Perché la Rivoluzione è scoppiata in Francia

di Alexis de Tocqueville

Mario Mancini
38 min readFeb 14, 2021

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L’elefante della Bastiglia

Alexis de Tocqueville

Alexis de Tocqueville (1805–1859), nato a Vermeuil in Normandia da nobile famiglia, studiò diritto all’Università di Parigi e viaggiò poi a lungo in Italia e negli Stati Uniti d’America.

Dal secondo viaggio nacque, oltre a un libro sul sistema penitenziario americano scritto con il Beaumont, l’opera La democrazia in America, la cui prima parte fu pubblicata a Parigi nel 1835, guadagnandogli la celebrità.

Come affermò in una lettera, Tocqueville volle mostrare sull’esempio della giovane repubblica americana «cos’era, ai nostri giorni, un popolo democratico» indagandone le istituzioni entro il quadro di una globale analisi storico-culturale. Egli giudica innanzi tutto la civiltà anglo-americana come il prodotto di «due elementi perfettamente distinti, i quali sono stati sovente in contrasto tra loro altrove, ma che in America si son potuti fondere insieme meravigliosamente: lo spirito di religione e lo spirito di libertà».

La religione «vede nella libertà civile un nobile esercizio delle facoltà umane e nel campo politico un campo affidato da Dio agli sforzi dell’intelligenza»; la libertà «vede nella religione la compagna delle sue lotte e dei suoi trionfi, la culla della sua infanzia, la fonte divina dei suoi diritti».

Ma il suo studio della civiltà americana diviene subito il prisma attraverso il quale Tocqueville cerca di costruire un modello di società democratica capace di esaudire la moderna istanza dell’eguaglianza senza precipitare nel dispotismo politico e garantendo la libertà individuale nell’armonia degli interessi sociali.

Il suo problema è quello, insomma, di costruire una democrazia, le cui articolazioni sono costituite dall’eguaglianza politica e giuridica, da un sistema rappresentativo fondato sull’investitura popolare, da un vasto decentramento delle strutture costituzionali, da un ordinamento, in ultima analisi, capace di assicurare che le decisioni politiche esprimano la volontà della maggioranza.

Ma questa direzione democratica è corretta da Tocqueville con una polemica che non colpisce più soltanto il dispotismo del monarca assoluto, ma anche la «tirannide della maggioranza»:

«Considero empia e detestabile massima che in politica la maggioranza di un popolo ha il diritto di fare tutto; e tuttavia ritengo che l’origine del potere sia da porre nella volontà della maggioranza. V’è forse contraddizione tra queste due proposizioni?».

Il problema della costruzione positiva della volontà popolare viene risolto da Tocqueville con un nuovo appello giusnaturalistico appena travestito:

«V’è una legge generale che è stata fatta o almeno adottata non solo dalla maggioranza di questo o quel popolo, ma dalla maggioranza del genere umano: la giustizia. Questo è l’autentico limite dei diritti di ogni popolo».

A questo punto, cioè, l’istanza egualitaria entra per Tocqueville in contrasto con l’istanza libertaria, sicché soltanto il primato della libertà può garantire per lui che l’eguaglianza non conduca alla schiavitù di un nuovo dispotismo politico e di un universale livellamento.

È qui, però, che Tocqueville si scontra con i termini nuovi, specificamente sociali, che il problema della democrazia comporta. Da una parte egli, sul piano politico, chiede la limitazione della volontà popolare per garantire le sfere individuali di ciascuno, dall’altra, alla incombente obiezione della persistenza di profonde differenze sociali, risponde che il vantaggio della democrazia «non è, come è stato detto a volte, di favorire la prosperità di tutti, ma semplicemente di servire al benessere dei più».

A questo problema tutto moderno Tocqueville ritorna dopo il lungo periodo in cui si dedicò prevalentemente all’attività politica (fu deputato nel 1839, membro dell’Assemblea Costituente nel 1848, ministro degli esteri nel 1849) dopo il colpo di Stato del 1851.

Già nel 1850, meditando sul grande dramma politico del 1848, scriveva:

«Era inevitabile che il popolo finisse con lo scoprire un giorno che ciò che lo serrava nelle strettezze della sua situazione non era la costituzione del governo, ma il complesso di leggi immutabili che regolano la società; ed era naturale che finisse col chiedersi se non aveva il potere e il diritto di mutare questo come aveva mutato quella. E per parlare soprattutto della proprietà (che è come il fondamento del nostro ordine sociale), una volta che tutti i privilegi che coprivano e, per così dire, nascondevano quello della proprietà erano stati distrutti e che quest’ultimo era restato l’ostacolo principale all’eguaglianza, non era del tutto ovvio, non dico che lo si abolisse a sua volta, ma che il pensiero di sopprimerlo si presentasse alla mente di coloro che non ne godevano?».

E concludeva:

«Non dubito che le leggi costitutive della società moderna non possano, a lungo andare, essere molto profondamente modificate, e mi sembra, anzi, che in molte parti principali siano già state modificate; ma si potrà giungere fino a distruggerle del tutto ed a metterne altre al loro posto? Ciò mi sembra irrealizzabile».

Avvertiva però ora il peso che il problema sociale esercitava sui destini del mondo moderno e delle sue forme politiche, la tentazione «di credere che quel che chiamiamo le “istituzioni necessarie” spesso non sono altro che le istituzioni a cui siamo abituati, e che in materia di assetto sociale, il campo del possibile è ben più vasto di quanto immaginano gli uomini che vivono in ogni società».

Nel 1856 usciva l’opera della sua maturità, L’ancien Règime e la Rivoluzione, documentato affresco storico-sociale delle cause e dei risultati della rivoluzione francese.

Di quest’opera riproduciamo, nella traduzione di Ezio Chichiarelli (Milano, 1946) la prefazione e i primi cinque capitoli. Sono state eliminate le note del curatore.

Umberto Cerroni

L’ancien Régime e la Rivoluzione

Prefazione

Il libro che pubblico ora non vuol essere una storia della Rivoluzione, bensì un semplice studio; la storia di essa, infatti, è stata fatta, e così brillantemente che io non penso affatto a rifarla.

I francesi hanno compiuto, nel 1789, uno dei massimi sforzi che mai siano stati compiuti, e ciò allo scopo di tagliare nettamente, se così posso esprimermi, il loro destino, separando con un abisso il passato dall’avvenire. Per questo, hanno adottato tutte le possibili precauzioni perché nulla del passato rimanesse nel presente, si sono imposti tutte le costrizioni possibili per foggiarsi differentemente dai padri loro e nulla infine hanno tralasciato per rendersi al tutto irriconoscibili.

Avevo sempre ritenuto che, in questo sforzo titanico e singolare, fossero riusciti meno di quanto non si credesse e di quanto essi stessi, in un primo tempo, non avessero creduto; ero convinto che, loro malgrado, avessero conservato la maggior parte dei sentimenti, delle abitudini e delle idee del vecchio regime, in base alle quali avevano condotto la Rivoluzione che l’aveva distrutto, e che, senza volerlo, si fossero serviti delle rovine del passato per costruire l’edificio della società nuova.

Per comprendere quindi la Rivoluzione e la sua opera bisognava dimenticare per un momento la Francia che vediamo, e interrogare nella sua tomba quella Francia che non è più. Questo io ho cercato di fare, ma le difficoltà del compito sono state ben maggiori di quanto non avessi immaginato.

Mentre i primi secoli della monarchia, il medioevo, la rinascenza sono stati oggetto di immenso lavoro e di ricerche profonde, le quali ci hanno fatto conoscere non solo i fatti svoltisi allora, ma anche le leggi, gli usi, lo spirito del governo e della nazione in quei diversi periodi, nessuno sinora ha impreso un tale studio per quanto riguarda il XVIII secolo.

Noi ci illudiamo di conoscer bene la società francese di quell’epoca perché sappiamo quello che si svolgeva e brillava alla superficie; perché conosciamo, anche nei particolari, la storia dei personaggi celebri di quel periodo, e perché critici geniali od eloquenti hanno finito per renderci familiare le opere dei grandi scrittori che hanno reso illustre quel secolo.

