Pier Paolo Pasolini su I Racconti di Canterbury

Mario Mancini
12 min readMar 9, 2021

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Il fotogramma finale de I Racconti di Canterbury

Nella misura in cui il senso della terra corrisponde a un radicamento terreno dovuto alle mie origini sociali, alla mia estrazione contadina, approvo interamente questa attrazione che si manifesta; ma nel momento in cui io lo ideologizzo, sono consapevole di esprimere qualcosa di tradizionalista e reazionario. Forse la vera scelta si situa a livello della sensibilità, forse bisognerebbe che ammettessi che in qualche modo non riesco a sopportare la realtà vera. Molto semplicemente, sono allergico alla civiltà tecnologica, al nostro mondo troppo razionale. E allora che cosa mi resta se non esprimere il riflesso del passato? (1)

Finora ho sempre avuto dei pretesti ideologici per fare dei film; con questa trilogia i miei pretesti sono di ordine ontologico. Forse questo è dovuto al mio invecchiamento. Quando si è giovani si ha maggiormente bisogno di ideologia per vivere. Con la vecchiaia la vita diventa più corta e basta a se stessa. Non ho più problemi di futuro avendo capito che il futuro è come l’oggi. Questa trilogia è una dichiarazione d’amore alla vita. (2)

Amo ferocemente, disperatamente la vita. E credo che questa ferocia, questa disperazione mi porteranno alla fine. Amo il sole, l’erba, la gioventù. L’amore per la vita è divenuto per me un vizio più micidiale della cocaina. Io divoro la mia esistenza con un appetito insaziabile. Come finirà tutto ciò? Lo ignoro. (3)

Ho raccontato queste storie puramente per il piacere di raccontarle. Il piacere di raccontare storie implica un giocare con ciò che si narra, e questo giocare implica una certa libertà riguardo alla materia. Questa libertà di fronte alla materia richiede che la ricostruzione di Chaucer sia di fantasia, e che non debba essere usata come pretesto per una ricostruzione del periodo storico. La storia in questo film è strettamente di fantasia. Perciò devo dimenticare Chaucer per poter fare il film come un mio gioco di fantasia, un mio gioco personale come autore. (4)

Quando ho girato Canterbury era un periodo molto particolare, ero molto, molto, molto infelice, non ero adatto per una trilogia nata all’insegna della spensieratezza, dello «stile medio», del sogno, e anche del comico, per quanto astratto. E forse se non fossi stato così infelice, non mi sarebbe venuto in mente di citare Chaplin così apertamente, con bastoncino e cappello. Devo anche dire che il mondo che ho trovato in Inghilterra, quando giravo Canterbury, era molto diverso: a Napoli e nell’Oriente non avevo confini, potevo scatenare intorno a me questo linguaggio della terra, delle cose, delle case, dei vulcani, delle palme, delle ortiche e soprattutto della gente. Invece in Inghilterra quel mondo è ritagliato dalla mania di un bambino, e le persone che sceglievo appartenevano a un mondo ormai storicizzato, borghese, e questa costrizione pesava sul mio stato d’animo. (5)

Solo in apparenza manca ai miei ultimi film uno spessore politico. Il mondo che in essi si agita è quello che prediligo, le idee che circolano sono quelle cui ho improntato tutta la mia vita, la scelta che getto in faccia al pubblico è quella autentica, contrapposta all’irrealtà cui il cinema consumistico e la televisione hanno assuefatto gli spettatori. Avere scelto un diverso tipo di espressione credo sia un mio diritto. Gli elementi che hanno concorso a farmi compiere questa scelta sono molteplici. La polemica contro un cinema facilmente politico, che volgarizza e semplifica i problemi, e serve soprattutto a tacitare la cattiva coscienza della borghesia; la voglia di tentare qualcosa di nuovo e di provare piacere nel farlo; la trasformazione psicologica e l’evoluzione biologica di un uomo connessa con il passare degli anni, la caduta delle illusioni, quelle di cui — a vent’anni — crede di poter rifare il mondo: adesso ho imparato che occorre continuare a lottare per ciò in cui si crede senza speranza di vincere. (6)

