Non ricominciamo la guerra di Troia

Potere delle parole (1937)

Mario Mancini
28 min readMay 18, 2022

di Simone Weil

Vai al libro Mosaico “Simone Weil, Scritti sulla guerra 1933–1943”

Evelyn De Morgan, “Elena di Troia”, 1898, De Morgan Collection— Londra

Guerra senza un obiettivo e con un obiettivo

Viviamo in un’epoca in cui la relativa sicurezza, che un certo dominio tecnico sulla natura dà agli uomini, è ampiamente controbilanciata dai pericoli di rovine e massacri che i conflitti tra gruppi umani provocano.

Se il pericolo è così grave, è certo in parte dovuto alla potenza degli strumenti di distruzione che la tecnica ha messo nelle nostre mani; ma questi strumenti non si azionano da soli, e non è onesto voler far ricadere sulla materia inerte una situazione di cui portiamo piena responsabilità.

I conflitti più minacciosi hanno un carattere comune che potrebbe rassicurare gli animi superficiali, ma che, malgrado l’apparenza, ne costituisce il vero pericolo: non hanno un obiettivo definibile.

Nel corso di tutta la storia umana è possibile verificare che i conflitti in assoluto più accaniti sono quelli che non hanno un obiettivo. Questo paradosso, una volta colto con chiarezza, è forse una delle chiavi della storia; è certo la chiave della nostra epoca.

Quando c’è una lotta riguardo a un obiettivo ben definito, ognuno può valutare questo obiettivo e insieme i costi probabili della lotta, decidere fino a che punto varrà la pena di sforzarsi; in generale, non è nemmeno difficile trovare un compromesso preferibile, per ognuna delle parti in causa, a una battaglia anche vittoriosa.

Ma quando una lotta non ha obiettivo, non c’è più misura comune, non c’è più equilibrio, proporzione, confronto possibile. Un compromesso non è nemmeno concepibile; l’importanza della battaglia si misura allora unicamente in base ai sacrifici che essa esige.

E poiché, in conseguenza di questo fatto, i sacrifici già compiuti richiedono continuamente nuovi sacrifici, non ci sarebbe alcuna ragione di cessare di uccidere e di morire, se non perché, fortunatamente, le forze umane finiscono col trovare il loro limite.

Questo paradosso è così violento che sfugge all’analisi. Eppure, tutti i cosiddetti uomini di cultura ne conoscono l’esempio più perfetto; ma una sorta di fatalità ci fa leggere senza comprendere.

Massacrarsi per Elena

Un tempo, greci e troiani si massacrarono tra loro per dieci anni a causa di Elena. Nessuno di loro, tranne l’amante guerriero Paride, teneva minimamente a Elena; tutti erano d’accordo nel rammaricarsi che fosse mai nata.

C’era una sproporzione così evidente tra la sua persona e quella gigantesca battaglia, che, agli occhi di tutti, Elena costituiva semplicemente il simbolo del vero obiettivo; ma il vero obiettivo, nessuno lo definiva e non poteva essere definito perché non esisteva.

E così non lo si poteva misurare. Se ne immaginava semplicemente l’importanza dalle uccisioni compiute e dai massacri attesi. Quindi questa importanza superava qualunque limite potesse essere indicato.

Ettore presentiva che la sua città sarebbe stata distrutta, che suo padre e i suoi fratelli sarebbero stati massacrati, e che sua moglie sarebbe stata degradata da una schiavitù peggiore della morte; Achille sapeva di abbandonare suo padre alle miserie e alle umiliazioni di una vecchiaia indifesa; la gente in massa sapeva che le sue case sarebbero state distrutte da una così lunga attesa; nessuno riteneva che questo fosse un prezzo troppo alto, perché tutti perseguivano un niente, il cui valore si misurava unicamente con il prezzo da pagare.

Allora come ora

Per far vergognare i greci, che proponevano il ritorno a casa, Minerva e Ulisse ritennero di trovare un argomento sufficiente nella rievocazione delle sofferenze dei loro compagni morti.[1]

A tremila anni di distanza, è possibile ritrovare sulle loro bocche e su quella di Poincaré esattamente la stessa argomentazione per infamare le proposte di una pace di compromesso.

Ai giorni nostri, l’immaginazione popolare, per spiegare questo cupo accanimento nell’accumulare rovine inutili, ha fatto talvolta ricorso ai presunti intrighi delle associazioni economiche.

Ma non è il caso di cercare così lontano. I greci del tempo di Omero non avevano le organizzazioni dei mercanti del bronzo, né un Comitato di fabbri.

A dir la verità, nello spirito dei contemporanei di Omero, il ruolo che noi attribuiamo alle misteriose oligarchie economiche era svolto dagli dèi della mitologia greca.

Ma per spingere gli uomini verso le catastrofi più assurde, non c’è bisogno né di dèi né di congiure segrete. La natura umana basta.

Per chi sa vedere, non c’è oggi sintomo più angosciante del carattere irreale della maggior parte dei conflitti che sorgono. Hanno ancor meno realtà del conflitto tra greci e troiani.

Parole che non hanno senso

Al centro della guerra di Troia, almeno c’era una donna, e, cosa ancor più importante, una donna di perfetta bellezza. Per i nostri contemporanei, il ruolo di Elena è svolto da parole adorne di maiuscole.

Se potessimo afferrare, nel tentativo di comprenderla, una di queste parole gonfie di sangue e di lacrime, vedremmo che è priva di contenuto. Le parole che hanno un contenuto e un senso non sono omicide.

Se talvolta una di esse è mescolata al sangue versato, è più per accidente che per fatalità, e si tratta allora, in genere, di un’azione limitata ed efficace.

Ma si mettano le maiuscole a parole vuote di significato, e, per poco che le circostanze spingano in questa direzione, gli uomini verseranno fiumi di sangue, accumuleranno rovine su rovine, ripetendo queste parole, senza poter mai ottenere effettivamente qualche cosa che a queste parole corrisponda; niente di reale potrà mai corrispondere, perché non vogliono dire niente.