Abbiamo però idee confuse e spesso erronee sul modo col quale allora si svolgevano gli affari, sull’efficacia pratica delle istituzioni, sui rapporti delle classi tra loro, sulle condizioni e sullo stato d’animo di quelle classi che ancora non si facevano notare e non sapevano farsi intendere, in una parola sulla sostanza stessa delle opinioni e dei costumi.

Ho cercato quindi di penetrare fin nell’intimo del vecchio regime, così vicino a noi nel tempo e pur così lontano ancora per la Rivoluzione che ce lo nasconde.

Per riuscire nel mio intento, non soltanto ho riletto i libri celebri del XVIII secolo, ma ho voluto anche studiare molte opere meno note e meno degne di essere conosciute, le quali però, anche se prive d’ogni pregio d’arte, rivelano forse meglio i veri istinti dell’epoca; ho attentamente esaminato tutti quegli atti pubblici in cui i francesi, all’approssimarsi della Rivoluzione, hanno meglio potuto mostrare le loro opinioni e le loro tendenze: i verbali delle Assemblee di Stato, e, più tardi, delle Assemblee provinciali mi hanno schiarito, al riguardo, assai punti; ma soprattutto mi sono servito dei cahiers redatti dai tre ordini nel 1789.

Questi cahiers, i cui originali formano una lunga serie di volumi manoscritti, costituiscono quasi il testamento della vecchia società francese, l’espressione suprema dei suoi desideri, la manifestazione autentica delle sue ultime volontà. È un documento unico nella storia, e tuttavia non mi sono fermato ad esso soltanto.

Nei paesi in cui l’amministrazione pubblica è potente, desideri, idee, dolori, interessi e passioni finiscono, presto o tardi, per mostrarsi a nudo davanti ad essa. L’indagine nei suoi archivi offre non soltanto l’esattissima nozione dei suoi modi di procedere, ma permette anche di vedere, nella sua intima essenza, tutta la società.

Uno straniero che potesse oggi esaminare tutta la corrispondenza confidenziale del Ministero dell’Interno con le prefetture, finirebbe di saperne sul nostro conto più di noi stessi.

Nel secolo decimottavo, come si vedrà più innanzi, la amministrazione pubblica era già molto accentrata, molto potente, prodigiosamente attiva; continuamente aiutava, permetteva, proibiva, ed aveva molto da promettere e molto da dare.

Essa di già influiva in mille modi non solo sull’andamento generale degli affari, ma sulla sorte delle famiglie e sulla vita privata di ciascuno. Inoltre, in quanto operava senza pubblicità, non si aveva timore di rivelare ad essa anche le più segrete debolezze. Mi sono dato per questo a uno studio lungo ed attento dei documenti di essa rimastici, sia a Parigi sia in molte delle provincie, e qui, come mi aspettavo, ho veramente trovato il vecchio regime ancor vivo nelle sue idee, nei suoi pregiudizi, nelle sue passioni e nelle sue abitudini.

Tutti vi parlavano liberamente il loro linguaggio e da tutto traspariva l’intimo dei loro pensieri. Ho finito così per acquistare sull’antica società molte nozioni rimaste ignote persino ai contemporanei: avevo infatti sotto gli occhi ciò che mai era stato offerto ai loro sguardi.

A mano a mano che procedevo nel mio studio, mi sorprendeva ritrovare nella Francia di allora molti aspetti che sembrano propri della Francia di oggi. Vi ritrovavo sentimenti, che credevo nati con la Rivoluzione, idee che sino ad allora avevo ritenuto derivassero da essa, abitudini che comunemente si ritengono solo da essa trasmesse; dappertutto ritrovavo le radici della società attuale profondamente penetrate in quel vecchio suolo.

Quanto più mi avvicinavo al 1789 tanto meglio vedevo formarsi, nascere e ingrandirsi lo spirito animatore della Rivoluzione, scoprendomisi così a poco a poco la sua vera fisionomia, il suo vero carattere, il suo proprio temperamento. Non vi scoprivo soltanto la ragione di ciò che essa avrebbe compiuto nel primo sforzo, ma il preannuncio di ciò che in definitiva avrebbe fondato; giacché la Rivoluzione ha avuto due fasi ben distinte: la prima è stata quella in cui i francesi sembra abbiano voluto tutto distruggere del loro passato; la seconda quella in cui essi sono tornati al passato quasi a riprendervi una parte di ciò che vi avevano lasciato.

Vi ha così un gran numero di leggi e di costumi politici del vecchio regime che spariscono d’un tratto nel 1789, pronti a riapparire qualche anno dopo, come quei fiumi che spariscono dalla superficie della terra per ricomparire un po’ più lontano con le medesime acque, ma entro nuove rive.

Lo scopo precipuo della mia opera è di far comprendere perché questa grande Rivoluzione, che si preparava contemporaneamente su quasi tutto il continente europeo, è scoppiata, anziché altrove, in Francia; perché essa è sorta dalle viscere stesse della società che doveva poi distruggere, e perché infine l’antica monarchia è crollata così improvvisamente e così completamente.

Ma il mio proposito non è di arrestarmi qui: se non mi mancheranno le forze e il tempo, io intendo seguire, attraverso gli eventi della lunga Rivoluzione, questi stessi francesi con i quali così bene mi sono familiarizzato e che il vecchio regime aveva foggiato; intendo vederli modificarsi e trasformarsi secondo gli eventi i quali, pur mutandone incessantemente la fisionomia, non hanno però agito in modo tale da mutarne la natura, si da renderli irriconoscibil.

Insieme a loro voglio percorrere i primi periodi dell’89, durante i quali l’amore dell’uguaglianza e quello della libertà egualmente infiamma i loro cuori; quando non solo vogliono fondare istituzioni democratiche, ma anche libere, non solo distruggere privilegi, ma anche sancire e consacrare diritti: periodo questo di giovinezza, di entusiasmo, di fierezza, ricco di passioni generose e sincere, del quale gli uomini, malgrado i suoi errori, serberanno eterno ricordo e che, per lungo tempo ancora, turberà il sonno di chiunque voglia corromperli o asservirli.

Seguendo rapidamente il corso di questa stessa Rivoluzione, mi sforzerò di illustrare attraverso quali avvenimenti, quali errori e quali colpe questi stessi francesi hanno abbandonato la loro prima mèta e come, dimenticando la libertà, sono potuti divenire gli eguali servitori di un padrone; mi sforzerò di chiarire come un governo, molto più forte e più assolutistico di quello rovesciato dalla Rivoluzione, abbia potuto ripigliar vigore, accentrando tutti i poteri e sopprimendo tutte le libertà pagate a così caro prezzo, mettendo al loro posto le loro sterili immagini; chiamando «sovranità popolare» i suffragi di elettori che non possono né illuminarsi né concertarsi nella scelta, e «voto libero da imposizioni» il voto di assemblee mute o asservite; governo che, pur togliendo alla nazione il diritto di governarsi da se stessa e togliendole ogni garanzia giuridica, ogni libertà di pensiero, di parola e di stampa — cioè le più belle e preziose conquiste dell’89 — ancora osa ammantarsi di quel gran nome.

Il mio studio giungerà sino al momento in cui la Rivoluzione mi sembrerà aver quasi compiuto l’opera sua, dando vita alla società nuova. Studierò allora questa società sforzandomi di discernere in che essa rassomigli a quella che l’ha preceduta e in che ne differisca; e di rendermi conto di ciò che abbiamo guadagnato e di ciò che abbiamo perduto, per lanciare infine uno sguardo sul nostro probabile avvenire.

Parte di questo lavoro è già abbozzata, ma non è ancora degna di essere presentata al pubblico. Mi sarà concesso di completarla? Nessuno può dirlo, ché il destino degli individui è ben più oscuro di quello dei popoli.

