Pier Paolo Pasolini su Porcile
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Prima lapide:
Interrogata ben bene la nostra coscienza abbiamo stabilito di divorarti a causa della tua disobbedienza.
Seconda lapide:
Io e te moglie siamo alleati. Tu madre-padre, io padre-madre. La tenerezza e la durezza sono intorno a nostro figlio da tutte le parti. La Germania di Bonn, accidenti, non è mica la Germania di Hitler! Si fabbricano lane, formaggi, birra e bottoni. Quella dei cannoni è un’industria d’esportazione. È vero: si sa che anche Hitler era un po’ femmina. Ma come è noto era una femmina assassina: la nostra tradizione è decisamente migliorata. Dunque? La madre assassina, Lei, ebbe figli obbedienti con gli occhi azzurri pieni di tanto disperato amore mentre io, io, madre affettuosa, ho questo figlio che non è né obbediente né disobbediente?
Cristallizzare l’orrore.
Fare un sonetto di Petrarca su un soggetto di Lautréamont.
Un film atroce e soave.
Il contenuto politico esplicito del film ha come oggetto, come situazione storica, la Germania. Ma il film non parla della Germania, bensì del rapporto ambiguo tra vecchio e nuovo capitalismo. La Germania è stata scelta in quanto caso limite.
Il contenuto politico implicito del film, invece, è una disperata sfiducia in tutte le società storiche: dunque, anarchia apocalittica.
Essendo così atroce e terribile il senso del film, io non potevo che trattarlo,
a) con distacco quasi contemplativo;
b) con umorismo.
Sono certo che qualcuno mi chiederà: «Ma questo è un film autobiografico?» Ebbene, «Sì» risponderei a chi mi facesse questa domanda. Il film è autobiografico, se non altro in quanto la mia autobiografia mi ha portato prima a concepirne l’orrore e poi ad esprimerlo con distacco ed umorismo. Non che ci tenga tanto a questo distacco e a questo umorismo, ma tant’è, ci sono arrivato.
Inoltre il film è in parte autobiografico per le due seguenti ragioni:
Primo, io mi identifico in parte con il personaggio di Pierre Clémenti (anarchia apocalittica e, diciamo, contestazione globale sul piano esistenziale).
Secondo, io mi identifico in parte con il personaggio interpretato da Jean-Pierre Léaud (l’ambiguità, l’identità sfuggente, e insomma tutto quello che il personaggio dice di se stesso nel lungo monologo rivolto alla sua ragazza che se ne va).
Il messaggio semplificato del film è il seguente: la società, ogni società, divora sia i figli disobbedienti che i figli né disobbedienti né obbedienti. I figli devono essere obbedenti e basta. (1)
Lassàju bessòj, cunpàins,
a simiotàvi; tornàit a
vej la musa lusinta,
il ciaf frese, i vuj legris.
Cussi a no podaràn pi
simiotàvi. A cui
ch’ai si taja i ciavièj
e al si presenta cu’l suf
e la cadopa pura
dal fantàt fuàrt e libar,
jo i ghi darài chistu libri,
parsè ch’ai podrà capi
la so novitàt: obediensa
e disobediensa, insièmit.
E po’ se impuàrtia? L’amòur, par zujà,
al à doma che un prat.
A chistu zòvin (ch’a no’l tornarà
mai pi tal mond) jo i ghi regali
chistu libri scrit dos voltis,
vivut e rivivut, cuàrp drenti un cuàrp.
Lasciateli soli, compagni, a scimmiottarvi : tornate ad avere la faccia luminosa, il capo fresco, gli occhi allegri.
Così non potranno più scimmiottarvi. A chi si taglia i capelli e si presenta col ciuffo e la nuca pura del giovane forte e libero, io darò questo libro, perché egli potrà capire la sua novità: obbedienza e disobbedienza, insieme. E poi cosa importa? L’amore, per giocare, ha soltanto un prato.
A questo giovane (che non tornerà mai più nel mondo) io regalo questo libro scritto due volte, vissuto e rivissuto, corpo dentro un corpo. (2)
È il potere che rende porci gli uomini; porci in senso metaforico e, devo dire, ingiusto, perché poi i personaggi più simpatici del film sono i porci veri. Essi sono innocenti.