Quando definisco il film come fatto concreto, come azione, non intendo riferirmi al film come azione politica, come intendono quei gruppi che vorrebbero utilizzare i film solo come azione immediata, ma intendo azione nel senso più ampio. Per me la caratteristica principale dei film che faccio è quella di far passare dinanzi allo schermo qualcosa di «reale» a cui lo spettatore è ormai disabituato. La televisione ha così codificato un genere di «irrealtà» che a volte persino lo stesso genere western dei comuni film commerciali, sembra impiegare modelli meno banali di quelli stereotipati che presenta la televisione. Il modello umano televisivo è, sempre più, il piccolo borghese, l’ipocrita, il conformista. La mia ambizione nel fare film è fare film che siano politici in quanto profondamente «reali» nelle loro intenzioni, nella scelta dei personaggi, in quello che dicono e in quello che fanno. Da qui il mio rifiuto del film politico romanzato. La cosa meno graduale di questi ultimi anni sono proprio i film di moda politici, questi film politico-romanzati, che sono i film delle mezze verità, della realtà-irrealtà consolatoria e falsa.

È una moda che mette a posto le coscienze e che invece di suscitare polemiche le assopisce. Quando lo spettatore non ha dubbi e sa subito, secondo la propria ideologia, individuare da quale parte stare nel film, allora vuol dire che tutto è tranquillo: ma questa è finzione. Nei miei film evito la finzione. Non faccio niente di consolatorio, non cerco di abbellire la realtà, per rendere più appetibile la mercanzia: scelgo attori reali per cui basta la stessa loro presenza fisica a dare questo sentimento di realtà. Non ho scelto i personaggi del Decameron per caso ma per offrire esempi di realtà. Un personaggio del Decameron è esattamente il contrario di un personaggio che si vede nei programmi televisivi o nei cosiddetti film consolatori. Questo per restare solo sul piano dell’idea figurativa. Dal Decameron in poi è questo che conta maggiormente, questa fisicità del personaggio, che si impone mentre in Accattone era presente anche una tesi ideologica che è durata sino a Uccellacci e uccellini. Adesso, preferisco muovermi nel passato proprio perché ritengo che l’unica forza contestatrice del presente sia proprio il passato: è una forma aberrante ma tutti i valori che sono stati i valori nei quali ci siamo formati, con tutte le loro atrocità, i loro lati negativi, sono quelli che possono mettere in crisi il presente. E allora amo questa ricostruzione del passato, di psicologie che, al presente, non sono più reali, perché i personaggi del Decameron esistono ancora, ma sono rari, sopravvissuti. (7)

Io collego queste storie col rimpianto che provo per la perdita del mondo del passato. Sono un uomo disincantato. Sono sempre stato in lotta con la società. L’ho combattuta, ed essa mi ha perseguitato, ma mi ha anche dato un po’ di successo. Ora non l’amo più. Non mi piace il suo modo di vita, la sua qualità della vita. E così rimpiango il passato. Alla mia età, a questo punto della vita, suppongo sia quasi convenzionale.

Ho scelto le storie che erano realistiche in senso poetico piuttosto che fantastiche o mitologiche. Chaucer sta a cavallo di due epoche. C’è qualcosa in lui di medievale e di gotico, la metafisica della morte. (8)

La morte, l’aldilà, è sempre presente; una morte, però, medievale, quindi profondamente allegorica e allo stesso momento volgare fino all’abiezione. (9)

Chaucer ha ancora un piede nel Medioevo, ma non appartiene al «popolo», anche se ha preso le sue storie dal popolo. Lui è già un borghese. Lui guarda alla rivoluzione protestante, nel modo in cui le due cose erano combinate in Cromwell. Ma mentre Boccaccio, per esempio, che pure era un borghese, aveva la coscienza tranquilla, con Chaucer c’è già una sorta di tristezza, una coscienza triste. (10)

Fonti

(1) Duflot, p. 88.