Il successo si definisce allora esclusivamente attraverso l’annientamento dei gruppi umani che sostengono le parole nemiche. È infatti una caratteristica di queste parole quella di vivere per coppie antagoniste.

Beninteso, non sempre queste parole sono in sé prive di senso; alcune ne avrebbero uno, se ci si desse la pena di definirle in modo conveniente.

Ma una parola così definita perde la sua maiuscola, non può più servire da bandiera, né tenere le sue posizioni di fronte alle vuote parole d’ordine nemiche; è solo un riferimento per aiutare a cogliere una realtà concreta, o un obiettivo concreto, o un metodo d’azione.

Chiarire le nozioni, screditare le parole intrinsecamente vuote, definire l’uso delle altre attraverso analisi precise, ecco un lavoro che, per quanto strano possa sembrare, potrebbe preservare delle vite umane.

La perdita della misura

La nostra epoca sembra quasi del tutto inadatta a questo lavoro. La nostra civiltà copre con il suo sfavillio un’autentica decadenza intellettuale. Nel nostro animo non accordiamo alla superstizione alcuno spazio riservato, analogo a quello della mitologia greca, e la superstizione si vendica invadendo, sotto il manto di un vocabolario astratto, l’intero dominio del pensiero.

La nostra scienza contiene, come in un deposito, i meccanismi intellettuali più raffinati per risolvere i problemi più complessi, ma noi siamo quasi incapaci di applicare i metodi elementari del pensiero ragionevole.

In ogni ambito, sembriamo aver perduto le nozioni essenziali dell’intelligenza, le nozioni di limite, di misura, di grado, di proporzione, di relazione, di rapporto, di condizione, di legame necessario, di connessione tra mezzi e risultati.

Per restare nell’ambito delle questioni umane, il nostro universo politico è popolato esclusivamente di miti e di mostri; non vi conosciamo che entità, assoluti. Tutte le parole del vocabolario politico e sociale potrebbero servire da esempio.

Si potrebbero prendere tutte, una dopo l’altra: nazione, sicurezza, capitalismo, comunismo, fascismo, ordine, autorità, proprietà, democrazia. Non le collochiamo mai in frasi di questo tipo:

C’è democrazia nella misura in cui…, o anche: c’è capitalismo in quanto… L’uso di espressioni del tipo “nella misura in cui” supera la nostra capacità intellettuale.

Ciascuna di queste parole sembra rappresentare una realtà assoluta, indipendente da ogni condizione, o uno scopo assoluto, indipendente da ogni modo di agire, o anche un male assoluto; e nello stesso tempo, con ognuna di queste parole, noi indichiamo di volta in volta, o anche simultaneamente, qualunque cosa.

Astrazioni cristallizzate

Viviamo in mezzo a realtà mutevoli, diverse, determinate dal gioco instabile delle necessità esterne, che si trasformano in funzione di certe condizioni ed entro certi limiti; ma noi agiamo, lottiamo, sacrifichiamo noi stessi e gli altri in virtù di astrazioni cristallizzate, isolate, che è impossibile mettere in rapporto tra loro o con fatti concreti.

La nostra sedicente epoca tecnologica sa battersi soltanto contro i mulini a vento.

E così, basta guardarsi attorno per trovare esempi di assurdità omicide. Clamoroso è quello degli antagonismi tra nazioni.

Si crede spesso di poterli spiegare dicendo che mascherano semplicemente antagonismi capitalistici; ma si dimentica un fatto, che pure balza agli occhi, e cioè che la rete di rivalità e di complessità, di lotte e di alleanze capitalistiche che si estende sul mondo non corrisponde affatto alla divisione del mondo in nazioni.

Il gioco degli interessi può opporre due gruppi francesi, e unire ciascuno di essi a un gruppo tedesco. L’industria tedesca di trasformazione può essere considerata con ostilità dalle industrie meccaniche francesi; ma alle compagnie minerarie è quasi indifferente che il ferro della Lorena sia trasformato in Francia o in Germania; e i vignaioli, i produttori di articoli parigini di lusso, e altri ancora sono interessati alla prosperità dell’industria tedesca.

Rivalità tra le nazioni e capitalismo

Queste verità elementari rendono incomprensibile la spiegazione corrente delle rivalità tra nazioni. Se si afferma che il nazionalismo copre sempre degli appetiti capitalistici, si dovrebbe specificare a chi appartengono questi appetiti.

Al settore minerario? Alla metallurgia pesante? All’industria meccanica? Al settore elettrico? A quello tessile?

Alle banche? Non può trattarsi di tutto questo insieme, perché gli interessi non coincidono; e se si prende in considerazione un settore del capitalismo, bisognerebbe anche spiegare perché questo settore si è impadronito dello Stato.

È vero che la politica di uno Stato coincide sempre, in un determinato momento, con gli interessi di un determinato settore capitalista; si ha così una spiegazione buona per tutte le occasioni, che, per la sua stessa insufficienza, si applica a qualunque cosa.

Data la circolazione internazionale del capitale, non si vede nemmeno perché un capitalista dovrebbe cercare la protezione del proprio Stato anziché quella di uno Stato straniero, o perché dovrebbe esercitare i mezzi di pressione e di seduzione di cui dispone con maggiore difficoltà su uomini di Stato stranieri piuttosto che sui propri connazionali.

Nazionalismo e capitalismo

La struttura dell’economia mondiale corrisponde alla struttura politica del mondo solo in quanto gli Stati esercitano la loro autorità in materia economica; ma anche il senso in cui viene esercitata questa autorità non può essere spiegato attraverso il semplice gioco degli interessi economici.

Quando si esamina il contenuto del termine “interesse nazionale” non vi si trova nemmeno l’interesse delle imprese capitalistiche.

diceva Anatole France

«Si crede di morire per la patria e si muore per gli industriali».[2]

Sarebbe ancora troppo bello. Non si muore nemmeno per qualcosa di così sostanziale, di così tangibile com’è un industriale.

