Nietzsche: i fatti proprio non esistono, bensì esistono solo interpretazioni
di Emanuele Severino
La critica dei “fatti” e l’interpretazione
Ma il pensiero di Nietzsche si spinge a una radicalità ancora maggiore. Non solo è radicale la sua negazione di ogni forma immutabile che riduce a identità prevedibile l’imprevedibile differenziarsi del divenire, ma è radicale il modo in cui considera il contenuto stesso del divenire. Infatti, non sono soltanto le categorie metafisiche a morire con la morte di Dio: muore anche il “fatto” — quel ’’fatto” che il positivismo contrappone ai sogni della metafisica. «Contro il positivismo», per il quale «ci sono solo fatti», Nietzsche replica che «no, i fatti proprio non esistono, bensì esistono solo interpretazioni». Nessun fatto “in sé” è constatabile; sono constatabili solo fatti interpretati.
È, questo, come già sappiamo, un principio che acquista sempre più credito nella filosofia contemporanea, sia lungo la direzione che porta all’esistenzialismo e a Heidegger, sia lungo ‘la direzione che conduce al pragmatismo e al neopositivismo. Si può dire che sia stato Nietzsche a formulare per primo questo principio col rigore più profondo.
Per lui, come per l’idealismo, il mondo dell’esperienza non è il fenomeno di una cosa in sé, ma è l’unico mondo reale. In questo senso, anche Nietzsche afferma l’identità (mediata) di “certezza” e “verità”.
Ma Hegel non solo sussume il mondo sensibile all’interno dell’Idea (la quale, per Nietzsche, è uno degli episodi salienti di Dio e della “morale”), ma continua a intendere i contenuti del mondo sensibile secondo le abitudini concettuali del senso comune.
È vero che per Hegel, a differenza del senso comune, anche le determinazioni sensibili si contraddicono, ma tali determinazioni mantengono pur sempre la fisionomia che è loro riconosciuta dal senso comune. In altri termini, per l’idealismo le cose (uomini, piante, case, alberi, stelle, fiumi, mari, eventi ed eventi storici) esistono sì come contenuto del pensiero; ma, una volta detto questo, per l’idealismo l’esistenza di tali contenuti è fuori discussione, cioè è un fatto.
A questi contenuti il realismo, il soggettivismo, il fenomenismo e l’idealismo assegnano collocazioni, ubicazioni, contesti concettuali diversi, ma in tutte queste posizioni filosofiche tali contenuti mantengono sempre il significato che è loro conferito dal senso comune. È proprio questo significato che Nietzsche mette in questione.
Di fronte al mondo, rileva Nietzsche, noi ci troviamo come di fronte a «un testo misterioso e non ancora decifrato», il cui senso si rivela ma insieme si complica sempre più nella molteplicità infinita delle interpretazioni. Ciò che è constatato non è un insieme di “Fatti”, ma un “testo misterioso” che viene interpretato nei modi più diversi e contrastanti — anche se esistono interpretazioni consolidate e dominanti, che fanno credere nell’esistenza di un senso oggettivo del mondo, ossia nell’esistenza di un mondo di “fatti”.
Il “testo”, cioè il mondo verso il quale l’interpretazione si dirige, è il “caos”, cioè la pluralità diveniente e irrequieta degli elementi tra loro contrastanti e in contraddizione tra loro, privi di qualsiasi tipo di ordinamento e di qualsiasi senso.
L’attività dell’interpretazione assume tale elementi come oggetto. Il “testo” è “dato”, “constatato”; l’interpretazione è «qualcosa di aggiunto con l’immaginazione» al dato e al constatato. D’altra parte ogni dato e ogni constatato, a guardar meglio, si presenta sempre come qualcosa di interpretato e costruito, mai come oggetto di una intuizione — sì che il “’testo” tende sempre a fare un passo indietro rispetto al punto in cui si crede di averlo individuato.
Non solo, ma l’affermazione che tutto ciò che esiste nel mondo è interpretato non equivale all’affermazione che tutto è soggettivo, perché anche quest’ultima è un’interpretazione, anche il “soggetto” è il risultato di una interpretazione (non è un dato, un fatto, ma è aggiunto con l’immaginazione), giacché non è necessario che dietro l’interpretazione esista l’interprete, come non è necessario — ma è “invenzione”, “ipotesi”, “abitudine grammaticale” — che quando si pensa ci debba essere “qualcosa che pensa”, o che quando si fa ci debba essere uno che fa.
Tutte le categorie (sostanza, unità, totalità, essere, essenza, soggetto, ecc.) sono già interpretazioni, con le quali, si è visto, l’istinto assicura la conservazione dell’uomo e il suo dominio del mondo. Da questo punto di vista, il modello più diretto del rapporto nietzschiano tra testo (=caos) e interpretazione è il rapporto kantiano tra il “molteplice della sensibilità” (che, appunto, è il testo e il caos) e l’apparato delle forme a priori, che sono l’interpretazione.