(2) Intervista a cura di G. Langlois, in Gervais, p. 147.

(3) «Lui», giugno 1970, cit. in Lo Scandalo Pasolini, a cura di F. di Giammatteo, Bianco e Nero, Roma, 1977, p. 26.

(4) Conferenza-stampa al Festival di Berlino 1972, cit. in «Jeune Cinéma», n. 68, febbr. 1973.

(5) Con P.P.P., p. 111.

(6) «La Stampa», giugno 1972, cit. in Lo Scandalo Pasolini, p. 26.

(7) Con P.P.P., pp. 104–6.

(8) Intervista di Rosamund Lomax e Oswald Stack, «Seven Days», 17–11–1971.

(9) Boccaccio a spasso nei pub di Londra, intervista di Lia Quilici, «L’Espresso», 11–7–1971.

(10) Intervista di R. Lomax e O. Stack, cit.

Da: Pier Paolo Pasolini, Il cinema in forma di poesia, a cura di Luciano De Giusti, Pordenone, Edizioni cinemazero, 1979, pp. 95–101

Africa… unica mia alternativa! P.P.P.

Libertà e sesso secondo Pasolini

Al Decameron è seguita una lunga serie di film che non soltanto lo imitavano, ma cercavano (e ci riuscivano, presso il grande pubblico) di esserne delle perfette contraffazioni; di passare per i suoi «seguiti»; di riprodurne, insomma l’autenticità. Si trattava dunque di vere e proprie truffe o sofisticazioni. La stessa cosa è successa ai Racconti di Canterbury (e addirittura alle Mille e una notte, che devo ancora girare, per esempio, con un Finalmente le Mille e una notte). Insomma la concorrenza è stata ed è continua, sleale, sfacciata, brutale. Una torma di sciacalli ha seguito il Decameron e segue ora i Racconti di Canterbury, valendosi di metodi che dovrebbero essere inconcepibili in una società appena civile. E, del resto, sono inconcepibili: nessuno di noi potrebbe concepire infatti che uscisse un prodotto chiamato «Agip n. 2», oppure «Finalmente Fiat» (col «finalmente» in caratteri molto piccoli).

Ma questo è il lato puramente commerciale o concorrenziale della faccenda.

C’è molto di peggio, ai danni non solo dell’autore dei prodotti primi — del Decameron, dei Racconti di Canterbury — ma naturalmente anche del pubblico. Infatti l’equivoco non riguarda solo l’autenticità, ma anche la qualità dell’opera.

La gente — e purtroppo era molta che, incontrandomi per strada, mi chiedeva del Decameron n. 2 o del Decameron proibito attribuendomene la paternità — credeva anche che la «qualità» delle opere fosse la stessa (benché, magari, le opere inaugurali gli paressero «riuscite meglio»). Ciò è umiliante per me, ma anche per quegli innocenti. Non si può pretendere dai singoli spettatori che formano il grande pubblico, nessuna forma di correttezza e di autonomia di giudizio. Ormai la gente — tutta — ha perduto il senso della forma. Il giudizio è brutalmente contenutistico. E questo vale non solo per coloro che confondono il «marito cornuto» del Boccaccio con quello delle barzellette, ma anche per le «élites» dei privilegiati (come per esempio i critici cinematografici) che credono che un film sia politico perché ha un contenuto politico, mentre la sua forma è quella dei più orrendi e approssimativi prodotti televisivi.

Comunque è un dato di fatto che creare in uno spettatore indifeso una confusione di valori che identifichi la «qualità» di un’opera di autore con la «qualità» della più volgare e infame contraffazione commerciale — è delittuoso.