L’interesse nazionale non può essere definito né da un interesse comune delle grandi imprese industriali, commerciali o bancarie di un paese, perché questo interesse comune non esiste, né dalla vita, dalla libertà e dal benessere dei cittadini, perché li si implora in continuazione di sacrificare il loro benessere, la loro libertà e la loro vita all’interesse nazionale.

In fin dei conti, se si esamina la storia moderna, si arriva alla conclusione che l’interesse nazionale è, rispetto a ogni Stato, la capacità di fare la guerra.

Nel 1911, la Francia ha rischiato di fare la guerra per il Marocco; ma perché il Marocco era così importante? Per la riserva di carne da cannone che l’Africa del Nord doveva rappresentare, per l’interesse che ha sempre un paese — da un punto di vista bellico — a rendere la propria economia quanto più indipendente è possibile attraverso il possesso di materie prime e di sbocchi.

Ciò che un paese chiama interesse economico vitale non è ciò che permette ai suoi cittadini di vivere, è ciò che gli permette di fare la guerra; il petrolio è molto più adatto a scatenare conflitti internazionali del grano.

La guerra alimenta la guerra

Così, quando si fa la guerra è per conservare o per accrescere i mezzi utili per farla. Tutta la politica internazionale ruota attorno a questo circolo vizioso. Ciò che viene definito prestigio nazionale consiste nell’agire in maniera tale da dar sempre l’impressione agli altri paesi, per demoralizzarli, che, nell’eventualità, si è sicuri di vincerli.

Ciò che si definisce sicurezza nazionale è una condizione chimerica in cui un paese conserverebbe la possibilità di fare la guerra privandone tutti gli altri. Tutto sommato, una nazione che si rispetti è pronta a tutto, ivi compresa la guerra, piuttosto di un eventuale rinuncia a farla.

Ma perché bisogna poter fare la guerra? Non lo si sa, più di quanto i troiani non sapessero perché dovevano tenersi Elena.

È per questo che la buona volontà degli uomini di Stato, amici della pace, è così poco efficace. Se i paesi fossero divisi da reali opposizioni di interessi, si potrebbero trovare compromessi soddisfacenti.

Ma quando gli interessi economici e politici hanno senso solo in vista della guerra, come conciliarli in modo pacifico? È il concetto stesso di nazione che andrebbe eliminato. O, piuttosto, l’uso di questa parola: la parola nazionale e le espressioni di cui fa parte sono infatti prive di ogni significato, hanno come contenuto solo i milioni di cadaveri, gli orfani, i mutilati, la disperazione, le lacrime.

Fascismo e comunismo

Un altro esempio straordinario di assurdità cruenta è l’opposizione tra fascismo e comunismo.

Il fatto che per noi questa opposizione determini oggi una duplice minaccia di guerra civile e di guerra mondiale è forse il più grave sintomo di carenza intellettuale fra tutti quelli che possiamo constatare attorno a noi.

Se si esamina infatti il senso che hanno oggi questi due termini, si scoprono due concezioni politiche e sociali quasi identiche.

Da una parte e dall’altra c’è lo stesso predominio dello Stato su quasi tutte le forme di vita individuale e sociale; la stessa militarizzazione forsennata; la stessa unanimità artificiale, ottenuta con la coercizione, a tutto vantaggio di un partito unico che si confonde con lo Stato e che si definisce attraverso questa confusione; lo stesso regime di servitù imposto dallo Stato alle masse lavoratrici in sostituzione del salariato classico.

Non ci sono due nazioni strutturalmente più simili della Germania e della Russia, che minacciano reciprocamente di scatenare una crociata internazionale, fingendo ognuna di vedere nell’altra la Bestia dell’Apocalisse.

Per questo motivo si può senza timore affermare che l’opposizione tra fascismo e comunismo non ha rigorosamente alcun senso. E così, la vittoria del fascismo può essere definita solo attraverso lo sterminio dei comunisti e la vittoria del comunismo solo attraverso lo sterminio dei fascisti. Va da sé che in queste condizioni, l’antifascismo e l’anticomunismo sono anch’essi privi di senso.

La posizione degli antifascisti è: tutto, piuttosto che il fascismo; tutto, compreso il fascismo sotto il nome di comunismo. La posizione degli anticomunisti è: tutto, piuttosto che il comunismo; tutto, compreso il comunismo sotto il nome di fascismo.

Nemici con le stesse idee

Per questa bella causa, ognuno, nei due campi, è rassegnato in anticipo a morire, e soprattutto a uccidere. Durante l’estate del 1932, a Berlino, si formava frequentemente per la strada un piccolo assembramento attorno a due operai o piccoli borghesi, uno comunista e l’altro nazista, che discutevano insieme.

Dopo un po’ di tempo, constatavano sempre che stavano difendendo rigorosamente lo stesso programma; questa consapevolezza dava loro le vertigini, ma faceva crescere in ognuno di loro l’odio contro un avversario così nemico nella sua essenza che restava nemico pur esponendo le stesse idee.

Da allora, sono trascorsi quattro anni e mezzo; i comunisti tedeschi sono ancora torturati dai nazisti nei campi di concentramento, e non è sicuro che la Francia non sia minacciata da una guerra di sterminio tra antifascisti e anticomunisti.

Se tale guerra avvenisse, quella di Troia sarebbe a confronto un modello di buon senso; perché anche se si ammettesse, come un poeta greco,[3] che a Troia ci fosse solo il fantasma di Elena, tale fantasma sarebbe ancora una realtà sostanziale rispetto all’opposizione tra fascismo e comunismo.[4]

L’opposizione tra dittatura e democrazia, che è assimilabile a quella tra ordine e libertà, è, almeno questa, un’opposizione autentica.

Tuttavia, essa perde il suo significato, qualora se ne consideri ogni termine come un’entità — cosa che accade il più delle volte ai giorni nostri — invece di prenderlo come un punto di riferimento che permetta di misurare le caratteristiche di una struttura sociale.

