che viviamo in questi anni: il sesso come obbligo e bruttezza. Oltre che la metafora del rapporto sessuale (obbligatorio e brutto), che la tolleranza del potere consumistico ci fa vivere in questi anni, tutto il sesso che c’è in Salò (e ce n’è una quantità enorme) è anche la metafora del rapporto del potere con coloro che gli sono sottoposti. In altre parole è la rappresentazione (magari onirica) di quella che Marx chiama la mercificazione dell’uomo: la riduzione del corpo a cosa (attraverso lo sfruttamento). Dunque, il sesso è chiamato a svolgere nel mio film un ruolo metaforico orribile. Nel potere — in qualsiasi potere, legislativo e esecutivo — c’è qualcosa di belluino. Nel suo codice e nella sua prassi, infatti, altro non si fa che sancire e rendere attualizzabile la più primordiale e cieca violenza dei forti contro i deboli: cioè, diciamolo ancora una volta, degli sfruttatori contro gli sfruttati. (6)

Chi potrebbe dubitare della mia sincerità quando dico che il messaggio di Salò è la denuncia dell’anarchia del potere e dell’inesistenza della storia? Eppure, così enunciato, tale messaggio è sclerotico, menzognero, pretestuale, ipocrita, cioè logico, della stessa logica che non trova affatto anarchico il potere e che trova esistente la storia. Anzi pone ciò come un dovere. La parte del messaggio che pertiene al senso del film è immensamente più reale, perché include anche tutto ciò che l’autore non sa, cioè l’illimitatezza della sua stessa restrizione sociale e storica. Ma tale parte del messaggio è imparlabile. Non può che essere lasciata al silenzio e al testo. (7)

Fonti:

(1) Abiura alla trilogia della vita, «Corriere della Sera», 15 giugno 1975.

(2) Con P.P.P., pp. 116–19.

(3) Il viaggio di P. nell’inferno di Salò, «Paese Sera», 9 febbraio 1975.

(4) Con P.P.P., p. 119. (5) Con P.P.P. 119–20. (6) Il sesso come metafora del potere, «Corriere della Sera», 25 marzo 1975.

(7) Intervento letto da Nico Naldini alla conferenza stampa dopo la condanna del film e prima del processo di appello.

Da: Pier Paolo Pasolini, Il cinema in forma di poesia, a cura di Luciano De Giusti, Pordenone, Edizioni cinemazero, 1979, pp. 106–11

SADE 1944

Momenti della conferenza-stampa sul set di Salò o le 120 giornate di Sodoma, il giorno prima della fine delle riprese.

Pasolini. … Nella scenografia di Salò, i lustrini, tutto ben lucidato, i mobili, una raccolta di quadri preziosi: è venuta fuori una crosta di perbenismo borghese che è prevalsa sulle intenzioni che avevo. E poi la coreografia nazi-fascista: quattro bandiere, due candelabri… Senza volerlo, queste cose hanno assunto una grande importanza visiva, credo.

Domanda. Lei dice che è prevalsa sulle intenzioni che aveva. Quali erano le intenzioni iniziali?
Pasolini. Le intenzioni erano queste, ma credevo che fossero degli elementi poco importanti nel film: invece piano piano, a forza di accumularsi scena per scena, sono diventati degli elementi prevalenti, almeno dal punto di vista visivo, e quindi visionario, e dunque, penso, sostanziale.

Domanda. Il discorso centrale politico è un discorso sull’anarchia del potere: possiamo parlarne più ampiamente?
Pasolini. Sì. Tutto questo è molto interiorizzato nel film, cioè non è un film didascalico: chi vuol comprendere comprenda e chi ha orecchie per intendere intenda. In realtà, questo film si presenta molto come visionario; però è chiaro che tutti questi elementi ci sono, cioè risultano implicitamente: il quaderno dei regolamenti in cui i signori codificano le loro follie, questo c’è, ed è molto chiaro. Anzi, ad un certo punto addirittura uno di loro, siccome questi quattro signori teorizzano continuamente su quello che fanno, e teorizzano non soltanto con le parole di De Sade (che io ho raccolto in tutta l’opera, e non soltanto nelle 120 Giornate di Sodoma) ma anche attraverso le parole di Blanchot, per esempio…

Domanda. O di Klossowski…
Pasolini. … cioè ho aggiunto a De Sade gli interpreti di De Sade; certe cose sull’anarchia del potere, dicevo, sono dette esplicitamente dagli attori. Ora, questo potere è in realtà, in concreto, il potere nazi-fascista, solo che diventa simbolo del potere in generale. E la ragione profonda che mi ha spinto a fare il film, io credo, (non sono sicuro, ma lo credo), è il vedere proprio ciò che oggi è il potere. Cioè la manipolazione totale, completa che il potere sta facendo delle coscienze e dei corpi della gente.

Domanda. Lei dice che non è un film didascalico. A questo punto, quello che chiamiamo grosso pubblico cosa potrà recepire di questo film?
Pasolini. Mah, questo che Le dico lo recepirà in quanto i personaggi stessi lo dicono, fino ad un certo limite…

Domanda. Ma tutte le implicazioni…
Pasolini. … beh, tutte le implicazioni che ci sono dentro un film purtroppo è sempre un’élite a capirle. Questo è fatale, direi, ma è fatale per qualsiasi cosa si faccia: non soltanto cinema o letteratura o teatro, ma anche politica.

Domanda. Lei che punto di identificazione trova tra il potere nazi-fascista di allora, cioè quella che era l’interpretazione del potere di Hitler, e il potere di oggi? Era meno pericoloso forse?
Pasolini. Eh, no, perché la libertà prima è quella del mio corpo: se non ho la libertà del mio corpo tutto il resto… Cioè, esercitava con violenza inaudita la mercificazione del corpo, trasformava i corpi in cose. I sei milioni di ebrei morti, i due milioni di polacchi ecc. non sono che il caso limite estremo della trasformazione del corpo in oggetto manipolato dal potere. Ora, questo è un fenomeno generale, come dice Marx: il potere, il capitalismo mercifica il corpo, e mai come durante il nazi-fascismo questa cosa è stata anche visiva, concreta, fisica. Il potere di oggi, secondo me, manipola più profondamente le coscienze. I corpi li manipola nel senso che li deforma secondo un certo gusto consumistico.

Domanda. Non è peggio oggi?
Pasolini. Forse da un punto di vista millenaristico, non lo so. Non cerchiamo un confronto: diciamo che sono due cose orribili, tutte e due. Da quanto io mi ricordo, al mondo di Mussolini e di Hitler, allora, si contrapponeva un mondo che non era né buono né cattivo ma che era anche buono, cioè il grande mondo dei contadini, degli artigiani, dei sottoproletari, e anche della piccola borghesia innocente, diciamo così. Oggi davanti a una miriade di piccoli Hitler questo mondo che è anche di bontà, di mitezza, di umanità ha meno peso, sta scomparendo sempre di più; il che significa che il potere ha più capacità di trasformare le coscienze.

Domanda. Questo mondo «buono» entra in qualche modo nel film?
Pasolini. No, perché le vittime non è che siano molto migliori dei signori: soltanto uno — ma questo non ve lo dico perché voglio che sia una sorpresa — soltanto uno improvvisamente ha un attimo di coscienza politica, e getta un’improvvisa luce su tutto il film.

Domanda. È un personaggio noto storicamente?
Pasolini. No, non c’è niente di noto storicamente: tutto inventato. Ma le vittime stanno quasi al gioco, insomma. E d’altra parte era impossibile creare delle vittime troppo struggentemente simpatiche, perché altrimenti il film sarebbe stato insopportabile: ho dovuto bilanciare un po’, insomma, i carnefici e le vittime.

