Picasso
di Carl Gustav Jung
Dall’11 settembre al 30 ottobre 1932 si era tenuta nel Kunsthaus di Zurigo un’esposizione di 460 opere di Picasso, che offrì a Jung l’occasione per questo articolo. Lo scritto fu poi incluso in: Wirklichkeit der Seele, in Psychologische Abhandlungen, vol. 4 (Rascher, Zurigo 1934); trad. it. Realtà dell’anima (Boringhieri, Torino 1963) e per questa edizione Jung aggiunse la nota 139, in risposta agli interrogativi suscitati dalle sue osservazioni a proposito della tendenza schizofrenica in Picasso.
Nota 139: [aggiunta nel 1934 ] Con ciò non si vuole dire che chi appartiene all’uno o all’altro di questi gruppi sia nevrotico o schizofrenico. Questa classificazione vale soltanto nel senso che nel primo caso è possibile che un disturbo psichico conduca a comuni sintomi nevrotici, nel secondo invece a sintomi schizoidi. Il termine schizofrenico qui non vuole assolutamente significare che sussista quella specifica malattia mentale che è la schizofrenia, ma soltanto una disposizione o abito sulla cui base una grave complicazione psichica potrebbe produrre una schizofrenia. Non intendo affatto definire psicotico né Picasso né Joyce; mi limito ad ascriverli a quel vasto gruppo di individui la cui costituzione li porterebbe, nel caso di un profondo perturbamento psichico, a reagire non con una comune psiconevrosi, ma con una sindrome schizoide. Questa precisazione psichiatrica mi è sembrata necessaria, dato che l’affermazione fatta sopra ha dato luogo a fraintendimenti.
Vorrei quasi chiedere venia al lettore se, come psichiatra, intervengo nel gran parlare che si fa intorno a Picasso. Non prenderei la penna se non vi fossi sollecitato da fonte molto autorevole. Non che questo pittore, con la sua arte singolare, costituisca un argomento troppo lieve per me (mi son pur affaticato con onesto impegno attorno a quel Joyce che può essere considerato un suo fratello letterario): tutt’altro: il suo problema desta il mio interesse più vivo; ma esso è per me troppo ampio, difficile e complesso perché speri di risolverlo, anche in forma approssimativa, in un breve saggio.
Se mi arrischio ugualmente a esprimere il mio pensiero su Picasso, lo faccio con l’esplicita riserva che quanto ho da dire non riguarda il problema, ma soltanto la psicologia della sua “arte”. Lascio dunque al critico d’arte il problema estetico e mi limito a considerare la psicologia che sta alla base di quella creazione artistica.
Mi occupo da quasi vent’anni della psicologia della rappresentazione figurativa di processi psichici, e sono pertanto in grado di guardare i quadri di Picasso da un punto di vista professionale. In base alla mia esperienza posso garantire al lettore che la problematica psichica di Picasso, così come si esprime nella sua arte, è perfettamente analoga a quella dei miei pazienti.
Disgraziatamente non posso fornirne la prova, perché il materiale di confronto è noto soltanto a pochi specialisti. Le considerazioni che seguono rimangono perciò campate in aria e richiedono che il lettore supplisca benevolmente con la sua fantasia.
L’arte non oggettiva trae essenzialmente i propri contenuti dall’interno. Questo “interno” non può collimare con la coscienza, giacché quest’ultima contiene immagini di oggetti che tutti vedono, i quali debbono necessariamente apparire in modo conforme all’aspettazione generale. Ma l’oggetto di Picasso si presenta in modo diverso, tanto diverso da non dare mai l’impressione di significare cose dell’esperienza esterna.
La successione cronologica ci mostra un progressivo allontanamento dall’oggetto empirico e un aumento di quegli elementi che non corrispondono più ad alcuna esperienza esterna e derivano invece da un “interno” posto dietro la coscienza, e comunque dietro quella coscienza che è rivolta al mondo esterno come organo percettivo sovrastante ai cinque sensi.
Dietro la coscienza non vi è il nulla assoluto, ma la psiche inconscia, la quale agisce sulla coscienza dal di dietro e dall’interno, così come il mondo esterno opera dal davanti e dall’esterno. Gli elementi rappresentativi che non corrispondono a nulla di esterno debbono perciò derivare dall’interno.