Il grado di democrazia

È chiaro che non esiste da nessuna parte né una dittatura assoluta, né una democrazia assoluta, ma che l’organismo sociale è sempre e ovunque un insieme di democrazia e dittatura, in gradi diversi.

È anche evidente che il grado di democrazia si definisce in base ai rapporti che collegano i differenti ingranaggi della macchina sociale, e dipende dalle condizioni che determinano il funzionamento di questa macchina; è dunque su questi rapporti e su queste condizioni che bisogna cercare di agire.

Invece di fare ciò, in genere si ritiene che vi siano gruppi umani, nazioni o partiti, che incarnano intrinsecamente la dittatura o la democrazia, quindi, a seconda che per temperamento si sia portati a sostenere soprattutto l’ordine o la libertà, si è ossessionati dal desiderio di schiacciare gli uni o gli altri appartenenti a questi gruppi.

Molti francesi credono, per esempio, in buona fede, che una vittoria militare della Francia sulla Germania sarebbe una vittoria della democrazia. Ai loro occhi, la libertà risiede nella nazione francese e la tirannia nella nazione tedesca, pressappoco come per i contemporanei di Molière nell’oppio risiedeva una virtù soporifera.

Se un giorno le cosiddette necessità “della difesa nazionale” facessero della Francia un campo trincerato in cui tutta la nazione fosse interamente sottoposta all’autorità militare, e se la Francia così trasformata entrasse in guerra con la Germania, questi francesi si farebbero uccidere, non senza aver ucciso il maggior numero possibile di tedeschi, nella commovente illusione di versare il loro sangue per la democrazia.

Non viene loro in mente che la dittatura abbia potuto costituirsi in Germania a causa di una determinata situazione; e che determinare nella Germania una situazione diversa, che renda possibile un certo allentamento dell’autorità statale, sarebbe forse più efficace che uccidere i ragazzini di Berlino o di Amburgo.

La Spagna

Per fare un altro esempio, nel caso in cui si espone davanti a un uomo di partito l’idea di un armistizio in Spagna, se è un uomo di destra risponderà con indignazione che bisogna lottare fino in fondo per la vittoria dell’ordine e l’annientamento dei fautori dell’anarchia; se è un uomo di sinistra risponderà con non minore indignazione che bisogna lottare fino in fondo per la libertà del popolo, per il benessere delle masse lavoratrici, per l’annientamento degli oppressori e degli sfruttatori.

Il primo dimentica che nessun regime politico, qualunque esso sia, comporta disordini che possano essere messi nemmeno lontanamente a confronto con quelli della guerra civile, con le distruzioni sistematiche, i massacri in massa sul fronte, il rallentamento della produzione, le centinaia di crimini individuali commessi quotidianamente da entrambe le parti per il semplice fatto che qualunque canaglia ha un fucile in mano.

L’uomo di sinistra, dal canto suo, dimentica che le necessità della guerra civile, lo stato d’assedio, la militarizzazione del fronte e della retrovia, il terrore poliziesco, l’eliminazione di ogni limitazione all’arbitrio, di ogni garanzia individuale, sopprimono la libertà assai più radicalmente di quanto non farebbe l’ascesa al potere di un partito di estrema destra; dimentica che le spese di guerra, le rovine, il rallentamento della produzione condannano il popolo, e per lungo tempo, a privazioni ben più crudeli di quelle che potrebbero infliggergli i suoi sfruttatori.

L’uomo di destra e l’uomo di sinistra dimenticano entrambi che lunghi mesi di guerra civile hanno a poco a poco portato nei due campi un regime quasi identico. Ognuno dei due ha perso, senza accorgersene, il suo ideale, e gli ha sostituito un’entità vuota; per entrambi, la vittoria di ciò che ancora chiama la sua idea può definirsi solo attraverso l’annientamento dell’avversario; e ciascuno dei due, se gli si parla di pace, risponderà con disprezzo con il suo argomento schiacciante, l’argomento di Minerva in Omero, l’argomento di Poincaré nel 1917: «I morti non lo vogliono».[5]

La lotta di classe

Quella che ai giorni nostri viene definita, con un termine che richiederebbe precisazioni, la lotta di classe, è, tra tutti i conflitti che contrappongono i gruppi umani, il più fondato, il più serio, si potrebbe forse dire l’unico serio; ma solo nella misura in cui non intervengano anche qui entità immaginarie che impediscano ogni azione orientata, che indirizzino gli sforzi verso il vuoto, e comportino il pericolo di odi inespiabili, di distruzioni folli, di massacri insensati.

Ciò che è legittimo, vitale, essenziale, è la lotta eterna di coloro che obbediscono contro coloro che comandano, quando il meccanismo del potere sociale porta con sé l’annientamento della libertà umana dei sottoposti.

Questa lotta è eterna perché coloro che comandano tendono sempre, che lo sappiano o no, a calpestare la dignità umana sotto di loro. La funzione di comando, nella misura in cui si esercita, non può, salvo casi particolari, rispettare l’umanità nella persona di chi esegue.

Se viene esercitata come se gli uomini fossero cose, e inoltre senza incontrare alcuna resistenza, è inevitabilmente esercitata su cose eccezionalmente duttili; perché l’uomo sottoposto alla minaccia di morte, che in ultima analisi è la sanzione suprema di ogni autorità, può diventare più malleabile della materia inerte.

Finché ci sarà una gerarchia sociale stabile, qualunque ne possa essere la forma, coloro che stanno in basso dovranno lottare per non perdere tutti i diritti degli esseri umani.

D’altra parte, la resistenza di coloro che stanno in alto, se di solito sembra contraria alla giustizia, si basa anch’essa su motivi concreti.

Innanzitutto su motivi personali: tranne il caso di una generosità assai rara, i privilegiati non vogliono perdere una parte dei loro privilegi materiali o morali. Ma si basa anche su motivazioni più elevate. Coloro i quali sono investiti da funzioni di comando sentono su di sé la missione di difendere l’ordine indispensabile a ogni vita sociale e non concepiscono altro ordine possibile che quello esistente.