Sembra incredibile, ma anche un porco metaforico, anzi, il porco metaforico per eccellenza, il signor Herr Dhitze (Ugo Tognazzi), è quasi simpatico. Il fatto è che in qualche modo, sia pur atrocemente, egli è innocente. L’educazione borghese di self-made-man gli è restata esteriore. È tutto sommato, una forza della natura.
Che significato avrà che il solo personaggio borghese positivo della storia (esclusi i porci veri, i contadini e Ninetto) sia Ida (Anna Wiazemski)?
Sbaglierebbe chi considerasse il personaggio di Pierre Clémenti un rozzo bandito: egli è un intellettuale, diciamo pure nietzcheiano, che aspira alla santità. È un santo, ripeto — per dirla umoristicamente — , della contestazione globale, un santo sgradevole.
Dipingere con la tecnica di Giovanni Bellini una bolgia infernale.
Questi appunti sono un po’ presuntuosi, lo so. Ma quando gira, un regista è sempre un po’ presuntuoso, e quindi, di conseguenza, un po’ ridicolo.
Se qualche spettatore dovesse avere dei dubbi sul senso delle due storie alternate del film, basta che ripensi con attenzione alle due lapidi che vengono lette prima dei titoli di testa.
Per quel che riguarda il rapporto tra capitalismo tradizionale e neo-capitalismo basta invece che lo spettatore ripensi al piccolo recitativo quasi canterellato del signor Klotz (Alberto Lionello) mentre lui e il suo avversario, futuro socio, entrano nella grande sala degli affreschi.
Sono certo anche che qualcuno mi dirà: «I dialoghi del tuo film sono troppo intellettuali». «Ti sbagli, amico — gli risponderei — questi dialoghi non sono intellettualistici, sono poetici. Se tu vuoi essere più realista del re, cioè più spettatore dello spettatore, tanto peggio per te». (3)
Sono due storie che si alternano, diverse, lontanissime una dall’altra, che hanno un solo punto in comune, in cui coincidono, in cui si sovrappongono e si unificano. (4)
Le due storie sono unite dalla «morale» del racconto, vale a dire obbedire o morire. Esse hanno in comune un legame pratico, logico; ma anche un legame poetico, o se volete l’idea formale che ha ispirato il film: e cioè l’alternare un episodio muto e metastorico con un episodio parlato e storico. (5)
Una è la storia di un giovane (Pierre Clémenti) che vaga in un deserto e che sta morendo di fame; si nutre di insetti, di rettili ed è terrorizzato da dei soldati che vede passare all’orizzonte. Un giorno uno dei soldati che passano rimane indietro e allora lui lo assale, lo uccide e comincia a divorarlo. A lui si uniscono degli altri; questa tribù di cannibali, di drogati di carne umana, vengono presi, giudicati da persone perbene che sono presentate sotto forma odiosa mentre loro sono belli, e vengono condannati ad essere divorati da altri animali. Assieme a queste persone perbene c’è anche Ninetto, che è testimone di questo supplizio.
La seconda storia è invece ambientata nella Germania di Bonn, dove c’è un ragazzo misterioso, ambiguo, un po’ come il protagonista dell’altro episodio, che è Jean-Pierre Leaud. È figlio di un grande industriale tedesco, una specie di Krupp, che ha un concorrente molto più vitale ed energico di lui: mentre lui appartiene al vecchio capitalismo, il suo concorrente è invece un neocapitalista. E allora lui, attraverso delle indagini, cerca di ricattare questo neocapitalista, e attraverso un suo segugio viene a sapere che costui è un criminale di guerra che conserva dei corpi mummificati di ebrei. Ma anche il concorrente lo ricatta, perché anche lui viene a sapere che cosa?… che il figlio fa all’amore con un maiale, e allora i due si fondono. Ricattandosi insieme, anziché distruggersi fanno la fusione, come la Montedison. Alla festa della fusione vengono dei contadini tra cui c’è anche Ninetto, il quale racconta come questo figlio, questo ragazzo è stato divorato dai maiali. (6)
Si è detto che ho tre idoli: Cristo, Marx, Freud. Sono solo formule. In realtà, il mio solo idolo è la Realtà.