Ebbene, non una voce in Italia si è elevata a protestare contro tutto questo. Non c’è stato un prete o un magistrato che abbia protestato contro l’indegnità morale e giuridica di una concorrenza sleale che — sia ben chiaro — non è eccezionale ma tipica della vita italiana. Non c’è stato un prete o un magistrato che abbia protestato contro l’indegnità morale e giuridica — ai danni di una singola persona e dell’intero pubblico — della confusione di valori creata da tale concorrenza.

Non c’è da meravigliarsi, certo. È ben nota l’indifferenza dei moralisti italiani ai reali problemi morali, quelli su cui si fonda una realtà nazionale.

A compensare questo colpevole silenzio dei nostri moralisti, si è avuta però, un’alta, vibrante, generale protesta per la libertà della rappresentazione sessuale del Decameron e dei Racconti di Canterbury (non delle loro contraffazioni, però).

A questo punto il discorso si restringe e si allarga nel tempo stesso. Si restringe perché un discorso sul sesso è meno vasto, civilmente e politicamente, di quello sulla «produzione» e sugli annessi «valori»; si allarga, perché il discorso sul sesso, è, moralmente, per definizione, più vasto e profondo di ogni altro.

La prima cosa da dire è questa: è un dovere per ogni cittadino provare ed esprimere una indignazione morale verso coloro che, per puro interesse, creano «prodotti» contraffatti con gli impliciti «valori» mistificati. Insomma è giusto indignarsi per la contraffazione e la mistificazione dei vini dei Castelli o degli olii lombardi; e sarebbe giusto indignarsi per la contraffazione e la mistificazione dei film romani (oltre tutto il giro di miliardi non è inferiore).

È invece ingiusto — anzi stupido e malvagio — indignarsi per ogni forma di libertà sessuale nel momento in cui essa è libertà d’espressione.

Non vorrei montare in cattedra e non vorrei dare delle lezioni a nessuno: una persona «scandalizzata», da qualcosa di sessuale, non potrà mai essere convinta, se non attraverso una palingenesi della propria cultura, o l’intervento di una terapia (infatti solo le persone sessualmente anormali si scandalizzano per cose sessuali). Voglio limitarmi solo a fare il punto di una situazione, e ricavarne due delle possibili conseguenze, il più possibile oggettive.

Nel trarre un film da un testo che inaugura la letteratura anglo-sassone, The Canterbury Tales di Chaucer, io non ho voluto farne una illustrazione. Ho voluto fare un’opera autonoma, «di autore». S’intende che in quanto tale, la mia opera è anche una «lettura critica» del testo che l’ispira, e dunque, in quanto tale, contiene in sé i motivi, gli elementi, i fatti «interpretati» (sarebbe perciò errato riferire e addebitare tutto a Chaucer, postulando l’innocenza di una mia presunta illustrazione del testo; ma sarebbe errato anche considerare come del tutto staccato il cordone ombelicale che unisce il mio testo alla sua matrice).

La grande qualità di Chaucer — che lo pone, sia pur così diverso, al livello del Boccaccio — è la capacità della «chiacchiera»: i suoi narratori più che narrare, chiacchierano; le storie che raccontano sono un pretesto per dei meravigliosi pezzi di bravura comico-moralistica, con una girandola di citazioni preziose, di excursus, di magniloquenze didattiche fintamente arcaiche, di spropositi popolareschi. Nasce così il distacco dal proprio racconto, l’ironia verso il proprio racconto, che sarà tipico di tutta la letteratura anglo-sassone.

Ora questo stile era irriproducibile in un film: la «chiacchiera» come struttura, non si può visualizzare. Ho dovuto dunque lasciar cadere la «chiacchiera» dal testo di Chaucer, e ho dovuto sostituirla con qualcos’altro: ai nudi e rozzi «racconti» che così mi erano rimasti in mano, ho applicato il mio stile, e dunque i miei interessi ideologici.

