Pier Paolo Pasolini su Il Vangelo secondo Matteo

Mario Mancini
11 min readFeb 27, 2021

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Bisogna esporsi (questo insegna
il povero Cristo inchiodato?),
la chiarezza del cuore è degna
di ogni scherno, di ogni peccato
di ogni più nuda missione… (1)

Ho letto il Vangelo e, leggendo, quell’aumento di vitalità, che dà la lettura di una grande opera come appunto è il Vangelo, mi ha suggerito l’idea di farci un film. (2)

La mia idea è questa: seguire punto per punto il Vangelo secondo San Matteo, senza farne una sceneggiatura o una riduzione. Tradurlo fedelmente in immagini, seguendone senza una omissione o un’aggiunta il racconto. Anche i dialoghi dovrebbero essere rigorosamente quelli di San Matteo, senza nemmeno una frase di spiegazione o di raccordo: perché nessuna immagine o nessuna parola inserita potrà mai essere all’altezza poetica del testo.

È questa altezza poetica che così ansiosamente mi ispira. Ed è un’opera di poesia che voglio fare. Non un’opera religiosa nel senso corrente del termine, né un’opera in qualche modo ideologica. (3)

Il mio interesse principale, il mio obiettivo non era la storia, ma il mito. (4)

Per quanto la mia visione del mondo sia religiosa, io non credo alla divinità di Cristo. Esteriormente il mio film può destare le reminiscenze dei cattolici che possono ancora interessarsi alla vita di Cristo. Ma se si va più a fondo, non ho fatto una ricostruzione secondo l’iconografia che la maggior parte dei cristiani se ne fanno. Ho fatto un film dove espongo attraverso un personaggio tutta la mia nostalgia del mitico, dell’epico e del sacro. (5)

Inoltre: per me la bellezza è sempre una «bellezza morale»; ma questa bellezza giunge sempre a noi mediata: attraverso la poesia, o la filosofia, o la pratica: il solo caso di «bellezza morale» non mediata, ma immediata, allo stato puro, io l’ho sperimentata nel Vangelo.

Quanto al mio rapporto «artistico» col Vangelo, esso è abbastanza curioso: tu forse sai che, come scrittore nato idealmente dalla Resistenza, come marxista ecc., per tutti gli anni Cinquanta il mio lavoro ideologico è stato verso la razionalità, in polemica coll’irrazionalismo della letteratura decadente (su cui mi ero fermato e che tanto amavo). L’idea di fare un film sul Vangelo, e la sua intuizione tecnica, è invece, devo confessarlo, frutto di una furiosa ondata irrazionalistica. Voglio fare pura opera di poesia, rischiando magari i pericoli dell’esteticità (Bach e in parte Mozart, come commento musicale: Piero della Francesca e in parte Duccio per l’ispirazione figurativa; la realtà, in fondo preistorica ed esotica del mondo arabo, come fondo e ambiente). Tutto questo rimette pericolosamente in ballo tutta la mia carriera di scrittore, lo so. Ma sarebbe bella che, amando così svisceratamente il Cristo di Matteo, temessi poi di rimettere in ballo qualcosa. (6)

Nulla mi pare più contrario al mondo moderno di quella figura: di quel Cristo mite nel cuore, ma «mai» nella ragione.

Seguendo le accelerazioni stilistiche di Matteo alla lettera, la funzionalità barbarico-pratica del suo racconto, l’abolizione dei tempi cronologici, i salti ellittici della storia con dentro le «sproporzioni» delle stasi didascaliche (lo stupendo, interminabile, discorso della montagna), la figura di Cristo dovrebbe avere, alla fine, la stessa violenza di una resistenza: qualcosa che contraddica radicalmente la vita come si sta configurando all’uomo moderno, la sua grigia orgia di cinismo, ironia, brutalità pratica, compromesso, conformismo, glorificazione del propria identità nei connotati della massa, odio per ogni diversità, rancore teologie senza religione. (7)

Non è una vita di Cristo, non ho messo insieme i Vangeli e fatto una sceneggiatura della vita di Cristo come si è fatto già altre volte, no, è proprio Vangelo secondo S. Matteo rappresentato così come esso è; non ho aggiunto una battuta e non ne ho tolta nessuna, seguo l’ordine del racconto tale qua come in S. Matteo, con dei tagli narrativi di una violenza e di una epicità quasi magiche presenti nel testo stesso del Vangelo, per cui questo film sarà stilisticamente una cosa piuttosto strana. Infatti a grandi pezzi da film muto e per lunghi tratti i personaggi non parlano, ma devono rappresentare quello che dicono soltanto attraverso i gesti e le espressioni come si faceva nei film muti — seguono momenti invece in cui per venti minuti di seguito Cristo parla. Sai un film di tipo, senza volerlo, molto vicino a quello stile magmatico che è in fondo sempre tipico dei miei racconti. Cioè ritorno stilisticamente al magmi mi libero delle forme chiuse, degli elementi di sceneggiatura normale ecc. ecc. con questa ispirazione di tipo religioso e ideologico che spero dia unità e compattezza all’opera. (8)