Questo “interno” non è visibile né rappresentabile, ma è tuttavia in grado di influenzare stabilmente la coscienza: perciò io suggerisco ai miei pazienti che soffrono particolarmente sotto la sua azione, di rappresentarla con figure come meglio sanno. Questo “metodo espressivo” mira a rendere coglibili i contenuti inconsci, facilitandone la comprensione.
Dal punto di vista terapeutico, si riesce a impedire con ciò la pericolosa scissione tra processi inconsci e coscienza.
A differenza della rappresentazione oggettiva o “cosciente”, i processi e le azioni di quello sfondo, rappresentati figuratamente, sono simbolici: alludono cioè approssimativamente e nel miglior modo possibile a un significato ancora ignoto. Dato ciò, è anche impossibile stabilire alcunché di sicuro in qualsiasi caso singolo isolato: si ha soltanto un senso di estraneità e di una confusa e inconoscibile molteplicità, né si sa che cosa venga propriamente indicato o pensato.
La possibilità di comprendere sorge soltanto dal confronto di numerose serie di immagini. I dipinti dei pazienti sono tuttavia in genere, per la mancanza di fantasia artistica, più chiari e più semplici, e perciò più comprensibili, che non i quadri degli artisti moderni.
Fra i pazienti si possono distinguere due gruppi: i nevrotici e gli schizofrenici. Il primo gruppo fornisce immagini di carattere sintetico, pervase da una tonalità affettiva unitaria. Anche se completamente astratte e prive quindi dell’elemento affettivo, sono perlomeno spiccatamente simmetriche o cariche di un significato evidente. Il secondo gruppo produce invece immagini che mostrano subito la loro estraneità affettiva.
Non rivelano mai un sentimento unitario, armonico, ma contraddizioni tra sentimenti o addirittura una totale estraneità ad essi. Dal punto di vista formale predomina il carattere della lacerazione, che si esprime con le cosiddette “linee spezzate”, tracciate attraverso la figura quasi come tagli di rifiuto psichico. La figura ci lascia freddi o induce spavento nell’osservatore a causa della sua durezza, che si presenta paradossale, perturbante, orrida o grottesca.
Picasso appartiene a questo gruppo [il nevrotico].
Nonostante la loro chiara diversità, i due gruppi hanno qualche cosa in comune: il contenuto simbolico. Entrambi esprimono allusivamente un significato; solo che il tipo nevrotico cerca il significato e il valore affettivo di esso, e si sforza di comunicarlo all’osservatore; lo schizofrenico invece non lascia trasparire una tale disposizione, ma sembra restar vittima di quel significato.
È come se egli ne fosse sopraffatto e inghiottito; come se si dissolvesse in quegli elementi che il nevrotico cerca perlomeno di dominare. Dell’espressione schizofrenica va detto ciò che ho osservato per Joyce: nulla viene incontro all’osservatore, tutto se ne allontana; anche un’eventuale bellezza appare solo come un imperdonabile indugio alla propria ritirata.
Viene ricercato l’elemento orrido, quello morboso, grottesco, assurdo, banale, non per esprimerlo, ma per occultarlo; un occultamento però che non serve a colui che si trova in ricerca: esso assomiglia a una fredda nebbia che si posa sopra una palude deserta, senza un perché, come uno spettacolo che può fare a meno dello spettatore.
Nell’uno si può intuire quel che egli vorrebbe esprimere, nell’altro, ciò che non può esprimere.
In entrambi appare il contenuto recondito. Una tale serie di immagini, sia essa quadro tracciato o parola scritta, incomincia in genere col simbolo della nekyia, del viaggio all’Ade, della discesa nell’inconscio, del distacco dal mondo superiore. Ciò che accade poi è ancora espresso nelle forme e figure del mondo diurno, ma allude a un significato nascosto e ha quindi carattere simbolico.
Così Picasso incomincia con i quadri, ancora concreti, in azzurro: l’azzurro della notte, della luce lunare e dell’acqua, l’azzurro Tuat del mondo sotterraneo egizio. Egli muore e la sua anima cavalca sopra un cavallo nell’aldilà. La vita diurna gli si aggrappa e una donna col bambino viene verso di lui, in atteggiamento di monito. Come il giorno, così anche la notte è per lui donna: ciò che sotto il profilo psicologico viene designato come l’anima chiara e quella oscura (Anima).
