Pier Paolo Pasolini su Accattone
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Mi sono affacciato a guardare quello che succedeva dentro l’anima di un sottoproletario della periferia romana (insisto a dire che non si tratta di un’eccezione, ma di un caso tipico di almeno metà Italia): e vi ho riconosciuto tutti gli antichi mali (e tutto l’antico, innocente bene della pura vita). Non potevo che constatare: la sua miseria materiale e morale, la sua feroce e inutile ironia, la sua ansia sbandata e ossessa, la sua pigrizia sprezzante, la sua sensualità senza ideali e, insieme a tutto questo, il suo atavico, superstizioso cattolicesimo di pagano. Perciò egli sogna di morire e di andare in paradiso. Perciò soltanto la morte può «fissare» un suo pallido atto di redenzione. Non c’è altra soluzione intorno a lui, come intorno ad un enorme numero di persone simili a lui. (1)
Mi sembra che il sogno di Accattone sia epico-mitico-fantastico. La proiezione metafisica di Accattone della sua vita in un altro mondo è mitica e popolare; non è piccolo-borghese, è pre-borghese. (2)
Il mondo morale di un sottoproletario non conosce cristianesimo. Praticamente il mondo psicologico del sottoproletariato è preistorico, mentre il mondo borghese è evidentemente il mondo della storia. (3)
Accattone vive alla giornata, senza lavoro, senza che nella sua esistenza vi sia un qualche orientamento morale, mantenuto da una prostituta. Il giorno in cui egli si innamora e sente che non può spingere la sua donna verso la prostituzione, si determina una crisi che è di natura istintiva, sensuale, sensibile. In Accattone vi è una misera luce di coscienza che arriva con la morte. (4)
Tutto avvenne come senza senso e senza ragione, nell’oro del sole che tramondava su Testaccio. (5)
Accattone è nato in un momento di sconforto, cioè durante l’estate del governo Tambroni. (6)
Fellini aveva fondato allora la «Federiz», una società di produzione, e aveva promesso di produrmi il film: poi, ai provini, che feci con entusiasmo, lui disse che quello non era cinema (ed infatti non era il suo cinema). (7)
Vorrei instaurare un rapporto tra Una Vita Violenta e questo film, perché in realtà tra quel mio libro ed Accattone si possono fare facilmente dei confronti.
In Una Vita Violenta oltreché la denuncia, la denuncia di un mondo, di un modo di vivere, di una piaga spaventosa che lacera l’Italia del «benessere», c’era anche un’indicazione non soltanto implicita ma esplicita di una prospettiva della speranza. Invece in Accattone tutto ripiomba dentro quel mondo. Pare che questo mondo non abbia aperture, non abbia prospettive di nessun genere. (8)
Accattone è molto più indietro di Tommasino. (Tommasino è il protagonista di Una vita violenta). Il suo destino molto più tragico. (9)
Con Tommasino ho dato un dramma, con Accattone una tragedia: una tragedia senza speranza, perché mi auguro che pochi saranno gli spettatori che vedranno un significato di speranza nel segno della croce con cui il film si conclude. (10)
Il Cattolicesimo in Accattone mantiene ancora le fattezze pre-borghesi, preindustriali e perciò mitiche che sono tipiche solo del popolo. (…) Il segno della croce finale è fatto in senso sbagliato; forse non si è notato, ma invece di toccarsi la spalla sinistra e poi la destra, si tocca prima la spalla destra e poi la sinistra, proprio come i bambini che si fanno la croce mentre passa il funerale, che fanno lo stesso errore: il segno che fanno non è neanche un segno cristiano, è appena vagamente religioso e protettivo, ma non è cattolico nel senso ortodosso — e perciò borghese — della parola. Il Cattolicesimo si è sovrapposto al paganesimo, particolarmente tra il popolo, senza cambiarlo minimamente nel profondo. (11)
La musica assolve una funzione estetica, al limite «estetizzante». La Passione secondo Matteo di Bach, al momento della rissa di Accattone, ha innanzitutto questa funzione estetica. Si produce una sorta di contaminazione tra la bruttezza, la violenza della situazione, e il sublime musicale.