Se ho scelto di essere cineasta allo stesso tempo che scrittore, ciò è dovuto al fatto che piuttosto che esprimere questa Realtà attraverso quei simboli che sono le parole, ho preferito il cinema come mezzo di espressione: esprimere la Realtà attraverso la Realtà. (7)
Con la crisi del marxismo mi sono trovato molto solo e il mio film è maturato durante questo periodo.
Nei miei primi film mi esprimevo in un linguaggio semplice, epico, perché pensavo — con Gramsci — di riferirmi ad una coscienza nazionale popolare. Ma questo pubblico che era il popolo in senso gramsciano, ho proprio paura che non esista più, perché la società dei consumi di massa distrugge tutto. Questa è la ragione, per cui ho cominciato a fare dei film fondati sulla favola, sull’allegoria, una problematica che rischia in questo modo di divenire — ne sono ben cosciente — più oscura, più difficile da comprendere. Ma non posso fare altrimenti: è il solo modo che mi permette di tentare di sottrarmi ai circuiti della cultura di massa, della produzione di consumo. (8)
La parola barbarie — lo ammetto — è la parola che amo di più al mondo.
Perché, molto semplicemente, nella logica della mia etica, la barbarie è lo stato che precede la civiltà, la nostra civiltà: quella del buon senso, della previdenza, del senso dell’avvenire. E mi rendo conto che ciò può sembrare irrazionale e anche decadente.
La barbarie primitiva ha qualcosa di puro, di buono: la ferocia vi compare solo in rari casi eccezionali.
Notate che la criminalità del personaggio interpretato da Clémenti in Porcile non è quella del selvaggio immerso nello stato di natura. Clémenti è in fondo un intellettuale, un ribelle.
Il vero «barbaro» è il luogotenente di Clémenti, Franco Citti: un innocente che la fame spinge a mangiare carne umana e che, dinanzi al tribunale d’occupazione, scopre la grazia delle lacrime. I barbari piangono. È l’uomo moderno che pretende che sia indegno piangere. Il barbaro non ha il senso della dignità che ha il borghese. L’altro è un intellettuale fuorilegge.
Il cannibalismo ha la stessa funzione del sesso in Teorema. Il cannibalismo è un sistema semiologico. Bisogna restituirgli qui tutta la sua valenza allegorica: un simbolo della rivolta portata alle sue estreme conseguenze.
Il mistero, nel secondo eroe, l’arcano che lo fa comunicare con l’universo mistico, e attraverso il quale si sottrae in parte all’influenza della sua famiglia borghese, all’autorità di suo padre, capitano d’industria, è il suo amore per i porci. È un amore simbolico, un simbolo analogo al cannibalismo. Con questa sfumatura: che il cannibalismo è il simbolo di una rivolta assoluta che confina con la più atroce delle santità, mentre l’amore per i porci — in definitiva forma d’amore possibile — la lascia a metà strada.
Poiché, non dimenticate che questo amore mostruoso è conosciuto, che è prudentemente, tacitamente consentito. Alla fine del film, il padre delega i suoi poteri «morali» al suo socio, ex-nazista riconvertito (nel senso sociale della parola); quello che si informa dell’assenza di ogni traccia di vittima e ordina il silenzio. (9)
Fonti
(1) Note su Porcile lette da G.V. Baldi: registrazione di una conferenza-stampa sul film, Biennale di Venezia 1969. Riprese anche su «Jeune Cinéma», n. 41, ott. 1969.
(2) P.P. Pasolini, La nuova gioventù, Einaudi, Torino, 1975, p. 162.
(3) Note su Porcile, cit.
(4) G.P. Brunetta, Entretien…, cit. p. 14.
(5) Duflot, p. 97.
(6) Sintesi da Brunetta, Entretien…, cit., p. 14.
(7) «Combat», 29 genn. 1969, in Gervais, p. 145.
(8) «Jeune Cinéma», n. 41, ott. 1969.
(9) Duflot, pp. 92, 94–96.
Da: Pier Paolo Pasolini, Il cinema in forma di poesia, a cura di Luciano De Giusti, Pordenone, Edizioni cinemazero, 1979, pp. 72–78