Siede in attesa l’Oscura, lo aspetta in un crepuscolo azzurro, e desta un presentimento patologico. Col cambiamento dei colori entriamo nel mondo infero. La concretezza dell’oggetto è consacrata alla morte, espressa nel raccapricciante capolavoro delle prostitute adolescenti sifilitico-tubercolose. Il motivo delle prostitute inizia con l’ingresso nell’aldilà, dove, anima defunta, egli s’incontra con esse.
Quando dico “egli”, intendo quella personalità di Picasso che subisce il proprio destino infero; intendo l’uomo che non si rivolge al mondo diurno, ma fatalmente si piega verso l’oscurità, seguendo non l’ideale del bello e del buono tradizionali, ma quella demoniaca forza d’attrazione dell’orrido e del male che, gonfiandosi in modo anticristiano e luciferino nell’uomo moderno, fino a raggiungere il tono di una catastrofe universale, avvolge nelle nebbie dell’Ade questo luminoso mondo diurno, lo dilania mortalmente e alla fine, come in un terremoto, lo dissolve in frammenti, linee spezzate, avanzi, rottami, brandelli, elementi disorganici. Picasso e l’esposizione dei suoi dipinti costituiscono un fenomeno del nostro tempo, non diversamente dai ventottomila visitatori della mostra.
Di regola l’inconscio si presenta all’uomo sotto forma della “Oscura”, di una Kundry di bruttezza raccapricciante, grottesca, primordiale, o di bellezza infernale, nel caso in cui chi è colpito da tale destino appartenga al gruppo nevrotico.
Parallelamente alle quattro figure femminili del mondo infero degli gnostici — Eva, Elena, Maria e Sofia — troviamo nella trasfigurazione del Faust Margherita, Elena, Maria e l’astratto “Eterno Femminino”. Così anche Picasso si trasfigura e appare sotto la forma infera del tragico Arlecchino, il cui motivo si ripete attraverso numerosi quadri e che, come Faust, è coinvolto in un fatto di sangue per tornare nella seconda parte sotto mutate sembianze. Arlecchino, sia detto di passaggio, è un vecchio Dio ctonio.
La discesa nel passato remoto appartiene, dalla testimonianza di Omero in poi, alla nekyia. Faust si rivolge al primitivo mondo illusorio del Blocksberg e alle chimere dell’antichità. Picasso riesuma le tozze forme terrestri di una grottesca primitività e fa chiaramente rivivere in una fredda luce l’inanimata antichità pompeiana, come peggio non potrebbe un Giulio Romano. Raramente, forse mai, ho veduto fra i miei pazienti un caso che non sia risalito alle forme dell’arte neolitica e non abbia finito con l’evocare antichi dionisismi.
Arlecchino, come Faust, passa per tutte quelle forme pur quando nulla svela la sua presenza, se non il vino, il liuto o perlomeno le losanghe variopinte del suo abito di buffone. E che cosa impara nel suo folle viaggio attraverso i millenni dell’umanità? Quale quintessenza distillerà da quel conglomerato di rottami e di rovine, di possibilità, formali e cromatiche, nate a mezzo o premorte? Quale simbolo apparirà come causa ultima e come senso di ogni liberazione?
Di fronte alla sconcertante versatilità di Picasso non ci si può arrischiare a dare indicazioni di sorta: perciò voglio dire piuttosto quello che ho trovato nei miei materiali.
La nekyia non è una caduta titanica, priva di scopo e meramente distruttiva, ma una significativa katabasis eis antrom una discesa nella grotta dell’iniziazione e della conoscenza misterica.
Il viaggio attraverso la storia dell’anima umana ha lo scopo di ricostituire l’uomo nella sua totalità, evocando la memoria del sangue.
La discesa alle Madri serve a Faust per trame l’uomo nella sua interezza di peccatore, Paride ed Elena, l’uomo che, per lo smarrimento nell’unilateralità del suo presente, è caduto nell’oblio. Questi ha causato e tornerà sempre a causare in tutte le epoche di sconvolgimento il vacillare del mondo superno. Quest’uomo si contrappone all’uomo attuale, in quanto è quello che è sempre stato così, mentre l’altro è così soltanto attualmente.