Ma simultaneamente svolge una funzione didattica. Si indirizza allo spettatore e lo mette in guardia, gli fa capire che non si trova di fronte ad una zuffa di stile neorealista, folkloristica, ma dinanzi ad una lotta epica che sfocia nel sacro, nel «religioso». (12)
Il sottoproletariato, preso come elemento ancora carico delle caratteristiche antiche dell’uomo antropologicamente inteso, dell’uomo delle civiltà contadine religiose, si contrappone alla borghesia che sta stupidamente andando verso la distruzione attraverso una palingenesi a rovescio che sta iniziandosi con le tecnologie e con la civiltà di massa delle macchine. (13)
Quando Accattone è uscito, benché fossimo agli inizi di quello che veniva chiamato «boom» […] eravamo in un’altra età.
Un’età repressiva. Niente era in realtà cambiato — attraverso tutti gli anni Cinquanta — di ciò che aveva caratterizzato l’Italia negli anni Quaranta e prima. La continuità tra il Regime fascista e il Regime democristiano era ancora perfetta.
Nel 1961 i borghesi vedevano nel sottoproletariato il male, esattamente come i razzisti americani lo vedevano nell’universo negro. E, allora, del resto, i sotto-proletari erano «negri» a tutti gli effetti.
La loro «cultura», tanto profondamente diversa da creare addirittura una razza, forniva ai sottoproletari romani una morale e una filosofia da classe «dominata», che la classe «dominante» si accontentava di «dominare» poliziescamente senza curarsi di evangelizzarla, cioè di costringerla ad assorbire la propria ideologia (nella fattispecie un ripugnante cattolicesimo puramente formale).
Tra il 1961 e il 1975 qualcosa di essenziale è cambiato: si è avuto il genocidio. Si è distrutta culturalmente una popolazione. E si tratta precisamente di uno di quei genocidi culturali che avevano preceduto i genocidi fisici di Hitler. Il genocidio ha cancellato per sempre dalla faccia della terra quei personaggi. Ecco perché dicevo che Accattone, visto come un reperto sociologico, non può che essere un fenomeno tragico. (14)
È caduta completamente la denuncia sociale, è caduta oggettivamente perché quel mondo delle borgate romane non c’è più: quelle battute, quel modo di parlare, quel modo di essere sono scomparsi. Quindi che cosa accuso, che cosa denuncio? Da Accattone è caduta tutta la parte sociale, la parte di denuncia, ed è rimasta solo la tragedia: è diventato più bello, il film, secondo me. (15)
Io nel film non esprimevo affatto un giudizio negativo su quei personaggi della malavita: tutti i loro difetti mi sembravano difetti umani, perdonabili, oltre che, socialmente, perfettamente giustificabili: […] «difetti» come elementi di un «bene»: o almeno di una realtà culturale che era quello che era, ma era vita e diritto alla vita. (16)
Fonti
(1) P.P. Pasolini, Accattone, Roma, F.M., 1961, p. 22.
(2) Stack, p. 46.
(3) Una visione… p. 19.
(4) Intervista a cura di D. Martini, in «Cinema Nuovo», Milano, X, n. 150, 1961.
(5) Dalla sceneggiatura in Ali dagli occhi azzurri, Milano, Garzanti, 1965, p. 362.
(6) Una visione…, p. 17.
(7) Intervista in G.P. Prandstaller, Professione Regista, Cosenza, Ledei, 1977, p. 127.
(8) Intervista a cura di N. Ferrerò, in «Filmcritica», n. 116, 1962.
(9) Intervista di D. Martini, p. 137.
(10) P.P. Pasolini, Accattone, p. 22.
(11) Stack, pp. 46, 48, 67.
(12) Duflot, p. 117.
(13) Una visione…, pp. 35–36.
(14) P.P. Pasolini, Il mio Accattone in TV dopo il genocidio, «Corriere della Sera», 8-10-1975; ora in Lettere Luterane, Torino, Einaudi, 1975, pp. 152, 158.
(15) Intervista a cura di G. Bachmann, 4-2-1975.
(16) P.P. Pasolini, Il mio Accattone…, p. 155, 157.
Da: Pier Paolo Pasolini, Il cinema in forma di poesia, a cura di Luciano De Giusti, Pordenone, Edizioni cinemazero, 1979, pp. 20–23