Non hanno del tutto torto, perché finché un altro ordine non sia stato realmente instaurato, non si può affermare con certezza che sarà possibile; proprio per questo motivo può esserci progresso sociale solo se la pressione dal basso è sufficiente a mutare effettivamente i rapporti di forza e a costringere così a instaurare di fatto legami sociali nuovi.

Un equilibrio instabile

L’incontro tra la pressione dal basso e la resistenza dall’alto genera così continuamente un equilibrio instabile, che definisce a ogni istante la struttura di una società. Questo incontro è una lotta, ma non una guerra; può trasformarsi in guerra in determinate circostanze, ma non vi è in ciò alcuna fatalità.

L’antichità non ci ha consegnato soltanto la storia di massacri interminabili e inutili attorno a Troia, ci ha lasciato anche la testimonianza dell’azione energica e unanime con cui la plebe di Roma, senza versare una sola goccia di sangue, è uscita da una condizione che rasentava quella della schiavitù e ha ottenuto come garanzia dei suoi nuovi diritti l’istituzione dei tribuni.[6]

È esattamente nello stesso modo che gli operai francesi, con l’occupazione delle fabbriche, ma senza violenza, hanno imposto il riconoscimento di alcuni diritti elementari, e a garanzia di questi l’istituzione dei delegati eletti.

Tuttavia, la Roma delle origini aveva, rispetto alla Francia moderna, un decisivo vantaggio. Sulle questioni sociali non conosceva né astrazioni, né entità, né parole con la maiuscola, né parole che finiscano in “ismo”.

Nulla di tutto ciò che rischia di annullare per noi gli sforzi più intensi, o di far degenerare la lotta sociale in una guerra che è, da qualunque punto di vista la si consideri, tanto rovinosa, cruenta, assurda, quanto la guerra tra nazioni. Si possono prendere quasi tutti i termini, tutte le espressioni del nostro vocabolario politico e aprirli; al loro interno si troverà il vuoto.

Parole d’ordine vuote

Cosa può mai voler dire, per esempio, la parola d’ordine, così popolare durante le elezioni, di “lotta contro i trust”?

Un trust è un monopolio economico posto nelle mani di potenze finanziarie, di cui esse fanno uso non a vantaggio dell’interesse pubblico, ma per accrescere il loro potere. Che cosa c’è di male in ciò?

Il problema è che un monopolio serva da strumento a una volontà di potenza estranea al bene pubblico. Ora, non è questo fatto che si cerca di eliminare, ma il fatto, in sé indifferente, che questa volontà di potenza sia quella di una oligarchia economica.

Si propone di sostituire a queste oligarchie lo Stato, che ha pure una sua volontà di potenza altrettanto estranea al bene pubblico; inoltre, lo Stato è una potenza non soltanto economica, ma militare e di conseguenza ben più pericolosa per la brava gente che aspira a vivere.

Allo stesso modo, da parte borghese, che cosa si può veramente intendere con l’ostilità allo statalismo economico, quando si ammettono i monopoli privati, che comportano tutti gli inconvenienti economici e tecnici dei monopoli di Stato e forse altri ancora?

Si potrebbe fare un lungo elenco di parole d’ordine così raggruppate, a due a due, ed egualmente illusorie. Queste sono relativamente inoffensive, ma non è così per tutte.

Che cosa possono avere in mente, quindi, coloro per i quali la parola “capitalismo” rappresenta il male assoluto?

Viviamo in una società che comporta forme di costrizione e di oppressione troppo spesso distruttive per le masse di esseri umani che le subiscono, disuguaglianze assai dolorose e una quantità di inutili torture.

D’altra parte, questa società si caratterizza, dal punto di vista economico, attraverso determinati modi di produzione, di consumo, di scambio, che sono del resto in perpetua trasformazione e che dipendono da alcuni rapporti fondamentali tra la produzione e la circolazione delle merci, tra la circolazione delle merci e la moneta, tra la moneta e la produzione, tra la moneta e il consumo.

Questo insieme di fenomeni economici diversi e mutevoli viene cristallizzato arbitrariamente in un’astrazione impossibile da definire, e tutte le sofferenze che si subiscono e si constatano ogni giorno attorno a sé vengono attribuite con il nome di capitalismo a questa astrazione.

A partire da ciò, basta che un uomo abbia carattere perché dedichi la sua vita alla distruzione del capitalismo, o, che è poi lo stesso, alla rivoluzione; infatti oggi il termine rivoluzione ha solo questo significato puramente negativo.

Domande

Poiché la distruzione del capitalismo non ha alcun senso, dato che il capitalismo è un’astrazione, e non implica un certo numero di modifiche precise apportate al regime — modifiche del genere sono in modo sprezzante considerate “riforme” — essa può soltanto significare l’annientamento dei capitalisti e più generalmente di tutti coloro che non dichiarano di essere contro il capitalismo.

È evidentemente più facile uccidere, e anche morire, che porsi alcune domande semplicissime, come queste: le leggi, le convenzioni che reggono attualmente la vita economica, formano un sistema?

In quale misura c’è connessione necessaria tra questo o quel fenomeno economico e gli altri?

Fino a che punto la modificazione di queste o quelle leggi economiche si ripercuoterebbe sulle altre?

In quale misura le sofferenze imposte dai rapporti sociali della nostra epoca dipendono da questa o quella convenzione della nostra vita economica; in quale misura dall’insieme di tutte queste convenzioni?

In quale misura hanno come causa altri fattori, sia fattori duraturi che persisterebbero dopo la trasformazione della nostra organizzazione economica, sia, al contrario, fattori che si potrebbero eliminare senza mettere fine a ciò che definiamo il regime?

Quali nuove sofferenze, sia passeggere, sia permanenti implicherebbe necessariamente il metodo scelto per una tale trasformazione?

Quali altre sofferenze rischierebbe di portare la nuova organizzazione sociale che verrebbe instaurata?