Domanda. Prima mi sembrava di capire che per Lei il mondo buono fosse precipuamente il mondo contadino, o contadino in quel senso lato. Ora, stavo pensando ad un film jugoslavo che ho visto di recente, in cui si vede la ferocia di certi costumi tribali, proprio in quel mondo…
Pasolini. Va bene, ma questo si sa. Questo è talmente ovvio che è offensivo dirlo… No, io non ho detto che c’era un mondo buono: ho detto che c’era un mondo né buono né cattivo, che è quello che è, che era anche buono. Penso ai contadini friulani che io vedevo coi miei occhi portare, a rischio della loro vita, delle pagnotte o dell’uva ai soldati dentro i vagoni piombati… Sarei ridicolo se dicessi che c’è un mondo buono, sarei sentimentale; non ci credo a questa cosa del mondo buono: dico un mondo che ha certi valori, ecco, che hanno dato anche delle grandi cose. Non so, hanno dato il duomo di Orvieto e la mitezza dei contadini friulani che a rischio della loro vita portavano la pagnotta ai soldati.

Domanda. A proposito del fatto che le vittime non sono migliori dei carnefici, non c’è il pericolo che poi Almirante Le mandi un telegramma di ringraziamento? Voglio dire, non c’è il rischio di diminuire, rendendola astratta, una realtà storica ancora molto vicina?
Pasolini. Adesso non fraintendetemi: non è che voglia dire che sono migliori o peggiori politicamente. Politicamente sono molto migliori: loro però individualmente, in quanto vittime in questo film, come facce, come modo di comportarsi, non ho voluto farle così tenere, così struggenti, così buone da strapparvi il cuore, ecco.

Domanda. Ma io temo il pericolo che l’autentica e realistica atrocità di questo periodo venga in un certo senso sfumata nell’astratto…
Pasolini. C’è questa possibilità, ma è voluta: non ho voluto rievocare storicamente, anzi storicisticamente, quel periodo… Comunque, guardi, contro Salò e contro i fascisti c’è quanto basta: Almirante non potrà dir niente, stia tranquillo.

Domanda. In che misura Lei è intervenuto per adattare il testo di Sade alla Sua visione delle cose?
Pasolini. Non ho cambiato quasi niente, la lettera è molto rispettata: cioè gli episodi sono quelli, le torture, le sevizie sono quelle, la regolamentazione è quella di De Sade… è rimasta la scorza, diciamo così. Ma l’ideologia di De Sade non è la mia, questo no: è l’ideologia dei personaggi, quindi fa parte della rappresentazione, l’ideologia di De Sade fa parte di ciò che io rappresento. Ma non la condivido in nessun modo. La condivido nel senso che io condivido il suo estremismo, ecco: la pagina di De Sade è una pagina estremamente rivoluzionaria. Ha creato quel lucido scandalo illuministico, straordinario, senza confini e senza limiti, che io ammiro. Che ammiro con Klossowski, che ammiro con Blanchot, che ammiro con la miglior critica contemporanea, insomma. De Sade non ha la pagina dello scrittore, però ha la struttura del grandissimo scrittore.

Domanda. Prevede difficoltà di censura per l’ennesima volta, questa volta forse per duplici motivi?
Pasolini. Suppongo che ci saranno: speriamo di vincerle. Oggettivamente, ci saranno delle lotte da fare, sicuramente.

Domanda. Ha già nuovi progetti?
Pasolini. Sì, il film che dovevo fare prima di questo e che invece faccio dopo. È un film con Eduardo De Filippo e con Ninetto Davoli, che è un pochino il calco di Uccellacci e Uccellini, ma viene in un mondo completamente diverso e ha un altro contenuto.

Domanda. E il titolo, ce lo può dire?
Pasolini. Sono incerto tra due o tre titoli. Quello provvisorio è Ta Kai Ta, che in greco vuol dire «questo e quello»: è una frase di San Paolo…

Domanda. Le vittime, cos’hanno fatto? Sono politiche?
Pasolini. Sono scelte a caso. Alcuni sono stati presi attraverso dei rastrellamenti, altri sono stati fatti rapire: c’è un esercito di ruffiani che va a rapire un certo numero di vittime, 50, 60, qua e là, e questi signori si scelgono quelle che gli piacciono di più.

Domanda. Sono vittime totalmente innocenti, non hanno fatto niente?
Pasolini. Sì; casuali, più che innocenti. In principio credono anche loro che si tratti di un gioco, e non si rendono conto… Si rendono conto forse soltanto alla fine, quando non sono più in tempo…

Domanda. Specificamente quali saranno le scene che daranno più fastidio alla censura?
Pasolini. Queste sono cose che io non so mai immaginare! Molte, sono molte: sono quasi tutte. Però io non so dire quali particolarmente.

Domanda. Ma quali sono le più scabrose, le più…
Pasolini. Guardi, Lei apra a caso le 120 Giornate e vedrà, più o meno…

Domanda. E come ha scelto gli attori?
Pasolini. Ho fatto come faccio di solito. Come sempre, scelgo gli attori, diciamo così, a carattere popolare, o comunque innocente fra attori non professionisti, mentre scelgo i borghesi, coloro che sono coscienti ecc. tra gli attori professionisti; perché evidentemente non posso chiedere a un ingegnere o ad uno scrittore di venire a fare se stesso, e allora ricorro agli attori. E devo dire che sono molto contento degli attori che ho scelto.

Domanda. Il testo è scritto da Lei? Non ha avuto collaboratori?
Pasolini. No. L’ho cominciato con Sergio Citti — ho detto all’inizio che la cosa era stata offerta a lui — e l’abbiamo fatta un po’ insieme, la sceneggiatura. Poi dal momento che l’ho fatto io il film ho portato alcune modifiche.

Domanda. La fotografia è cupa, ossessiva…
Pasolini. Io vorrei tentare di farlo in bianco e nero. Cioè, l’ho girato a colori, ma ho fatto una scelta di colori assolutamente coerente; visto che erano soprattutto degli interni, dunque ho fatto già una scelta di colori. Che è praticamente bianco e nero, cioè tutti grigi… E poi la moda dell’epoca si prestava molto, perché allora c’era molto grigio, molto scuro, molto nero, molto marron… Voglio fare questo tentativo, di farlo in bianco e nero, forse con una sola scena a colori. Se non mi riesce, lo faccio a colori, però sono colori molto scelti; più degli altri film, in cui dovevo accettare i colori della realtà…

Da: Pier Paolo Pasolini, Il cinema in forma di poesia, a cura di Luciano De Giusti, Pordenone, Edizioni cinemazero, 1979, pp. 172–177

Scandalizzare e scandalizzarsi

Intervista per la Televisione francese, 31 ottobre 1975.

Domanda. Lei è stato un pioniere del cinema: si sente superato, oggi, dalla moda del cinema erotico e pornografico?
Pasolini. Sì, mi sento superato, e a questo punto mi sento addirittura di abiurare dalla mia trilogia della vita, cioè dal Decameron fino alle Mille e Una Notte.

Domanda. Pensa che i cineasti siano andati troppo in là?
Pasolini. No, i cineasti direi di no. Forse i produttori di film pornografici.

Domanda. Quando il suo ultimo film uscirà (si intitola le 120 Giornate di Sodoma), pensa di essere, una volta di più, fonte di scandalo?
Pasolini. Mah, io penso che scandalizzare sia un diritto, essere scandalizzati un piacere, e chi rifiuta il piacere di essere scandalizzato è un moralista, il cosiddetto moralista.

