Pier Paolo Pasolini su Il Decameron
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Non Correggio, forse: ma di certo il gusto
del dolce e grande manierismo
che tocca col suo capriccio dolcemente robusto
le radici della vita vivente: ed è realismo… (1)
Non sono io che ho scelto Il Decameron, è Il Decameron che ha scelto me.
Era chiaro che con Medea avevo toccato il fondo di una ricerca cominciata con Teorema e continuata con Porcile, ma le radici morali e allegoriche erano già presenti nel mio Edipo e in Uccellacci e uccellini. Cosa si fa quando si tocca il fondo? Si risale e si ricomincia se si ha la forza di farlo.
Per quanto riguarda Il Decameron, è l’inizio, certo prematuro, della vecchiaia, che mi ha dato questa forza.
Durante la vecchiaia, il fatto di avere un domani sempre più breve, ti permette finalmente di vivere secondo l’insegnamento del Vangelo, cioè senza pensare al domani.
Il mio stile, sempre eccessivo, ha trovato il modo di diventare medio. Oh certo, non sono arrivato e non arriverò mai al razionalismo e alla salute del Boccaccio. Purtroppo, non arriverò mai alla grandezza del pessimismo laico che permette di amare sanamente la vita, senza alibi della coscienza, senza pretesti. Non bisogna credere in niente per gioire di tutto. (2)
L’esorcizzazione della passione ha prodotto una gran voglia prima di sorridere (magari atrocemente, come in Porcile), poi più cordialmente, fino a farsi vera e propria voglia di ridere: è stata una gran voglia di ridere che ha ispirato Il Decameron.
La gran voglia di ridere nasce dal definitivo accantonamento della «speranza», come e sempre retorica. Sono privo, praticamente e ideologicamente, di ogni speranza. Quindi di giustificazioni, di possibilità di alibi, di procrastinazioni.
Finalmente, vivendo come gli uccelli del cielo e i gigli dei campi, cioè non occupandomi più del domani (che non sarà una sintesi, ma una nuova opposizione) mi godo un po’ di libertà e di vita (quest’ultima l’ho tutta molto goduta specie nel campo erotico, ma dissociandomi).
Dunque il mio atteggiamento con la realtà, sì, è «crudelmente edonistico»; ed effettivamente ne Il Decameron che sto finendo, il narrare è ontologico: si narra per il gusto di narrare, o si rappresenta per il gusto di rappresentare. Cosa si narra e si rappresenta? Qualcosa che non c’è più: uomini, sentimenti, cose. Non c’è, dico, storicamente; esistenzialmente sopravvive (il popolo di Napoli).
Godere la vita (nel corpo) significa appunto godere una vita che storicamente non c’è più: e il viverla è dunque reazionario. Io pronuncio da qualche tempo proposizioni reazionarie. E sto pensando a un saggio intitolato «Come recuperare alla rivoluzione alcune affermazioni reazionarie?».
Quanto al mito, è la mia relazione col mondo che è mitica: quindi anche nello «stile medio», che ho adottato per il Decameron (rivoluzionariamente rispetto alle mie opere precedenti) persiste quel certo silenzio… (3)
Ho detto che il senso di questo film è l’ontologia della realtà, il cui simbolo nudo è il sesso. (4)
Ho scelto in Boccaccio i racconti che amavo di più, quelli che rileggevo con sempre più vivo piacere, in cui si trova una sorta di equilibrio naturale tra il tragico e il comico-burlesco. (5)
In realtà con questo film non solo ho giocato; ma ho capito che è cinema è gioco, cosa semplicissima, che mi ci sono voluti dieci film per capire.
Nel Decameron io ho girato come so e come voglio girare: più che mai nel mio stile. Ma mentre in Porcile e Medea il mio gioco era atroce, ora esso è lieto, stranamente lieto. Un’opera lieta (fatta con tanta serietà, naturalmente) mi sembra contraddire ad ogni aspettativa, è una disobbedienza completa. (Ma può darsi che io stia mentendo).
Ma col Decameron (almeno nel girarlo) non si tratta più di umorismo e di distacco dalla materia: si tratta proprio di gioco, ti ripeto. Si vede che la perdita di fede (che è sempre stupida) mi ha dato inizialmente un trauma; ma poi, con la perdita totale della fede (nella storia, s’intende) ho ritrovato una gaiezza, sì, una gaiezza che non ho mai avuto, e quindi non ho mai perduto.
«Io sono una forza del Passato» ho detto nella Ricotta, facendo leggere a Orson Welles dei miei versi (li doppiava Bassani). Lo sono diventato sempre più.
Come vedi, gioco. Ma giocando mi distinguo da una realtà che non mi piace più: nel Decameron gioco una realtà che mi piace ancora ma che nella storia non c’è più. Ho scelto Napoli per il Decameron perché Napoli è una sacca storica; i napoletani hanno deciso di restare quello che erano, e, così, di lasciarsi morire.
Ebbene io (come tutti i registi) per una decina d’anni ho così violentato la gente, «adoperandola»; e ho tacitato la mia coscienza con la scusa dell’arte (o del cinema d’autore).