Il segno sotto cui io lavoro è sempre la contaminazione. (9)

Ho rinunciato nel film a qualsiasi tipo di ricostruzione realistica o naturalistica. La regola che ha dominato la produzione del film è stata la regola dell’analogia. Ho trovato cioè ambientazioni che non erano ricostruzioni, ma erano analoghe a quelle dell’antica Palestina. Così per i personaggi: non ho ricostruito personaggi, bensì ho cercato di trovare individui che fossero analoghi. (10)

Avevo continuamente bisogno di un riferimento alla vita attuale, in modo che mai niente fosse storicamente ricostruito, ma sempre riferito alla nostra esperienza storica. Non il passato mascherato da presente, ma il presente mascherato da passato. Così per i soldati romani durante la predicazione gerosolimitana di Cristo ho dovuto pensare alla Celere, per i soldati di Erode prima della strage degli innocenti ho dovuto pensare alla teppaglia fascista. Giuseppe e la Madonna profughi mi sono stati suggeriti dai profughi di tanti drammi analoghi del mondo moderno. (11)

In Accattone il mio stile era già religioso, sacrale. Quando ho iniziato il Vangelo ho pensato di avere la formula giusta già pronta, ed ho cominciato a girarlo con la stessa tecnica e lo stesso stile che avevo usato per Accattone. Ma dopo due giorni ero in completa crisi. (12)

Un Cristo frontale, ripreso col 50 o il 75, accompagnato da brevi e intense panoramiche, diventava pura enfasi: una riproduzione. Sbagliando così, ho girato, per prima, l’intera scena di Getsemani e dell’arresto. Che poi ho potuto solo in parte rigirare e che quindi porta indelebile il segno di quel mio primo errore: quando ora quella scena passa sullo schermo — per quanto corretta e accomodata in montaggio — me ne vergogno selvaggiamente.

Il torrentello, il Chia, che fungeva da Giordano, era circondato da burrati ariosteschi: mi sono arrampicato con l’eroico Delli Colli e l’Arriflex munita con un becco di pancinor, sopra quei burrati, e da lì, zumando, ho ripreso i gruppi, le figure intere, i primi piani. Ogni frontalità era sconvolta, ogni ordine, ogni simmetria: irrompevano il magmatico, il casuale, l’asimmetrico: le facce non potevano più essere viste di fronte e al centro dell’inquadratura, ma si presentavano così come capitava, in tutti gli scorci possibili e sempre eccentriche nel fotogramma.

La crisi tecnica iniziale mi si è rivelata come dovuta al fatto che io non sono credente, e che quindi per raccontare una storia in cui non credevo non potevo che guardarla «attraverso gli occhi di un altro» — e ciò mi ha portato a una tecnica magmatica, da «cinema di poesia», dovuta alla contaminazione fra il mio modo di vedere e quello di un ideale credente. (13)

Ne è emerso uno stile completamente nuovo. Lo stile del Vangelo è molto vario: combina il reverenziale con momenti quasi documentaristici, una severità quasi classica con momenti che sono quasi godardiani — ad esempio, i due processi di Cristo, girati come cìnéma verité. (14)

Oggi a film montato mi trovo di fronte a tutta un’altra cosa: a un film tecnicamente dalla inaspettata purezza di tratti che livella beatamente tutte le mie punte magmatiche. (15)

Il S. Matteo dovrebbe essere secondo me un violento richiamo alla borghesia stupidamente lanciata verso un futuro che è la distruzione dell’uomo, degli elementi antropologicamente umani, classici e religiosi dell’uomo. (16)

Ho amato, alla fine degli anni quaranta, la religione rustica dei contadini friulani, le loro campagne, i loro vesperi. Ma cosa c’entrava lì il cattolicesimo? Sono diventato comunista ai primi scioperi dei braccianti friulani, nell’immediato dopoguerra: e da allora tutta la mia angolazione culturale e le mie letture sono state marxiste.