Domanda. Il sesso è politico?
Pasolini. Naturalmente.

Domanda. E la scatologia?
Pasolini. Anche la scatologia è politica: non c’è niente che non sia politico.

Domanda. E il cannibalismo?
Pasolini. In certi ambienti è un fatto politico reale, in altri ambienti è un fatto politico metaforico.

Domanda. Lei pensa che sia il miglior modo di sbarazzarsi dei propri avversari politici?
Pasolini. Mah, vede, anch’io ho fatto proprio in questi giorni due «modeste proposte» alla maniera di Swift: divorare gli insegnanti della scuola d’obbligo e i dirigenti della televisione italiana.

Domanda. Sono però dei coriacei!
Pasolini. Beh, noi abbiamo buoni stomaci.

Domanda. Ha sempre lo stesso odio verso i borghesi e la borghesia?
Pasolini. Non si tratta di odio, si tratta di qualcosa di più, e di meno adesso. Ma purtroppo a questo punto devo rinunciare a questa specie di odio perché ormai in Italia tutti sono diventati borghesi.

Domanda. E quando sono i borghesi a decretare il successo di un Suo film, questo Le dispiace?
Pasolini. Non succede mai che siano dei borghesi a decretare il successo di un film; sono le élites borghesi, a cui io stesso appartengo; e allora il pubblico è preso nel suo insieme di classe economicamente borghese e classe economicamente povera o sottoproletaria.

Domanda. Perché oggi Lei non milita più?
Pasolini. In quale senso?

Domanda. Non è più un militante politico.
Pasolini Lo sono più che mai. Non sono mai stato iscritto a un partito. Sono un indipendente di sinistra marxista ma continuo a militare più che mai.

Domanda. Ha forse nostalgia dell’epoca in cui la gente La insultava per la strada?
Pasolini. Mi insultano ancora oggi.

Domanda. Questo Le fa un certo piacere?
Pasolini. Non lo rifiuto, perché non sono un moralizzatore.

Domanda. Quale qualifica preferisce: poeta, romanziere, scrittore di dialoghi, sceneggiatore, attore, critico o regista?
Pasolini. … semplicemente scrittore.

Domanda. Perché ha circondato le riprese delle 120 Giornate di un tale mistero?
Pasolini. È stato girato con tanto mistero perché qualsiasi opera viene dal mistero. Ho cercato di difenderla più delle altre volte perché c’erano dei pericoli immediati, incombenti, niente di speciale.

Domanda. Cos’è che Lei chiama «pericoli immediati»?
Pasolini. L’apparire di qualche moralista che rifiuta il piacere di essere scandalizzato.

Domanda. Lei ha rievocato una repubblica-fantoccio, instaurata in Italia durante la guerra: evoca un po’ il regime di Vichy in Francia durante l’occupazione?
Pasolini. Sì, è esattamente l’equivalente della repubblica di Vichy.

Domanda. Dov’era situata?
Pasolini. Nell’Italia del Nord, e aveva per capitale Salò. E infatti il titolo del film è Salò.

Domanda. Chi l’aveva installata?
Pasolini. Mah, credo Mussolini stesso, spinto dai nazisti.

Domanda. Pensa che sia stata l’epoca della grande decadenza?
Pasolini. È stata la decadenza del periodo hitleriano, ma non certamente del grande capitalismo occidentale.

Domanda. Si sa che in questo film un centinaio di ragazzi e ragazze vengono sottoposti a trattamenti particolarmente crudeli e violenti, supplizi e anche questi oltraggi di cui si pretende sempre che siano gli ultimi: come ha reclutato questi cento ragazzi/e?
Pasolini. … Il numero magico di Sade… le vittime sono in tutto una ventina, non un centinaio; per sceglierle ho semplicemente fatto come per tutti gli altri film; ho incontrato questi ragazzi e ho scelto quelli che mi sembravano migliori.

Domanda. Sono degli attori masochisti?
Pasolini. Se li ho scelti, vuol dire che lo sono.

Il sesso come metafora del potere

Questo film ha dei precedenti nella sua opera?

Sì. Le ricordo Porcile. Le ricordo anche Orgia, un’opera teatrale di cui ho curato io stesso la regia (a Torino, nel ’68). L’avevo pensata nel 1965, e scritta tra il ’65 e il ’68 come del resto Porcile, che era anch’esso un’opera teatrale. Originariamente doveva essere un’opera teatrale anche Teorema (uscito nel ’68). De Sade c’entrava attraverso il teatro della «crudeltà», Artaud, e, per quanto sembri strano, anche attraverso Brecht, autore che fino a quel momento avevo poco amato, e per cui ho avuto un improvviso, anche se non travolgente amore appunto in quegli anni antecedenti alla contestazione. Non sono contento né di Porcile né di Orgia: lo straniamento e il distacco non fanno per me, come del resto la «crudeltà».

Crudeltà

E allora Salò?

E vero, Salò sarà un film «crudele», talmente crudele che (suppongo) dovrò per forza distanziarmene, fingere di non crederci e giocare un po’ in modo agghiacciante… Ma mi lasci finire il discorso sui «precedenti». Nel 70 ero nella valle della Loira. Facevo dei sopralluoghi per il Decameron. Sono stato invitato a fare un dibattito con gli studenti dell’Università di Tours. Lì insegna Franco Cagnetta, il quale mi ha dato da leggere un libro su Gilles de Rais e i documenti del suo processo, pensando che potesse essere un film per me. Ci ho pensato seriamente per qualche settimana (è uscita in Italia in questi mesi una bellissima biografia di Gilles de Rais, a cura di Ernesto Ferrerò). Naturalmente poi ci ho rinunciato. Ero ormai preso dalla Trilogia della Vita.

Perché?

Un film «crudele» sarebbe stato direttamente politico (eversivo e anarchico, in quel momento): quindi insincero. Forse ho sentito un po’ profeticamente che la cosa più sincera dentro di me, in quel momento, era fare un film su un sesso la cui gioiosità fosse un compenso — come infatti era — alla repressione: fenomeno che stava per finire ormai per sempre. La tolleranza di lì a poco avrebbe reso il sesso triste e ossessivo. Ho evocato nella Trilogia i fantasmi dei personaggi dei miei film realistici precedenti. Senza più denuncia, ovviamente, ma con un amore così violento per il «tempo perduto», da essere una denuncia non di qualche particolare condizione umana ma di tutto il presente (permissivo per forza). Ora siamo dentro quel presente in modo ormai irreversibile: ci siamo adattati. La nostra memoria è sempre cattiva. Viviamo dunque ciò che succede oggi, la repressione del potere tollerante, che, di tutte le repressioni, è la più atroce. Niente di gioioso c’è più nel sesso. I giovani sono o brutti o disperati, cattivi o sconfitti…

E questo che vuole esprimere in Salò?

Non lo so. Questo è il «vissuto». Certo non ne posso prescindere. E uno stato d’animo. E quello che cova nei miei pensieri e che soffro personalmente. Dunque è questo forse ciò che voglio esprimere in Salò. Il rapporto sessuale è un linguaggio (ciò, per quanto mi riguarda, è stato chiaro ed esplicito specialmente in Teorema): ora i linguaggi o sistemi di segni cambiano. Il linguaggio o sistema di segni del sesso è cambiato in Italia in pochi anni, radicalmente. Io non posso essere fuori dell’evoluzione di alcuna convenzione linguistica della mia società, compresa quella sessuale. Il sesso è oggi la soddisfazione di un obbligo sociale, non un piacere contro gli obblighi sociali. Da ciò deriva un comportamento sessuale appunto radicalmente diverso da quello a cui io ero abituato. Per me dunque il trauma è stato (ed è) quasi intollerabile.