Spero di aver scritto questo libro senza preconcetti, ma non pretendo di averlo scritto senza passione, perché sarebbe appena tollerabile che un francese potesse parlare del suo paese e pensare al suo tempo senza essere scosso dalla passione.

Confesso quindi che studiando la nostra vecchia società in ogni sua parte, non ho mai perduto completamente di vista la società nuova; non ho voluto vedere soltanto di quale malattia è morto il malato, ma ho indagato come avrebbe potuto salvarsi, comportandomi alla guisa di quei medici che, in ogni organo estinto, cercano sorprendere le leggi della vita.

Il mio scopo è stato quello di tracciare un quadro rigorosamente esatto e al tempo stesso istruttivo. Ogniqualvolta dunque ho ritrovato nei nostri padri quelle maschie virtù che ci sarebbero tanto necessarie e che purtroppo ci mancano — un vero spirito d’indipendenza, l’amore delle grandi imprese, la fede in se stessi e in una causa — le ho messe in piena luce; del pari, quando ho riscontrato nelle leggi, nei costumi e nelle idee di allora la traccia di qualcuno dei difetti che, dopo aver distrutto la vecchia società, logorano anche la nostra, mi sono dato premura di lumeggiarli, perché, vedendo chiaramente il male fattoci nel passato, meglio si comprendesse il male che ancora possono farci.

Per raggiungere questo scopo non ho temuto, lo confesso, di colpire nessuno, né individui, né classi, né opinioni, né ricordi, per quanto rispettabili essi fossero: l’ho fatto spesso con dispiacere, ma sempre senza rimorso. Quelli cui posso aver recato dispiacere mi perdoneranno in vista dello scopo disinteressato e onesto che perseguo.

Parecchi forse mi rimprovereranno di aver mostrato in questo libro un amore intempestivo per la libertà, di cui, a quanto mi si assicura, nessuno oggi si cura più in Francia. A coloro che vorranno rivolgermi questo rimprovero, rivolgo preghiera di voler tenere presente come quell’amore sia in me molto antico. Sono ormai più di vent’anni da quando, parlando di un’altra società, scrivevo quasi testualmente quanto segue.

In mezzo alle tenebre che ci nascondono l’avvenire, tre verità si scorgono chiaramente. La prima è che tutti i contemporanei sono trascinati da una forza sconosciuta, che può essere frenata e regolata ma non vinta e che li spinge, ora dolcemente ora irresistibilmente, a combattere e distruggere l’aristocrazia; la seconda è che, fra tutte le società, quelle che dureranno maggior fatica per sfuggire a un governo assoluto sono precisamente le società nelle quali l’aristocrazia è scomparsa e non può più risorgere; la terza infine che in nessun caso il dispotismo matura frutti peggiori di quelli che può produrre in dette società, perché più d’ogni altro il governo dispotico è quello che favorisce lo sviluppo dei vizi ad esse propri, spingendole in tal modo proprio là dove, per naturale inclinazione, esse già tendono.

Gli uomini appartenenti a tali società, non essendo più legati fra loro da vincoli di casta o di classe o di corporazione o di famiglia, sono naturalmente inclini a preoccuparsi solo dei loro particolari interessi, portati sempre a non considerare che se stessi, a rinchiudersi in un gretto individualismo, che finisce per uccidere ogni virtù civica.

Il dispotismo, invece di reagire contro simile tendenza, la rende irresistibile, in quanto toglie ai cittadini ogni passione comune, ogni bisogno reciproco, ogni necessità d’intendersi e di agire concordemente; esso li mura, per così dire, entro la vita privata e li isola; e mentre essi già si raffreddano gli uni verso gli altri, il dispotismo li gela.

In queste società, ove nulla è stabile, ognuno è incessantemente assillato dal timore di scendere e dal desiderio cocente di salire; e come il denaro, divenuto il principale segno di distinzione fra gli uomini, vi ha acquistato contemporaneamente una grande mobilità, col passare continuamente di mano in mano e col trasformare la condizione degli individui e delle famiglie, così tutti vi sono costretti a compiere sforzi disperati e ripetuti per venirne in possesso o per conservarlo.

Il desiderio di arricchirsi ad ogni costo, la passione per gli affari, la cupidigia del guadagno, la ricerca del benessere e dei godimenti materiali sono dunque le passioni più comuni. Esse si diffondono in tutte le classi, penetrano anche in quelle che più vi erano rimaste estranee, e giungerebbero ben presto a snervare e a degradar l’intera nazione se nulla non venisse ad arrestarle.

Ora, è invece nella natura stessa del dispotismo di favorirle ed estenderle: queste passioni debilitanti gli vengono in aiuto, esse che tengono lontani gli animi dai pubblici affari e ne provocano il terrore alla sola parola di «rivoluzione». Esso solo può fornir loro quell’ombra e quel segreto che mettono la cupidigia a suo agio e permettono di trarre disonesti profitti dal disonore. Quelle passioni senza il dispotismo sarebbero già forti: con esso dominano senza contrasti.

Solo la libertà invece può efficacemente combattere, in società così costituite, i vizi che hanno connaturati, e trattenerle sul piano inclinato pel quale discendono. Solo essa può ritrarre i cittadini dall’isolamento in cui li fa vivere l’indipendenza stessa della loro condizione, costringerli a riavvicinarsi e a riunirsi ogni giorno per la necessità d’intendersi, di persuadersi scambievolmente e di ritrarre una mutua soddisfazione reciproca nel trattare gli affari comuni.

Solo essa è capace di strapparli al culto del danaro e alle meschine preoccupazioni del tornaconto particolare, per far scorgere loro in ogni momento la patria, al di sopra e a fianco di essi. Solo essa all’amore del benessere sostituisce, di quando in quando, passioni più sane e più alte, propone all’ambizione scopi più nobili e puri dell’arricchimento, e crea quella luce che permette di scorgere e di giudicare i vizi e le virtù degli uomini.

Le società democratiche, che non sieno libere, possono esser ricche raffinate, colte, magnifiche persino, potenti per il peso della loro massa omogenea; si possono rinvenire in esse ottime virtù private, buoni padri di famiglia, commercianti onesti, proprietari stimabili; vi si potranno trovare anche buoni cristiani, perché la patria loro non è di questo mondo e perché la gloria della loro religione è di produrli anche in mezzo alla più grande corruzione e sotto il peggiore dei governi, tanto che l’Impero romano, nella sua decadenza estrema, ne era pieno; ma in società simili non si vedrà mai né un grande cittadino, né, soprattutto, un grande popolo, e — oso affermarlo — il livello comune dei cuori e degli animi tenderà sempre più in basso sino a che in esse dispotismo ed eguaglianza saranno strettamente uniti.

Questo io pensavo e scrivevo vent’anni fa. Confesso che, da allora, nulla è accaduto che mi abbia indotto a pensare e a dire diversamente. Avendo mostrato amore vivo alla libertà nel momento in cui essa era in auge, non si troverà di cattivo gusto che io vi persista oggi che da ogni parte la si abbandona.

Si consideri d’altro canto che io sono meno lontano dai miei contradditori di quanto essi stessi non credano. Chi, fra gli uomini, avrebbe per natura un’anima così bassa da preferire la dipendenza ai capricci di un despota all’ossequio a leggi formate col suo concorso, se gli sembrasse che la sua nazione possedesse le virtù necessarie a far buon uso della libertà?

Credo che non ve ne sia alcuno. Gli stessi despoti non negano che la libertà sia cosa eccellente, solo la vogliono esclusivamente per sé, e sostengono che gli altri ne sono tutt’affatto indegni. La divergenza non sorge dunque intorno al valore della libertà, ma sulla stima maggiore o minore che si ha degli uomini; e può dirsi perciò che l’amore e il gusto verso il governo assoluto è in proporzione diretta al disprezzo che si nutre verso il proprio paese. Per parte mia chiedo soltanto che mi si permetta di attendere ancora un poco prima di convertirmi a questo sentimento.