Solo col Decameron ho fatto tutto questo come un «gioco». Ho fatto «giocare» gli attori: come dicono i francesi, sistemando definitivamente la cosa. Dire a Sandro Penna: «Vieni qui, divertiamoci, infilati questo buffo costume disegnato da Danilo Donati, presta il mistero non effabile della tua presenza fisica a un mitico Giotto rievocato per gioco, fallo rivivere nel tuo corpo, vedrai come ci divertiremo, dietro le quinte!». Oppure dire al bibitaro di Mergellina: «Ueeh, guagliò, vieni qui, indossa questi bei panni di feltro e d’oro, recita, presta il tuo usignolo, così vivo, a un certo Riccardo, morto da tanti secoli, facciamo insieme questo bel gioco». Non è chi non veda come il cinema, inteso così, venga a rassomigliare in modo straordinario a quel rito sublime che è stato nei secoli passati il teatro. Non ho preteso nel Decameron di esprimere là realtà con la realtà, gli uomini con gli uomini, le cose con le cose, per farne un’opera d’arte, ma semplicemente per «giocare», appunto, con la realtà che scherza con se stessa. Malgrado la violenza non effabile della realtà che passa a palate sullo schermo, il Decameron si presenta, credo per la prima volta nella mia carriera, come un film recitato.
Sì. Strano a dirsi «giocare» al cinema vuol dire essere professionisti e fare del realismo. Tutto ciò che ho ricostruito nel Decameron, costumi e ambienti, l’ho voluto ricostruire il più realisticamente possibile.
In seguito a tutto ciò, si è stabilita una complicità amichevole, per la prima volta, tra me e gli attori.
Abbiamo fatto amicizia sul «set» come compagni di viaggio in un vagone di seconda, dopo aver bevuto insieme un bicchiere di vino. Avevo, si vede, la coscienza pulita nei loro riguardi: non li adoperavo per un’opera (d’arte!) estranea a loro, per poi buttarli a mare: ma giocavo con loro, e giocando ci siamo divertiti, e divertendoci ogni estraneità è sparita. Se dovessimo rincontrarci, per le strade di Napoli, ci rincontreremmo come vecchi amici. (6)
Quando Accattone e Mamma Roma erano film di contestazione sociale, espressione della volontà di presa di coscienza, tanto il Decameron rappresenta la mia nostalgia di un popolo ideale, con la sua miseria, la sua assenza di coscienza politica (è terribile dirlo, ma è vero), di un popolo che ho conosciuto quando ero bambino. Forse esiste ancora nel ventre di Napoli. Nel frattempo si è avuta in Italia, in sei-sette anni, l’insediamento di una società industriale. Ma ciò è stato così rapido che non abbiamo potuto rendercene conto nell’immediato. Nemmeno i letterati, del resto. (7)
Tra le undici novelle rappresentate nel mio film c’è la novelletta su Giotto: dovevo quindi scegliere l’interprete di Giotto. Dopo molte angosce la mia scelta era caduta su Penna, Sandro Penna, il nostro più grande poeta vivente. Come sai. Penna è un po’ matto, e i suoi rapporti con la vita pratica sono i più liberi che io conosca (egli è schiavo solo delle sue abitudini così libere).
Ero a Caserta Vecchia, nel pieno del lavoro, che sembra sempre impossibile, quando, dopo una serie di esasperanti telefonate (che del resto non hanno fatto altro che aumentare il mio amore di innamorato infelice per lui). Penna ha fatto il gran rifiuto.
Mancavano tre giorni alla data fissata dall’implacabile «piano di lavorazione» per girare l’episodio giottesco. Che fare? Ho pensato a Volponi: anche con Volponi, Giotto avrebbe mantenuto, rispetto all’autore, la stessa distanza degli altri personaggi, sarebbe rientrato nel «tutto oggettivo», di un’opera sospesa nel cielo come un solenne e comico pallone. All’ultimo giorno anche Volponi mi dice di no. Ah, vicissitudini di un povero regista!
Già da qualche giorno Sergio Cittì, che privo di orgoglio piccolo-borghese, da regista di Ostia era di nuovo retroceduto al rango di assistente, faceva il mio nome: e io, in cuor mio, sapevo che non c’era altra scelta. (8)
Ho recitato la parte di un autore alt-italiano, che proviene quindi dall’Italia storica, e scende a Napoli ad affrescare (appunto secondo questa ontologia della realtà) le pareti della chiesa di S. Chiara. E, infatti, io sono uno scrittore dell’alt’Italia e della parte storica italiana, che va a Napoli a fare un film realistico. Quindi, c’è un’analogia tra il personaggio e l’autore. Quindi, c’è dentro l’opera, diciamo così, l’opera nell’opera. Cioè c’è un distacco critico, che nelle mie prime intenzioni non c’era. (9)
Cosa significa la mia presenza nel Decameron? Significa aver ideologizzato l’opera attraverso la coscienza di essa: coscienza non puramente estetica, ma, attraverso il veicolo della fisicità, cioè di tutto il mio modo di esserci, totale. Non ti dico le parole pronunciate da me, con cui finisce il film, perché voglio che siano una piccola sorpresa: ma in esse l’opera si ironizza, e diviene un’esperienza particolare, non mitizzata. (10)
Fonti
(1) «La Guinea», in Poesia in forma di rosa, pp. 11.
(2) C’est le Decameron qui m’a choisi, «La Galerie», n. Ili, die. 1971, p. 88.
(3) Con P.P.P., pp. 94, 99–100.
(4) «Cinema 60» n. 87–88, genn.-apr. 1972.
(5) Rencontre avec P., «Cinéma», 164, marzo 1972, p. 58.
(6) Io e Boccaccio, intervista di Dario Bellezza, «L’Espresso», 22–11–1970.
(7) Intervista di Gérard Langlois, cit. in Gervais, p. 148.
(8) Io e Boccaccio, cit.
(9) «Cinema 60», cit.
(10) Io e Boccaccio, cit.
Da: Pier Paolo Pasolini, Il cinema in forma di poesia, a cura di Luciano De Giusti, Pordenone, Edizioni cinemazero, 1979, pp. 88–94