Pier Paolo Pasolini su Medea

Mario Mancini
6 min readMar 7, 2021

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“Niente è più possibile adesso”. Con queste parole pronunciate da Medea (interpretata da Maria Callas) si chiude Medea di Pasolini.

«… Ma cosa incomincia
per voi non più ossessionati
dalla vostra salvezza?
Dove andate, usciti dal cerchio,
per questa linea retta»? (1)

Nei miei film storici io non ho mai avuto l’ambizione di rappresentare un tempo che non c’è più: se ho tentato di farlo, l’ho fatto attraverso l’analogia, cioè rappresentando un tempo moderno in qualche modo analogo a quello passato. Ci sono ancora dei luoghi del Terzo Mondo dove si fanno dei sacrifici umani: e ci sono tragedie dell’inadattabilità di una persona del Terzo Mondo al mondo moderno: è questo persistere del passato nel presente che si può rappresentare oggettivamente… il passato diviene una metafora del presente: in un rapporto complesso, perché il presente è l’integrazione figurale del passato… Poi, si sa, il sentimento della storia è una cosa molto poetica, e può essere suscitato dentro di noi e commuoverci fino alle lacrime, da qualunque cosa: perché ciò che ci attrae a tornare indietro è altrettanto umano e necessario di ciò che ci spinge ad andare avanti. (2)

Medea è la mescolanza un po’ mostruosa di un racconto filosofico e di un intrigo d’amore, e nel tutto formato da questi due tipi di film si può cogliere, semplificando, una struttura astratta: tra un vecchio mondo religioso e un nuovo mondo laico si produce di necessità un urto drammatico. In seno a questo conflitto, chi appartiene al vecchio mondo soccombe in una catastrofe spirituale, ma la sua presenza contesta il mondo nuovo. (3)

Medea :
Sono un’altra creatura, ormai.
Ho tutto dimenticato.
Ciò che era realtà ora non
lo è più.
… Forse hai ragione.
Sono restata quella che ero.
Un vaso pieno di un sapere
non mio.

Medea viene da un mondo religioso e arriva in un mondo ricco come Corinto, dove tutto è laico, moderno, raffinato, colto. Così quando prova un sentimento di grande dolore e angoscia vive una regressione. (4)

Ho ripreso, con Medea, tutti i temi degli altri miei film.
Medea è il confronto dell’universo arcaico, ieratico, clericale col mondo di Giasone, mondo, al contrario, razionale e pragmatico. Giasone è l’eroe attuale (la mens momentanea) che non solo ha perso il senso metafisico, ma nemmeno si pone più questioni di questo tipo. È il «tecnico» abulico la cui ricerca è tesa unicamente verso il successo. (5)

Centauro :
… A riconquistare il vello d’oro
per esempio, così te ne andrai
in un paese lontano al di là
del mare. Qui farai esperienze dì un
mondo che è ben lontano
dall’uso della nostra ragione, l
a sua vita è molto realistica
come vedrai perché solo chi è
mitico è realistico e solo chi è
realistico è mitico.
Il «mitico» non è che l’altra faccia del realistico. (6)

Io do al termine realismo un senso culturale, perché sono uno scrittore, e il realismo coincide con la descrizione della vita del popolo; e l’aspetto realista della vita del popolo è l’altra faccia della vita religiosa di questo stesso popolo. (7)

Se si vuole questa potrebbe essere benissimo la storia di un popolo del Terzo Mondo, di un popolo africano, per esempio, che potrebbe conoscere la stessa catastrofe a contatto con la civiltà occidentale materialista. Del resto, l’irreligione, l’assenza di ogni metafisica in Giasone è ad un grado tale che fa di lui il legame con la nostra storia moderna.
Confrontato con l’altra civiltà, con la stirpe dello «spirito», egli scatena una spaventosa tragedia. Tutto il dramma riposa su questa opposizione di due «culture», sull’irreducibilità di una civiltà all’altra. (8)

Giasone :
Tieniti il tuo vello, segno della
perennità del potere e dell’ordine!
La mia impresa mi è servita
almeno a capire che il mondo
è più grande del tuo regno.
… E poi, se vuoi che ti dica
quello che secondo me è la
verità, quella pelle di caprone,
lontano dal suo paese, non ha
più alcun significato.

In Porcile il rapporto tra il muto e il parlato esprimeva l’opposizione tra una parte situata fuori della storia e la parte precisamente datata; in Medea l’opposizione è tra il momento popolare e il momento borghese. (9)

Centauro :
Tutto è santo, tutto è santo,
tutto è santo. Non c’è niente di
naturale nella natura, ragazzo
mio, tientelo bene in mente.
Quando la natura ti sembrerà
naturale tutto sarà finito — e
comincerà qualcos’altro.