Se si studiassero seriamente questi problemi, si potrebbe forse arrivare a pensare qualcosa quando si dice che il capitalismo è un male; ma si tratterebbe solo di un male relativo, e una trasformazione del regime sociale potrebbe essere proposta soltanto in vista di pervenire a un male minore. Inoltre, dovrebbe trattarsi solo di una trasformazione determinata.

Desiderio di trasformazione e desiderio di conservazione

Tutta questa critica potrebbe essere applicata altrettanto bene all’altro campo, sostituendo la preoccupazione per le sofferenze inflitte agli strati sociali inferiori con la preoccupazione di salvaguardare l’ordine, e il desiderio di trasformazione con il desiderio di conservazione.

I borghesi associano spesso fattori di disordine a tutti coloro che progettano la fine del capitalismo, e talvolta anche a coloro che desiderano riformarlo, perché ignorano in quale misura e in funzione di quali circostanze i diversi rapporti economici, il cui insieme forma ciò che attualmente si chiama capitalismo, possano essere considerati come condizioni dell’ordine.

Molti di loro, non sapendo quale modifica possa essere o no pericolosa, preferiscono conservare tutto, senza rendersi conto che la conservazione in circostanze mutevoli costituisce di per sé una modifica, le cui conseguenze possono essere disordini.

La maggior parte invoca le leggi economiche con tale religiosità come se si trattasse delle leggi non scritte di Antigone,[7] ma le vedono cambiare quotidianamente sotto i loro occhi.

Anche per loro, la conservazione del regime capitalista è un’espressione priva di senso, perché ignorano ciò che bisogna conservare, in quali condizioni e in quale misura; concretamente questo concetto può voler dire solo l’annientamento di tutti coloro che parlano della fine del regime.

La lotta tra avversari e difensori del capitalismo, una lotta tra innovatori che non sanno che cosa innovare, e conservatori che non sanno che cosa conservare, è una lotta cieca fra ciechi, una lotta nel vuoto e che proprio per questa ragione rischia di trasformarsi in sterminio.

Una lotta tra ciechi

Si possono fare le stesse considerazioni rispetto alla lotta che si svolge nell’ambito più ristretto delle imprese industriali.

Un operaio, in generale, attribuisce istintivamente al padrone tutte le sofferenze che subisce in fabbrica; non si chiede se in un sistema di proprietà completamente diverso, la direzione dell’impresa non gli infliggerebbe ancora una parte delle stesse sofferenze, o forse sofferenze identiche, se non persino maggiori.

Non si chiede nemmeno quale parte di queste sofferenze potrebbe essere eliminata, facendone scomparire le cause, senza toccare il sistema di proprietà attuale.

Per lui, la lotta “contro il padrone” si confonde con la protesta insopprimibile dell’essere umano schiacciato da una vita troppo dura. Il padrone, dal canto suo, si preoccupa a ragione della sua autorità.

Solo che il ruolo dell’attività padronale consiste esclusivamente nell’indicare le produzioni, coordinare nel modo migliore i lavori settoriali, controllare, ricorrendo a una certa costrizione, la buona esecuzione del lavoro; ogni regime di impresa, qualunque esso sia, in cui tale coordinamento e tale controllo possano essere garantiti in modo adeguato, accorda una parte sufficiente all’autorità padronale.

Tuttavia, per il padrone, il sentimento che egli ha della sua autorità dipende innanzitutto da una certa atmosfera di sottomissione e di rispetto che non è necessariamente collegata alla buona esecuzione del lavoro; e, soprattutto, quando si accorge di una rivolta latente o aperta tra il suo personale, la attribuisce sempre ad alcuni individui, mentre in realtà la rivolta, sia rumorosa che silenziosa, aggressiva o repressa dalla disperazione, è inseparabile da ogni esistenza fisicamente o moralmente oppressa.

Se, per l’operaio, la lotta “contro il padrone” si confonde con il sentimento della dignità, per il padrone la lotta contro gli “agitatori” si confonde con la preoccupazione della sua funzione e con la sua coscienza professionale; in entrambi i casi si tratta di tensioni a vuoto, e che di conseguenza non sono suscettibili di essere racchiuse in un limite ragionevole.

Mentre si può constatare che gli scioperi organizzati per determinate rivendicazioni sfociano senza troppe difficoltà in un accordo, si è assistito a scioperi che assomigliavano a guerre, nel senso che, né da una parte né dall’altra, la lotta aveva obiettivi; scioperi in cui non si poteva scorgere nulla di reale né di tangibile, nulla, tranne l’arresto della produzione, il deterioramento delle macchine, la miseria, la fame, le lacrime delle donne, la sottoalimentazione dei bambini.

E l’accanimento, da una parte e dall’altra, era tale che essi davano l’impressione di non dover mai finire. In avvenimenti come questi, la guerra civile, in potenza, già esiste.

Il rapporto con la vita reale

Se si analizzassero in questo modo tutte le parole, tutte le formule che hanno così suscitato lungo la storia umana lo spirito di sacrificio e insieme la crudeltà, si scoprirebbe probabilmente che sono tutte altrettanto vuote.

Eppure, tutte queste entità avide di sangue umano devono per forza avere un qualche rapporto con la vita reale. E in effetti ce l’hanno. A Troia forse non c’era che il fantasma di Elena, ma l’esercito greco e l’esercito troiano non erano dei fantasmi; così, se la parola nazione e le espressioni di cui fa parte sono prive di senso, i diversi Stati, con i loro uffici, le loro prigioni, i loro arsenali, le loro caserme, le loro dogane, sono del tutto reali.

La distinzione teorica tra le due forme di regime totalitario, fascismo e comunismo, è immaginaria, ma in Germania, nel 1932, esistevano concretamente due organizzazioni politiche, ciascuna delle quali aspirava al potere totale e di conseguenza all’eliminazione dell’altra.

Un partito democratico può, a poco a poco, diventare un partito dittatoriale, ma rimane nondimeno distinto dal partito dittatoriale che si sforza di annientare; la Francia può, nella prospettiva di difendersi dalla Germania, sottomettersi a sua volta a un regime totalitario, ma lo Stato francese e lo Stato tedesco rimarranno nondimeno due Stati distinti.