Posso dire — credo, senza troppo vantarmi — che il libro che pubblico ora è il frutto di un faticoso lavoro: vi è un capitolo brevissimo che mi è costato più di un anno di ricerche. Avrei potuto sovraccaricare di note ogni pagina; ho preferito ridurle a poche, e confinarle in fondo al volume. Si troveranno qui esempi e citazioni da documenti: potrei però citarne molti altri se a qualcuno sembrasse che valga la pena di farlo.

Capitolo 1 — I giudizi contraddittori dei contemporanei

Nulla vi ha di più atto per richiamare alla modestia filosofi e uomini di Stato della storia della nostra Rivoluzione; mai infatti vi fu avvenimento più grande, meglio preparato e maggiormente legato a cause lontane che fosse meno previsto. Lo stesso Federico il Grande, malgrado il suo genio, non l’ha presentita. Vi è passato accanto senza vederla; ne è stato il precursore e, in un certo senso, l’agente; ne ha adottato, anticipatamente, il suo spirito; ciononostante, al suo avvicinarsi, non l’avverte nemmeno e quando essa alfine si mostra, sfuggono a bella prima al suo sguardo i lineamenti nuovi e straordinari che servono a renderne caratteristica la fisionomia tra la folla innumerevole delle tante rivoluzioni.

All’estero essa è oggetto di universale curiosità; dovunque essa suscita nello spirito dei popoli una specie di sentimento inconscio che tempi nuovi si preparano, e vaghe speranze di mutamenti e di riforme; ma nessuno sospetta ancora ciò che essa veramente sarà. Ai principi e ai loro ministri manca persino quel vago presentimento che, al suo apparire, commuove i popoli; essi la considerano come una di quelle malattie periodiche, cui tutti i popoli vanno soggetti, e che non hanno altro scopo se non quello di aprire nuovi orizzonti alla politica dei loro vicini.

Se per caso dicono su di essa la verità, la dicono senza rendersene conto. I principali sovrani tedeschi, riuniti a Pilnitz nel 1791, proclamano, è vero, che il pericolo che minaccia la monarchia francese minaccia egualmente tutti gli antichi poteri d’Europa, e che tutti sono minacciati con essa; ma, in fondo, non ci credono.

I documenti segreti del tempo dimostrano che questo era solo un pretesto per mascherare i loro disegni e presentarli agli occhi della folla. Essi sanno bene che la Rivoluzione francese è un episodio puramente locale e transitorio, da cui bisogna soltanto trarre profitto!

In base a questa convinzione, concepiscono i loro piani, fanno i loro preparativi, contraggono alleanze segrete; leticano fra loro alla vista della prossima preda, si dividono si riavvicinano: prevedono tutto, fuorché quello che sta per accadere.

Gli Inglesi, che per la loro storia e per la lunga pratica della libertà, hanno maggiore esperienza e maggior capacità d’intuizione, scorgono bene l’immagine di una grande rivoluzione che avanza, ma come attraverso un fitto velo opaco; e perciò non riescono né a distinguere la forma né l’influenza ch’essa eserciterà ben presto sui destini del mondo e sui loro.

Arturo Young, che percorre la Francia quando la Rivoluzione sta per scoppiare, e che la ritiene imminente, ne ignora a tal punto il significato da chiedersi se non avrà come suo risultato un accrescimento dei privilegi.

«Penso che se il risultato di questa rivoluzione fosse quello di accrescere ancor più la potenza della nobiltà e del clero, essa riuscirebbe più a male che a bene.»

Burke, lo spirito del quale fu illuminato dall’odio ispiratogli dalla Rivoluzione fin dal suo sorgere, Burke stesso resta alquanto indeciso di fronte ad essa. Si augura dapprima che la Francia ne esca snervata e quasi annientata.

«È probabile — egli dice — che per molto tempo le capacità combattive della Francia siano spente; potrebbe anche darsi che lo fossero per sempre, e che la generazione ventura possa nuovamente dire: Gallos quoque in bellis floruisse audivimus (Abbiamo sentito dire che i Galli stessi un tempo si erano resi illustri nelle armi).»

Né l’avvenimento è giudicato meglio da vicino che da lontano. In Francia, alla vigilia della Rivoluzione, non si ha nessun’idea precisa di quello che essa compirà. Tra la folla dei cahiers, non ne ho trovati che due in cui si mostri un certo timore del popolo; ciò che si teme è la preponderanza del potere regio, della Corte come ancora si dice.

La debolezza e la breve durata degli Stati Generali preoccupano; si ha paura che si esercitino violenze contro di essi; la nobiltà, anzi, ne è particolarmente afflitta. «Le truppe svizzere — dicono parecchi cahiers — debbono giurare di non far uso delle armi contro i cittadini, neppure in caso di sommossa o di aperta rivolta.» Che si lascino gli Stati Generali completamente liberi e tutti gli abusi saranno eliminati: la riforma da compiere è immensa, ma facile.

Tuttavia la Rivoluzione segue il suo corso. Ma è soltanto dopo che si è vista apparir la testa del mostro, dopo che è stata scoperta la sua fisionomia singolare e terribile, dopo che si son viste distrutte le istituzioni politiche, aboliti gli istituti civili e cambiate le leggi, i costumi, le usanze e persino la lingua; quando, dopo aver rovinato l’edificio governativo, essa scuote dalle fondamenta la società e sembra infine volersela prendere persino con Dio; quando questa stessa Rivoluzione trabocca poi al di fuori con procedimenti sin’allora sconosciuti, con una tattica nuova, con massime micidiali e, forte delle sue opinioni armate, — come diceva Pitt, — abbatte i confini degli imperi, spezza le corone, calpesta i popoli e, cosa mirabile, li guadagna al tempo stesso alla sua causa; è soltanto dopo che si son visti accadere tutti questi avvenimenti che cambia il giudizio su di essa.

Ciò che in un primo tempo era apparso, ai sovrani e agli uomini di Stato europei, un incidente normale nella vita dei popoli, si rivela un fatto nuovo, così contrario anche a tutto quanto era anteriormente accaduto nel mondo, e tuttavia così generale, così mostruoso, così incomprensibile, che di fronte ad esso lo spirito umano resta come smarrito. Gli uni pensano che questa potenza sconosciuta, che nulla sembra l’alimenti o l’abbatta, che non si può fermare e che non può fermarsi, spinga le società umane sino alla loro dissoluzione completa e finale.

Parecchi la giudicano come l’azione tangibile del demonio sulla terra, e De Maistre, sin dal 1797, dice che

«la Rivoluzione francese ha un carattere satanico».

Altri, al contrario, vi scorge la benefica mano di Dio che vuole rinnovare, oltre la Francia, il mondo, quasi volesse creare una specie di umanità rinnovellata. In molti scrittori di questo tempo si ritrova qualcosa dello spavento religioso che provava Salviano alla vista dei barbari.

Burke, riprendendo il suo pensiero, esclama:

«Privata del suo antico governo o meglio di ogni governo, sembrava che la Francia dovesse essere oggetto di insulto e di pietà, anziché il flagello e il terrore del genere umano. Ma dalla tomba della monarchia assassinata è uscito un essere informe e immenso, più terribile di ogni altro che abbia oppresso e soggiogato l’immaginazione degli uomini. Quest’essere strano e schifoso va diritto al suo scopo, senza essere arrestato dai rimorsi o spaventato dai pericoli. Spregiando tutti i mezzi normali e tutti i principi generalmente accettati, terrorizza coloro che non possono neppure comprendere come sia possibile la sua esistenza».

L’avvenimento è, in realtà, così straordinario come lo hanno giudicato i contemporanei? Così inaudito e così profondamente innovatore e perturbatore come essi supponevano? Quale fu il vero significato e il vero carattere di questa Rivoluzione strana e terribile? Quali i suoi effetti permanenti? Che cosa ha veramente distrutto e che cosa ha creato?