Ma per Kant le forme a priori sono l’interpretazione immutabile e identica in ogni soggetto conoscente, mentre Nietzsche rileva come l’inesistenza di ogni verità definitiva implichi l’impossibilità che una qualsiasi interpretazione del mondo possa acquistare un valore e una verità assoluti.
Ma, si diceva, interpretazione sono anche le determinazioni empiriche, ossia tutto ciò che nella vita quotidiana consideriamo come cose: «questo sole, questa finestra, questo tavolo». Quando l’uomo ignora o dimentica il proprio interpretare e che la massa di immagini e di metafore in cui consiste il mondo «sgorgano fluide e ardenti» dal suo istinto più primordiale, allora quella massa si irrigidisce e l’uomo crede — «con una fede invincibile» che dà una certa calma, sicurezza e coerenza alla sua vita — che il sole, la finestra, il tavolo esistano come “verità in sé”.
Poiché l’interpretare non solo è ipotesi e immaginazione, e anzi errore utile alla vita, ma prolifera nelle direzioni più eterogenee e contrastanti, la conoscenza umana non potrà mai costituirsi come “sistema” e come comprensione del “tutto”. Il tutto è un’“ombra di Dio”: presume di raccogliere e costringere il divenire all’interno di una suprema unità incondizionata. Il pensiero non costituisce il Centro da cui si può contemplare tutta la realtà: esiste una pluralità di centri, di prospettive, di punti di vista, e quindi di centri di interpretazione, che lottano tra di loro e si contendono il dominio del mondo. L’interpretazione è volontà di potenza e la volontà di potenza non è un principio unitario, come la Volontà di Schopenhauer, ma è una pluralità di centri in lotta tra loro.
Il senso del mondo che emerge all’interno dell’interpretare è dunque il risultato della volontà di dominio. L’istinto conoscitivo è istinto di sopraffazione e di assimilazione: esso produce i “valori”, ossia ciò che, conferendo certe forme al caos, soddisfa i bisogni, i desideri, gli interessi dei centri di interpretazione. Conoscere significa valutare quali configurazioni sono utili e quali dannose.
Gli oggetti e gli aspetti del mondo esterno (sole, tavolo, finestra, verde, azzurro, rosso, duro, molle, caldo, freddo) sono quindi “valutazioni ereditarie” della razza umana e valutazioni ereditarie sono le stesse sensazioni di piacere e di dolore. « In un mondo in divenire la “realtà” è sempre e solo una semplificazione a fini pratici», che deforma e falsifica il flusso eterno del caos riportando le differenze del divenire all’identico, alla somiglianza, all’analogia che consentono il calcolo, la previsione, la tollerabilità del divenire.
Anche i nostri organi di senso si sono organizzati in vista dell’errore vitale. Infatti, il divenire, nella sua assoluta imprevedibilità, temibilità e assenza di forme non sopporta di essere “incorporato” nel nostro apparato sensibile. La costituzione fisica dell’uomo è fatta cioè in vista dell’errore e della finzione, non per adattarsi all’orrore, al carattere spaventoso del divenire.
Il superuomo, cioè la volontà al culmine della potenza, che riesce ad accettare il divenire, non realizza quindi soltanto una «trasvalutazione di tutti i valori», ma anche una trasformazione della costituzione organica dell’uomo.
«Stimo la potenza di una volontà da quanta resistenza, sofferenza, tortura tale volontà sopporta e sa trasformare in proprio vantaggio; in base a questo criterio dev’essere ben lungi da me il rimproverare all’esistenza il suo carattere malvagio e doloroso.»
L’eterno ritorno
Il costruire rimedi e ripari contro il divenire è volontà di potenza e cioè interpretazione. Nella società moderna avanzata, il crollo di questa forma inadeguata di volontà di potenza e di tutti i valori che le corrispondono produce il nichilismo e la disperazione, ma prepara anche la via al nuovo atteggiamento verso il divenire: il gioioso dire ”sì” alla vita reale nei suoi aspetti più oscuri e terribili.
Ma il superuomo che pronuncia questo “sì”, non ha nulla a che vedere con l’accettazione passiva del divenire. All’opposto, nel superuomo la volontà di potenza raggiunge il suo culmine. Ciò vuol dire che anche il superuomo interpreta il divenire, ma attraverso una forma di interpretazione che non mira a deformarlo e irrigidirlo negli apparati immobilizzanti dell’errore utile, ma mira all’opposto a immedesimarsi a fondo nell’infinita inquietudine del flusso eterno di tutte le cose, esaltandola e provocandola al massimo.