In pratica, per quanto riguarda Salò…

Il sesso in Salò è una rappresentazione, o metafora, di questa situazione: questa che viviamo in questi anni: il sesso come obbligo e bruttezza.

Mi sembra di capire, però, che in lei ci siano anche altre intenzioni, meno interiori, forse, ma più dirette…

Sì, ed è a queste che voglio arrivare. Oltre che la metafora del rapporto sessuale (obbligatorio e brutto) che la tolleranza del potere consumistico ci fa vivere in questi anni, tutto il sesso che c’è in Salò (e ce n’è in quantità enorme) è anche la metafora del rapporto del potere con coloro che gli sono sottoposti. In altre parole è la rappresentazione (magari onirica) di quella che Marx chiama la mercificazione dell’uomo: la riduzione del corpo a cosa (attraverso lo sfruttamento). Dunque il sesso è chiamato a svolgere nel mio film un ruolo metaforico orribile. Tutto il contrario che nella Trilogia (se, nelle società repressive, il sesso era anche un’irrisione innocente del potere).

Ma le sue Centoventi giornate di Sodoma non si svolgono appunto a Salò nel 1944?

Sì, a Salò, e a Marzabotto. Ho preso a simbolo di quel potere che trasforma gli individui in oggetti (come per esempio nei migliori films di Miklós Janksó) il potere fascista e nella fattispecie il potere repubblichino. Ma, appunto, si tratta di un simbolo. Quel potere arcaico mi facilita la rappresentazione. In realtà lascio a tutto il film un ampio margine bianco, che dilata quel potere arcaico, preso a simbolo di tutto il potere, e abbordabili alla immaginazione tutte le sue possibili forme… E poi… Ecco: è il potere che è anarchico. E, in concreto, mai il potere è stato più anarchico che durante la Repubblica di Salò.

E De Sade, che c entra?

C’entra, c’entra, perché De Sade è stato appunto il grande poeta dell’anarchia del potere.

Come?

Nel potere — in qualsiasi potere, legislativo e esecutivo — c’è qualcosa di belluino. Nel suo codice e nella sua prassi, infatti, altro non si fa che sancire e rendere attualizzabile la più primordiale e cieca violenza dei forti contro i deboli: cioè, diciamolo ancora una volta, degli sfruttatori contro gli sfruttati. L’anarchia degli sfruttati è disperata, idillica, e soprattutto campata in aria, eternamente irrealizzata. Mentre l’anarchia del potere si concreta con la massima facilità in articoli di codice e in prassi. I potenti di De Sade non fanno altro che scrivere Regolamenti e regolarmente applicarli.

Tre gironi

Scusi se torno alla pratica: ma in pratica come tutto ciò si realizza nel film?

E semplice, più o meno come nel libro di De Sade: quattro potenti (un duca, un banchiere, un presidente di tribunale e un monsignore), ontologici e perciò arbitrari, «riducono a cose» delle vittime umili. E ciò in una specie di sacra rappresentazione, che seguendo probabilmente quella che era l’intenzione di Sade, ha una specie di organizzazione formale dantesca. Un Antinferno, e tre Gironi. La figura principale (di carattere metonimico) è l’accumulazione (dei crimini): ma anche l’iperbole (vorrei giungere al limite della sopportabilità).

Chi sono gli attori che rappresentano i quattro mostri?

Non so se saranno mostri. Comunque non meno e non più delle vittime. Nello scegliere gli attori ho fatto la solita contaminazione: si tratta di un generico che in più di ventanni di lavoro non ha mai detto una battuta, Al do Valletti; di un mio vecchio amico delle borgate romane (conosciuto ai tempi di Accattone), Giorgio Cataldi; di uno scrittore, Uberto Paolo Quintavalle, e infine anche di un attore, Paolo Bonacelli.

E chi saranno le quattro «megere» narratrici?

Saranno tre bellissime donne (la quarta nel mio film fa la pianista, perché i Gironi sono appunto tre): Helene Surgère, Caterina Boratto e Elsa de’ Giorgi. La pianista sarà Sonia Saviange. Le due attrici francesi le ho scelte dopo aver visto a Venezia il film Femmes Femmes di Vecchiali: bellissimo film in cui le due attrici, per restare nel contesto linguistico francese, sono «sublimi» (ma veramente).

E le vittime?

Tutti ragazzi e ragazze non professionisti (almeno in parte: le ragazze le ho scelte tra delle fotomodelle, perché naturalmente dovevano avere dei bei corpi e, soprattutto, non dovevano avere paura di mostrarli).

Dove gira?

A Salò (esterni), a Mantova (interni ed esterni in cui si svolgono rapimenti e rastrellamenti), a Bologna e dintorni: il paesetto sul Reno sostituirà il distrutto Marzabotto…

So che sono due settimane che sono cominciate le riprese. Può dire qualcosa del suo lavoro?

Me lo risparmi. Non c’è niente di più sentimentale di un regista che parla del suo lavoro sul set.

(1975)

Il potere e la morte

Qual è il significato attuale di questo film su Salò?

Oltre che un film sull’anarchia del potere, questo film vuole essere anche un film sull’inesistenza della storia, cioè la storia così com’è vista dalla cultura eurocentrica (il razionalismo e l’empirismo occidentale da una parte, il marxismo dall’altra) nel film vuole essere dimostrata come inesistente.

Secondo te, la tematica sessuale che c’è in De Sade ha riferimento specifico ai nostri giorni?

No. Il sadomasochismo è una categoria eterna dell’uomo. C’era al tempo di De Sade, c’è oggi, eccetera, eccetera… Ma non è questo quello che importa. Mi importa anche questo. Ma il reale senso del sesso nel mio film è quello che dicevo, cioè una metafora del rapporto del potere con chi gli è sottoposto.

In che modo oggi la lezione di questo film potrebbe essere capita o applicata dai giovani che ci circondano?

Mah, io credo che i giovani non lo capiranno. Non mi illudo di essere capito dai giovani perché con i giovani è impossibile instaurare un rapporto di carattere culturale, perché i giovani vivono nuovi valori con cui i vecchi valori, in nome dei quali io parlo, sono incommensurabili.

Quindi a chi si indirizza?

Mah, si rivolge in generale a tutti, a un altro me stesso.

Non con l’intento di correggere modi di comportamento?

No. Non ho nessuna intenzione di correggere modi di comportamento. Questo è un intento pedagogico, didascalico che io non ho.

Nei tuoi film precedenti ti sei servito del passato per insegnarci cose che noi potessimo applicare nella nostra società. Adesso non vuoi più fare delle lezioni di questo genere?

No, no, assolutamente. Ma neanche allora volevo farle. Io ho rievocato il passato, cioè un tipo di essere uomo o di far l’amore del passato, semplicemente per fare un confronto oggettivo col presente e quindi contestare, come dicevo, globalmente il presente. Ma non mi illudevo affatto che le cose del passato fossero un insegnamento.

In questo film tutto il sesso e tutta la crudeltà avviene come un rito. Invece nei film precedenti era come una gioia. Quindi tu il potere lo vedi come una cosa che elimina la gioia del comportamento umano?

Sì. Io penso che durante l’età cosiddetta repressiva il sesso era una gioia perché avveniva di nascosto ed era un’irrisione di tutti gli obblighi e i doveri che il potere repressivo imponeva. Invece nelle società tolleranti, come si dichiara la nostra, quella in cui viviamo, il sesso è semplicemente nevrotizzante perché la libertà concessa è falsa e soprattutto è concessa dall’alto e non conquistata dal basso. Quindi non si tratta di vivere una libertà sessuale ma di adeguarsi ad una libertà che viene concessa.