Parimenti nei miei pazienti, alla fase della discesa e della dissoluzione, segue il riconoscimento della polarità insita nella natura umana e della necessità dell’esistenza delle coppie di opposti in conflitto. Perciò ai simboli delle esperienze di pazzia fanno seguito, nella fase di risoluzione, immagini che raffigurano la riunione delle coppie di opposti: chiaro-scuro, alto-basso, bianco-nero, maschile-femminile ecc.
Negli ultimi quadri di Picasso il motivo dell’unione degli opposti nel loro immediato contrasto si ritrova in forma assai chiara.
Un quadro (tagliato d’altronde da molte linee spezzate) contiene perfino la combinazione dell’Anima chiara e di quella oscura. Le tinte stridenti, nette, anzi brutali dell’ultimo periodo corrispondono alla tendenza dell’inconscio a dominare a viva forza il conflitto dei sentimenti (colore = sentimento).
Nello sviluppo psichico di un paziente questa fase non costituisce né la fase finale né lo scopo a cui tende il processo. Essa comporta soltanto l’ampliamento della prospettiva, che abbraccia ormai l’umanità morale-bestiale-spirituale nella sua interezza, senza tuttavia plasmarla in una vivente unità. Il “dramma interiore” di Picasso si è sviluppato fino a quest’ultimo culmine della peripezia. Quanto al Picasso futuro preferisco non azzardare previsioni, perché questa avventura interiore è cosa pericolosa, che può in ogni fase condurre a un arresto o a una catastrofica esplosione degli opposti tenuti uniti per forza.
La figura dell’Arlecchino è di una tragica ambiguità; tuttavia per l’esperto il suo costume contiene già in sé i simboli delle prossime fasi di sviluppo. Egli è l’eroe che deve passare attraverso i pericoli dell’Ade; vi potrà riuscire? A tale quesito non posso rispondere. Arlecchino ha per me qualcosa di perturbante. Egli mi ricorda troppo quel “variopinto garzone, simile a un buffone” dello Zarathustra di Nietzsche, che saltò sopra l’ignaro funambolo (il parallelo del Pagliaccio di Picasso) uccidendolo.
Allora Zarathustra pronunziò le parole che si sono avverate poi in modo atroce per Nietzsche: “La tua anima sarà morta ancor prima del tuo corpo: ormai non hai più nulla da temere!” Chi sia il “buffone” lo dicono le parole che egli rivolge al funambolo, al suo più debole alter ego. “Tu sei d’impaccio a chi è meglio di te!” Egli è il più grande, colui che fa scoppiare il guscio, e il guscio è talvolta… il cervello.
Carl Gustav Jung, Opere complete, Bollati Boringhieri, Torino, Edizione del Kindle, 2025, pp.11329–11330.
[Titolo originale: Picasso. Apparso per la prima volta in: “Neue Zürcher Zeitung”, voi. 153, N. 2 (13 novembre 1932), traduzione di Paolo Santarcangeli.]
Carl Gustav Jung (1875–1961) iniziò la sua attività nel 1900 nel famoso ospedale «Burghölzli» di Zurigo, sotto la guida di Eugen Bleuler, uno dei grandi maestri della psichiatria dinamica. Durante questi «anni di apprendistato» mise a fuoco la sua nozione di realtà psichica ed elaborò alcuni strumenti per la comprensione dei disturbi mentali. Nel 1907 entrò in contatto con Freud, con cui stabilì uno stretto rapporto umano e scientifico, assumendo una posizione di primo piano nel movimento psicoanalitico, ma nel 1912 la pubblicazione di Trasformazioni e simboli della libido segnò la rottura del loro sodalizio e il distacco di Jung dalla psicoanalisi. Ne seguì un lungo periodo di «malattia creativa», caratterizzato da un serrato corpo a corpo con l’inconscio e le sue immagini archetipiche, di cui dà testimonianza il Libro rosso. Esperienza decisiva da cui si cristallizzarono, negli anni della maturità, il sistema della psicologia analitica (dottrina dell’inconscio collettivo e degli archetipi, tipologia psicologica, energetica psichica e processo di individuazione, principio di sincronicità) e un’eccezionale messe di indagini storico-religiose, soprattutto nei campi dell’alchimia, dell’astrologia e del pensiero orientale. Le Opere di Jung sono pubblicate da Bollati Boringhieri a cura di Luigi Aurigemma (24 voll., 1965–2007).