Piacere, dolore felicità e morte in Epicuro
di Emanuele Severino
Il piacere e il dolore
Tra ciò che è presente con evidenza, esistono anche — oltre agli enti sensibili e alle rappresentazioni generali della mente (che Epicuro chiama “prolessi”, perché consentono, sulla base di un’esperienza passata, di anticipare nella nostra mente la presenza effettiva delle cose) — le “affezioni” o sentimenti di piacere e di dolore. La presenza del piacere e del dolore è una verità originaria, una evidenza che non ha bisogno di interpretazioni e di spiegazioni.
È tale presenza del piacere e del dolore il criterio in base al quale l’uomo giudica — e giudica rettamente — ciò che deve essere perseguito e ciò che deve essere fuggito, e quindi giudica ciò che è bene e ciò che è male. Per provare che e perché il piacere deve essere scelto e il dolore respinto non c’è bisogno di ragionamenti o di argomentazioni: è una realtà immediata come il fatto che il fuoco è caldo, la neve bianca, dolce il miele. Che cosa, se non il piacere e il dolore, può far percepire e stabilire ciò che dev’essere scelto o fuggito?
Il piacere è pertanto «principio e fine della vita felice», perché è il «bene primo e connaturato a noi», ossia è ciò a cui ogni uomo tende. Aristotele aveva escluso l’equazione tra felicità e piacere, basandosi sul teorema che il fine ultimo dell’autentica natura dell’uomo è la contemplazione della verità e del Dio. Ora, anche per Epicuro la felicità consiste nella contemplazione della verità; ma, ora, la verità dice che il Tutto, sostanzialmente, non è che un accadimento casuale e privo di senso e di scopi, dove è assente ogni ordinamento stabile e ogni Dio; e dove l’uomo è una formazione fortuita è precaria di atomi destinati a dissolversi.
Ma proprio la conoscenza di questa verità, invece di atterrire, produce nell’uomo la tranquillità suprema e la vanificazione di tutti i timori e turbamenti che lo afferrano quando egli si sente osservato da potenze superiori che si propongono di seguirlo per tutta l’eternità con i loro premi e i loro castighi e che innanzitutto gli preparano, come conclusione della vita, la morte. Conoscendo la verità, l’uomo conosce l’origine del timore e può liberarsene. E il timore e ogni turbamento dell’animo sono dolore, anzi la forma più radicale del dolore.
La conoscenza della verità, dunque, è felicità, non solo in quanto essa è conoscenza della verità, ma in quanto tale conoscenza libera dal terrore dovuto all’ignoranza. Quest’ultima affermazione consente di chiarire in che consista propriamente, per Epicuro, la natura del piacere.
La vita felice
Se la conoscenza della verità è felicità, perché libera dal terrore e dall’ignoranza, il “piacere” stesso — che, si è visto, è «principio e fine della vita felice» — è liberazione dal dolore. Riprendendo uno spunto del Fedone platonico — e in polemica coi cirenaici, per i quali il piacere è un movimento non violento e il dolore movimento violento –, Epicuro mette in luce una forma di piacere che nell’uomo non solo può toccare il limite massimo e quindi è insuperabile, ma è tale che chi la possiede «può gareggiare in felicità anche con Zeus».
Si tratta di quello stato intermedio, tra ciò che comunemente si dice “piacere” e ciò che si dice “dolore”, che è la liberazione, l’assenza, la privazione di dolore. Una volta tolto un dolore, si prova un piacere che non è aumentabile. Si potrà solo andare alla ricerca di altri piaceri, ma quel piacere che consiste nella liberazione da un certo dolore ha toccato il massimo possibile, ha avuto la sua completezza e perfezione.
Se ci si rivolge ad altri piaceri oltre a questo, che è il massimo, allora «niente basta a Colui per il quale è poco ciò che basta». Ciò che basta è infatti poco: «Non aver fame, non aver sete, non aver freddo». A chi bastano queste cose è consentito gareggiare in felicità anche Con Zeus, ma se non gli bastano, allora niente gli potrà bastare.
Ma il liberarsi dalla fame, dalla sete e dal freddo è ciò che basta, solo se innanzitutto ci si è liberati dalla malattia dell’anima, cioè dal dolore dovuto all’assenza della verità. Giacché il corpo soffre solo per il male presente, mentre l’anima soffre, oltre che per quello presente, anche per i mali passati e futuri.