È giunto il momento di dirlo, perché oggi ci troviamo nel momento più adatto e migliore per renderci conto di quel fatto storico e per giudicarlo. Abbastanza lontani dalla Rivoluzione per non avvertire che debolmente le passioni che hanno turbato il giudizio di coloro che la fecero, le siamo ancora abbastanza vicini per poter penetrare lo spirito che l’ha suscitata e comprenderlo. Tra poco il farlo sarebbe forse troppo ardito, giacché le rivoluzioni vittoriose, facendo sparire le cause che le hanno determinate, divengono incomprensibili grazie al loro stesso successo.

Capitolo 2 — Lo scopo vero della Rivoluzione

Uno dei primi passi compiuti dalla Rivoluzione francese fu quello di colpire la Chiesa; anzi, fra le passioni nate da essa, la prima ad avvivarsi e l’ultima a spegnersi fu proprio la passione irreligiosa. Anche quando era ormai svanito l’entusiasmo per la libertà, e dopo che si era comprata la tranquillità a prezzo della servitù, si rimaneva ribelli all’autorità religiosa. Napoleone, che aveva potuto vincere lo spirito liberale della Rivoluzione francese, compì inutili sforzi per dominare le sue tendenze anticristiane; del resto, non abbiamo visto anche oggi uomini che hanno creduto riscattare la loro servilità verso i più infimi agenti del potere politico con la loro insolenza verso Dio e che, mentre hanno rinunciato a tutto quanto nelle dottrine della Rivoluzione vi ha di più nobile, più libero e fiero, si sono lusingati di rimanere fedeli al suo spirito, restando irreligiosi?

Eppure oggi è facile convincersi che la lotta antireligiosa fu solo un incidente della grande Rivoluzione, un tratto saliente e tuttavia fugace della sua fisionomia, il prodotto passeggero delle idee, delle passioni, dei fatti particolari che l’hanno preceduta e preparata, non il suo carattere proprio.

Si ritiene con ragione che la filosofia del secolo decimottavo sia stata una delle principali cause della Rivoluzione, ed è vero che questa filosofia è stata profondamente irreligiosa. In essa occorre però distinguere bene due aspetti, tutt’insieme distinti e separabili.

Il primo riguarda tutte le opinioni nuove o rimesse a nuovo che si riferiscono alla condizione delle società ed ai princìpi delle leggi civili e politiche, quali, ad esempio, l’eguaglianza naturale degli uomini; l’abolizione di ogni privilegio di casta, di classe o di professione, che ne è la conseguenza; la sovranità popolare; l’onnipotenza del potere sociale; l’uniformità delle regole, ecc. Tutte queste dottrine non sono soltanto le cause della Rivoluzione francese, ma ne costituiscono l’essenza, ciò che essa ha di più fondamentale, di più durevole e di più vero in relazione ai tempi.

L’altro aspetto delle dottrine filosofiche del secolo decimottavo è quello invece più propriamente anticattolico. Accanitamente e quasi con furore si combatte la Chiesa, il suo clero, la sua gerarchia, le sue istituzioni e i suoi donimi, tentando persino, per meglio riuscire nell’intento, di distruggere le basi stesse del cristianesimo.

Ma questo fu anche il lato di quella filosofia che, avendo tratto origine in fatti che la Rivoluzione stessa distruggeva, doveva a poco a poco sparire con essi, e trovarsi come seppellita nel suo stesso trionfo. Aggiungerò, per farmi meglio comprendere, una sola parola, dato che voglio riprendere altrove questo grave problema: il cristianesimo aveva eccitato questo odio accanito più come istituzione politica che come dottrina religiosa; i preti erano combattuti non perché volessero regolare le cose dell’altro mondo, ma perché erano proprietari, signori, percettori di decime, amministratori; non si mirava a che la Chiesa non avesse il suo posto nella società nuova, ma si trovava che essa occupava il posto più privilegiato e più forte in quella vecchia società che si trattava di demolire.

Riflettete come il corso del tempo ha messo in luce questa verità, e come progressivamente esso la illumini. Più si è consolidata l’opera politica della Rivoluzione e più si è dimostrata sterile la sua opera irreligiosa. A mano a mano che sono cadute le istituzioni politiche da essa attaccate, che i poteri, le influenze e le classi particolarmente ostili ad essa sono state vinte definitivamente e che, come ultimo segno della loro sconfitta, si sono affievoliti persino gli odi da essa ispirati; a mano a mano che il clero si è maggiormente estraniato da ciò che con esso era caduto, la potenza della Chiesa si è rialzata e si è rafforzata negli spiriti. E non crediate che questo sia particolare alla Francia, che non vi ha Chiesa in Europa che dopo la Rivoluzione francese non abbia preso nuovo vigore.

È un grave errore credere che le società democratiche siano, per natura loro, ostili alla religione: non vi è nulla nel cristianesimo, e neppure nel cattolicismo che sia assolutamente contrario allo spirito di queste società, e per molti riguardi anzi vi sono elementi ad esso favorevoli.

L’esperienza di tutti i secoli ha del resto dimostrato che le più profonde radici dell’istinto religioso sono nel cuore del popolo: tutte le religioni scomparse, hanno avuto in esso il loro ultimo asilo, e sarebbe assai strano che istituzioni intese a far prevalere le idee e le passioni del popolo avessero come effetto necessario e permanente di spingere lo spirito umano verso l’empietà.

Ciò che ho detto del potere religioso, lo dirò, a maggior ragione, del potere sociale.

Quando si vide che la Rivoluzione rovesciava ad una ad una tutte le istituzioni e tutti gli usi che avevano mantenuto sino allora una gerarchia nella società e contenuto gli uomini entro i limiti di una regola, si potè credere che avrebbe avuto per risultato non la distruzione di un particolare ordinamento della società, ma di ogni ordinamento possibile, non la distruzione di una particolare forma di governo, ma di ogni governo; si giudicò allora che la sua natura fosse essenzialmente anarchica. Malgrado ciò, oso ancora affermare che si trattava di mera apparenza.

Prima che compisse l’anno dallo scoppio della Rivoluzione, Miraheau scriveva segretamente al re:

«Confrontate il nuovo stato di cose con il vecchio regime, e ne trarrete conforto e speranza. Una parte degli atti dell’Assemblea nazionale, e la più considerevole, è evidentemente favorevole al governo monarchico. Non significa dunque nulla l’essersi liberati del Parlamento, dei Paesi di Stato, del clero, dei privilegiati, della nobiltà? L’idea di formare una sola classe di cittadini avrebbe sedotto Richelieu: questa superficie uguale facilita l’esercizio del potere. Parecchi regni di governo assoluto non avrebbero fatto, per il potere regio, quanto ha fatto questo solo anno di Rivoluzione».

Mirabeau, da uomo capace di guidarla, capiva la Rivoluzione.

In quanto la Rivoluzione francese non ha avuto per solo scopo il cambiamento di un antico governo, ma l’abolizione dell’antica forma della società, essa ha dovuto insieme abbattere tutti i poteri costituiti, distruggere tutti gli influssi riconosciuti, cancellare le tradizioni, rinnovare i costumi e gli usi, e liberare in qualche modo lo spirito umano da tutte le idee su cui si erano fondati sino ad allora il rispetto e l’obbedienza: da ciò il suo carattere singolarmente anarchico.

Ma mettete da canto queste rovine, e scorgerete un potere centrale immenso, che ha attirato e come inghiottito in sé tutti i frammenti di autorità e di influenza che erano prima sparsi in un gran numero di poteri secondari, di ordini, classi, professioni, famiglie e individui, disseminati per tutto il corpo sociale.

Dopo la caduta dell’Impero romano, non si era più visto nulla di simile; è la Rivoluzione che ha creato questo potere nuovo, o, meglio, esso è balzato fuori, quasi spontaneamente, dalle rovine che la Rivoluzione ha prodotto. I governi da essa fondati sono più fragili, è vero, ma mille volte più potenti di quelli che ha rovesciati: fragili e potenti a un tempo, come dirò più avanti.