Distruzione e conservazione del capitalismo sono parole d’ordine prive di contenuto, ma dietro queste parole d’ordine sono schierate delle organizzazioni. A ogni astrazione vuota corrisponde un gruppo umano.

Le astrazioni che non comportano ciò rimangono inoffensive; reciprocamente i gruppi che non hanno secreto simili entità probabilmente non sono pericolosi. Jules Romains ha rappresentato magnificamente questa particolare specie di secrezione quando ha messo in bocca a Knock la frase: «Al di sopra dell’interesse del malato e dell’interesse del medico, c’è l’interesse della medicina».[8]

La natura del potere

Se è la battuta di una commedia, è semplicemente perché una entità del genere non è ancora scaturita dai sindacati dei medici. Entità di questo tipo derivano sempre da organismi che hanno come caratteristica comune quella di detenere un potere o di aspirare a ottenerlo.

Tutte le assurdità che fanno somigliare la storia a un lungo delirio hanno loro radice in un’assurdità essenziale: la natura del potere.

La necessità che vi sia un potere è tangibile, palpabile, perché l’ordine è indispensabile all’esistenza; ma l’attribuzione del potere è arbitraria, perché gli uomini sono tra loro simili o quasi; ora, questa attribuzione non deve apparire arbitraria, perché, altrimenti, non ci sarebbe più potere.

Il prestigio, cioè l’illusione, è così nel cuore stesso del potere. Ogni potere si basa su rapporti tra le attività umane; ma un potere, per essere stabile, deve sembrare qualcosa di assoluto, di intangibile a coloro che lo detengono, a coloro che lo subiscono, ai poteri esterni.

Le condizioni dell’ordine sono essenzialmente contraddittorie, e gli uomini sembrano dover scegliere tra l’anarchia che accompagna i poteri deboli e le guerre d’ogni sorta scatenate dalla preoccupazione del prestigio.

La capacità di fare guerra

Tradotte nel linguaggio del potere, le assurdità qui elencate cessano di apparire tali. Non è naturale che ogni Stato definisca l’interesse nazionale attraverso la capacità di fare la guerra, dal momento che è circondato da altri Stati in grado, se lo vedono debole, di soggiogarlo con le armi?

Non si vede via di mezzo fra il mantenimento della propria posizione nella corsa alla preparazione alla guerra o l’essere pronti a subire qualunque cosa da parte degli altri Stati armati.

Il disarmo generale eliminerebbe queste difficoltà solo se fosse totale, cosa che è a malapena concepibile. D’altra parte, uno Stato non può apparire debole di fronte al nemico, senza rischiare di dare anche a coloro che gli obbediscono la tentazione di scuotere un po’ la sua autorità.

Se Priamo e Ettore avessero restituito Elena ai greci, avrebbero rischiato di suscitare ulteriormente il loro desiderio di saccheggiare una città in apparenza così mal preparata a difendersi; avrebbero rischiato anche una rivolta generale a Troia: non perché la restituzione di Elena avrebbe indignato i troiani, ma perché questi avrebbero pensato che gli uomini cui obbedivano non erano poi così potenti.

Se in Spagna una delle due parti desse l’impressione di volere la pace, innanzitutto incoraggerebbe i nemici, ne aumenterebbe il valore offensivo; e poi rischierebbe rivolte tra i propri combattenti.

Nello stesso modo, a un uomo che non sia impegnato né nel blocco anticomunista, né nel blocco antifascista, l’urto tra due ideologie quasi identiche può sembrare ridicolo; ma dal momento che questi blocchi esistono, coloro che appartengono a uno di essi considerano necessariamente gli avversari dell’altro blocco come il male assoluto, perché ne verranno schiacciati se non saranno più forti; i capi, da una parte e dall’altra, devono sembrare pronti ad annientare il nemico per conservare la loro autorità sulle truppe; e quando questi blocchi hanno raggiunto una certa potenza, la neutralità diviene in pratica una posizione quasi insostenibile.

La fragilità del potere

Allo stesso modo quando in una qualunque gerarchia sociale i sottoposti temono di essere totalmente schiacciati se non privano d’autorità i loro superiori, e quando gli uni o gli altri divengono forti al punto da non aver più nulla da temere, non resistono all’ebbrezza della potenza suscitata dal rancore.

In generale, ogni potere è fragile nella sua essenza; deve dunque difendersi, altrimenti come potrebbe esserci un minimo di stabilità nella vita sociale? Ma l’offensiva sembra quasi sempre, a torto o a ragione, l’unica tattica difensiva, e ciò avviene per tutte le parti in causa.

È naturale del resto che siano soprattutto le dispute immaginarie a provocare conflitti inestinguibili, perché si pongono unicamente sul piano del potere e del prestigio.

È forse più facile per la Francia concedere alla Germania le materie prime che qualche ettaro di terra che è stata battezzata come colonia, più facile per la Germania fare a meno delle materie prime che della parola colonia.

La contraddizione essenziale della società umana è che ogni situazione sociale si basa su un equilibrio di forze, un equilibrio di pressione analogo a quello dei fluidi; ma il prestigio non raggiunge l’equilibrio, il prestigio non ammette limiti, ogni soddisfazione di prestigio è un attentato al prestigio o alla dignità altrui.

In un vicolo cieco

Ora, il prestigio è inseparabile dal potere. Sembra di trovarsi di fronte a un vicolo cieco da cui l’umanità potrebbe uscire solo per miracolo. Ma la vita umana è fatta di miracoli.

Chi crederebbe che una cattedrale gotica possa restare in piedi, se non lo constatassimo tutti i giorni? Poiché in effetti non c’è sempre la guerra, non è impossibile che vi sia pace per un periodo indefinito.

Un problema posto con tutti i suoi dati reali è molto vicino alla soluzione. Il problema della pace internazionale e civile non è ancora mai stato posto in questi termini.