Forse è appunto perché sono così poco cattolico, che ho potuto amare il Vangelo e farne un film: non ho dentro di me le resistenze interne contro la religione che inibiscono un marxista che sia stato veramente un borghese cattolico. (17)

Eppure, Chiesa, ero venuto a te.
Pascal e i Canti del Popolo Greco
tenevo stretti in mano, ardente, come se

il mistero contadino, quieto
e sordo nell’estate del quarantatre,
tra il borgo, le viti e il greto

del Tagliamento, fosse al centro
della terra e del cielo;
e lì, gola, cuore e ventre

squarciati sul lontano sentiero
delle Fonde, consumavo le ore
del più bel tempo umano, l’intero

mio giorno di gioventù, in amori
la cui dolcezza ancora mi fa piangere…
Tra i libri sparsi, pochi fiori

azzurrini, e l’erba, l’erba candida
tra le saggine, io davo a Cristo
tutta la mia ingenuità e il mio sangue.

Fu una breve passione. Erano servi
quei padri e quei figli che le sere
di Casarsa vivevano, così acerbi.

per me, di religione: le severe
loro allegrezze erano il grigiore
di chi, pur poco, ma possiede;

la chiesa del mio adolescente amore
era morta nei secoli, e vivente
solo nel vecchio, doloroso odore

dei campi. Spazzò la Resistenza
con nuovi sogni il sogno delle Regioni
Federate in Cristo, e il dolceardente

suo usignolo… Nessuna delle passioni
vere dell’uomo si rivelò
nelle parole e nelle azioni

della Chiesa. […]
Guai a chi non sa che è borghese
questa fede cristiana, nel segno

di ogni privilegio, di ogni resa,
di ogni servitù; che il peccato
altro non è che reato di lesa

certezza quotidiana, odiato
per paura e aridità; che la Chiesa
è lo spietato cuore dello Stato. (18)

Fonti

(1) «La crocifissione», in L’usignolo della Chiesa cattolica

(1943–1949), Torino, Einaudi, p. 85.

(2) Una visione…, p. 36.

(3) Il Vangelo…, pp. 16–17.

(4) «Filmcritica» n. 156–157, 1965, ora in Con Pier Paolo Pasolini, a cura di E. Magrelli, Roma, Bulzoni, 1977, p. 64.

(5) Duflot, pp. 26–27.

(6) Lettera al produttore A. Bini, in Il Vangelo…, p. 20.

(7) «Il Giorno», 6–3–1963, ora in Il Vangelo…, pp. 14–15.

(8) Una visione…, p. 36.

(9) Ivi, p. 32.

(10) Intervista di J. Blue, in «Film Comment», 1965, p. 26.

(11) «Confessioni tecniche», in Uccellacci e uccellini, cit., p. 49.

(12) Stack, p. 83.

(13) «Confessioni tecniche», pp. 46, 52.

(14) Stack, p. 84.

(15) «Confessioni tecniche», p. 47.

(16) Una visione…, p. 36.

(17) «Vie Nuove» n. 43, 22–10–1964, ora in Le belle bandiere, pp. 254–55.

(18) «La religione del mio tempo», in P.P.P., Le Poesie. Milano, Garzanti, 1965, pp. 219–22.

Da: Pier Paolo Pasolini, Il cinema in forma di poesia, a cura di Luciano De Giusti, Pordenone, Edizioni cinemazero, 1979, pp. 41–46

Una carica di vitalità

Mi secca molto dover parlare di un libro di duemila anni fa: mi sembra di essere un poeta ermetico, o una poetessa, o un professore che tiene una rubrica alla televisione. Parlare come di un’ultima lettura di un libro di duemila anni fa è sempre qualcosa che rende molto rispettabili, «grandi», o almeno partecipi della grandezza. Ma, per quel che mi riguarda, è stato un puro caso. Ho riletto, per la quinta o la sesta volta in queste ultime settimane, il Vangelo secondo Matteo, per ragioni di lavoro. Infatti devo cominciare a trasporre il testo — senza la mediazione della sceneggiatura, ma così com’è, come se fosse già una sceneggiatura pronta — in un testo inalterato letteralmente, ma tecnicizzato. Per es.:

1 — F.I. di Maria, vicina a essere madre.

2 — P.P. o P.P.P. di Maria che guarda addolorata, umile, vergognosa.

3 — P.P. o P.P.P. di Giuseppe che ricambia lo sguardo addolorato, ma rigido, severo.

4 — F.I. di Giuseppe che si allontana in PAN. dalla stanzetta.

5 — F.I. di Giuseppe che sempre in PAN. cammina lungo l’orto (o un piccolo brolo, o un vigneto) e si distende sotto un albero.

6 — P.P. di Giuseppe, che stanco, dolente chiude gli occhi, e dorme.