Questa forma semplice, regolare, grandiosa, Mirabeau la intravvedeva digià di tra la polvere delle antiche costituzioni a metà demolite; agli occhi della folla essa sfuggiva ancora, nonostante la sua grandiosità; ma il tempo, a poco a poco, a tutti l’ha rivelata.

Ciò scorgono oggi soprattutto i principi, ora che considerano l’evento con ammirazione e con entusiasmo, e non solo quelli che dalla Rivoluzione furono generati, ma ancor quelli che più le sono estranei e nemici. Tutti si sforzano egualmente di distruggere immunità e di abolire privilegi: confondono le classi, eguagliano le condizioni, sostituiscono i funzionari all’aristocrazia, l’uniformità legislativa alle franchigie locali, l’unità del governo all’autonomia dei poteri.

A questo lavoro rivoluzionario si dedicano con cura incessante e, se si imbattono in qualche ostacolo, capita loro talvolta di togliere a prestito dalla Rivoluzione i suoi procedimenti e i suoi principi. Occorrendo, hanno sollevato il povero di fronte al ricco, il borghese di fronte al nobile, il contadino di fronte al suo signore: la Rivoluzione francese, per loro, è stata, a un tempo, flagello e maestra.

Capitolo 3 — Carattere religioso della Rivoluzione

Tutte le rivoluzioni civili e politiche hanno avuto una patria, e li si sono come esaurite; la Rivoluzione francese invece, non soltanto non ha avuto una patria, ma ha avuto anzi per risultato, in un certo senso almeno, l’abolizione delle vecchie frontiere. Essa ha riavvicinato o diviso gli uomini al di sopra e al di fuori delle leggi, delle tradizioni, dei caratteri, della lingua, rendendo talvolta nemici i fratelli e fratelli o nemici; o meglio, al di là delle nazionalità, ha creato una patria comune in cui gli uomini di ogni nazione potevano egualmente chiamarsi cittadini.

Sfogliate gli annali della storia, e non troverete una sola rivoluzione politica che abbia avuto questo carattere. Solo certune rivoluzioni religiose lo presentano, ed è per questo che, se si vuol ricorrere ad analogie, bisogna paragonare la Rivoluzione francese ad alcune rivoluzioni religiose.

Schiller, nella sua Storia della guerra dei Trentanni, osserva con ragione che la grande riforma del sedicesimo secolo ebbe per risultato il riavvicinamento subitaneo di popoli che si conoscevano appena, unendoli strettamente con legami nuovi di simpatia.

Si videro allora Francesi combattere contro Francesi, e Inglesi correr loro in aiuto; uomini nati in fondo al Baltico penetrare fin nel cuore della Germania per proteggervi dei Tedeschi, di cui non avevano mai sentito parlare sin’allora; ogni lotta assunse il carattere di una guerra civile, e in tutte le guerre civili comparvero degli stranieri.

Gli antichi interessi delle nazioni furono dimenticati in vista dei nuovi interessi, e alle questioni territoriali subentrarono questioni di principi. Con grande meraviglia e con grande dolore dei politici del tempo, tutte le regole della diplomazia si trovarono come rovesciate e confuse. Non è questo ciò che precisamente avvenne in Europa dopo il 1789?

La Rivoluzione francese è dunque una rivoluzione politica che ha operato ed ha assunto l’aspetto o almeno taluno degli aspetti di una rivoluzione religiosa. Osservate attraverso quali tratti particolari e caratteristici essa ha finito per rassomigliare a quest’ultime: non solo si diffonde lontano al pari di esse, ma, com’esse, vi si estende con la predicazione e la propaganda.

È uno spettacolo nuovo questo, di una rivoluzione politica che ispira del proselitismo e che si predica fra gli stranieri con ardore pari alla passione con cui la si compie in patria! Fra tutte le cose nuove che la Rivoluzione francese ha mostrato al mondo, questa è certamente la più nuova. Ma non fermiamoci a queste rassomiglianze esteriori: sforziamoci piuttosto di penetrare più addentro, per cercar di vedere se questa somiglianza negli effetti non dipenda da qualche più profonda somiglianza nelle cause.

Caratteristica fondamentale delle religioni è di considerare l’uomo in sé, senza aver riguardo a ciò che di specifico le leggi, i costumi e le tradizioni di un paese abbiano potuto aggiungere a questo fondo comune: il loro scopo precipuo è quello di regolare i rapporti generali dell’uomo con Dio, i diritti e i doveri generali degli uomini fra loro, indipendentemente da qualsiasi forma che la società possa assumere.

Le regole di condotta da esse stabilite si riferiscono più al figlio, al padre, al servitore, al padrone, al prossimo in genere, di quello che non si riferiscano all’uomo di un determinato paese o di un determinato tempo. Ponendo in tal modo a fondamento loro la natura stessa dell’uomo, esse possono egualmente essere accettate da tutti ed applicate ovunque; ed è per questo che la loro influenza è stata spesso sì vasta, non limitandosi che assai raramente, come invece accade per le rivoluzioni politiche, al territorio di un solo popolo o di una razza sola.

Se si vuol stringere ancor più da presso questo argomento, si vedrà che, quanto più le religioni hanno avuto questo carattere astratto e generale cui ho accennato, tanto più si sono estese malgrado ogni diversità di leggi, di climi e di uomini.

Le antiche religioni pagane, che erano tutte più o meno legate alla costituzione politica o allo stato sociale di ciascun popolo e che conservavano persino nei loro domini una certa fisionomia nazionale e spesso anche municipale, si sono di regola contenute entro i limiti di un territorio ben determinato. Se dettero talvolta origine all’intolleranza e alla persecuzione, non conobbero però mai il proselitismo.

È cost che nel nostro Occidente non vi fu vera rivoluzione religiosa prima dell’avvento del cristianesimo: è solo con esso che, per la prima volta, una religione, passando agevolmente attraverso le barriere che avevano arrestato le religioni pagane, riesce a conquistare in breve tempo una gran parte del genere umano. Io non credo che si manchi di rispetto a questa santa religione dicendo che essa dove in parte il suo trionfo al fatto che, più di ogni altra, era libera da ogni legame con le caratteristiche proprie di un popolo, di una forma di governo, di uno stato sociale, di un’epoca, di una razza.

La Rivoluzione francese ha operato, nei confronti di questo mondo, allo stesso modo con cui hanno operato le rivoluzioni religiose nei riguardi dell’altro mondo: essa ha considerato il cittadino astrattamente, al di fuori e al di sopra di ogni società determinata, proprio come le religioni considerano l’uomo in genere, indipendentemente dal suo paese e dal suo tempo. Essa non ha ricercato soltanto quali fossero i diritti particolari del cittadino francese, ma quali fossero in genere i diritti e i doveri degli uomini in materia politica.

Risalendo a quello che vi era di meno specifico e, per così dire, di più naturale in fatto di istituzioni sociali e di governo, essa ha potuto rendersi comprensibile ovunque e imitabile contemporaneamente in cento luoghi diversi. E siccome sembrava tendesse alla rigenerazione del genere umano più che alla riforma della Francia, ha potuto suscitar passioni che, fin’allora, le rivoluzioni politiche più violente non avevano saputo determinare.

Ha suscitato il proselitismo e fatto nascere la propaganda, e, grazie a ciò, ha potuto infine assumere quell’aspetto di rivoluzione religiosa che tanto ha spaventato i contemporanei. Meglio ancora, è divenuta essa stessa una specie di religione nuova, religione imperfetta senza dubbio, priva di Dio, senza culto e senza l’idea di un’altra vita, ma pur sempre religione che, come l’islamismo, ha inondato il mondo dei suoi soldati, dei suoi apostoli e dei suoi martiri.

Non bisogna d’altronde credere che i metodi da essa impiegati fossero del tutto senza precedenti, e che tutte le idee da essa agitate fossero interamente nuove. In tutti i secoli, e persino in pieno medioevo, vi furono agitatori che, per mutare particolari costumi, hanno invocato le leggi generali delle società umane e che hanno contrapposto alla costituzione del loro paese i diritti naturali dell’umanità.