È la nube delle entità vuote che impedisce non solo di scorgere i dati del problema, ma persino di capire che vi è un problema da risolvere e non una fatalità da subire.

Esse instupidiscono le menti; non soltanto causano morte, ma, cosa infinitamente più grave, fanno dimenticare il valore della vita.

La caccia alle entità in tutti gli ambiti della vita politica e sociale è un’opera urgente di salute pubblica. Non è una caccia facile; tutta l’atmosfera intellettuale della nostra epoca favorisce il fiorire e il moltiplicarsi delle entità.

Ci si può domandare se non si renderebbe ai nostri contemporanei un servizio pratico di prim’ordine, riformando i metodi d’insegnamento e di divulgazione scientifica, scacciando la grossolana superstizione che vi si è instaurata grazie a un vocabolario artificiale, restituendo alle menti il buon uso di locuzioni del tipo nella misura in cui, per quanto, a condizione che, in rapporto a, e screditando tutti i ragionamenti viziosi che portano ad ammettere che vi sia una virtù soporifera nell’oppio.

Le cause immaginarie del conflitto

Un’elevazione generale del livello intellettuale favorirebbe in modo particolare ogni sforzo di chiarimento per sgonfiare le cause immaginarie di conflitto.

Certo, non mancano le persone che predicano la pacificazione in tutti i campi; ma in generale questi sermoni non hanno l’obiettivo di risvegliare le intelligenze e di eliminare i falsi conflitti, bensì quello di addormentare e soffocare i conflitti reali.

I bei parlatori che, declamando sulla pace internazionale, intendono con questa espressione il mantenimento indefinito dello statu quo a esclusivo profitto dello Stato francese, coloro che, raccomandando la pace sociale, intendono conservare intatti i privilegi o perlomeno subordinare ogni modifica alla buona volontà dei privilegiati, sono i nemici più pericolosi della pace internazionale e civile.

Non si tratta di immobilizzare artificialmente rapporti di forza essenzialmente variabili, e che coloro che soffrono cercheranno sempre di modificare; si tratta di distinguere l’immaginario dal reale per diminuire i rischi di guerra senza rinunciare alla lotta, che Eraclito riteneva fosse la condizione della vita.

Note

[1] Iliade, li, vv. 177–178.

[2] Lettera aperta di Anatole France a Marcel Cachin, pubblicata su L’Humanité del 18 luglio 1922, destinata a costituire la prefazione al libro di Michel Corday, Le Journal de la Huronne. A. France, Les Hauts Fourneaux, Flammarion, 1922.

[3] Allusione alla commedia di Euripide Elena. Riprendendo una versione della leggenda trasmessa da Erodoto, il poeta tragico immagina che Elena fosse rimasta in Egitto durante tutta la guerra e che solo il suo fantasma fosse andato a Troia.

[4] Fine dell’articolo del primo aprile. Il seguito verrà pubblicato nella stessa rubrica il 15 aprile.

[5] Queste parole non si trovano nei discorsi di Poincaré. Potrebbero appartenere a quella che è stata definita la “leggenda di Poincaré” diffusa negli anni venti? È quanto ritiene Raul Girardet, autore di Mythes et mythologies politiques (1986). Simone Weil non poteva sopportare il linguaggio patriottico di Poincaré. Si veda Vigilance: «Noi siamo tra i pochi che mai, in alcun caso, andremo a portare dei fiori sulla tomba di Poincaré» (EHP, p. 249).

[6] I tribuni furono detti sacro-santi in seguito alla secessione della plebe sul Monte Sacro (494 a.C.). Il 18 marzo 1937, Simone Weil aveva scritto un articolo «La grève des plébéiens romains», apparso su Syndicats, sotto la rubrica Antiquité et actualité.

[7] Queste leggi non scritte, eterne, sono rivendicate da Antigone in opposizione a suo zio, Creonte, re di Tebe (Sofocle, Antigone, v. 460).

[8] Jules Romains, Knock, atto in, scena vi. La citazione è approssimativa; Simone Weil concentra diverse battute in una sola frase.

Da: Simone Weil, Sulla guerra. Scritti 1933–1943, Edizioni del Corriere della Sera, 2022, pp. 61–83

II titolo di questo articolo è inserito in una rubrica generale: Pouvoir des mots. È possibile che questo testo sia stato concluso a Montana, dove la Weil si trovava dopo I’11 marzo. La prima stesura era intitolata «Pour un peu de clarté». Il nuovo titolo Non ricominciamo la guerra di Troia è legato a una pièce di Jean Girardoux presentata con molto successo nel 1935 e intitolata La guerre de Troie n’aura pas lieu. Simone Weil aveva apprezzato molto quest’opera, che le sembrava interpretasse bene i timori dei suoi contemporanei di una futura guerra.

Questo articolo fu pubblicato per la prima volta sui Nouveaux Cahiers, I, nn. 2–3, 1–15 aprile 1937. Attualmente è in OC, n, 3, pp. 49–66. La prima traduzione italiana è stata pubblicata sulla rivista In forma di parole, nuova serie, II, n. 2, 1991.

Simone Weil (1909–1943) Filosofa e scrittrice di origini ebraiche, si formò all’École Normale Supérieure di Parigi e, dopo la laurea in Filosofia, insegnò in alcuni licei francesi, avvicinandosi ai movimenti dell’estrema sinistra e al sindacalismo rivoluzionario. Animata da un profondo desiderio di rinnovamento sociale, appoggiò le rivendicazioni degli operai e nel 1934, per dimostrare la sua partecipazione, scelse di abbandonare l’insegnamento e lavorare in fabbrica. Nel 1936, durante la guerra civile spagnola, si arruolò nelle file delle brigate rivoluzionarie contro le milizie di Franco. Dopo l’esperienza bellica si aprì per lei un periodo di crisi spirituale, che la portò ad avvicinarsi al cristianesimo. Durante il secondo conflitto mondiale si rifugiò prima negli Stati Uniti e poi in Inghilterra, dove militò a fianco delle autorità in esilio della Resistenza francese e dove morì di tubercolosi.

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Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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