In che modo in questo film il rito del sesso si applica alla struttura del potere?

Mah, il potere è sempre codificatore e rituale, cioè senza volerlo mi son trovato in questo film a rappresentare sia la vita perbene, piccoloborghese con i suoi salotti, i suoi tè, i suoi doppiopetti, ecc., da una parte, e dall’altra mi son trovato a rappresentare la cerimonia nazista in tutta la sua solennità macabra, così tetra e povera. Perché il potere appunto è rituale oltre che essere codificatore. Ma ciò che ritualizza e ciò che codifica è sempre il nulla, il puro arbitrio, cioè la sua propria anarchia.

Secondo Freud il rituale è sempre una cosa che ha mantenuto le strutture sociali. Quindi, facendo vedere che il potere in fondo è rito, si dice anche che forse il potere e la sua esecuzione sul debole fa parte dei nostri riti sociali…

Sì, non c’è dubbio. La messa è stata un rito che ha cristallizzato per millenni un credo religioso. Effettivamente tutti i poteri hanno i loro riti. Io evoco nel mio film i riti della piccola borghesia perbene, che riceve, prende il tè, ecc. Oppure i riti della borghesia fascista, militaresca, di Hitler, quindi con le piazze imbandierate, i palchi, ecc. Oggi i riti sono di altro tipo, sono, per esempio, l’essere in fila davanti alla televisione o l’essere in fila in una coda di macchine nel weekend o fare la merenda in un prato… ogni potere ha le sue forme di rito.

Perché, secondo te, l’uomo ama talmente sottoporsi ai riti, anche se sono esecuzioni su di lui da parte del potere?

Ma l’uomo è sempre stato conformista, cioè la caratteristica principale dell’uomo è stata quella di conformarsi a qualsiasi tipo di potere o di qualità di vita trovi nascendo.

Quindi quasi una qualità biologica…

Per me… una qualità, direi, sociale dell’uomo. No, forse biologicamente l’uomo è narciso, ribelle, ama troppo la propria identità, ecc… Ma è la società che lo rende conformistico e lui ha chinato la testa una volta per sempre di fronte agli obblighi della società.

Secondo te c’è una speranza che l’uomo torni a un momento storico dove non chinava la testa?

No, non c’è affatto questa speranza. No, questo è un fatto individuale che delle volte può avere delle ripercussioni anche in un certo ambito sociale. Ma non credo che ci sarà mai un tipo di società in cui l’uomo sia libero.

Quindi è inutile sperarci…

Mah, non bisogna mai sperare in niente. La speranza è una cosa orrenda inventata dai partiti per tener buoni i suoi iscritti.

Allora il lavoro dell’artista nella società in fondo non serve a nessun scopo, salvo l’autosoddisfazione?

Ha uno scopo ed è quello di porsi come esempio di anarchia.

L’uso di attori non professionisti in che modo influenza il lavoro, il prodotto?

Per quel che riguarda la mia opera in generale posso darti una risposta. Per quel che riguarda questo film, qui, Salò, te ne potrei dare un’altra. In generale la mia opera è influenzata dall’uso di attori non professionisti come è influenzata dall’uso di una scenografia non ricostruita in teatro, cioè una scenografia vera. Nel senso che quando io giro, in realtà non faccio altro che raccogliere del materiale. Quindi vado in un posto qualsiasi scelto da me in natura, non ricostruito, e raccolgo del materiale secondo la luce, secondo quello che c’è lì, in quel momento. E così con gli attori non professionisti. Prendo un ragazzo che non ha mai recitato, lo metto davanti alla macchina da presa e lo tengo lì a lungo, raccogliendo materiale. Questo significa che poi devo fare un lungo lavoro in montaggio per togliere tutto quello che è inutile e cogliere invece quel momento di verità che può essere, ecco, lampeggiato nel suo sguardo, nel suo sorriso mentre giravo. In questo film invece questo non succede perché non è un film di raccolta di materiale elaborata poi in montaggio. È un film già girato, già montato mentre lo giro e allora ho bisogno di un maggiore professionismo da parte degli attori.

Questa è la ragione per cui tu fai poche prove e giri tutto?

In genere questa è la ragione per cui faccio poche prove, perché preferisco cogliere la realtà così com’è, nella sua ingenuità, nel suo candore, nella sua imprevedibilità. In genere. In questo film qui invece no. Parlo prima con gli attori, faccio imparare bene le battute, devono dire esattamente quel che devono dire. Poi, naturalmente, lascio un ampio margine all’improvvisazione, alla libertà. Però in genere qui tutto è meglio programmato del solito.

Quale consideri tu il punto centrale della tua opera, quello che porti avanti da un film all’altro, cioè un messaggio, un’ossessione, un’idea?

È un’idea formale, l’illuminazione che ho di quello che deve essere un film, che è inesprimibile a parole. Per esempio per De Sade questo lampo l’ho avuto nel momento in cui ho deciso di trasporre Le 120 giornate di Sodoma nella primavera del ’44 e ho quindi visto la coreografia fascista.

Come ti è venuta questa idea?

Ah! non so, è stata un’illuminazione. L’idea di un film non è mai un prodotto di una serie di pensieri. C’è una serie di pensieri che viene interrotta semmai da un’illuminazione, com’è stato appunto nel caso di De Sade.

La genesi di questo film più o meno qual è?

Il film era stato offerto a Sergio Citti e io ho lavorato con lui alla sceneggiatura. Il mio principale apporto a questa sceneggiatura è consistito nel dare alla sceneggiatura una struttura di carattere dantesco che probabilmente era già nell’idea di De Sade, cioè ho diviso la sceneggiatura in gironi, ho dato alla sceneggiatura questa specie di verticalità e di ordine di carattere dantesco. Ma mentre lavoravamo appunto a questa sceneggiatura, Sergio Citti man mano si disamorava perché gli era giunta un’altra idea, l’idea di un altro film e io invece pian piano me ne innamoravo e me ne sono innamorato definitivamente quando è avvenuta questa illuminazione, quando cioè è venuta l’idea di trasporre De Sade nel ’44, a Salò.

De Sade per te, come letteratura, era già una cosa di un interesse importante durante la tua formazione, direttmente come uomo di letteratura?

Non direttamente, perché De Sade l’ho letto molto tardi e l’ho letto un po’ come una delle tante letture che si fanno. Però, indirettamente sì, ha dei precedenti. Ho scritto un’opera che si chiama Orgia, che è di carattere evidentemente sadico, è un rapporto sadomasochistico tra un marito e una moglie. E ho rappresentato quest’opera, che è appunto una tragedia in versi, a Torino nel ’68.

In teatro…

In teatro. Poi ho pensato, già mentre si facevano i sopralluoghi per il Decameron, a un film su Gilles De Rais, che è una specie di 120 giornate di De Sade. Quindi evidentemente la cultura sadiana benché non direttamente, operava in me già da tempo.

Comunque lo prendi come una metafora per i nostri giorni…

Beh, non direi per i nostri giorni. Lo prendo come metafora del rapporto del potere con chi è subordinato al potere, e quindi vale in realtà per tutti i tempi. Evidentemente la spinta è venuta dal fatto che detesto soprattutto il potere di oggi.

Intervista per la Televisione della Svizzera italiana, 29 aprile 1975

De Sade e l’universo dei consumi

Questo film è un allegoria? e di che cosa?