Ma tutti questi tentativi caddero nel vuoto: quella stessa fiaccola che nel secolo decimottavo doveva infiammare l’Europa, venne spenta senza sforzo nel decimoquinto. Infatti, perché tentativi di questo genere diano luogo a rivoluzioni, bisogna che effettivamente alcuni mutamenti, già sopravvenuti nelle condizioni, nelle abitudini e nei costumi, abbiano preparato lo spirito umano a lasciarsene penetrare.

Vi sono dei momenti in cui gli uomini sono tanto diversi gli uni dagli altri, che l’idea di un’identica legge applicabile a tutti appare loro incomprensibile; ve ne sono altri invece in cui basta mostrare loro da lontano la confusa immagine di una simile legge, perché essi subito la riconoscano e le corrano incontro.

Lo straordinario non è che la Rivoluzione francese abbia seguito i procedimenti da essa attuati e abbia concepito le idee da essa prodotte: la grande e vera novità è che tanti popoli fossero giunti a tal punto da permettere l’impiego di questi procedimenti e l’accettazione di questi principi.

Capitolo 4 — La identità delle istituzioni in Europa

I popoli che hanno rovesciato l’Impero romano e formato le nazioni moderne, differivano per razza, per luogo d’origine, per lingua; non si rassomigliavano che nella barbarie. Stabilitisi sul territorio dell’Impero, per lungo tempo vi si sono urtati, portando ovunque confusione e rovina, e trovandosi infine, quando giunsero a consolidarvisi, separati gli uni dagli altri da quelle stesse rovine che avevano prodotte.

La civiltà era ormai quasi spenta, l’ordine pubblico distrutto: i rapporti degli uomini fra loro divennero perciò difficili e pericolosi, e la grande società europea si frazionò in mille piccole società distinte e nemiche, che vissero ciascuna chiusa in se stessa. Tuttavia dal seno di questa massa incoerente ed informe sorse, quasi ad un tratto, l’idea di un diritto comune.

I nuovi istituti giuridici non furono tuttavia una semplice imitazione di quelli romani; vi furono anzi, per certi aspetti, talmente contrastanti che, quando si trattò di abolirli o trasformarli, si ricorse proprio al diritto romano. Queste norme hanno una fisionomia propria e originale, che le distingue nettamente da ogni altra: si corrispondono simmetricamente fra loro e, nell’insieme, costituiscono un tutto talmente legato nelle sue parti da far invidia agli stessi codici moderni; insomma un complesso di sagge leggi ad uso di una società semibarbara.

Ora, per quali motivi una cosiffatta legislazione ha potuto formarsi, diffondersi e generalizzarsi in Europa? Non è mio compito il ricercarlo, bastandomi qui rilevare che essa, nel medioevo, si ritrova più o meno dovunque in Europa, e che, in molti paesi, regna sovrana ad esclusione d’ogni altra.

Ho avuto occasione di studiare le istituzioni politiche medioevali in Francia, in Inghilterra e in Germania, e man mano che procedevo nel mio lavoro, ero sorpreso dalla prodigiosa somiglianza che riscontravo in mezzo ad esse, ed era per me oggetto di meraviglia il constatare come popoli, per tanti aspetti così differenti e diversi, avevan potuto sottomettersi a quasi identiche norme di diritto. Non che esse non variano in mille modi diversi nei particolari e secondo i luoghi, ma il loro fondamento reale è dappertutto identico.

Quando scoprivo nell’antica legislazione germanica un’istituzione politica, una legge, un potere, avevo la certezza che, cercando bene, avrei finito col trovare qualche cosa di sostanzialmente simile in Francia e in Inghilterra, e riuscivo di fatto col trovarla. Ognuno di questi tre popoli mi aiutava a capir meglio gli altri due.

Presso tutti e tre, il governo è informato agli stessi principi, le assemblee politiche sono formate dagli stessi elementi e munite degli stessi poteri. La società vi è divisa nel medesimo modo, con un’identica gerarchia fra le varie classi; i nobili vi occupano la stessa posizione, hanno gli stessi privilegi, la stessa fisionomia e la stessa indole: non sono uomini diversi, ma dappertutto gli stessi.

Gli ordinamenti delle città si rassomigliano e le campagne sono governate allo stesso modo. La condizione dei contadini è ben poco diversa: la terra è posseduta, occupata e persino lavorata allo stesso modo; il coltivatore è sottoposto agli stessi oneri.

Dai confini della Polonia al Mare d’Irlanda la signoria, la corte del signore, il feudo, i tributi, i diritti feudali, le corporazioni, tutto si rassomiglia. Alle volte anche i nomi sono gli stessi, ma ciò che più conta, e che è realmente notevole, e che un medesimo spirito anima tutte codeste analoghe istituzioni. Credo di poter affermare che nel XIV secolo le istituzioni sociali, politiche, amministrative, giudiziarie, economiche e letterarie d’Europa erano fra loro più simili di quello che forse non lo possano essere oggi, quando sembra che la civiltà abbia avuto cura di aprirsi ogni strada e di abbattere tutte le frontiere.

Non rientra negli scopi di questo libro esaminare come e perché questa antica costituzione dell’Europa sia andata poco a poco indebolendosi e rovinando: mi limito a constatare che nel secolo XVIII essa era ovunque a mezzo distrutta. Il decadimento, nelle sue linee generali, era meno sensibile nei paesi orientali che in quelli occidentali; ma ovunque la vecchiaia e spesso la decrepitezza si scorgevano chiaramente.

Questa decadenza graduale delle istituzioni medioevali si può seguire benissimo attraverso i documenti di archivio. È noto che ogni signoria possedeva registri chiamati terrieri, nei quali, di secolo in secolo, si indicavano i limiti dei feudi e delle decime, i canoni dovuti, le servitù, gli usi locali. Ho visto dei terrieri del XIV secolo che sono capolavori di metodo, di chiarezza, di precisione e d’intelligenza; dopo, nonostante il progresso generale della cultura, divengono tanto più oscuri, incompleti e confusi, quanto più sono recenti. Sembra quasi che la società politica cada nella barbarie, mentre la società civile si sforza di progredire.

Nella stessa Germania, ove l’antica costituzione d’Europa aveva meglio conservato che in Francia i suoi primitivi caratteri, una parte delle istituzioni da essa create erano ovunque cadute in rovina. Ora, per giudicare delle rovine del tempo, è assai meglio considerare lo stato in cui è ridotto ciò che ancora resta che il volger lo sguardo a quanto è scomparso.

Le istituzioni municipali che nel XIII e XIV secolo avevano fatto delle principali città tedesche altrettante piccole repubbliche ricche e civili, esistono ancora nel XVIII, ma non sono ormai che vane apparenze. I loro ordinamenti sembrano ancora in vigore; i loro magistrati conservano il vecchio nome e, apparentemente, le stesse funzioni; ma scomparse sono l’attività, l’energia, lo spirito civico, le virtù maschie e feconde che essi avevano ispirato. Queste vecchie istituzioni si sono come fossilizzate senza deformarsi.

Tutti i poteri del medioevo che ancora sussistono sono colpiti dalla stessa malattia, tutti fanno scorgere lo stesso deperimento e la stessa mancanza di vita. Di più ancora, tutto ciò che, senza far parte integrante di quella costituzione, vi si è trovato frammisto e ne ha presa l’impronta, perde ben presto la sua vitalità. Nel contatto, l’aristocrazia contrae una specie di debolezza senile; la stessa libertà politica, che ha vivificato di sé tutto il medioevo, sembra colpita da sterilità là dove conserva i caratteri particolari che il medioevo le aveva dati; dove le assemblee provinciali hanno conservato, senza cambiarlo, il vecchio ordinamento, esse costituiscono, nonché un aiuto, una remora al progresso: si direbbe che sono impenetrabili ed estranee allo spirito dei tempi. E il cuore del popolo, appunto per questo, sfugge loro e tende verso il principe.