Se «i piaceri dei dissoluti» liberassero l’uomo anche dalla malattia dell’anima, Epicuro non avrebbe «niente da rimproverare» a tali piaceri: «essi sarebbero infatti ricolmi di ogni piacere». Ma non è così, perché i mezzi per procurarsi i piaceri dei dissoluti producono molti più tormenti che piaceri.
La “vita felice” è l’assenza di dolore dell’anima, accompagnata, se possibile, dall’assenza di dolore del corpo: «È quel sobrio ragionare che scruta a fondo le cause di ogni atto di scelta e di rifiuto [ossia è capace di calcolare l’insieme di piaceri e di dolori che ogni azione comporta] e che scaccia le false opinioni, per via delle quali grandi turbamenti si impadroniscono dell’anima».
La “virtù suprema” è dunque la capacità di condurre una vita felice, è cioè la “saggezza”, e la saggezza non può esistere senza la filosofia, cioè senza la conoscenza della verità. L’ignoranza della verità produce quindi ogni male, sia in chi è ignorante, sia in coloro che devono subire gli effetti della sua ignoranza. È la stessa tesi di Socrate (la virtù è sapienza, il vizio è ignoranza), il cosiddetto “intellettualismo” socratico, potentemente espresso nel dialogo Protagora di Platone.
Il dolore, la morte, il tempo
Ma rimangono ancora due ostacoli sulla strada che conduce alla vita felice: il dolore del corpo, dovuto all’assenza anche di quel poco che basta (pane, acqua, un po’ di calore all’inverno), o alle malattie e alle ferite che rendono atroce il dolore; e infine il terrore della morte.
Epicuro risponde che se il sommo bene è facilmente raggiungibile, il più atroce dei dolori ha sempre una durata assai breve. E quando il dolore è lungo, anche se porta alla morte, esso è sempre sopportabile. La morte, poi, è un’angoscia solo per chi non sa che come il nascere e un’unione di atomi, così il morire è una separazione di tali atomi, dove del composto (l’individuo umano) non resta più nulla, e quindi nessuna forma di coscienza e di sensibilità e quindi nessuna possibilità di soffrire. Se con la morte l’uomo diventa nulla, d’altra parte la morte è nulla per l’uomo.
L’uomo è infatti sensibilità e coscienza e, sino a che egli sente e pensa, la morte non esiste, e quando invece essa viene noi non siamo più e non abbiamo quindi più niente da temere. «Nulla c’è di temibile nel vivere per chi sia veramente convinto che nulla di temibile c’è nel non vivere più.»
A chi ribatte che con la morte si perde però il piacere, Epicuro risponde che se la carne non ammette limite al piacere e quindi esige anche un tempo senza limiti, che serva a procurarle un piacere sempre maggiore, il saggio invece sa che il piacere realizzabile dall’individuo sia pure nel breve arco della sua vita è perfetto e non ulteriormente aumentabile: appunto perché il vero piacere è l’assenza del dolore e una volta che, con la presenza della felicità, il dolore è assente, il piacere autentico (non quello superfluo dei dissoluti) non può più crescere, è pieno, totale, e, in questo senso, infinito. La felicità perfetta e la vita beata non hanno quindi bisogno della vita eterna; anzi esse sono raggiungibili proprio in quanto la filosofia ha mostrato che non esiste alcuna vita eterna.
La “modernità” di Epicuro
L’opposizione tra il pensiero che — come quello di Epicuro — nega che il divenire della realtà abbia un fine e un senso prestabilito, naturale, oggettivo, e il pensiero che invece afferma tale fine e senso è l’espressione di una contrapposizione ancora più radicale, che attraversa non solo il pensiero greco, ma l’intera storia del pensiero e anzi della cultura e della civiltà occidentali.
Per la prima volta nella storia dell’uomo, i Greci definiscono il divenire delle cose, quale si presenta nell’esperienza, come il loro uscire dal mefite e il loro ritornarvi. Ma la filosofia nasce proprio come negazione che il manifestarsi del divenire delle Cose coincida col Tutto. Se si crede che questa coincidenza esista, allora l’esistenza presenta un volto tragico, angosciante. Ciò ché viene dal niente è infatti l’estrema minaccia a ogni ordinamento che l’esistenza si è data: è l’imprevedibile e quindi il terrificante. E l’esistente è daccapo minacciato dalla fine imminente, dal suo dover di nuovo ritornare nel nulla.
Si può dire che la grande tragedia attica (Eschilo, Sofocle) è lo specchio del senso filosofico della realtà diveniente identificata con la totalità della realtà. L’orrendo è la vita come vicenda della nascita e della morte (cioè dell’uscire e del ritornare nel niente).