7 — F.I. dell’angelo che gli appare, dicendo: «Giuseppe, figliol di Davide, non temere di prender teco Maria, tua moglie…».

È la lettura migliore che si possa fare di un testo. Una analisi che mai stilista poté prevedere, quale studio della funzionalità dei lacerti, del potere di visualizzazione dei brani anche connettivi, degli elementi «acceleranti», oltre che di quelli «ritardanti», studiati da Spitzer (il san Matteo è pieno di queste accelerazioni stilistiche, l’ellissi e la sproporzione sono le sue caratteristiche romantico-barbariche) ecc. ecc.

Perché io abbia cominciato un simile lavoro, poi, sarebbe un discorso ben più lungo, è facile immaginarlo. Dirò solo un fatto (sempre tecnico: e chi ha orecchi per intendere, intenda): appena finita la prima lettura del Vangelo secondo Matteo (un giorno di questo ottobre, ad Assisi, con intorno attutita, estranea, e, in fondo, ostile, la festa per l’arrivo del Papa), ho sentito subito il bisogno di «fare qualcosa»: una energia terribile, quasi fisica, quasi manuale.

Era l’«aumento di vitalità» di cui parlava Berenson — e ora nozione tanto cara alla mia «cerchia»: Soldati, Bassani, Bertolucci, Moravia… — l’aumento di vitalità che si concreta generalmente in uno sforzo di comprensione critica dell’opera, in una sua esegesi: in un lavoro, insomma, che la illustri, e trasformi il primo impeto pregrammaticale d’entusiasmo o commozione in un contributo logico, storico. Cosa potevo fare io per il san Matteo? Eppure qualcosa dovevo fare, non era possibile restare inerti, inefficienti, dopo una simile emozione, che, così esteticamente profonda, poche volte mi aveva investito nella vita. Ho detto «emozione estetica».

E sinceramente, perché sotto questo aspetto si è presentato, prepotente, visionario, l’aumento della vitalità. La mescolanza, nel testo sacro, di violenza mitica (ebraica, in un senso quasi razzistico e provinciale della parola) e di cultura pratica, quella entro cui Matteo, alfabeta, non poteva non operare, proiettava nella mia immaginazione una doppia serie di mondi figurativi, spesso connessi fra loro: quello fisiologico, brutalmente vivente, del tempo biblico come mi era apparso nei viaggi in India o sulle coste arabiche dell’Africa, e quello ricostruito dalla cultura figurativa del Rinascimento italiano, da Masaccio ai manieristi neri.

Pensate alla prima inquadratura, alla «F.I. di Maria, vicina a essere madre»: si può sfuggire alla suggestione della Madonna di Piero della Francesca a San Sepolcro? Quella bambina, di pelo biondo, o forse appena rossiccio, quasi senza ciglia, le palpebre gonfie, il ventre appuntito il cui profilo ha la stessa castità del profilo di un colle appenninico? E subito dopo, l’orto, o il brolo, in cui Giuseppe si raccoglie a riposare, non è uno di quegli spiazzi polverosi, rosa, con capre rosse, che ho visto nei villaggi egiziani intorno a Assuan, o ai piedi dei vulcani violetti di Aden?

Ma, ripeto, questo era l’aspetto esterno, stupendamente visuale, dell’aumento di vitalità. Nel fondo c’era qualcosa di più violento ancora, che mi scuoteva.

Era la figura di Cristo come lo vede Matteo. E qui col mio vocabolario estetico-giornalistico dovrei fermarmi. Vorrei però soltanto aggiungere che nulla mi pare più contrario al mondo moderno di quella figura: di quel Cristo mite nel cuore, ma «mai» nella ragione, che non desiste un attimo dalla propria terribile libertà come volontà di verifica continua della propria religione, come disprezzo continuo per la contraddizione e per lo scandalo.

Seguendo le «accelerazioni stilistiche» di Matteo alla lettera, la funzionalità barbarico-pratica del suo racconto, l’abolizione dei tempi cronologici, i salti ellittici della storia con dentro le «sproporzioni» delle stasi didascaliche (lo stupendo, interminabile discorso della montagna), la figura di Cristo dovrebbe avere, alla fine, la stessa violenza di una resistenza: qualcosa che contraddica radicalmente la vita come si sta configurando all’uomo moderno, la sua grigia orgia di cinismo, ironia, brutalità pratica, compromesso, conformismo, glorificazione della propria identità nei connotati della massa, odio per ogni diversità, rancore teologico senza religione.

(1963)

Da Pasolini per il cinema, Milano, Mondadori (Meridiani), pp. 671–674

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.