Sì, lo è; però non è un vero e proprio apologo, come era Teorema, ad esempio. Stavolta il sesso ha una funzione metaforica, e quindi il film non è una favola ma una grande metafora, almeno nelle mie intenzioni. Come dicevo in quella specie di autocritica sul «Corriere della Sera», il sesso questa volta è la metafora del rapporto tra il potere e chi è sottoposto al potere.

Pensi che ciò che stiamo vivendo oggi, la cosiddetta liberazione sessuale, la permissività ecc., sia anche questo una forma di mercificazione dei rapporti umani?

Mi fai questa domanda per farmi ripetere cose che ho già detto fino alla nausea, tanto lo sai quello che ti rispondo: sì. Anzi, ti dirò di più; c’è una frase che faccio dire ad un personaggio del mio film, che è questa: «Là dove tutto è proibito, chi vuole in fondo può fare tutto, ha la possibilità reale di fare tutto; là dove invece è permesso qualcosa si può fare solo quel qualcosa». E il caso dell’Italia oggi: si può fare qualcosa. Prima non era concesso niente, in realtà: le donne erano quasi come nei paesi arabi; il sesso era tutto nascosto, non se ne poteva parlare, non si poteva mostrare neanche mezzo seno nudo in una rivista, ti ricordi? Prima tutto era proibito, adesso concedono qualcosa: fotografie di donne nude, una grande libertà nei rapporti della coppia eterosessuale… Però è una libertà per modo di dire, perché deve essere quella. E poi è obbligatoria: appunto, siccome è concessa, è diventata obbligatoria.

Facendo un film di questo genere tu ti muovi su un terreno pericoloso, nel senso non soltanto di non essere capito ma anche di essere mal capito: non ci pensi?

No, perché il mio è un mistero; è quello che si chiama mistery, il mistero medioevale: una sacra rappresentazione, e quindi è molto enigmatica. Non deve essere capita. Certo che rischio di essere capito male o non capito, ma questo è intrinseco al film stesso.

Che uso fai, per esempio, di Klossowski, o di Blanchot, che tu citi?

Li cito in quanto interpreti di De Sade, fanno parte della coscienza che i personaggi hanno di quello che stanno facendo. Non soltanto do loro la coscienza che De Sade aveva, ma do loro anche la coscienza degli interpreti di De Sade. Così si crea un legame coi nostri giorni, e De Sade viene letto in una chiave più moderna e razionale. Se io affidavo la coscienza dei personaggi solo alla coscienza che dava loro De Sade li lasciavo al di là della psicanalisi, cioè al di là del mondo moderno.

Pensi che il potere espresso dai pochi, cioè da quelli che lo esercitano come preti, magistrati, come i quattro personaggi del film continuerà ad essere espresso attraverso queste strutture relativamente tradizionali? O forse il potere vero sarà il consumismo?

Secondo me il potere resta tale e quale, solo che cambia carattere: cioè il suddito, anziché essere risparmiatore, religioso ecc., è appunto consumatore, imprevidente, irreligioso, laico ecc. Cambiano dei caratteri culturali, ma il rapporto è identico.

Si autosottomette

Si sono sempre autosottomessi; anzi, prima si autosottomettevano con più coscienza, perché c’era se non altro la cosiddetta rassegnazione religiosa, che era una forma di coscienza: «Io chino la testa in nome di Dio» è già una grande frase. Mentre adesso il consumatore non sa affatto di chinare la testa, anzi, crede stupidamente di non chinarla e di avere i suoi diritti.

Ma anche il giovane di sinistra, forse anche di più, pensa di non chinare la testa e invece…

Sì, e perché? Lo sto ripetendo da mesi: perché è un consumista anche lui.

Le giovani vittime nel film non si ribellano?

C’è qualcuno che si ribella, ma appena appena, in modo incosciente: soltanto uno, ed è il punto culminante del film, muore chiudendo il pugno. Ma praticamente non ho fatto delle vittime, dei personaggi per cui tu stai. Non suscito pietà attraverso le vittime, se non appena appena, con la massima discrezione. Intanto perché il film sarebbe stato orribile, insopportabile: se facevo delle vittime simpatiche, che piangevano e ti strappavano il cuore, dopo cinque minuti uscivi dalla sala cinematografica. E poi soprattutto non lo faccio perché non ci credo.

Il pericolo del sesso scatologico, che sullo schermo non è mai stato trattato… non hai paura che poi qualcuno scriva «Pasolini fa sempre queste cose…».

Beh, ma questa volta va talmente al di là dei limiti che per forza questa vecchia cosa che dicono di me dovranno riesprimerla in altri termini, perché va troppo al di là dei limiti.

Pensavo che per Freud il prodotto digestivo ha sempre avuto dei significati molto ampi: non è che tu hai pensato a questo?

C’è anche questo: sai, in un mistero tutto si condensa. Ma c’è soprattutto il pensiero che in realtà i produttori costringono i consumatori a mangiare merda: il brodo Knorr, oppure i biscotti Saiwa, sono merda. Questo nel film non risulterà, perché è un mistero. Ma è chiaro che io mentre giro lo penso; non so se poi verrà fuori o no.

Se io facessi un film su un industriale milanese che produce biscotti, e poi li reclamizza, e poi li fa mangiare a dei consumatori, potrei fare un film terribile: sull’inquinamento, sulla sofisticazione ecc.; ma non posso star lì a rappresentare un industriale milanese, magari un anno a pensarci e poi girare: mi annoierei, lo detesto.

E poi la metafora è forse più utile, basta che sia compresa.

Mah, non sarà molto compresa. Sarebbe più utile — nel senso diretto, pratico della parola — farlo proprio così com’è, ma chi me lo fa fare? Sarebbe autolesionismo: un film realistico in questo senso non lo posso fare perché… perché non lo posso fare, proprio fisicamente.

Accattone non era realistico?

No, perché rappresentava una classe sociale in realtà arcaica: siccome il mondo sottoproletario era estremamente arretrato rispetto alla borghesia, era un mondo arcaico, per me fare Accattone era come tornare indietro di un secolo, anche se quel secolo era contemporaneo.

Tu lo accetti ancora?

Lo accetto, però è caduta completamente la denuncia sociale, è caduta oggettivamente perché quel mondo delle borgate romane non c’è più: quelle battute, quel modo di parlare, quel modo di essere sono scomparsi. Quindi che cosa accuso, che cosa denuncio? Da Accattone è caduta tutta la parte sociale, la parte di denuncia, ed è rimasta solo la tragedia: è diventato più bello il film, secondo me.

E la parte del sogno di Accattone, che sembrava indicare una tua idea formale che poi non hai portato avanti?

Resta invece valida, però all’interno di una tragedia al di fuori del tempo.

Adesso farai questo film su san Paolo?

No, faccio quello con Eduardo, che si chiamerà o II Cinema oppure Ta Kai Ta, che vuol dire «Questo e quello» in greco: è un greco citato da san Paolo. Oppure lo intitolerò Circenses, non so, o forse Dromenon Legomenon, che è un altro dei titoli ancora in ballottaggio: sceglierò.

P.P. Pasolini, Il cinema in forma di poesia, a cura di L. De Giusti, Cinemazero, Pordenone 1979.

Intervista rilasciata a Gideon Bachmann e Donata Gallo

Ci parlavi di un esigenza diversa, in questo film Salò e le 120 giornate della città di Sodoma per quel che riguarda la recitazione di tutti gli attori, puoi spiegarci in cosa consiste?