L’antichità di queste istituzioni non le ha rese affatto venerabili; con l’invecchiarsi, anzi, si discreditano ogni giorno più; e, cosa strana, esse ispirano tanto maggior odio quanto meno, per la loro stessa decadenza, sembrano capaci di nuocere.

Uno scrittore tedesco contemporaneo, ammiratore del vecchio regime, rileva che «lo stato di cose esistente sembra divenuto urtante per tutti e qualche volta degno di disprezzo. Tutto ciò che è vecchio viene oramai giudicato sfavorevolmente; lo spirito nuovo penetra anche nel seno delle nostre famiglie e ne turba l’ordine; manca solo che le nostre donne di casa non vogliano più sopportare i vecchi mobili».

Tuttavia, alla stessa epoca, così in Germania come in Francia, la società era piena di attività e continuamente cresceva in prosperità e floridezza. Ma fate bene attenzione, questa pennellata completa il quadro; tutto ciò che vive, agisce e produce è di origine nuova: non soltanto nuova, bensì opposta e contraria all’antico.

È la regalità — che non ha più nulla di comune con la regalità del medioevo — che possiede prerogative diverse, occupa nuove posizioni, ispira altri sentimenti; è l’amministrazione statale che dappertutto dilaga sui resti dei vecchi poteri locali; è la gerarchia nuova dei funzionari che si sostituisce sempre più all’amministrazione nobiliare. Tutti questi nuovi poteri agiscono secondo metodi e si ispirano a principi che gli uomini del medioevo non avevano conosciuto o avevano disapprovato, e che in realtà hanno relazione con una società di cui essi non avevano neppure l’idea.

A prima vista, si direbbe che in Inghilterra l’antica costituzione d’Europa sia ancora in vigore; ma non si tratta che di vecchi nomi e di vecchie forme sotto le quali, a guardar bene, si vedrà che, sin dal diciassettesimo secolo, il sistema feudale è stato sostanzialmente abolito; che le classi si sono confuse; che la nobiltà è scomparsa e l’aristocrazia si è resa aperta; che la ricchezza è divenuta una vera potenza; che trionfano l’eguaglianza dinanzi alla legge, l’eguaglianza delle cariche pubbliche, la libertà di stampa, la pubblicità delle discussioni: tutti principi, questi, affatto ignorati dalla società medioevale.

Sono appunto questi nuovi fatti che, introdottisi a poco a poco e quasi di sfuggita nel vecchio corpo sociale, lo hanno rianimato senza dissolvevo, dandogli un novello vigore pur attraverso le vecchie forme. L’Inghilterra del XVII secolo è già una nazione tutt’affatto moderna, che ha soltanto trattenuto nel suo seno qualche vecchio e quasi fossile frammento del medioevo.

Gettare un rapido sguardo fuori della Francia era necessario, per meglio facilitare l’intelligenza di ciò che segue, giacché chi ha visto e studiato solo la Francia, non comprenderà mai nulla della Rivoluzione.

Capitolo 5 — L’opera specifica della Rivoluzione

Quanto precede non ha avuto altro scopo se non quello di render più chiara e di facilitare la soluzione dei problemi che avevo così formulato: quale è stato il fine vero della Rivoluzione? Quale il suo carattere proprio? Perché è scoppiata? Che cosa ha prodotto?

La Rivoluzione non è stata fatta, come pur si è creduto, per distruggere le credenze religiose; essa è stata, essenzialmente, malgrado ogni apparenza contraria, una rivoluzione sociale e politica, e, nel suo ambito, non ha punto mirato a perpetuare il disordine, a renderlo in certo qual modo stabile, a metodicizzare l’anarchia, come ha detto uno dei suoi principali avversari; ma ha mirato piuttosto ad accrescere la potenza e i diritti dell’autorità pubblica.

Essa non doveva cambiare il carattere che la nostra civiltà aveva avuto sino ad allora, come altri hanno pensato, né arrestarne il progresso, e neppure doveva alterare, nella loro sostanza, le leggi fondamentali che reggono le nostre società occidentali. Quando la si separi da quegli episodi che hanno momentaneamente potuto mutare la sua fisionomia nei diversi momenti e nei diversi paesi, e la si consideri soltanto in se stessa, si vede chiaramente che questa Rivoluzione non ha avuto altro scopo se non quello di abolire tutte quelle istituzioni politiche che, denominate ordinariamente «feudali», avevano regnato incontrastate per parecchi secoli nella maggior parte dei paesi europei, e di sostituirvi un ordinamento sociale e politico più semplice ed uniforme, basato essenzialmente sull’uguaglianza delle condizioni.

Ciò significava, propriamente, compiere una rivoluzione immensa, giacché non solo le istituzioni antiche erano ancora frammiste e come intrecciate a tutte le leggi religiose e politiche d’Europa, ma, di più, avevano anche suggerito una serie di idee, di sentimenti, di abitudini, di costumi che strettamente aderivano loro. Fu necessario uno spaventoso sconvolgimento per distruggere ad un tratto, isolandola dal resto del corpo sociale, una parte così strettamente connessa a tutto l’organismo. Ciò fece apparire la Rivoluzione ancor più grandiosa di quanto in realtà non fosse; sembrava che essa distruggesse tutto, perché ciò che distruggeva faceva parte integrante col tutto.

Per quanto radicale sia stata, la Rivoluzione tuttavia ha innovato molto meno di quanto comunemente non si supponga, e cercherò di provarlo più oltre. Ciò che si può affermare, è il fatto che essa ha interamente distrutto o sta per distruggere (giacché dura ancora) tutto quello che, nella vecchia società traeva origine dalle istituzioni aristocratiche e feudali, tutto quello che, comunque, si riallacciava ad esse, tutto ciò che ne portava, sia pur lievemente, l’impronta. Del vecchio mondo non altro ha conservato se non ciò che non aveva mai avuto nessuna relazione con quelle istituzioni, o che poteva sussistere senza di esse.

La Rivoluzione è stata tutto, fuorché un avvenimento fortuito: ha colto il mondo alla sprovvista, è vero, ma era il compimento di un lungo lavorio, il coronamento improvviso e violento di un’opera cui dieci generazioni umane avevano collaborato. Se anche non fosse avvenuta, non per questo il vecchio edificio sociale non sarebbe crollato: sarebbe caduto pezzo per pezzo, invece di crollare tutto ad un tratto. La Rivoluzione ha compiuto, in un subito, con uno sforzo spasmodico e doloroso, senza transazioni, senza precauzioni e senza riguardi, ciò che si sarebbe egualmente compiuto di per sé, dopo gran tempo. Questa fu la sua opera.

È strano che quello che oggi appare così chiaro fosse altrettanto oscuro anche ai più chiaroveggenti.

«Voi volevate correggere gli abusi del vostro governo, — dice lo stesso Burke ai Francesi; — ma perché volete creare novità? Perché non vi riallacciate alle vostre antiche tradizioni? Perché non vi limitate a reclamare le vostre antiche libertà? Oppure, se vi riusciva impossibile ritrovare la fisionomia, ormai oscuratasi, della costituzione dei vostri padri, perché non avete gettato uno sguardo sul nostro paese? In questo avreste ritrovato l’antica legge comune dell’Europa.»

Burke non si accorge che, sotto i suoi occhi, si svolge una rivoluzione che vuole precisamente abolire quest’antica legge comune; egli non discerne che proprio di questo si tratta, e non d’altro.

Ma perché questa Rivoluzione, matura ovunque e ovunque minacciosa, è scoppiata in Francia anziché altrove? Perché ha avuto da noi caratteri che non si ritrovano in nessun altro luogo o che vi si ritrovano solo in parte? Quest’ultimo problema merita sicuramente attenzione; il suo esame sarà l’oggetto dei libri seguenti.

Tratto da: Il pensiero politico, a cura di Umberto Cerroni, Roma, Editori Riuniti, 1966, pp. 723-746

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Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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