Aristotele, nella Poetica, osserva che la tragedia tenta una specie di difesa dall’orrore della vita: rappresentando l’essenza terribile e orrenda della vita, la tragedia riesce a sollevare e purificare l’animo dal terrore e dall’orrore. Ma questa “purificazione” (kátharsis) è solo l’illusione, da parte dello spettatore, di potersi separare e sollevare sopra l’orrore dell’esistenza.
Tale illusione non può essere evitata dalla purificazione tragica, ma dall’epistéme (cioè dalla filosofia), la quale nell’atto stesso in cui definisce il divenire che è manifesto nell’esperienza, come un uscire e un ritornare nel niente, in questo stesso atto mette in luce che la scena dell’esperienza non coincide con la totalità dell’essere, ma è il processo visibile che muove dall’invisibile ed eterna unità divina e a essa ritorna.
Il divino eterno e immutabile governa il Tutto e ne è la legge suprema, il supremo senso. Contemplando questo senso e vedendone la verità, la filosofia libera dall’angoscia e dalla minaccia del niente: tutto ciò che esce dal niente non è selvaggia imprevedibilità, ma è regolato e guidato dalla “giustizia divina” (come appunto dice Anassimandro, in quell’unico suo frammento rimastoci, che è anche il più antico testo della nostra tradizione filosofica), che l’epistéme mette in luce in modo incontrovertibile.
La conoscenza dell’eterno libera dal terrore del divenire. Le cose del mondo non sorgono dal nulla e non vi-tornano, ma procedono dall’unità divina e a essa ritornano (anche se, ciononostante, continua a rimaner vero che le cose del mondo, come realtà derivata, continuano a essere qualcosa che prima del suo formarsi e dopo il suo dissolversi è nulla, fatta eccezione per l’anima, che è quanto di divino vi è nell’uomo).
Ed è appunto in questo Circolo che va da Dio e a lui ritorna, che il mondo e l’uomo hanno in sé stessi uno scopo e un senso.
Con Epicuro viene invece alla luce qualcosa di essenzialmente nuovo nel modo in cui l’uomo prende posizione rispetto al divenire. Si può dire addirittura che viene alla luce l’uomo nuovo dell’età moderna, che si accorge come il rimedio (cioè l’esistenza dell’eterno) sia peggiore del male (l’uscire e il ritornare nel nulla), e che quindi si propone di eliminare il terrore che l’eterno produce nell’uomo.
E infatti, dice Epicuro, la filosofia sopprime «il timore dell’eternità» e rende possibile quella «vita perfetta, per cui non sentiamo più l’esigenza di un tempo infinito» e quando giunge il momento di uscire dalla vita e di diventare niente («quando noi viviamo, la morte non c’è, e quando essa sopravviene, noi non siamo più») non possiamo dire di andarcene avendo lasciato qui sulla terra «qualcosa di ciò che rende ottima la vita».
Prima di Epicuro la conoscenza che l’eterno esiste libera dal terrore del divenire; per Epicuro la conoscenza che l’eterno non esiste (e che eterni sono soltanto gli atomi senza senso da cui le cose sono casualmente costituite) libera dal terrore dell’eternità. Proprio perché, quando la morte sopraggiunge, noi ormai siamo niente, proprio per questo la morte, che è chiamata «il più terribile dei mali», «non è niente per noi». Il saggio non chiede di vivere, né teme il non vivere, «non è contrario alla vita, ma neanche ritiene che la morte sia un male».
Si potrebbe pensare che questo atteggiamento di Epicuro di fronte al divenire sia già presente nei sofisti. Ma è un’impressione errata, perché la sofistica vive nel clima della tragedia greca, che vede l’orrore del nascere e del morire, mentre per Epicuro la vicenda della nascita e della morte non ha nulla di orrendo per chi si sia liberato dalla fede nell’esistenza di un governo divino del mondo.
Non a caso Epicuro critica il centro dell’antica saggezza dionisiaca — che è anche il centro della tragedia che il meglio di tutto sarebbe per gli uomini non essere nati e subito dopo la cosa migliore sarebbe morire quanto prima. È qui presente quel terrore per il divenire (dal quale si tenta invano di sfuggire), che è invece completamente estraneo al pensiero di Epicuro.
Da Emanule Severino, La filosofia del greci al nostro tempo. La filosofia antica e medievale, Garzanti, Milano, 2004, pp. 218–225