Sì, negli altri film, agli attori professionistici richiedevo il non professionismo e agli attori non professionisti, quelli presi dalla strada, suggerivo la battuta che poi loro dicevano a loro modo, anche nel loro dialetto se volevano, poi io avrei scelto in fase di montaggio i momenti più felici, ispirati, riusciti, lasciando magari anche degli ascolti che non c’entravano direttamente, ma che rappresentavano quel momento di verità che avevo colto. Qui invece no, in questo film le battute devono essere dette in modo esatto dalla prima parola all’ultima, perché questo non è un film di raccolta di materiali, è un film già montato mentre lo giro, voglio perciò che sia perfetto, esatto come un cristallo. Per cui questa volta, agli attori professionisti chiedo il massimo professionismo e pretendo il professionismo dagli attori non professionisti.

Questa precisione nella recitazione ha, immagino, altri corrispondenti in cui ricerchi un rigore formale.

Sì, infatti, anche tutto il resto è più accurato: i movimenti, le composizioni, i trucchi, tutto questo una volta lo facevo con più disinvoltura, con meno attenzione, con più realismo ma perché con gli altri film me lo potevo permettere essendo film più spontanei, più realistici e disinvolti e magmatici! Qui per Salò invece, deve essere tutto molto curato nei particolari e perciò, se uno deve cader morto, lo faccio ripetere molte volte finché non sembri davvero un corpo che cade morto, e la scena non la spezzetto, deve essere un tutt’uno formale che mi serve per chiudere come in una specie di involucro le cose terribili di De Sade e del fascismo.

Per ottenere questo ho bisogno di una struttura che mantenga un ritmo ben preciso, ben determinato e perciò senz’altro meno realistico appunto proprio perché più perfetto. La conferma poi viene dal carattere dantesco che ho dato alla struttura del film, che poi secondo me era già nelle intenzioni di De Sade, dividendolo in gironi proprio come il verticalismo teologico nell’inferno di Dante.

Come giudichi la pagina di De Sade?

De Sade non era uno scrittore di pagine, le sue pagine sono piuttosto brutte, eccettuate alcune frasi che si possono privilegiare e che sono bellissime: «Tutto ciò è buono perché è eccessivo» è una frase bellissima, ma ce n’è una ogni tanto; no, non ha la pagina, non aveva proprio la qualità dello scrittore della pagina, non c’era proprio la possibilità che potesse esserlo; forse però se la sua pagina fosse stata portata avanti come sa portarla avanti uno scrittore, avrebbe raggiunto un tipo di eleganza che lui aveva soltanto di rado. Lui era uno scrittore di struttura, e questa struttura delle volte era abbastanza elegante, ferma, ben delineata, come per esempio nelle 120 giornate, in cui c’era un disegno di struttura abbastanza preciso; altre volte invece erano delle strutture aperte all’infinito, a fisarmonica, mal delineate, senza contorni.

Non senti nessuna affinità di carattere con De Sade? Penso ad una certa inquietudine che generalmente hai nel girare i film, anche se in questo mi sembra piuttosto controllata.

Affinità? No, perché io, al contrario di De Sade, sono stato educato e sono vissuto in un ambiente letterario e culturale in cui la pagina conta, quindi sento molto il fatto concreto dell’arte; per cui la cosa è diversa, l’inquietudine, la fretta di girare che ho di solito nei film, sono dovuti all’avidità di consumare subito qualcosa che mi sta affascinando in quel momento. Ma soprattutto gli altri film erano congegnati in modo che io dovessi raccogliere materiale per poi montarlo, e quindi dovevo raccoglierne tanto tanto, da tornarmene a casa col sacco pieno, per poi riguardarlo, sceglierlo, montarlo; questa volta non devo raccogliere magmaticamente del materiale, devo già organizzarlo mentre giro, e quindi la mia fretta è più calcolata, perché qui girando soprattutto in interni, deve riuscire un film perfetto, anche nel senso convenzionale della parola.

È la prima volta che giri un film a questo modo?

No, in effetti ci sono già dei precedenti, in Teorema per esempio e in parte anche in Porcile.

E allora in che modo si inquadra questo film nel resto della tua opera?

Come un nuovo registro, in cui affronto il mondo moderno: in realtà è la prima volta che lo faccio veramente, l’ho fatto sì, in parte in Teorema, ma in questo momento lo affronto in tutto il suo orrore, e, ci sarà un periodo in cui farò i film più o meno così; quello che è certo è che non potrò farlo realisticamente, non potrei, non reggerei fisicamente nel rappresentare questo potere che sto subendo, lo potrei fare come faccio sempre, con l’uso della metafora.

E nella tua opera letteraria, ci sono dei precedenti?

No, a parte, forse, le poesie friulane, benché ormai siano quasi preistoria, ma per quel che riguarda i romanzi, essi non sono così, sono anzi molto magmatici, c’è sì una struttura, ma poi se un capitolo per esempio mi prendeva di più, succedeva che si verificava una proporzione perché raccoglievo tanto: battute, modi di dire ai quali non volevo rinunciare e allora mi soffermavo nei particolari più del necessario.

E nei miei film avviene la stessa cosa; solo in Teorema, Porcile, e naturalmente in questo, non l’ho potuto fare; d’altra parte, quando un film è una metafora, deve essere per forza fatto in altro modo, perché ogni immagine che giri è significativa di qualcos’altro, e quindi deve essere precisamente quella e non un’altra. Non puoi aggiungere dei dettagli, per esempio, se non sono significativi e necessari! Non c’è, in questi film, il minimo spazio per l’immagine gratuita, non funzionale! Perciò anche qui in Salò, non posso in una scena correre il rischio di perdermi a seguire un particolare che in quel momento mi diverte o innamorarmi di un paesaggio e allungare il tempo di durata più del previsto!

Nel modo di girare questo film, ripeti una certa ritualità comune ai film precedenti?

Sì, più o meno è quello che faccio sempre in tutti i film, qui però è portato alle estreme conseguenze: mentre cioè l’uso ossessivo del campo e del controcampo, del primo piano opposto ad un altro primo piano, l’assenza di personaggi di quinta, l’assenza di personaggi che entrano in campo ed escono di campo, l’assenza soprattutto dei pianisequenza sono cose tipiche di tutti i miei film, direi che in questo ultimo, tutto ciò è portato alla lucidità, alla assolutezza massima, direi quasi che le mie abitudini quasi ossessive, sono portate a tal punto di ossessività, da cambiarne forse la qualità.

Qual è la caratteristica che fa da comune denominatore per tutti i tuoi film, passati e futuri?

E l’idea formale del film, che resta invariata in tutti i film, e cioè lo schema, l’illuminazione che ho di quello che deve essere un film, e questo è inesprimibile in parole; o tu lo capisci o non lo capisci, non te lo so spiegare. Ecco, quando decido di fare un film, lo decido perché ho una specie di illuminazione che è appunto l’idea formale, la sintesi del film.

A chi vuoi rivolgere questo film?

Mi rivolgo in generale a tutti, ad un altro me stesso, a tutti quelli che come me detestano il potere per quello che fa del corpo umano: la riduzione di questo a cosa, l’annullamento della personalità dell’uomo.

E quindi anche contro l’anarchia del potere, perché nulla è più anarchico del potere, il potere fa ciò che vuole, e in ciò è completamente arbitrario spinto da sue necessità economiche che sfuggono alla logica comune. Ognuno odia il potere che subisce, quindi io odio con particolare veemenza questo potere che subisco: questo del 1975.

È un potere che manipola i corpi in modo orribile e che non ha nulla da invidiare alla manipolazione fatta da Hitler: li manipola trasformando la coscienza, cioè nel modo peggiore; istituendo dei nuovi valori alienanti e falsi, che sono i valori del consumo; avviene quello che Marx definisce il genocidio delle culture viventi, reali, precedenti.