Quanto al mio stile, anche il più sprovveduto osservatore potrebbe accorgersene, è frontale, rigido, ieratico: non ci sono piani-sequenza, non ci sono entrate e uscite di campo, non ci sono personaggi di profilo o di quinta, non ci sono attacchi diretti di montaggio sullo stesso asse. Mai potrei trasgredire a tali mie regole: è da tale restrizione che nasce un rigore cui non potrei mai venir meno. Quanto poi ai miei attuali interessi ideologici, il loro insieme è troppo complesso e anche contraddittorio, per poter essere qui definito. Ne isolerò un elemento, che ha particolare rilevanza per il mio cinema recente: la necessità urgente, dovuta nel profondo a un amore ossessivo per 1’argomento, di assumere nell’area del rappresentabile ciò che per ipocrisia, paura, angoscia, non era mai stato rappresentato, e che pure è una parte essenziale dell’esistenza: cioè il sesso nel suo momento appunto esistenziale, corporeo, carnale.

Non c’è limite alla libertà di espressione e di rappresentazione: non ci può essere limite. Anche il sesso nella sua estrema e indifesa nudità — che è parte immensa della vita reale — ha diritto di essere espresso e rappresentato. E io ho voluto farlo a dispetto delle gerarchie inamovibili degli argomenti, e a rischio dell’impopolarità (perché non è detto che gli ipocriti e i repressi siano solo di destra).

Al fondo della mia rappresentazione (del resto assolutamente e rigorosamente casta, anche se nelle sue fulminee apparizioni talvolta traumatizzante) degli atti del sesso, c’è dunque l’esigenza della totale rappresentabilità del reale, intesa come una conquista civile.

La prima conclusione pratica che vorrei dunque trarre a questo punto è la seguente: bisogna acquistare la coscienza che a nessuno può essere vietato di rappresentare la realtà, di cui egli ha esperienza, nella sua totalità; e poiché questo deve diventare un principio, ne consegue che deve cadere l’idea della pornografia come un reato: questo è un problema di cultura, non di codice. Se un uomo è così incolto, o possiede un tipo di cultura così infima e volgare, da voler fare (o da voler vedere) dei film pornografici, tanto peggio per lui. Ciò non può essergli legalmente impedito, se tale impedimento lede il principio della libertà (si parla naturalmente di uomini adulti e quindi, di diritto, responsabili).

La cosiddetta pornografia o oscenità, nel nostro codice, non è più tale nelle «opere d’arte». L’articolo 529 del nostro codice sancisce e istituzionalizza in tal modo, un privilegio. Il privilegio dell’artista. È un’idea spiritualisti- co-borghese dell’arte, che prevede una società selettiva, in cui ci siano delle cerchie capaci di avere sentimenti e idee preclusi di fatto alle masse. Ma supponiamo per un momento che effettivamente (magari in un altro contesto) si possa predicare questa qualità trasfiguratrice dell’arte, e torniamo al caso concreto del mio film — che sta appunto per essere, per la terza volta, giudicato in tribunale.

Il processo che ha portato dal capolavoro di Chaucer ai miei racconti, è consistito, come ho detto, dalla caduta della grande «chiacchiera» di Chaucer, e dalla sua sostituzione con uno stile rigidamente essenziale direi silenzioso. Molto probabilmente questo ha portato a uno scompenso: un racconto, immerso nella chiacchiera del narratore, può essere più perfetto che se presentato frontalmente, in una purezza di intensità di contorni che non è nella sua natura. Dunque nei miei Racconti ci può essere qualche freddezza formale, qualche assenza di ispirazione, qualche meccanicità del rigore stilistico. La «poesia» vi è raggiunta probabilmente a frammenti. E allora?

Allora, la seconda conclusione del mio scritto è la seguente: la libertà di espressione si giustifica solo con la libertà di espressione, non con la poesia. Riuscirà, credo, difficile anche al più cieco dei moralisti immaginare un autore che lavori alla sua opera ossessionato dal dilemma: «O fai della poesia o vai in prigione».

Da Pasolini per il cinema, Milano, Mondadori (Meridiani), pp. 1567–1762

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.