All’inizio, quando Giasone era piccolo, egli vedeva nel Centauro un animale favoloso, pieno di poesia, poi poco a poco, con l’età, il Centauro è diventato razionale e saggio e ha finito col diventare un uomo come Giasone.
In realtà il Centauro era sempre stato una «soggettiva» di Giasone. Anche ora sono gli occhi di Giasone che guardano; e «come visto da lui», il Centauro è un uomo, un semplice uomo che ha perso le sue forme favolose.
Questo fatale approdo alla razionalità e al realismo, implica una piega diversa dell’educazione del Centauro al giovane Giasone: egli comincia a razionalizzare e a sconsacrare. (12)

Centauro:
Ciò che l’uomo, scoprendo l’agricoltura,
ha veduto nei cereali,
ciò che ha imparato da questo
rapporto, ciò che ha inteso dall’
esempio dei semi che perdono
la loro forma sotto terra per
poi rinascere, tutto questo ha
rappresentato la lezione definitiva.
La resurrezione, mio caro.
Ma ora questa lezione definitiva
non serve più. Ciò che tu vedi
nei cereali, ciò che intendi dal
rinascere dei semi è per te senza
significato, come un lontano
ricordo che non ti riguarda più.
Infatti non c’è nessun Dio.
Alla fine la sovrapposizione dei due centauri non li abolisce. Essi sono giustapposti. Il superamento è un’illusione, niente si perde. (13)

E tutto ciò ch’è sepolto è destinato alla resurrezione (ancora, almeno, per un figlio di contadini friulani).
Come un indovino ne sento la consolatrice presenza.
Del resto è poco che ho capito per quale ragione la parola «ritorno» è quella che mi sembra più cara. (14)

Alla fine del film, quando la conclusione è imminente, Giasone si dirige verso la casa di Medea e si sente chiamare per nome. È la voce del Centauro. Ma non è solo. Ce ne sono due contemporaneamente. Uno è il Centauro che Giasone vedeva da bambino, l’altro quello che vede da adulto. Non si tratta di dualismo, né di sdoppiamento. La presenza dei due centauri significa che il sacro, una volta desacralizzato, non scompare per questo. L’essere sacro resta giustapposto all’essere desacralizzato. (15)

Centauro:
Ciò che è sacro si conserva accanto
alla sua nuova forma
sconsacrata. Ed eccoci qua, uno
accanto all’altro. Il vecchio Centauro,
quello che hai conosciuto
da bambino, non parla naturalmente,
perché la sua logica è
così diversa dalla nostra,
che non si potrebbe intendere…
Ma posso parlare io per lui.
È sotto il suo segno che tu —
al di fuori dei tuoi calcoli e della tua interpretazione —
in realtà ami Medea.

Naturalmente, in quanto opera relativamente stratificata, vi si trovano altri significati, per esempio una storia d’amore… Eppure devo dire che scegliendo questa tragedia della «barbarie», dove si vede una madre assassinare i propri figli per amore, è la dismisura di questo amore che mi ha affascinato di più.
In Medea c’è una sorta di conversione a ritroso. Immaginate che San Paolo fosse credente al momento in cui cadde da cavallo e che il suo trauma fosse perdere la fede. Medea è vittima della stessa «folgorazione». Non è che Giasone l’abbia convinta a seguirla; lo fa senza che un ragionamento logico intervenga. Ad un certo punto vede Giasone in visione, e l’irreparabile si scatena. (16)

Fonti
(1) «Ossessione soteriologica», in Medea, Garzanti, Milano, 1970, p. 126.
(2) Il sentimento della storia, «Cinema Nuovo», n. 205, 1970.
(3) Entretien avec P., «Jeune Cinéma» n. 45, marzo 1970, p. 18.
(4) Ivi.
(5) Duflot, p. 111.
(6) Duflot, p. 64.
(7) «Jeune Cinéma», cit., pp. 18–19.
(8) Duflot, pp. 112, 111.
(9) «Jeune Cinéma», cit., p. 19.
(10) Con P.P.P., pp. 91–92.
(11) Duflot, p. 113.
(12) Medea, pp. 30–31.
(13) Duflot, p. 112.
(14) Medea, p. 121.
(15) Duflot, p. 79.
(16) Duflot, pp. 111–12.

Da: Pier Paolo Pasolini, Il cinema in forma di poesia, a cura di Luciano De Giusti, Pordenone, Edizioni cinemazero, 1979, pp. 79–87

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.