Per esempio, questo potere ha distrutto Roma, non esistono più i romani, un giovane romano è il cadavere di se stesso, che vive ancora biologicamente ed è in uno stato di imponderabilità tra gli antichi valori della sua cultura popolare romana e i nuovi valori piccoloborghesi che gli sono stati imposti.

La cosa che colpisce di più in De Sade, è forse il problema della ripetitività del gesto erotico: anche nel tuo film esiste questo problema nei personaggi?

Sì, il potere è codificatore e rituale, e anche i gesti erotici lo sono, e siccome appunto la gesticolazione è sempre la stessa, e si ripete eternamente eguale, risulta che la gestualità sodomitica è la più tipica di tutte perché è la più inutile, quella che meglio riassume la ripetitività dell’atto, appunto perché è la più meccanica delle altre e a questo si inserisce la gesticolazione del carnefice che è anomala, perché il carnefice può ripetere il gesto una sola volta; qui ancora infatti si pone il problema di ammazzarne, anziché una di vittime, mille, sempre per potersi ripetere. Oppure, e questa è una soluzione che ho aggiunto io nel film: fingere di ammazzare la vittima e in realtà non ammazzarla affatto: mettere la pistola sulla tempia, tirare il grilletto e sparare avendo la pistola caricata a salve; il ritorno alla vita diventerebbe una variante perversa, essendo ormai il rito della morte consumato.

Altra cosa importante che ho preso da Klossowski e che poi riprendo in Blanchot, è il modello di Dio: cioè, tutti questi superuomini nicciani ante litteram, in realtà, nell’adoperare i corpi delle vittime come cose, altro non sono che degli dèi in Terra, cioè il loro modello è sempre Dio; nel momento in cui lo negano con la passione, lo rendono reale e lo accettano come modello.

Per una stessa sequenza, fai in media dai due ai quattro ciak, raramente di più e questo senza aver fatto alcuna prova prima.

Sì, non ripeto mai molto la stessa scena a meno che non mi sia particolarmente difficile ottenere ciò che voglio, ma generalmente la ripetizione stanca gli attori che essendo nel mio caso di solito attori non professionisti, danno il meglio subito, con la spontaneità dell’immediatezza; al contrario nella ripetizione perdono di efficacia, perché non sanno perfezionare, così io spiego molto bene prima come devono dire la battuta e poi la prima volta che la dicono, sono già davanti al primo ciak e questo anche per altri due motivi: primo perché tutta la realtà del film va filmata, secondo perché non si può mai prevedere prima quale sarà il momento più felice, più vero, difatti molte volte in fase di montaggio mi sono trovato a scegliere proprio il primo di quattro ciak.

Sul set di Salò ho raccolto fra la troupe un consenso unanime nei tuoi confronti, tutti confessavano di aver accettato di lavorare per questo film, in fondo troppo breve per farci un calcolo economico vantaggioso, esclusivamente perché garantiti dalla tua presenza.

In effetti devo dire che la prima cosa che colpisce entrando su questo set è una non meglio definibile atmosfera di pace, di tranquillità e di collaborazione, dove tutti sono attenti nel dare il meglio di se stessi e dove viene il forte sospetto che lo facciano per far felice te, per darti soddisfazione. Così, quando ti osservavo visibilmente solo a pensare al film, mi domandavo se non era preferibile lavorare con una troupe tutta partecipe, non solo affettivamente, ma capace di collaborare in modo almeno complice a quello che fai.

No, questa è un’idea orribile, la complicità in questo caso diventerebbe falso permissivismo, paternalismo, nessuno è interessato al film all’infuori di chi l’ha pensato e voluto fare; quello che mi dici sullo stato d’animo della troupe, mi fa piacere, ma è il massimo che può succedere in un set. Il fatto che io sia da solo è una cosa normale e perciò non mi pesa, anzi, ci sono già tanti problemi da risolvere durante una lavorazione, che se mi mettessi a coinvolgere altre persone non verrebbero mai risolti in breve tempo. Del resto per quel che riguarda alcuni problemi tecnici, per esempio sulla luce, chiedo sempre l’aiuto di Tonino Delli Colli, direttore della fotografia, ma sul senso di una inquadratura, se ne fossi incerto, devo trovarla io la soluzione, io devo prendermi la responsabilità di essere magari inefficace.

Le fasi di cui si compone un film sono grosso modo tre: 1) il momento in cui l’autore pensa e scrive il film, 2) il momento in cui lo gira, 3) il momento in cui lo porta in montaggio e lo «chiude». In quale fra queste tre fasi ti senti di vivere veramente il film?

Ma, io direi tra il primo e il secondo momento, in quella fase intermedia in cui cerco le facce che ho pensato per il film.

La ricerca dell’attore è la cosa che mi prende perché in quel momento io verifico se le mie ipotesi sono state arbitrarie: cioè se ad una fisionomia che ho immaginato, corrisponde effettivamente il carattere che immagino debba avere. Quando ho bisogno di giovani attori, che siano scanzonati, furbi, smaliziati, ma ancora un po’ incerti e un po’ buffi, non cerco dei giovani attori appena usciti dall’Accademia che rifacciano magari a stento il verso a quelli che invece vivono in una borgata di periferia e sono realmente così! Più semplicemente vado appunto in una borgata romana e cerco dei ragazzi che interpreteranno, in un certo senso, se stessi. Quando invece ho bisogno di qualcuno che reciti una parte più complessa allora faccio ricorso all’attore professionista, ma riduco questa scelta sempre al minimo indispensabile.

Comunque, questo è sempre il momento più entusiasmante, perché il film senza esserci ancora, comincia a fissarsi in queste facce che trovo e che molte volte sono così autentiche da suggerirmi cose nuove, utili per il film.

Tu dici che il cinema è la realtà in un infinito pianosequenza; perché nei tuoi film non fai mai uso del pianosequenza?

Proprio per la ragione che io faccio i film e non il cinema. E la stessa differenza che distingue la «langue» dalla «parole», io facendo i film, uso la «parole» del cinema, cioè della «langue»; e la mia «parole» è fatta di campi e controcampi, di primi piani opposti ad altri primi piani ecc…

Tutti i tuoi film sono girati da te, ad altezza d’uomo, con appena l’aiuto di un cavalletto e molto spesso anche a mano, non fai carrellate, non fai riprese dall’alto, non usi insomma nessun mezzo tecnico di effetto.

Il fatto che sia io a farmi da operatore deriva da una ragione molto semplice: io finché giro, cerco sempre, voglio dire che essendo interessato a raccogliere materiale, il mio girare non è mai la messa in opera di alcuni piani già decisi a tavolino prima di essere davanti alla realtà. Sì, è vero che nella sceneggiatura a volte preciso anche i piani oltre ai movimenti, ma sono più che altro indicativi, il resto lo decido in rapporto alla realtà che mi si presenta. Per quel che riguarda poi il mio modo di girare, deriva da una precisa volontà di rispettare con un certo realismo la scena stessa.

Io sono per ipotesi davanti a due ragazzi che si parlano, metto tra loro e i miei occhi la macchina da presa e riprendendoli li guardo come potrei fare io o chiunque altro spettatore, poi mi avvicino perché anche l’occhio mette a fuoco, nella sua curiosità, dei primi piani, eppoi il campo e il controcampo, per vedere come tra loro si vedono parlare. Ma «l’effetto» voglio che a renderlo siano le espressioni dei volti dei ragazzi.

Da Filmcritica, n. 256, agosto 1975

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.