L’interpretazione con la quale la volontà di potenza del superuomo libera tutte le forze del divenire è la dottrina dell’“eterno ritorno dell’uguale”, la dottrina cioè che tutte le cose e tutti gli eventi del mondo ritornano infinite volte nell’ordine e nel modo in cui si presentano.
Tale dottrina non esprime dunque una legge oggettiva delle cose — non è una dottrina metafisica — , ma è il modo in cui il superuomo vuole e quindi interpreta il divenire. Quest’“uomo redentore”, “uomo dell’avvenire”, che in un’età “più forte” di questa si redimerà tanto dagli ideali della “morale” e del rimedio, quanto dalla disperazione e dal disgusto del nichilismo, è l’“uomo dal grande cuore”, lo “spirito creatore”, che ama a tal punto la vita da non desiderare più alcun’altra cosa se non «questa ultima eterna sanzione, questo suggello»: che la sua vita si ripeta ancora una volta e innumerevoli altre volte.
Così parla a sé stesso il superuomo:
«Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione — e così pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere!».
Chi vuole questo è l’uomo del grande amore per la vita e “del grande disprezzo” per tutto ciò che ha tentato di soffocarlo con spirito di vendetta e di odio.
La volontà che il divenire della vita sia un eterno ritorno dell’uguale è il modo più radicale di escludere che la vita abbia una qualsiasi direzione, un qualsiasi scopo, un qualsiasi senso — i tratti tipici, questi, della comprensione “morale”, “metafisica”, religiosa della vita: i tratti del finalismo. Il superuomo è il coraggio di dire “sì” a questa assoluta mancanza di senso; e ha questo coraggio perché è consapevole che ogni “senso” della vita lo priva della sua forza e della sua possibilità estrema.
Se l’eterno ritorno non è una dottrina metafisica (come lo era nei più antichi pensatori greci), ma è il progetto supremo della volontà di potenza, tuttavia esso non è nemmeno una velleità che sia inequivocabilmente respinta dalla realtà. All’opposto, Nietzsche mostra che da molte direzioni la conoscenza scientifica si dirige verso l’abolizione del tempo lineare e verso la valorizzazione del tempo circolare.
In particolare, Nietzsche rileva che se la misura della forza del cosmo è, per quanto immane, determinata, finita, ne segue che il numero delle combinazioni (posizioni, mutamenti, sviluppi) di tale forza è anch’esso determinato e finito; e poiché fino a questo momento è trascorsa un’infinità temporale (il cosmo esercita la sua forza finita in un tempo infinito), ne segue che tutte le combinazioni possibili della forza cosmica devono essere già esistite ed esistite un numero infinito di volte e che quindi tutto ciò che accade è una ripetizione, e così pure tutto ciò da cui esso sorge e che da esso segue.
Ma, appunto, questo e altri ragionamenti analoghi servono a Nietzsche non per dimostrare l’esistenza obiettiva dell’eterno ritorno, ma per dimostrare che la volontà che vuole l’eterno ritorno non vuole l’impossibile.
Ma questo è il motivo primario per il quale la volontà che vuole l’eterno ritorno raggiunge il culmine della volontà di potenza: volendo l’eterno ritorno delle cose, viene distrutto l’ultimo bastione degli apparati immutabili (eretto a difesa dal divenire), che sembrerebbe inespugnabile: l’immutabilità e immodificabilità del passato.
“Ciò che fu” è il “macigno” che la volontà “morale” non può smuovere. Essa non è capace di camminare a ritroso. Il passato, per essa, è ormai definitivamente intoccabile e immodificabile. Ma quando la volontà vuole l’eterno ritorno di tutte le cose, diventa capace di volere a ritroso, perché il passato è anche il futuro, e il futuro è il passato.
In questo modo, il macigno del “così fu” si scioglie nel “così volli che fosse” pronunciato dalla volontà assolutamente creatrice. Tutto l’essere si risolve così senza residui nella volontà di potenza, cioè nell’interpretazione creatrice. « Imprimere al divenire il carattere dell’essere — è questa la suprema volontà di potenza. Che tutto ritorni, è l’estremo avvicinamento del mondo del divenire a quello dell’essere: culmine della contemplazione. »
La filosofia — la “contemplazione” — raggiunge a sua volta il proprio culmine quando svela il segreto da cui scaturisce la forma suprema della volontà di potenza: la distruzione radicale di ogni forma immutabile, la distruzione che può essere ottenuta solo da colui che riesce a volere il ritorno del tutto. Così l’amor fati è la forma estrema di fedeltà al divenire.
E l’oltrepassamento dell’uomo nel superuomo apre per Nietzsche la prospettiva della “grande politica”, che si lascia alle spalle tutte le forme di azione politica, socialismo compreso, più o meno direttamente legate alla “morale” e al timore dei deboli di fronte alla minaccia del divenire.
Da Emanuele Severino, La filosofia contemporanea, Milano, Rizzoli, 1986, pp. 121–128